di Marco Gaetani
La vicenda dello scrittore Erri De Luca, processato per aver sostenuto in un’intervista che la linea ferroviaria per treni ad alta velocità in costruzione in Val di Susa debba essere a ogni costo «sabotata», è abbastanza nota per esimere dal richiamarla qui nel dettaglio. Ricostruzione precisa cui del resto procede lo stesso autore napoletano nella sezione intitolata «Cronaca» di un libretto pubblicato dall’editore principale di De Luca (Feltrinelli) proprio nei giorni del processo. Alle pagine di La parola contraria si può fare riferimento per alcune considerazioni che, a partire dall’episodio in questione (davvero «minuscolo» in rapporto a ciò che accade in Val di Susa, come scrive De Luca?), si tentano con il proposito di uscire dalla cronaca spicciola, di sfuggire al chiacchiericcio proliferante nell’immancabile (quanto falso) dibattito mediatico.
I fatti sono talmente incredibili, nella loro conclamata scandalosa evidenza, da risultare quasi imbarazzanti e non lasciare dubbi su chi abbia ragione e chi torto. Che si possa essere sottoposti a un’azione penale per aver esercitato il proprio diritto di parola dà la misura esatta del degrado dell’Italia contemporanea. Che in questo paese possano agire nel nome del popolo italiano magistrati come quelli che hanno incriminato De Luca fa comprendere dolorosamente lo sfacelo civile, morale e anche giuridico di un’intera comunità nazionale (istituzioni e società civile). Lo scrittore ha dunque facile gioco nel difendersi col suo scritto ad hoc, ricorrendo a una retorica tutto sommato controllata – ma qualche volta contrattaccando, ribaltando cioè l’autodifesa in orgoglioso «j’accuse» («L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria»; «Sto subendo un abuso di potere da parte della pubblica accusa che vuole impedire, dunque sabotare, il mio diritto di manifestazione verbale», ecc.).
Di fronte all’assurdità e al lato grottesco della situazione in cui è venuto a trovarsi, l’imputato De Luca si sforza di non alzare eccessivamente i toni, evitando quanto possibile di atteggiarsi a vittima, ad eroico testimone di un diritto fondamentale conculcato. In verità, come già detto, i fatti parlano da sé: l’idiozia degli «atti osceni», come chiama De Luca quelli giudiziari che lo riguardano, palmare. La facilità con cui possono essere confutate le risibili tesi dei magistrati (che accolgono di fatto integralmente quelle farneticanti del direttore generale della Lyon Turin Ferroviaire, la cui «denuncia / querela» viene pubblicata nell’«Appendice» a La parola contraria, insieme all’intervista che ne è il pretesto) sarebbe quasi confortante, se non intervenisse a far rabbia (e a generare inquietudine) una duplice consapevolezza: dell’ingiustizia comunque subita nell’essere trascinati in giudizio per un fatto simile; e della effettiva possibilità di riuscire condannati, pur contro ogni logica e contro ogni giustizia, in un sistema giudiziario (ma: di potere) che offre quasi quotidianamente – in non poche storie minime di ‘comuni’ cittadini – prove d’inettitudine, protervia, malafede.
Non si riporteranno qui gli argomenti a propria difesa avanzati da De Luca, che talora ricorre saggiamente allo humour (come quando per esempio rivendica il suo meridiano diritto al malaugurio) e a una specie di quasi goliardica provocazione («Questa incriminazione è il mio primo premio letterario italiano»). Lo scrittore è ben conscio dell’enormità dell’ingiustizia subita. D’altra parte, per quanto si voglia trattare questa storia indecente in chiave quasi farsesca (come di certa commedia all’italiana), l’accaduto prende fatalmente bagliori sinistri, vagamente kafkiani. E basterebbe, a valutare la portata della minaccia incombente, considerare cosa si rischia quando si renda necessario riaffermare il proprio diritto all’uso completo dell’idioma materno, e occorra rintuzzare il tentativo di un potere ignorante quanto smargiasso di restringere il significato del lessico («riduzione di vocabolario», scrive De Luca). «Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri di questo caso»; «Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare», è costretto a puntualizzare lo scrittore contro i suoi sagaci accusatori: ancora un passo e ci si trova in pieno teatro dell’assurdo.
