di Ennio Abate
Sul sito di “Le parole e le cose” (qui), in occasione della morte di Pietro Ingrao, è apparso un articolo di Francesco Pecoraro intitolato «Ma quale rivoluzione». Questa è la mia replica. [E. A]
Quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio.
Sarà un lavoro pieno di sorprese –
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –
Di quel regno la polvere è solenne –
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te –
(Emily Dickinson, Tutte le poesie, 1273, pagg.1277-1279, Mondadori, Milano 1997)
Gentile Francesco Pecoraro,
sono quasi un suo coetaneo (4 anni più di lei, credo) e pure io in quegli anni (non più “formidabili” ma appannatissimi e vituperati) ho parlato assieme a tanti di Rivoluzione (a Milano e dintorni, dal 1968 al 1976, in Avanguardia Operaia). Mi permetterò perciò, sulla falsariga del suo scritto, di dirle con massima sincerità e analiticamente cosa penso del modo in cui ha trattato il tema.
1. Non ha senso stabilire se fummo o no rivoluzionari. La Rivoluzione (intesa come mutamento radicale della vita quotidiana o dei rapporti sociali di produzione) non è avvenuta. E allora come si fa a controllare se uno è stato un «vero rivoluzionario»? O a misurare quanti fossero «disposti alla Rivoluzione»? O ad escludere che nello stesso PCI ci fossero persone implicabili in un processo rivoluzionario? Sono cose quasi insondabili. Lei, secondo me, dà troppo peso alla soggettività, alla volontà, all’intenzione. Ma l’animo umano è ambivalente. In esso c’è la spinta a ribellarsi e c’è quella a rassegnarsi. La partecipazione ad avvenimenti che potrebbero portare a una Rivoluzione non nasce, credo, da un DNA. Si è in certe condizioni, si è coinvolti in certi fatti della storia; e allora ci si trasforma. Alla fine, solo alla fine, altri potranno dire (forse) di noi se fummo dei rivoluzionari o dei reazionari o rimanemmo a mezza strada, troppo amletici.
2. Comunque, adottando provvisoriamente la sua espressione, di gente – minoranze senz’altro – *disposta a fare la Rivoluzione* sembrava che ce ne fosse un bel po’ in quegli anni e non solo in Italia. La partecipazione straordinaria a momenti concreti di lotta fino a quelli estremi del “lottarmatismo” è documentabile. Non fu, dunque, uno scherzo. Non si giocò a «fare la guerra» (D. Brogi). Ma le rivoluzioni maturano come *possibilità* dall’addensarsi di molteplici fattori. Che, solo se interpretati correttamente e prontamente da individui e collettività, possono permettere con un po’ di fortuna di *farle*, di guidarle. Almeno in parte. E non a caso Machiavelli accortamente parlò della necessità nell’agire politico di una particolare combinazione di virtù e fortuna. Ma alla fine, da noi, non ci fu Rivoluzione. Perché avvenisse una cosa del genere bisognava (come nell’amore?) incontrarsi in due: i rivoluzionari e la realtà che offra l’occasione giusta. Questo non avvenne.
3. Mi pare un errore da parte sua riconoscere il titolo di rivoluzionario solo a chi commette o è disposto a commettere atrocità, a costruire gulag, etc. Cioè, di fatto, soltanto a quelli che in quegli anni hanno fatto in Italia le scelte più azzardate e risultate poi politicamente sbagliate: illudendosi di poter trascinare un numero sufficiente di altri nella loro avventura; azzittendo con gesta clamorose quelle in apparenza più modeste di molti altri; smorzando a colpi di rapimenti e uccisioni le migliaia di fiammelle di rivolta organizzata che si era riusciti a costruire un po’ ovunque; e che – forse, eh! – avrebbero potuto consolidarsi e permettere di delineare una strategia più adatta alla situazione reale. E, dunque, davvero “rivoluzionaria” (nel senso di inedita, di impensata, di originale, di imprevedibile nei suoi sviluppi). Perché, credo, sì, che le rivoluzioni si misurino in relazione ad altre precedenti, ma anche che non hanno un copione obbligato da ripetere o rispettare diligentemente o miopamente. E, dunque, non mi pare che tra le caratteristiche dei rivoluzionari debba essere essenziale la disposizione a commettere “atrocità”. Queste, ammesso che in circoscritte situazioni vadano definite tali, se manca una teoria, una strategia, in cui iscriverle, vanno definite atti di mera bestialità. (E forse – ma è solo una mia opinione -se avessimo avuto il tempo, la pazienza e le capacità di costruire un partito veramente alternativo a PCI e Psi, saremmo arrivati a vivere la nuova situazione (la “globalizzazione”) con occhi più lucidi e *rivoluzionari*).
4. Ma perché in quegli anni parlò/parlammo tanto di Rivoluzione? Le due sue risposte, in cui vengono presentate «le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione» non mi convincono. Mi paiono paradossali e contraddittorie. Perché « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano»? Oh, bella. Ma allora tutto fu solo un delirio e per giunta collettivo? Possibile che tante menti, forti e abbastanza lucide, contribuirono a un delirio collettivo tanto cieco e prolungato – roba da Anno Mille, insomma. E pensare che ci fu gente che ci spese persino la vita! Secondo me, chi *stava bene* non partecipò. O partecipò in modi marginali, calcolati, strumentali. Annusò esteticamente il buon vento della rivolta giovanile. Andò magari a caccia di belle fighe. Fece il flaneur. Si divertì. Gli altri, molti altri – ed è quel che conta e che distingue quei nostri comportamenti d’allora dal delirio o dal sogno – si misero in vari modi in gioco: manifestazioni, assemblee, scontri fisici con la polizia, rotture con le famiglie, ecc. Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o “scientifici”. In molti, comunque, non stavamo «abbastanza bene». E la fuoriuscita dal «vetero-cattolicesimo autoritario» (ma anche dalla «Chiesa rossa» del PCI) non fu indolore ma faticosa, spesso confusa. Solo dopo la sconfitta (o profilandosi la sconfitta) quel «ribellarsi è giusto», che non poteva – ma lo sappiamo oggi! – diventare Rivoluzione, quel pullulare di ribellioni disordinate s’incanalò (o fu incanalato abilmente da chi aveva strumenti per influire) verso lo sbocco della modernizzazione del mercato e si accomodò nelle seduzioni della «laicità consumista». Però, non era stabilito da una Legge che dovesse finire proprio così. Ci furono spinte e controspinte. Non tutti nel movimento erano in preda alla fregola consumistica. Anzi erano forti le contestazioni di quella tendenza. Solo per bacchettonismo residuale, per savonarolismo? No, perché si sperava, si sentiva ( almeno da parte di alcuni) che c’era una posta in gioco più alta. E la sconfitta non era certa. Erano semmai quelli del PCI – ostili da subito a quei movimenti, attaccati da quei movimenti – a pensare che lo sbocco non poteva essere che quello della cooptazione della solita fetta “intelligente” e “preparata” nelle istituzioni. O che si trattasse soltanto – opinione oggi divenuta canonica! – di una rivolta della “piccola borghesia” o di una ”rivoluzione da figli di papà”. (Pasolini contro gli studenti, etc.). Ma se il PCI si fosse spaccato allora (e non, farsescamente e obbrobriosamente, dopo Berlinguer), come sarebbe finita la faccenda? E se si fosse riusciti davvero a fare un altro partito “a sinistra del PCI”? Il Barbone Tedesco diceva che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. (da L’ideologia tedesca). Non c’è bisogno di essere “ideologici” per dargli ancora ragione, non le pare? Quella nostra ipotesi non era allora del tutto campata in aria. E in tanti ci scommettemmo. Ma non resse.
5. Oggi che tutti si vantano di essere “anti ideologici”, perché non chiedersi: sotto il grande cappello ideologico della Rivoluzione, di cosa si parlava allora più in concreto: davanti alle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie? E vale ancora la pena di ripensarle? Si dissero cose giuste e sbagliate. Si fecero cose giuste e sbagliate. Ma è su di esse che si dovrebbe riflettere, invece di restare, come lei fa, sulle generali. Occultare in qualche modo (e in fondo liquidare) tutto quel *parlatorio* – caotico, scomposto ma indispensabile e non tutto di vuote chiacchiere – è cancellare semplicemente la storia da cui veniamo. (Lo stesso discorso, credo, si potrebbe fare oggi per il *parlatorio* del Web). E poi: perché non si sarebbe dovuto parlare di Rivoluzione (e del resto, delle cose concrete della vita di tanti)? Era parlando con gli altri, con molti altri, che ci si poteva chiarire le idee su quella “cosa” (la Rivoluzione appunto). Per intendere cosa fosse stata (altrove, e in altri tempi). E cosa poteva essere e se era possibile o no da noi; e come prepararla o prepararsi ad essa. Io avevo capito che, per tentarla (o semplicemente avviarsi verso di essa), bisognasse essere in molti. E mi pareva che parlarne servisse a riconoscere in quella confusa nebulosa (ricorda la folla di certe manifestazioni, di certe assemblee?) i *compagni con cui stare*, e coi quali costruire il *noi* (il ‘partito’ si diceva allora) di cui fidarsi e a cui affidarsi. Mi pareva che, se in tanti si parlava di Rivoluzione, qualche buon motivo ci fosse. Che è meglio puntare al cielo, a «egregie cose» invece di voltolarsi nel fango in cui ci vogliono mantenere. E che, come diceva il Vecchio Scriba, bisognasse «cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare». Perciò scrivere come fa lei: « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano» o « non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili» mi pare irresponsabile. Da chi erano accettabili quelle condizioni? Dai disoccupati, dagli operai, dagli studenti o dai manager del PCI?