Piuttosto che ribadire quanto già detto da molti commentatori intorno a una vicenda il cui profilo assiologico – per dir così – è nettissimo, può essere più interessante, qui, invitare alla riflessione su un paio di temi (tra sé correlati) che la vicenda coinvolgente De Luca (ma in realtà non solo lui) sembra implicare, e che non a caso – infatti – l’autore stesso tocca nelle pagine del suo intervento a discolpa. Ci riferiamo alla questione (evidentemente vexata) del ruolo dell’intellettuale ‘umanista’ nelle società contemporanee; e a quella dei rapporti tra parola e azione, con particolare riferimento a quella parola specialissima che si qualifica come «letteraria».
Quanto al primo aspetto del problema, De Luca ha le idee piuttosto chiare: «Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria». Ancor più: lo scrittore s’incarica di parlare per tutti, e segnatamente in nome e per conto di coloro che, per le più diverse ragioni, non ne hanno facoltà (De Luca, come noto frequentatore e traduttore del testo biblico, si rifà a Proverbi 31, 8: «apri la tua bocca per il muto»). L’esempio di Pasolini, «il maggiore intellettuale italiano» del secondo Novecento, non fa che confermare questa idea alta dell’intellettuale moderno come testimone e portavoce, epitome vivente di un privilegiato rapporto che si darebbe «tra cultura e lotte civili». Un intellettuale, dunque, elettivamente antagonista rispetto a quel potere che non a caso con cura particolare se n’è ‘occupato’ per tutto il secolo breve («Vengo dal campo scuola del 1900, dove gli scrittori, i poeti, hanno pagato il più amaro prezzo per le loro parole», ricorda De Luca). E ancora oggi, se ne occupa: non casualmente per gli eventi in Val di Susa è stato colpito anche «il filosofo Vattimo che ha disobbedito alla consegna di farsi i fatti suoi».
Si venga ora al secondo motivo di riflessione che l’istruttiva disavventura di De Luca (e la sua alquanto tempestiva presa di posizione pubblica) ci presenta. Motivo come detto correlato al primo, e concernente i rapporti tra parole (in particolare quelle della letteratura) e azioni. La principale accusa mossa dallo stato italiano (non dimenticare) all’autore di La parola contraria è infatti quella di istigazione a delinquere contro «un’opera strategica per lo Stato». Lo scrittore napoletano non è stato infatti «incriminato per avere fatto, ma per avere detto». Può così agevolmente rilanciare, alludendo al paradigma d’intellettuale cui s’è fatto riferimento poc’anzi: ogni scrittore può bensì «istigare un sentimento di giustizia, che già esiste ma non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo». Il modello aureo sembra essere ancora quello pasoliniano, cui De Luca di nuovo si riferisce quando scrive che «uno scrittore al suo meglio istiga alla lettura e qualche volta anche alla scrittura».
Proprio a questo punto però tutta la questione sembra un poco complicarsi. Non tanto perché c’è in effetti qualche differenza tra lettura e scrittura, da una parte, e comportamenti ‘penalmente rilevanti’, dall’altra. Quanto piuttosto perché sembrano esistere, per De Luca (come pure, plausibilmente, per i suoi accusatori…), un’istigazione ‘buona’ (quella, per dir breve, alla presa di coscienza, che lo scrittore rivendica orgogliosamente come propria prerogativa) e un’istigazione ‘cattiva’ (quella precisamente per cui l’autore viene oggi accusato dagli zelantissimi magistrati torinesi). Prescindendo per il momento da questo particolare risvolto della questione, va anche detto che De Luca, nelle sue pagine a difesa della «libertà di parola contraria», sembra non interessato a distinguere tra una generica «parola pubblica» dello scrittore (di questo genere è parte quella virgolettata / ammanettata – si riprende l’immagine, un po’ ruffiana, dell’autore stesso – per la quale è chiamato a rispondere in giudizio) e quella affidata ai suoi libri; pure pubblicamente, senz’altro: ma come opera letteraria.