6. «Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo scorrere del sangue». Ma che argomento catto-comunista è questo? Forse solo la Rivoluzione fa scorrere il sangue? Ammesso che lei e una parte di noi (non tutti gli italiani) abbiamo potuto stare « abbastanza bene nel capitalismo italiano» del dopoguerra, questo “benessere” fu dovuto anche al sangue versato durante la Resistenza. Il sangue scorre purtroppo sempre. Ora qui ora là. Anche negli anni Settanta il sangue « scorreva abbondante». E non solo «nello scontro tra terroristi […] e Stato». Scorreva a Piazza Fontana, in Piazza della Loggi a Brescia, alla stazione di Bologna. E oggi continua a scorrere in vari modi da noi; e in modi più atroci non lontano da noi. «Senza atrocità, purghe e gulag non c’è Rivoluzione»? E c’è forse democrazia senza sangue (o con meno sangue della Rivoluzione), senza guerre (umanitarie e non)? E ci fu forse socialdemocrazia senza colonialismo, che al sangue (siccome versato dai colonizzati) non faceva troppo caso. Come i democratici d’oggi non fanno troppo caso a quello versato nella ex Jugoslavia, in Irak, Afghanistan, Libia, ecc.?
7. Trovo sbagliata anche l’altra sua affermazione: «il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato». Ma perché far passare un tentativo rivoluzionario di “costruzione del socialismo in Urss” come costruzione del tutto compiuta (starei per dire: una bozza per un’opera compiuta)? No, né in Urss né in Cina si era «realizzato» il comunismo. Era una delle poche cose chiare a una parte dei giovani che allora “parlavano” di Rivoluzione. Ci si era accorti che quel processo, iniziatosi rompendo con la socialdemocrazia (una sorta di PCI d’allora?), la quale sosteneva non ci fossero le condizioni per la Rivoluzione, e poi interrotto, deviato, stravolto, aveva prodotto « tutt’altra cosa»: un ibrido difficile da decifrare, una mostruosità se si vuole. Che però da subito – già ai tempi di Lenin – era stata criticata, vista con sospetto, contrastata da molti degli stessi militanti comunisti d’allora. (Trotsky le dice ancora qualcosa?). Un *qualcosa* su cui le menti più oneste intellettualmente e politicamente hanno continuato a interrogarsi. Se vogliamo ragionare su quella storia (su quei pezzi della *nostra storia*), evitiamo le semplificazioni ( le «oscenità») giornalistiche e, prima di aprire bocca, studiamoci la «Storia del comunismo» di Luigi Cortesi o «L’esperimento profano» di Rita di Leo o la più recente raccolta di saggi, “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico» a cura di P.P. Poggio.
8. Detto questo, a me non pare più possibile oggi tornare semplicemente al porto sicuro di Marx o al marxismo come unica teoria che «ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente». Dobbiamo intendere anche la storia venuta dopo Marx, la “storia inquinata e tragica”. Non si può fingere che non ci sia stata. Ma neppure, come è stato in genere fatto, si può accantonarla e ripartire da “altro” (ecologia, anarchismo, socialdemocrazia, liberalismo, femminismo, ecc.). Proprio da lì, dal riconoscimento del fallimento di quell’esperimento, nacquero tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta le dissidenze e le riviste-samizdat pre-68 – Quaderni rossi, Quaderni Piacentini, Vento dell’Est, ecc. Ma non è bastato. Bisogna capire perché. È dura ma non si può aggirare la montagna che si è parata davanti a noi.
9. ««Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione». E in un certo senso non era sempre e solo una scusa. Ma diciamocelo: quando mai *a tavolino* ci sono le condizioni – sicure, certe, tali da convincere tutti: l’operaio, il ragioniere, la massaia, l’intellettuale, ecc. – per una Rivoluzione (o anche per un più semplice “cambiamento”)? Il grande rompicapo dei rivoluzionari è proprio quello di stabilire che fare e quando fare. Se non ci fosse stato Lenin nel 1917 in Russia le condizioni per provarci *non ci sarebbero mai state*. (I suoi stessi compagni di partito dicevano che non c’erano). E se non ci fossero stati nell’Italia dell’Ottocento Mazzini, Pisacane o Garibaldi mai avremmo visto il Risorgimento. E se non ci fossero stati i partigiani, mai avremmo avuto la Resistenza. Quando lei scrive: «L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista» non s’accorge (se ho ben capito) di fare l’apologia dell’immobilità e della rassegnazione? Questa era la posizione di quel PCI che lei votava. Di quel PCI che, come ricordava a suo tempo il Vecchio Scriba, negli anni Settanta era riuscito a raccogliere il consenso «di una massa imponente di operatori intellettuali» (Disobbedienze I, p. 172) oltre a quello «di milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che la [sua] politica trentennale, al governo o all’opposizione, [aveva]ha trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni dei giovani che non rispettano il lavoro»( Disobbedienze I, p. 170). E che –aggiungo io – partorì soltanto il topolino del “compromesso storico”.
10. Eppure, pur non essendoci le condizioni, masse di giovani (e non solo) trovarono giusto ribellarsi e minoranze – certo – anche di pensare ad un “assalto al cielo”. Fallito sì, ma chi poteva dire allora con assoluta certezza che non ci fossero le condizioni? Solo quelli del PCI. Noi allora – solo pedine? solo manovrati, solo estremisti, solo diciannovisti? -, ribellandoci, avevamo imboccato un’altra strada. Cercammo di fare cose diverse. Abbiamo fallito. Siamo stati sconfitti. Lei però con questo scritto getta solo sale nelle ferite. Credo in tutta sincerità che lei sputi troppo su se stesso e su noi di allora e sui sopravvissuti di allora. E questo non va. Turbi pure la sua e la nostra vecchiaia con i più atroci dubbi sulla possibilità o meno di fare la Rivoluzione in quegli anni o di guidare verso una qualche più riformistica terra promessa quel movimento reale di militanti ed elettori, sugli errori che facemmo, sulle meschinità commesse dagli “stronzetti rivoluzionari”, che ci furono anche tra noi. Ma alla fine di questa sua visita nel «ripostiglio che chiamiamo “memoria”» può proporre – non dico a noi vecchi ma ai giovani – soltanto una «coltivazione interiore dell’idea socialista»? Che è secondo me un invito alla autoclausura. Ed è proprio la cosa che non dovrebbero fare gli sconfitti. Riconoscerla, sì, la sconfitta, ma perché murarsi in essa? Perché mettersi «in formaldeide» come dice qui un commentatore. Vecchi e sconfitti abbiamo, come diceva ancora il Vecchio Scriba, da proteggere «le nostre verità», rivedere di continuo la *nostra* storia, passarla a contrappelo, selezionare e conservare le «buone macerie» (non le cattive) e non farcela riscrivere o spiegare o liquidare dai vincitori e dai loro servi consapevoli e inconsapevoli o dai giovanotti a memoria piatta e orgogliosi di esibirla. È comunque dalle buone rovine, dai momenti alti della nostra storia – dalla Comune di Parigi, dal 1917, dalla Lunga marcia; e qui in Italia: da un certo Risorgimento, da una certa Resistenza e un po’ anche da un certo ’68-’69 – che si potrà ripartire per qualcosa che non so se si chiamerà più socialismo o comunismo. No, non dobbiamo coltivare il nostro masochismo.
La sofferta analisi di E.A. è condivisibile in molte parti, come retrospettiva. In particolare vorrei sottolineare il passo seguente: *«Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o “scientifici”. In molti, comunque, non stavamo «abbastanza bene»*. Ciò implicherebbe la necessità, per gli anni 1968-1976 come per qualsiasi altro periodo “rivoluzionario” (di rivoluzione riuscita o no), di compiere un’approfondita analisi sul concetto stesso di rivoluzione e sulle sue forme storiche, utilizzando in modo interdisciplinare categorie storiografiche, politologiche, economiche, filosofiche, sociologiche e delle forme della comunicazione e dell’immaginario popolare. Analisi mai compiuta davvero, né sul ’68, né sulla rivoluzione Francese o Russa, come – a mio parere – è dimostrato dalle tante diverse e fra loro in contrasto interpretazioni. In contrasto e non integrabili e complementari proprio perché non si è partiti da assunti di base comuni. Il concetto di “Rivoluzione” che funziona da “ideologia” potrebbe essere uno di questi assunti di base, capace di tener conto di quelli che un tempo si definivano elementi “oggettivi” ed elementi “soggettivi”, ma anche, necessariamente, delle particolari condizioni ambientali (tempo/luogo) e delle molteplici implicazioni del concetto di ideologia inteso non in senso marxiano ma in senso più lato, compresi i suoi aspetti psicologici e di “psicologia delle masse” e sociologici. Il concetto di “rivoluzione” è forse ancora troppo caldo (stando al molteplice uso e alle diverse accezioni che si continuano a registrare nella stampa periodica e nei libri) per poter procedere ad una sua rigorosa analisi. Paradossalmente, probabilmente si arriverà a capirlo meglio quando le rivoluzioni saranno del tutto cosa del passato, e quando, proprio per questo, proprio perché non più attuale in nessun modo, concettualmente sarà stata fatta, in ciò che era davvero possibile farla.
Pubblicherò qui mano mano i commenti al post che verranno fatti su questo tema anche sul “Gruppo pubblico POLISCRITTURE FB” [E.A.]
Gabriela Fantato
Grazie a Ennio per questi 10 lucidissimi, appassionati, punti di analisi…val la pena di leggerli, ripensando ciò che qui Ennio cita, ricorda ripropone. Io la penso COME TE…su tutto ciò che scrivi. Pensa che ho fatto un libro, nel 2012, Estinzione del lupo, che si apre con un lunghissimo poemetto, intitolato _ non a caso_ Casa occupata, dedicato a dar voce a sogni, lotte, pensieri…assemblee, incontri, amori della fine anni Settanta….anni duri, ma indimenticabili come POSSIBILE VARCO nella storia, che poi non aprì la Rivoluzione, per le molte ragioni che anche tu benissimo citi, analizzi, riproponi.GRAZIE DEL TUO BEL SAGGIO
Ennio Abate
Grazie a te per la memoria conservata “non in formalideide”! Un saluto
Giuseppe Muraca
Caro Ennio, il tuo lungo commento contiene degli spunti interessanti e condivisibili,ma dopo tanto discorrere e tirate le somme alla fine non fai che confermare l’idea di fondo di Pecoraro, e cioè che nell’Italia repubblicana (e lascio stare il discorso molto complesso sui paesi a socialismo reale e sul fallimento delle rivoluzioni socialiste) nessuna rivoluzione si è realizzata, una tesi, a mio modesto parere, completamente errata. Onestamente mi sembra troppo poco, nel senso che bisogna intendersi bene e chiarire il concetto di “rivoluzione”. Certo, se noi seguiamo il punto di vista marxiano e marxista, nel periodo che va dal 67 al 76 non c’è stato nessun rovesciamento dei rapporti di produzione e il proletariato non ha conquistato il potere ecc., ma se noi partiamo da un punto di vista diverso, dall’idea che ci siamo fatti della rivoluzione francese, del 1848, ecc, allora dobbiamo dire che l’imponente ciclo di lotte sociali e politiche (il 68, l’autunno caldo, le lotte civili, il movimento femminista) che si è verificato in quel breve periodo ha innescato una vera e propria “rivoluzione” trasformando radicalmente le istituzioni del nostro paese (l’apparato statale, l’università, la scuola, il rapporto tra lavoro e capitale, la condizione dei lavoratori nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, ecc), la mentalità collettiva, il rapporto tra i sessi, ecc., o mi sbaglio?
Ennio Abate
A me pare che ti sbagli. La valutazione negativa ( non c’è stata rivoluzione da un “punto di vista marxiano e marxista”) e quella positiva (ci sarebbero state trasformazioni addirittura radicali delle istituzioni) dipendono appunto dall’idea di rivoluzione che uno adotta.
Il punto di vista marxiano e marxista è un metro preciso e chiaro e permette di dire che in Italia neglli anni di cui stiamo parlando (’68, anni Settanta) non c’è stata rivoluzione perché i rapporti sociali di produzione e riproduzione capitalistici erano e capitalistici sono rimasti. Come permette di dire che non si ebbe socialismo né comunismo in Urss e neppure nella Cina di Mao.
E condividere questa posizione marxiana/marxista non significa affatto approvare, dopo un vano giro di parole, la posizione di Pecoraro. Che è quella di uno che di fatto prende in giro i “rivoluzionari” già dal titolo sarcastico (“Ma quale rivoluzione”) e rimprovera il PCI di non essere mai stato rivoluzionario ( cosa che dicevamo anche noi dei “gruppi” indicando i militanti del PCI come *revisionisti*) e di non aver avuto il coraggio di uscire dalla sua ambiguità scegliendo però la posizione *giusta*, diventando cioè socialdemocratico. Lo fa intendere chiaramente quando scrive: “Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà», senza però chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia”.
L’altra posizione mi pare che non regga molto:
1. dove sarebbero queste trasformazioni radicali delle istituzioni o addirittura dell’apparato statale ( se manco si è riusciti a far luce sulle stragi), delle università (irriformate e poi degradate), delle condizioni di lavoro (tutte le conquiste di quegli anni sono state smantellate), ecc.? Se davvero le istituzioni fossero stare rivoluzionate, non sarebbe stato così facile strappare certe conquiste.
2. se si vuol definire “rivoluzione” una semplice modernizzazione di alcuni aspetti della vita sociale, politica e culturale troppo rigidI (Pecoraro accenna alla fuoriuscita “da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo autoritario, e [d’introduzione] alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno”, lo si può fare (e lo si è fatto); ma l’uso del termine “rivoluzione” mi pare troppo metaforico, generico e impreciso. ( Tant’è vero che poi lo si usa anche per cambiamenti quasi irrilevanti dei costumi, dell’abbigliamento, dei gusti in fatto di consumi).
Giuseppe Muraca
Caro Ennio, come docente di Storia contemporanea non posso condividere l’intepretazione di Pecoraro e tua della storia dell’Italia repubblicana e del sessantotto, in particolare. No, non sono d’accordo. I profondi cambiamenti di vario genere e le riforme varate in quel periodo non possono essere ricondotte semplimente a “un’operazione Gattopardo, a un processo di modernizzazione dentro le strutture esistenti” (per usare una bella formula di Fortini contenuta ne “La lettera ad amici di Piacenza del 61”). No, per me il sessantotto deve essere considerato una vera “rivoluzione”, in quanto l’imponente ciclo di lotte sociali, politiche e civili avvenuto in quella stagione ha provocato una forte scossa tellurica che ha coinvolto e modificato l’intera società, tutte le istituzioni, con profondi cambiamenti nel solo nei costumi, ma anche negli apparati del potere (magistratura, corpi di polizia, l’esercito, l’istituzione penitenziaria, ecc), nel mondo del lavoro, nella scuola, nell’università, nel rapporto dei cittadini con gli organismi statali, nella condizione della donna e nel rapporto tra i due sessi, nella mentalità collettiva, ecc. ecc., E’ chiaro che il potere e le forze conservatrici hanno usato tutti i mezzi per frenare la forte spinta al cambiamento (uso della polizia, servizi segreti deviati e non, attentati dinamitardi, tentativi di golpe, ecc), ma si sono lo stesso realizzati dei grandi mutamenti. E ti invito a studiare la storia di quel periodo in maniera più spassionata, e non partendo dalla tua e dalla nostra esperienza soggettiva. Ciò che deve essere chiaro dal punto di vista storico e politico è che non esiste un modello di rivoluzione valido una volta per sempre: ogni evento rivoluzionario presenta le sue particolari caratteristiche e si sviluppa secondo forme diverse, per cui il modello marxista è soltanto una delle tante tipologie di rivoluzione. E anche sul concetto di “fallimento” dobbiamo avere le idee chiare. A proposito del sessantotto ciò che è fallito è proprio l’ipotesi marxista-leninista di rovesciamento dello stato borghese e dei rapporti di produzione, cioè della realizzazione della società socialista. Questa è sinteticamente la mia opinione.
Ennio Abate
Non c’è bisogno di essere docenti di storia contemporanea per pensarla diversamente sul concetto di rivoluzione e valutare diversamente gli eventi scaturiti dal ’68-’69. Non ho parlato di “operazione Gattopardo” e ho pur scritto chiaramente: «credo, sì, che le rivoluzioni si misurino in relazione ad altre precedenti, ma anche che non hanno un copione obbligato da ripetere o rispettare diligentemente o miopamente».