Al di là di questo pur essenziale (mancato) distinguo, impressiona (non proprio favorevolmente) come De Luca si difenda scendendo sul terreno (da puntiglioso causidico, capziosamente avvocatesco) dei suoi accusatori: «Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori del suo controllo». Affermazione che sembra quasi una presa di distanza da se stesso e dalle proprie parole, un bello e buono «qui lo dico e qui lo nego» – come usa molto italianamente dire. E ancora il medesimo effetto (di qualcuno sulla difensiva, è il caso di dire, e forse non precisamente «a posto con i suoi argomenti, con la sua coscienza di cittadino e con la sua responsabilità di scrittore») sortisce un asserto certamente in punta di logica (ma sempre una logica un po’ da leguleio) come il seguente: «Perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni commesse». Dove il pur sacrosanto disvelamento dell’aberrazione (logica, di nuovo – a dir il vero, e purtroppo, moneta sempre più corrente nei tribunali della repubblica) per cui post hoc, ergo propter hoc lascia inspiegabilmente uno sgradevole retrogusto d’ambiguità, per così dire. «La pubblica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni», afferma ancora De Luca; e sfida a dimostrare che sia stato davvero così – di nuovo trasmettendo l’impressione di una presa di distanza anche da se stesso, dal proprio medesimo dire, oltre che da quanti hanno agito contro le leggi dello stato.
Pensa davvero, lo scrittore, che la propria parola non abbia alcun potere nel determinare, o anche soltanto nell’influenzare e nell’orientare, l’azione altrui? La questione interessa tanto di più quando coinvolga la virtù eventuale (la forza di efficacia) di quella parola che si presenti come letteraria. E riflettendo al fatto che anche la parola semplicemente «pubblica», quella pur «piccola voce» di cui lo scrittore si riconosce fortunato detentore, trova ascolto e si fa voce autorevole per il riverbero di quell’altra parola, di quell’altra voce – egualmente pubblica ma di statuto più eminente, di prestigio maggiore e malgrado tutto effettivo: di residuale spessore, d’accordo, ma non ancora completamente consumato.
Allontanando da sé la taccia, anche questa invero molto italiana, di «cattivo maestro» (espressione che è però un inosservato ossimoro) De Luca assume una posizione netta, quasi di sfida. «Rispondo a difesa dei miei libri: in quale di essi ho istigato a commettere dei reati?». Netta ma per altri versi ambigua: ancora una volta egli sembra scendere al livello del potere (statuale) che lo processa, e delle sue leggi (le quali, al di là delle molte ideologie legalitarie oggi proliferanti anche a ‘sinistra’, possono ben essere, come De Luca mostra di sapere benissimo, «criminali»; anzi: criminali). Per aver modo di fare quasi un passo indietro, per respingere da sé, dal sé dicente e non agente, qualsivoglia sospetto di responsabilità.
E finché in effetti si parli di responsabilità giuridica, è certo bene che così vada fatto. Ma una volta che si sia con forza riaffermato ciò che in ultima istanza qualifica uno stato di diritto (contro quella che rischia di diventare la nera consuetudine di molte procure italiane, e qualche volta delle stesse corti giudicanti: di non provare ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ le imputazioni gravanti sui cittadini), perché non rivendicare anche per sé, per la propria «parola contraria», una forma di responsabilità civile, morale? Anche parziale, eventualmente circoscritta da qualche «se» e alcuni «ma», beninteso. Ma nondimeno reale, cogente: politica. De Luca invece sembra voler stare con i cittadini in lotta della Val di Susa senza condividere in pieno con loro la responsabilità – di nuovo: una responsabilità sostanziale e più alta di quella meramente giuridica, legale – per ciò che di illegale da essi viene fatto contro l’ingiustizia, «per il diritto di sovranità e d’incolumità di un popolo sulla sua terra». L’intellettuale letterato in punta di diritto prende le distanze dal comportamento di quanti pure, si riconosce ambiguamente, con le proprie azioni (non legali) riscattano «il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi».