Se per te il ’68 (che sintomaticamente stacchi dal ’69) va considerato una vera rivoluzione, perché sei costretto a virgolettare la parola ‘rivoluzione’? Le rivoluzioni, se non si vuole essere generici, hanno sempre un aggettivo qualificativo che serve a collocarle storicamente: rivoluzione francese, americana, russa, fascista, ecc. Questa del ’68 come la definiresti? Parli di «grandi mutamenti», ma non è perché io non abbia studiato spassionatamente (per quel che è possibile, non credo a una storiografia neutra) la storia di quel periodo, che ti ho obiettato: come sono finiti? Se fosse stata rivoluzione, non sarebbe stato così facile liquidarli e in così breve tempo.
E comunque, dopo oltre un quarantennio di riflessione sempre più tiepida su quegli anni, prima “formidabili” e ora appassiti, io non vedo che due tesi interpretative forti: quella appunto di ascendenza marxista (non c’è stato ribaltamento dei rapporti sociali capitalistici) e quella – complementare – della modernizzazione del mercato capitalistico: “aggiornamento” dei costumi familiari e sessuali, della superficie delle istituzioni, della superficie delle mentalità e delle culture.
Se è fallita « l’ipotesi marxista-leninista di rovesciamento dello stato borghese e dei rapporti di produzione» – cosa indubbia – non si è neppure realizzata l’ipotesi più “movimentista” ( e americanizzante) o “neo-anarchica” alla Lotta Continua o giù di lì. Non credo che quelli che volevano cambiare la vita, fare la rivoluzione sessuale, non fare la guerra ma fare l’amore e quelle che volevano la liberazione delle donne dal patriarcato possano gridare alla vittoria, visto che la vita non è affatto cambiata, le guerre continuano e s’intensificano, l’amore si fa nei ritagli di un tempo niente affatto liberato e delle donne s’è “liberata” solo una minima élite cooptata da partiti rimasti patriarcali quanto prima. Se questa è “rivoluzione” mi pare abbondantemente metaforica. Ma si sa chis’accontenta gode. Che ora sia anche questo un detto “rivoluzionario”?
Parto anch’io, come ha fatto Luciano Aguzzi, da questa frase di Ennio Abate:
“Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o scientifici.”
Si può partire da ribellione e processi sociali e politici complicatissimi, quindi.
E poi dal *parlatorio*: “sotto il grande cappello ideologico della Rivoluzione, di cosa si parlava allora più in concreto: davanti alle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie? E vale ancora la pena di ripensarle? Si dissero cose giuste e
sbagliate. … Era parlando con gli altri, con molti altri, che ci si poteva chiarire le idee su quella cosa (la Rivoluzione appunto).” A cui aggiungere questi versi di Fortini:
“cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare”.
Sono d’accordo, con la memoria rivisitata oggi alla luce della situazione presente, sulla giustezza, allora, del sentimento diffuso della necessità di ribellarsi e di rivolta.
Sono consapevole, oggi, della complessità sociale e politica in cui avveniva il rinforzarsi dei poteri politici finanziari militari e imperialisti del mondo. E della -forse- insufficiente capacità di comprensione -non di lotta e di rivolta!- da parte degli oppressi di tutto il mondo di quello che stava avvenendo.
Sono d’accordo che il *parlatorio* era l’unico luogo e modo possibile perchè le rivolte e le lotte si rinforzassero. D’accordo perfino sul lirismo di Fortini, che sottolineava in quel modo la necessità di riconoscersi e di guidarsi mutuamente per procedere in mezzo al bene e al male. (Il mio parlatorio di riferimento era il femminismo, e di altre e altri è stato l’ecologismo, i gruppi erano divenuti più magri perchè emergevano altre istanze più ampie, ma non per questo veniva meno il riferimento classista.)
Voglio però ricordare anche che chi “Annusò esteticamente il buon vento della rivolta giovanile. Andò magari a caccia di belle fighe. Fece il flaneur. Si divertì “, cioè i fighetti, gli approfittatori, gli scemi, i violenti, erano molti e forse furono troppi.
Perchè il *parlatorio* si era indebolito?
Perchè anche oggi è invece necessario rinforzarlo?
Perchè le qualità umane sono importanti. Non c’è stata solo incapacità di pensare la riorganizzazione che avveniva, l’incapacità dipendeva anche da una scarsa qualità del carattere, della morale e della volontà. Non mi riferisco solo alla violenza ma anche ai tradimenti e alle infiltrazioni, e alle farneticazioni, alla confusione, all’avvelenamento di pensieri e immaginario. Anche per questo molti si appartarono e si allontanarono dalla politica attiva e calò una pietra tombale anticipata su quegli anni 70.
C’è un libretto (perchè è di taglia piccola) di Canfora, La Storia Falsa, in cui si illustrano le grandi capacità che l’Ovra ha avuto di arruolare traditori fra i comunisti e di imbastire confusioni tranelli e abbagli. I servizi erano efficienti anche negli anni 70 e certe qualità umane hanno spianato la strada al loro lavoro.
…penso che per ciascuno sia inevitabile chiedersi: ed io dov’ero? Cosa facevo? di cosa sono stata testimone? Cosa oggi rimane di allora? Infatti credo anch’io che dal dopoguerra ad oggi se c’è stato qualcosa che ha dato una nuova impronta alla nostra società (sono d’accordo con Giuseppe Muraca), ma non propriamente una svolta ( sono d’accordo con Ennio Abate, anche solo se penso al mondo della scuola: non ci saranno più i neri grembiuloni e i giardini delle vergini, ma si è passati alla “buona scuola” di Renzi…) sono stati i movimenti studentesco, operaio e femminista, sebbene non sempre solidali e coordinati tra loro, intorno agli anni ’70…Certo il ’68 fu anche un movimento giovanile di emancipazione…La rivoluzione in senso marxista, che voleva partire dall’affermazione della giustizia nel campo dei rapporti di lavoro, era una forte componente all’interno del movimento, forse la meno “di moda” e non resse l’urto, diciamo, della controriforma del sistema capitalistico…comunque la spinta rivoluzionaria fu genuina e , come un sasso nello stagno, si estese a comprendere una visone diversa del mondo, i costumi, i rapporti tra uomo e donna…
Se ripenso alla mia Vecchia Lodi (da non confondere con la pregiata ceramica)tanto clericale e padronale, delle rigide caste e dell’oscurantismo, del tetro vescovado e della D. C. ancoratissima, anche solo il prenderne cosapevolezza e avere il coraggio di rialzare il capino, non fu facile… i giovani, che fossero lavoratori, studenti o studenti lavoratori erano comunque tutti pendolari (Lodi quasi città dormitorio) e avevano poco tempo (ed energia: alcuni amici mi confidavano di non riuscire a farsi la doccia il fine settimana..) per unirsi ai corte…Tuttavia ci furono molte coraggiose iniziative di gruppo e molto molto “parlatorio”…
Che bella testimonianza! Non credo che oggi si comprendano le cortine in cui eravamo soffocati e separati.
Ho insegnato a Lodi, indegnamente, ho trovato giovani svegli e incalzanti. Il passato dura nel presente, si raccolgono informazioni.
Caro Ennio, innanzitutto tu dai una interpretazione ideologica del sessantotto che io non condivido, nel senso che tu dici: siccome durante quella breve stagione non si è realizzata la società socialista, allora non c’è stata nessuna rivoluzione. Ma non si può interpretare il sessantotto seguendo lo schema marxista-leninista, la ricerca storica va avanti e Marx e Lenin non bastano più a spiegare i fenomeni economici, sociali e politici, gli stessi eventi rivoluzionari. Ormai sul quel periodo storico esiste una bibliografia sterminata, con tanti saggi di ottimo livello che presentano punti di vista diversi e varie chiavi intepretative.
2. Sei tu a parlare nel tuo commento di “modernizzazione”, io ho solo citato Fortini spiegando che secondo me non si è trattato di un semplice processo di modernizzazione.
3. Io non ho staccato il 68 dal 69, ho parlato di “un imponente ciclo di lotte”. Il 68 è stato una rivolta antiautoritaria che ha funzionato come deterrente, come scossa tellurica che ha via via investito l’intera società che ha assunto negli eventi successivi forme sempre più nuove e diverse, ecc. ecc. E quella breve stagione è stato un periodo di grande mobilitazione collettiva che ha visto la partecipazione diretta, in varie forme, di milioni di cittadini.
4. Che cosa è rimasto del sessantotto? Poco; ma perchè a partire dalla seconda metà degli anni settanta, a livello nazionale e internazionale, è iniziato un radicale processo di restaurazione, di riorganizzazione e di modernizzazione politica, economica, socilae, ecc. Ma questa domanda bisogna porsela per qualsiasi altro evento rivoluzionario: che cosa è rimasto della rivoluzione francese dell’89? E della rivoluzione d’ottobre? ecc.
Guardandomi allo specchio, un giorno mi chiesi- Cosa è rimasto degli anni70?-
-IO!-Mi risposi con rabbia. -Solo io- e continuai a strapparmi dal mento un pelo che non voleva andar via.
Emilia nata 8/2/1950
@ Muraca
1. No, non dico: « siccome durante quella breve stagione non si è realizzata la società socialista, allora non c’è stata nessuna rivoluzione». Dico: 1. le ipotesi di poter procedere verso una società socialista “diversa” (che non fosse il “socialismo reale” sovietico e che pareva balenare nella critica maoista al “compagno Togliatti” e all’Urss “revisionista” e nella “rivoluzione culturale” in Cina) erano presenti in una parte del movimento di quegli anni e sono risultate sconfitte o sbagliate; non si sono realizzate. 2. Gli innegabili mutamenti indotti dal ’68 non fanno una rivoluzione, come tu sostieni. Analizzati a fondo appaiono ambigui, incerti, poco duraturi, più vicini alle forme di vita del passato di quanto si voglia credere. E questo anche a non volerli misurare con il metro marxista, secondo me preciso e per te rigido e antiquato. E questo anche quando non fossimo “ideologici” (termine che per te è o è diventato una brutta parola; e per me indica, invece, quanti hanno una visione abbastanza precisa del mondo rispetto ad altre visioni in apparenza “non ideologiche” oggi di moda. )
2. Ho parlato di *modernizzazione* proprio perché, come ho detto, se si analizza attentamente la «bibliografia sterminata, con tanti saggi di ottimo livello», l’interpretazione di quel periodo più diffusa è proprio questa: si è avuta una *modernizzazione* (del sistema, del mercato, dei costumi, ecc.). Parlano ( o parlavano) di *modernizzazione* anche i marxisti. La differenza è che i più se ne entusiasmano ritenendola un fatto positivi, mentre i marxisti ne sottolineano ( o sottolineavano) i limiti. E non vedo perché una interpretazione, che svela questi limiti della *modernizzazione* ( specie in Italia) debba essere liquidata come sorpassata, se coglie di quel processo elementi essenziali che gli apologeti della modernizzazione come “rivoluzione” non vedono e non spiegano.
E poi fossero solo i marxisti ad avere dubbi sulla modernizzazione/”rivoluzione”! Anche quanti hanno parlato della “svolta epocale” ( quasi un sinonimo di “rivoluzione”), che starebbe avvenendo sotto i nostri occhi, non sono riusciti a trovare un termine meno generico di “postmoderno” o di “postmodernità”. (Si veda in proposito l’interessante, anche se complicato, dibattito avvenuto su “Le parole e le cose” tra Remo Ceserani e Raffaele Donnarumma, che ha avanzato anche un’altra ipotesi: quella di ipermodernità). Stiamo là insomma. Ci sono molti e seri dubbi sui processi avviatisi in quegli anni con quell”imponente ciclo di lotte” e sull’effettivo *progresso* che essi avrebbero portato.
3. Quando faccio notare che hai «staccato il ‘68 dal ‘69» ( cioè la contestazione studentesca dal ’69 dell’”autunno caldo”) – obiezione tra laltro che fece anche Sergio Bologna, in uno dei primi decennali degli “anni formidabili”)- , è per indicare il punto in cui le due principali correnti di pensiero di quegli anni ( e le successive interpretazioni storiografiche) – l’antiautoritaria e l’operaista – divergevano: la prima puntando in senso anarchico a “cambiare la vita” e a rifiutare qualsiasi Potere; la seconda tentando di innovare la tradizione marxista e di affermare il “potere operaio” o un socialismo non stalinista (in rottura con l’Urss e il PCI). È la questione fondamentale che Fortini trattò nel saggio «Il dissenso e l’autorità» sul. N. 34 dei Quaderni Piacentini. Coerentemente, dunque, con la tua visione anarchica, tu vedi soprattutto il ’68 e la «rivolta antiautoritaria»; e liquidi l’altra corrente, sostenendo che « la ricerca storica va avanti e Marx e Lenin non bastano più a spiegare i fenomeni economici, sociali e politici». E non a caso sorvoli su tutta la questione del fallimento dell’esperienza sovietica. Visione legittima, anzi molto diffusa. Basta chiarirsi. Non è che io dica, però, che bastino o che bastarono. Infatti, ho scritto: « Detto questo, a me non pare più possibile oggi tornare semplicemente al porto sicuro di Marx o al marxismo come unica teoria che «ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente». Ma non liquido, come tu fai, quella tradizione; e invito a ripensarla, non a cancellarla. (E spesso ho invitato a leggersi anche i ripensamenti più drastici di quella tradizione, come quelli di G. La Grassa).
4. Del ’68 è rimasto poco. Vero e questo mi pare un altro elemento che impedisce di presentarlo come una “rivoluzione”. Infatti, le vere rivoluzioni, anche quando sconfitte o “tradite”, hanno lasciato mutamenti duraturi (storicamente, eh! Nulla è eterno nella storia umana…): lo Stato della borghesia in Francia che ha surrogato e inglobato l’aristocrazia sconfitta; l’Urss come potenza mondiale antagonista agli USA fino alla sua implosione. Nulla di simile ha lasciato il ’68.
@ Emilia
Ben detto! E’ rimasta la “rivoluzione” dell’io: il narcisismo di massa.
@ Ennio
Il narcisismo di massa certamente , evidentemente.
Parto anch’io, come hanno fatto Aguzzi e Fischer, dalla sottolineatura del passo di Ennio che in cinque righe, ad analizzarle bene, riassume il nocciolo della problematica di cui si tratta: desiderio, realtà, individuo, masse e potere.
*«Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o “scientifici”. In molti, comunque, non stavamo «abbastanza bene»*.
In aggiunta, Aguzzi scrive: *Ciò implicherebbe la necessità, per gli anni 1968-1976 come per qualsiasi altro periodo “rivoluzionario” (di rivoluzione riuscita o no), di compiere un’approfondita analisi sul concetto stesso di rivoluzione e sulle sue forme storiche, utilizzando in modo interdisciplinare categorie storiografiche, politologiche, economiche, filosofiche, sociologiche e delle forme della comunicazione e dell’immaginario popolare*.
Alcune osservazioni.
Che sia necessaria una rivisitazione del concetto di ‘rivoluzione’ va da sé così come altrettanto necessario è capire che, mutando il mondo, mutano anche le forme concettuali che ci servono a rappresentarlo tenendo in conto le esperienze passate (ciò vale anche per la ‘democrazia’, ecc. ecc.).
Rimangono comunque, nei processi di cambiamento, come è giusto che sia, anche le permanenze. Si tratta di vedere quali sono e qual è la loro incidenza.
La permanenza prima sarebbe ancora il “soggetto”. La struttura del soggetto. Dell’io-che-pensa. Almeno lo è per me.
Dico ‘ancora’ perché si è già incominciato a procedere con il sistema subdolo della sua abolizione (che, guarda caso, non proviene più dalle vituperate teorie ‘comuniste’ accusate in illo tempore di voler annegare l’individuo nella massificazione!). E ciò avviene sia attraverso la via ‘numerativa’ – con la scusa ideologica di proteggere l’individuo da improprie identificazioni si tende ad abolire il patronimico (ci si chiama per nome di battesimo), oppure pensiamo in termini di “genitore 1” e “genitore 2”, tanto per esemplificare – e sia, qualitativamente, attraverso il narcisismo di massa. Esso ha il suo germe – ed è importante vedere come questo poi si maturi – nel bisogno/necessità di far parte di un gruppo con cui identificarsi, i *compagni con cui stare*, e coi quali costruire il *noi* (il ‘partito’ si diceva allora) di cui fidarsi e a cui affidarsi*. Abilitati in ciò, da un movimento propedeutico: in parole altre, il “parlatorio”.
Ennio scrive: * Era parlando con gli altri, con molti altri, che ci si poteva chiarire le idee su quella “cosa” (la Rivoluzione appunto). Per intendere cosa fosse stata (altrove, e in altri tempi). E cosa poteva essere e se era possibile o no da noi; e come prepararla o prepararsi ad essa. Io avevo capito che, per tentarla (o semplicemente avviarsi verso di essa), bisognasse essere in molti.* … *Mi pareva che, se in tanti si parlava di Rivoluzione, qualche buon motivo ci fosse*.