Si venga infine all’ultimo aspetto che interessa portare all’attenzione del lettore in questa nota, e che riguarda il rapporto tra la parola letteraria e le azioni storiche, individuali e collettive. Par di capire che per De Luca questo rapporto non sia diretto ma mediato. In breve, per l’autore napoletano la parola letteraria può plasmare la coscienza, e dunque contribuire in maniera talora decisiva all’elaborazione di quel libero arbitrio che poi si farà carico esclusivo dell’azione (o della mancata azione, che pure nella storia è azione). È l’idea di letteratura che emerge nella sezione di La parola contraria intitolata «Influenze», dove tra l’altro si rievoca l’effetto di certi libri e certi autori sulla propria personale formazione giovanile. «La letteratura» scrive De Luca «agisce sulle fibre nervose di chi s’imbatte nel fortunoso incontro tra un libro e la propria vita». Si può, al limite, in qualche modo convenire. I vari Borges, Šalamov, Orwell hanno agito sul giovane De Luca in modo tale, si presume, dal farne prima un «militante della sinistra rivoluzionaria italiana negli anni settanta» e, successivamente, quel genere di scrittore e d’intellettuale che egli è oggi. Un libro come Omaggio alla Catalogna, dichiara l’autore, fu in grado di spostargli «la direzione della vita». È la presa di coscienza di cui sopra; di più, è la genesi – la costruzione – di una coscienza.
Ma se ci si domanda «cosa muova un giovane di oggi a esporsi in una lotta massicciamente diffamata e repressa come quella della Val di Susa» e ci si risponde che la letteratura, una voce come per esempio quella di Orwell, non è affatto necessaria per maturare una simile scelta di campo, perché «basta sapere che esiste una volontà di resistenza civile, popolare, per unirsi» (per elaborare un proprio pensiero critico, un proprio modo di stare nella storia, di passare coerentemente all’azione?), allora sfugge a cosa possa servire la parola («contraria») della letteratura e dello scrittore, dove risieda la sua insostituibile necessità, la sua essenzialità. Veramente (e se sì, quanto? E in quale forma? Con che titoli di legittimità storica? Con quali prospettive di concreta affermazione?) «già esiste», ciò che «non ha ancora trovato le parole» per riconoscersi, per esprimersi, per giustificarsi, per imporsi? O non si espone invece, più che alla lotta, proprio a una facilissima diffamazione (cfr. articoli come quello di Marco Bardesono sul «Corriere della Sera» di martedì 30 giugno 2015, p. 23)?
Paradossalmente sembrano saperla più lunga gli altri, gli inquisitori, gli oppressori della «piccola comunità in lotta compatta e intransigente» per i propri diritti, quando ostentano indulgenza verso il barbiere di Bussoleno, al quale evidentemente non riconoscono affatto «un potere di persuasione superiore» a quello di uno scrittore.