Ma c’erano anche gruppi ‘reazionari’ in cui ‘molti’ pensavano ad un modello restaurativo anzichè evolutivo della società, e, per ripristinare quel mondo, erano anche essi disposti a fare la loro rivoluzione.
Ma, tornando alla ‘nostra’ Rivoluzione, se la cosa finiva “narcisisticamente” lì, in questo sentirsi “molti”, senza tenere conto che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni* (citazione da Ennio) si creavano molti equivoci.
Il primo dei quali riguardava la possibilità di fare una analisi sufficientemente concreta della realtà e non mutuata da investimenti guidati dal desiderio del gruppo e/o del suo leader. O dal bisogno di sostituire un potere ad un altro. E, infatti, non c’erano le condizioni per quanto molti ‘gruppi’ si sforzassero di mostrare che invece c’erano, che la rivoluzione era dietro l’angolo (A. Negri) o che bisognava creare le condizioni affinchè essa si proponesse quasi da sé (R. Curcio).
Il bisogno di ‘Rivoluzione’ diventava così lo specchio per le allodole proprio giocando sugli immaginari di ognuno, perché, bisogna dirlo, ognuno ha in mente la ‘sua’ rivoluzione. Che si può confrontare con quella intesa da altri, ma sarà pur sempre la ‘sua’, e, a volte, nell’inconscio, anche equivocata.
E Ennio continua: *è meglio puntare al cielo, a «egregie cose» invece di voltolarsi nel fango in cui ci vogliono mantenere. E che, come diceva il Vecchio Scriba, bisognasse «cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare».*
Sono d’accordissimo. Anche perché c’ero anch’io in tutto questo. Ma non posso qualificare il mio passato come ‘rivoluzionario’ solo perché non ho fatto la flâneuse, non ero ‘figlia di papà’, ci ho rimesso di persona a causa delle mie idee politiche, ho menato e sono stata menata ai picchetti. Ho conosciuto persone che, pur avendoci rimesso di brutto anche durante la resistenza, non erano rivoluzionarie affatto. Diciamo che anch’io ho puntato al cielo, a egregie cose e quindi non ‘rinnego’ nulla (uno dei termini più utilizzati a quei tempi, quando qualcuno nel gruppo mostrava un qualche disaccordo, era quello di ‘rinnegato’, con tutto lo strascico valoriale che ne derivava!).
Perché allora la Rivoluzione non era soltanto una ideologia ma una Idea, l’Idea di una possibilità di radicale cambiamento (non di una modernizzazione) e che era perseguibile e non utopica, perché sostenuta da un impianto teorico che ne analizzava i vari passaggi.
Solo che a quell’impianto teorico si dette una patina di eternità come se non si volesse tenere conto che molte variabili si erano inserite nel frattempo e che il modello andava riformulato.
Il fatto è che, intanto che aspettiamo che questo nuovo modello prenda consistenza, sta avanzando un diverso tipo di ‘rivoluzione’ la quale, senza colpo ferire, senza l’opposizione di manifestazioni di piazza, ha cambiato un sistema di potere. Poter decidere che cosa ha valore e che cosa no.
L’effetto è quello di un certo ‘straniamento’, come trovarsi in una città a cui hanno cambiato la toponomastica!
Ma non ci dà da pensare questo? Se ci dicono, ad esempio, che un certo limite, un certo confine, sono invalicabili, perché bla…bla…bla…, altrimenti succede bla..bla..bla… noi ci faremmo immolare pur di non farlo violare. Ma se improvvisamente ci dicono che non è più così, che i parametri sono diversi, non spenderemo più un cent per quella lotta. Esempi alla mano? Articolo 18, Costituzione ecc. ecc.
Se tutto viene omologato, dove sta la differenza? Fra bene e male, ad esempio?
Entriamo dritti come fusi nel mondo della perversione!
R.S.
….”Se tutto viene omologato, dove sta la differenza?”(Rita), parto da questa giusta affermazione poichè, pure secondo me, bisognerebbe evitare sia l’appiattimento indifferenziato e anonimo dei molti (“genitore 1, genitore 2”), sia il narcisismo di massa che segue per lo più le mode, sia la schiavitù di massa che è sottomessa ai potenti, va bene mantenere assolutamente i soggetti pensanti, l’io-che-pensa, riconoscere il valore dei singoli, tuttavia estremizzando questa posizione e uscendo dal “parlatorio”, cioè dal confronto con gli altri, c’è il rischio di arrivare a credere di essere depositari di verità assolute, capaci soli di distinguere il bene dal male (anche l’inquisizione lo pensava), mentre la misura sta forse in quei versi di Fortini :” cercare i nostri uguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati…”, una situazione che ci permette, non rinunciando al nostro io pensante, di aggiustare il tiro delle nostre idee ascoltando quelle degli altri…alla fine potrebbe emergere qualche pensiero costruito in comune…o perlomeno si può provare…
TRAVASI DA POLISCRITTURE FB > POLISCRITTURE SITO
Giuseppe Muraca
Riporto l’intero commento.
1. Bisogna studiare e analizzare il “lungo sessantotto”, la “stagione dei movimenti” nelle sue varie fasi e nei suoi continui cambiamenti, altrimenti non si capisce un tubo e si travisa tutto. Parlando della situazione italiana, inizialmente il movimento studentesco è nato all’interno di alcune università per poi diffondersi in tutto il paese, come rivolta antiautoritaria e libertaria contro il potere accademico. Se si analizzano i documenti della rivolta studentesca non c’è traccia della cultura operaista. La generazione del 68, nella sua originalità e radicalità, ha messo in discussione tutta la cultura precedente e persino il culto dei libri.politicamente parlando erano contro l’imperialismo americano e sostenevano il popolo vietnamita e i popoli del terzo mondo. Dopo un primo periodo di occupazioni e assemblee, gli studenti uscirono dalle università e cominciarono a organizzare i cortei per le vie cittadine, causando i primi scontri con le forze di polizia. Dopo il maggio francese, e soltanto dopo il maggio francese s’incominciò a discutere di come organizzare politicamente il movimento, per evitarne il riflusso e la dispersione, e s’incominciò a parlare di Rivoluzione. In autunno alcuni nuclei studenteschi incominciarono ad andare davanti alle fabbriche per discutere con gli operai. Da qui inizia la storia dei gruppi minoritari della sinistra extraparlamentare, con il recupero di tutte le ideologie nate in precedenza (marxismo-leninismo, l’operaismo, e persino lo stalinismo, ecc. ecc.). In sintesi, ogni organizzazione elaborò la propria ideologia e la propria strategia politica, con il richiamo alle varie esperienze rivoluzionarie precedenti. Progressivamente, la battaglia politica e il ciclo di lotte ha coinvolto l’intera società, tutte le istituzioni, e persino l’apparato dello stato, ed anche se tra organizzazioni (partiti, sindacati, ecc) e movimenti si è istituita una sorta di dialettica, i due piani non vanno confusi, nel senso che sia le organizzazioni e sia i vari movimenti operarono con una certa autonomia.
2. Bisogna tener presente che durante quella stagione, di grande partecipazione politica e di sviluppo dei movimenti collettivi, il processo di modernizzazione, attuato dal sistema, s’intreccia con la spinta al cambiamento e i mutamenti radicali che interessano il potere politico e l’intera società civile.
3. Fortini nel saggio “Il dissenso e l’autorità” che tu citi, criticò il movimento studentesco, senza comprenderne la reale portata, salvo poi, successivamente, a ricredersi e a rivalutarlo politicamente. I migliori saggi sul movimento studentesco italiano restano, a mio avviso, “La politica ridefinita” di Carlo Donolo e “Il desiderio dissidente” di Elvio Fachinelli, pubblicati nello stesso periodo sulla rivista piacentina.
4. Ripeto. Non si può paragonare il sessantotto alle altre esperiene rivoluzionarie avvenute nel corso del novecento; non si può interpretare il sessantotto in chiave ideologica e utilizzando gli strumenti del marxismo-leninismo. Bisogna tener conto dei processi reali e dei vari cambiamenti avvenuti in quel periodo, di breve e di lunga durata. E’ vero: c’è qualche storico che intrepreta il 68 come processo di modernizzazione, ma i più ormai lo interpretano come “rivoluzione mondiale”, e alcuni usano la formula di “rivoluzione culturale”.
5. Gli intellettuali della nuova sinistra e gli intellettuali e i militanti della sinistra extraparlamentare (da non confondere) sono stati antistalinisti e antitogliattiani. Si sono lasciati alle spalle il fallimento della rivoluzione d’ottobre, si oppongono alla sinistra storica (in particolare al PCI) e perseguono un ideale di socialismo diverso (Su questo concordo con Ennio). Sulla loro formazione teorica e politica è importante fare riferimento al libro dell’amico Attilio Mangano, Autocritica e politica di classe, Milano, 1978. A questo punto bisogna chiedersi: quale è stato il ruolo svolto dalle organizzazioni della sinistra (storica e nuova)? E quale è stato il ruolo svolto dai movimenti di protesta che sono nati e si sono sviluppati in quegli anni (movimento studentesco, autunno caldo e lotta nelle fabbriche, movimento per la casa, movimento per i diritti civili, militari in divisa, rivolta nelle prigioni, magistratura democratica, medicina democratica, femminismo, ecc.)? Bisogna analizzare concretamente i reali mutamenti indotti nei vari settori sociali, nelle istituzioni politiche e culturali, ecc., ed evitare di porre in primo piano le culture politiche (le ideologie), nate e sviluppatesi durante la stagione dei movimenti, anche se hanno avuto la loro rilevanza.
6. Io non sono per mettere in soffitta Marx, Lenin, ecc. Io sono per un ripensamento di tutto il patrimonio teorico e politico del marxismo e di tutte le esperienze storiche della sinistra mondiale (è dalla seconda metà degli anni settanta che si è posto questo problema), ma al tempo stesso penso che la teoria critica si deve rinnovare e arricchire continuamente. Io credo che bisogna esercitare la critica delle ideologie, anche di quella marxista-leninista, nelle sue varie versioni.
7. Il fallimento della rivoluzione francese provocò l’ascesa di Napoleone Bonaparte, il fallimento della rivoluzione d’ottobre portò, dopo la lotta intestina tra i vari leader, all’ascesa di Stalin, ai gulag, ecc, il fallimento del sessantotto provocò il riflusso e portò alla politica di unità nazionale, e negli anni ottanta all’ascesa di Craxi.
Che brutta abitudine quella di generalizzare: sarebbe più onesto dire di sé, di non essere mai stati rivoluzionari, di non averci creduto veramente. A me quella prospettiva non dispiaceva affatto, ho considerato seriamente l’idea di un sovvertimento, che capivo dovesse essere necessariamente violento. Ci ragionavo e sognavo, ma ero un ragazzo, le mie analisi non potevano che essere semplicistiche e viziate dal desiderio. Però, ancora oggi, non capisco come ci si possa dire comunisti senza pensare al cambiamento radicale della società. Se non lo si ritiene possibile tanto vale non dirsi comunisti e muoversi con altre modalità, cambiare orizzonte… e qui si vede lo smarrimento, l’incapacità di trovare risposte concrete, ma solo parole di fede che non possono oltrepassare la soglia dell’uguaglianza: uguaglianza come principio, e quindi anche come possibile istituzione. Ma uguaglianza verso il basso, altrimenti non sarebbe comunismo. In definitiva si tratterebbe di una forma di organizzazione sociale, un più rispettoso livellamento delle esistenze. Non mi sento per nulla sconfitto, sconfitti son quelli che professano ideologie ingessate, che ragionano schematicamente, che pongono le ideologie a confronto accusando gli altri di socialdemocrazia… povere, piccole persone, incapaci di uscire dal seminato, dal già visto, dal risaputo, dal metodo, dal dogma, che piegano la ragione alla propria fede, che non sanno guardare al di là degli 8 km della linea dell’orizzonte; condannati all’oggi, all’avevo detto, io. Non mi sento per nulla sconfitto, sconfitto lo lascio dire a Ingrao e a quelli che non sanno mettere da parte l’ideologia, che continuano a sovrapporla a cose “semplici” come Uguaglianza (dal basso), parità nei diritti, accoglienza, rispetto delle diversità (ma non dei privilegi). Su queste cose ragionerei, non sul tempo che fu.
Questo fu il mio intervento ( pardon, il mio commento), su Le parole e le cose. Ma avrei anche dovuto parlare della povertà e della spartizione della ricchezza, guarda caso il nodo cruciale che portò all’analisi economicistica delle nostre esistenze in chiave marxista. Nel sessantotto fu irragionevole pensare che allargando il consenso avremmo visto passare dalla nostra parte anche l’esercito (un’idea pazzesca ma la pensavamo possibile. Questo per dire dell’ingenuità), non altrettanto si può dire per le idee di uguaglianza, sociale ed economica, che ancora sarebbe giusto e necessario perseguire. Perché perdere tanto tempo nell’esaminare errori macroscopici quando ci sarebbe ancora tutto da fare? D’accordo, mettiamo chiarezza negli anni ’70, però qualche idea sulle nostre tasche vuote dovremmo pur averla… ad esempio: finiamola di ridurci a sfamare presuntuosamente i bambini denutriti del pianeta e vediamo di combattere la povertà… insomma, stiamo qui, non altrove nel tempo.
C’erano stati i fatti del luglio 60, io avevo 15 anni, poi ci furono a Milano sezioni del PCI che si richiamarono a quei fatti, ci fu la censura su un libro Einaudi che riportava le canzoni antifasciste durante la guerra civile in Spagna. Ardizzone morì in una carica della polizia nel 62. Nel 66 ero a Monaco di Baviera a studiare il tedesco, la mia compagna di camera studiava a Berkeley, dove c’erano stati dei moti studenteschi, lì insegnava Marcuse. C’era la guerra in Vietnam e c’erano le manifestazioni contro. A Roma il rettore nel febbraio aveva chiamato la polizia per sgomberare l’università occupata. Solo pochi elementi, per dire che il 68 non è nato “come rivolta antiautoritaria e libertaria contro il potere accademico”, ma c’era ben altro dietro le spalle mie e di altri, per spiegare la partecipazione al 68.
E non è neanche vero che “Dopo il maggio francese, e soltanto dopo il maggio francese s’incominciò a discutere di come organizzare politicamente il movimento, per evitarne il riflusso e la dispersione, e s’incominciò a parlare di Rivoluzione”: la mia adesione al movimento avvenne per il tramite dell’allora PCD’I, piccolo gruppo molto teorico cui partecipava un allora assistente universitario di storia della filosofia.
La “storia dei gruppi minoritari della sinistra extraparlamentare, con il recupero di tutte le ideologie nate in precedenza (marxismo-leninismo, l’operaismo, e persino lo stalinismo, ecc. ecc)” comincia prima del 68, dalle manifestazioni, con organizzazioni e con teorie.
Non voglio avventurarmi nell’analisi degli anni successivi, e nei punti successivi trattati da Muraca, dico però che “l’originalità e la radicalità” del 68 non sono tali: da subito fu un movimento composito e con lunghe radici.
Ennio Abate
Anticipo qui (senza rivedere) una delle schede scritte per il manuale di storia, che pubblicherò in IL NOVECENTO PASSATO A CONTRAPPELO:
Il ripensamento del «Sessantotto»
[o: Le interpretazioni del «Sessantotto»]
Il ‘68 è ancora oggi un fenomeno nebuloso ed enigmatico, ora mitizzato come «anno mirabile», ora demonizzato come «sorgente» del terrorismo degli anni Settanta ora svalutato a rottame di una rivolta ottocentesca. Di esso sono stati messi in luce con sufficiente precisione alcuni caratteri: la dimensione transnazionale se non planetaria, l’aspetto di rivolta generazionale, il passaggio dalla contestazione dell’università alla critica politica radicale della società, le sue radici nel decennio Sessanta e i suoi sviluppi nelle lotte operaie degli anni Settanta. I mass media hanno insistito soprattutto sui suoi aspetti spettacolari. Qui accenniamo, invece, ad alcune sue interpretazioni da parte degli storici:
1) Per Hobsbawm, il Sessantotto mobilitò un settore minoritario della popolazione (i giovani del ceto medio) e, se incise nella cultura e nel costume, fu transitorio e secondario sul piano politico. Il Sessantotto studentesco fu un monito alla generazione precedente, che aveva creduto di aver risolto per sempre col suo riformismo da «età dell’oro» del capitalismo mondiale i problemi della società occidentale. Più importante, a suo avviso, fu il mutamento verificatosi nei comportamenti della classe operaia che produsse un’«esplosione mondiale dei salari» alla fine degli anni ’60.
2) Anche Cartosio, che ha studiato il Sessantotto negli Usa, insiste sul fatto che, al di là delle apparenze, contro la guerra in Vietnam la mancata collaborazione degli operai statunitensi pesò forse più di tutte le dimostrazioni degli studenti: nel periodo 1966-’75 gli operai americani, spesso presentati dalla stampa come favorevoli alla guerra in Vietnam, scioperarono più che in tutto il resto del ‘900.
3) Per Ginsborg, il Sessantotto non fu l’ultima fiammata di una visione ottocentesca, arcaica e utopistica, ma un’alternativa moderna al capitalismo consumista del dopoguerra. Parziale però, incompleta e spesso ambigua. Ad esempio, alla tanto criticata «famiglia-tana» il movimento degli studenti, «movimento di figli e figlie», seppe contrapporre solo l’esperienza minoritaria, effimera e separata dalla società delle «comuni», senza intendere l’importanza della famiglia individuale che, specie in Italia, diventerà uno dei cardini dello sviluppo degli anni ‘70-‘80. Anche di fronte al problema dei consumi il movimento degli studenti oscillò fra un puritaneismo primitivo e un’accoglienza incondizionata dei prodotti del mercato.
4) Gallerano insiste, invece, sulla novità dell’impegno politico della generazione del Sessantotto, la prima della storia italiana compattamente e uniformemente orientata a sinistra. Quel fenomeno non fu, dunque, una semplice «rivolta generazionale» o un movimento «antipolitico» (Veca), in superficie rivoluzionario, ma nella sostanza individualistico (Lipovetsky). Il conflitto coi padri non fu banalmente edipico, ma politico e morale (specie in Germania, dove rifiutò il passato nazista della generazione precedente). Gli stessi suoi aspetti festosi, trasgressivi o «utopico-progettuali» furono resi possibili dal primato dato alla politica. Ma si trattò di una politica non intesa come «sfera separata» dalla società, quindi diversa e in contrasto con la vecchia politica dei partiti. Tuttavia la risposta ottusa e repressiva dello Stato e la «strategia della tensione», cominciata con la strage di Piazza Fontana a Milano nel ‘69, spinsero a recuperare la «forma partito», cioè la vecchia politica. Gallerano respinge anche la tendenza a distinguere una prima fase del Sessantotto, considerata positiva e giusta perché con un tasso di violenza solo simbolica, da una seconda fase, giudicata negativa, quella della frammentazione e della nascita dei gruppi extraparlamentari. Quella del Sessantotto fu però una generazione politica sconfitta: non riuscì a riformare la politica, anche se dopo il Sessantotto si sono avute riforme politiche importanti (Statuto dei lavoratori e leggi sul divorzio, l’aborto, il sistema carcerario e manicomiale).
4) Poggio ha criticato soprattutto le tesi che demonizzano il Sessantotto, assimilandolo al terrorismo dei successivi «anni di piombo» e stabilendo un rapporto ferreo di causa ed effetto fra i due fenomeni. Egli respinge però anche una visione idilliaca del Sessantotto, ridotto a «simpatico prologo alla liberazione dei costumi». Quel fenomeno, che non sconvolse il mondo come si ebbe la tentazione di pensare, non fu però «un trascurabile incidente di percorso»; e va indagato nelle sue contraddizioni: il «settarismo intellettuale» ma anche la straordinaria partecipazione «della gente comune, della molteplicità di individui in carne ed ossa che in modo straordinamenramente capillare vennero coinvolti nel movimento, a partire dal loro luogo di lavoro, dentro le istituzioni, nella famiglia e in ogni forma della vita associata».
5) Anche Bellofiore contrasta la tesi che separa nettamente il Sessantotto studentesco dal ’69 operaio, considerando il ‘69 e gli anni Settanta un impoverimento della ricca eredità del Sessantotto e facendo del Sessantotto semplicemente «una richiesta di modernizzazione». Quando nel ‘69 gli operai seguirono a modo loro nelle fabbriche l’esempio degli studenti – afferma Bellofiore – ebbe inizio in Italia una crisi sociale ed economica che, proprio per la sua radicalità, era irrecuperabile. Nessuna risposta riformista poteva più bastare. Ma non bastarono neppure la cultura del Sessantotto: né quella francofortese, né quella «operaista». Tutta la sinistra, vecchia e nuova, non fu in grado di contrastare la crisi a cui il sistema capitalisticorispose con l’innovazione tecnologica, l’inflazione, il decentramento e la ristrutturazione della produzione.
6) Per Ortoleva il Sessantotto è «un evento irriducibilmente ambivalente», un evento da paragonare ad un sisma «che rompendo una montagna, scopre una complessa stratificazione geologica», una crisi sociale in cui si incrociarono cambiamenti differenti e di diversa portata: mutare dei rapporti fra i sessi e fra le generazioni, crisi dell’istituzione scolastica e dell’organizzazione del sapere. Il Sessantotto, «un momento di svolta nella storia del dopoguerra», ebbe caratteristiche inedite e uniche: ebbe una dimensione internazionale e al di là dei blocchi della Guerra fredda; diede spazio a identità etniche e regionali, che lo Stato nazionale aveva accantonato; fu un movimento di intellettuali che funzionarono da coscienza critica della società nel suo insieme e si fecero portavoce degli esclusi, pur esaltando la parzialità del proprio punto di vista e partendo dal disagio della propria condizione; fu un movimento di giovani che voleva costruire proprie comunità separate e autonome rispetto al mondo adulto; intrecciò strettamente azione politica e conoscenza; fu una rivolta che tese ad una partecipazione emotiva («la felicità pubblica» dei rivoluzionari del Settecento), anche se timorosa e disperata; produsse una «nuova sinistra», ripercorrendo la via dell’organizzazione di partito e ristabilendo una continuità con la tradizione universale del movimento operaio, anche se dal suo seno scaturirono poi movimenti, fondati sull’identità di genere, di etnia, di sesso, che vollero essere parziali e non più universali in modo intransigente.
Gli ultimi versi della poesia della Dickinson che, con grande sensibilità letteraria, Ennio Abate ha posto in apertura, non mi convincono del tutto. Men che meno mi convincerebbe un uso strumentale e polemico di quei versi. Ad essere ammutoliti dalla polvere infatti siamo destinati tutti. E tuttavia, finché siamo carne e sangue, l’unica cosa che conta è se e quanto, nella consapevolezza del comune destino e della propria individuale fragilità, si riesce ad essere d’aiuto e di sostegno al prossimo.
È nel “sacro ripostiglio” della memoria individuale infatti che ciascuno riconosce la propria identità ma anche la bontà o meno del dono o dell’aiuto ricevuto. Di qui la necessità, ribadita nella poesia della Dickinson, del “gran silenzio” e delle possibili, molteplici “sorprese”, ben al di là, come assai acutamente fa intravedere Luciano Aguzzi nel suo commento, di ogni reale o immaginata “rivoluzione”. Sottoscrivo il suo ultimo capoverso:
“Paradossalmente, probabilmente si arriverà a capirlo meglio quando le rivoluzioni saranno del tutto cosa del passato, e quando, proprio per questo, proprio perché non più attuale in nessun modo, concettualmente sarà stata fatta, in ciò che era davvero possibile farla”.
@ Ottaviani
Non capisco perché le rivoluzioni non debbano essere lette come tentativi di « essere d’aiuto e di sostegno al prossimo». Semmai le valuterei dal tipo di prossimo che i rivoluzionari scelgono di aiutare e sostenere. I fascisti e nazisti – rivoluzionari anch’essi o no? – scelsero un prossimo piccolo/alto borghese. I socialisti e comunisti un prossimo proletario. E neppure afferro perché, oltre che nella memoria individuale, il riconoscimento del «dono e dell’aiuto ricevuto» non debba essere riconosciuto (e valutato) anche nella memoria collettiva (quando esista ancora un *noi*). Il «gran silenzio» poi può esserci anche in quest’ultima.
Intendo dire che aver messo a capo della mia polemica con Pecoraro questa poesia della Dickinson non mi pare affatto una forzatura o un uso strumentale dei suoi versi. E quel ‘sacro’ riferito al «ripostiglio che chiamiamo “memoria”» avverte forse che non necessariamente lì ciascuno riconoscerà la «propria identità», visto che « potrebbe darsi/ che altri interlocutori si presentino» a insidiarla o a complicarla.
Infine «ammutoliti dalla polvere» lo saremo tutti, ma prima di esserlo diamoci da fare con la «scopa molto rispettosa» a spolverarlo il ripostiglio, accettando le «sorprese» meno tranquillizzanti. Ad esempio che nella storia, a differenza di quanto scrive Aguzzi, le rivoluzioni continueranno e mai « saranno del tutto cosa del passato».
Caro Ennio, quando mai ho detto che “le rivoluzioni non debbano essere lette come tentativi di « essere d’aiuto e di sostegno al prossimo»? Ho scritto “ben al di là” che non esclude ma include tanto le “rivoluzioni” quanto il “concetto di rivoluzione”.
La “forzatura”, se c’è, io l’ho intravista solo nella stessa poesia della Dickinson, in quel “sfidarla non conviene” che lascia insoluti molteplici problemi.
Per il resto quasi d’accordo con te. Quasi. Perché di tutto ciò che è “collettivo” – memoria compresa – è assai certa l’aspirazione, legittima, talvolta perfino sacrosanta. Ma assai incerta la reale esistenza. Sono sempre i singoli a cantare, anche se in coro!
Un caro saluto.