A meno che, in effetti, lo scrittore non somigli all’autore di La parola contraria: a ben considerare non pamphlet ma instant book, in cui la specifica responsabilità dell’intellettuale viene surrettiziamente declinata, e non ci si preoccupa di riaffermare, e rinsaldare, il legame profondo tra l’istigazione ‘buona’ e quella ‘cattiva’ (legame che esiste, anche se è latente e un po’ intricato); libello nelle cui pagine s’invocano a difesa propria gli articoli di una costituzione ‘vigente’ solo per chi ci crede, e dove ci si guarda bene dal dichiarare a chiare lettere che hanno ragione, i sabotatori, che hanno fatto benissimo a fare quello che di illegale hanno fatto. E che se pure nessuno di loro ha mai ammesso di aver agito come ha agito perché ‘istigato’ da De Luca, sarebbe bello e confortante che, invece, almeno un poco così fosse davvero. Soprattutto se si scoprisse promanare, quell’istigazione, dai libri: dalla parola letteraria più che da quella improvvidamente ‘rilasciata’ ai media (De Luca crede davvero che la stampa con cui ha scelto di parlare sia meno «interessata» di altra?).
Tanto per avere almeno, vivaddio, la soddisfazione di farsi condannare davvero, e giustamente! Invece la «parola contraria» di De Luca preferisce dichiarare la propria impotenza, sostenere di non avere la forza necessaria a determinare «seguito di azioni» – e sperare così di farla franca (cosa che avverrebbe, sia chiaro, anche in caso di condanna: che sarebbe la condanna socratica cui forse lo stesso imputato segretamente o inconsciamente aspira). Ci si presenta, questa parola sedicente «contraria» e in realtà auto-dichiarantesi superflua, come pura (innocente) testimonianza, vox clamantis in deserto, storicamente irrelata a onta della lusinghevole «solidarietà di massa e di base» (?) che essa sembra suscitare.
Parola, dunque, autoreferenziale, storicamente inefficace: muta, fallita.
Nota Questo intervento è in corso di stampa nella rivista “GenerAzioni”. Si ringrazia l’editore Milella di Lecce per averne consentito qui la pubblicazione.
Immagino che il signor Mario Gaetani abbia scritto questo pezzo, di sera, tra le trincee di Val di Susa. Se così, garantisco tutta la mia fattiva solidarietà.
E’ Marco Gaetani redattore (tra altre cose) di Poliscritture.
…enunciare una verità: “La parola contraria”, non vuol dire abbracciarla, cosa che comporta una maggiore dose di forza, di coraggio e di generosità…
Solo una magistratura mediocre e ambigua come la nostra poteva ravvisare nelle parole di De Luca una ” istigazione a delinquere”. Viene da vergognarsi di essere italiani .
leopoldo attolico –
mi piace De Luca quando scrive poesie e libretti semi-poetici , mi piace anche quanto interpreta il Vecchio Testamento, mi piace meno quanto fa il Gramsci postumo, non mi interessa affatto quando fa il ” martire ” d’opinione, è un ” nostalgico ” di un 68 che per certuni sembra non finire mai.
Ahimè!
E, infine, non sottoscrivo il dissenso attorno alla magistratura che andava bene fino a quando indagava “Quel tale” che non nomino , e va meno bene quando indaga a sinistra.
E che dire allora di quel magistrato che ha perso tempo, soldi e considerazione per condannare a due anni e rotti un “estorsore ” per giunta anche marocchino, di un euro, dico uno, ad un ragazzino di scuola a Torino ?
è di destra, di sinistra, di centro, è una punta avanzata di civiltà, oppure un retrogrado in cerca di visibilità ?
santo Iddio, che tristezza vivere in questo paese tra intellettuali nostalgici e giudici schierati a seconda delle nostre “dipendenze” !!
Certo “l’istigazione a delinquere” è un giudizio assurdo che rinchiuda una ignoranza di pensiero e di onestà .
Ogni volta che uno scrittore viene coinvolto in uno scandalo o in un processo come quello di De Luca, mi vien sempre da pensare a quanti libri in più saranno venduti, penso anche che lo scrittore possa nutrire un forte interesse a stimolare
le critiche e gli scandali se non addirittura cercare di provocarli. Spero tanto tanto che questo non sia il caso di De Luca.
Poeti e scrittori non si perdonano tra di loro per la notorietà raggiunta. Basti pensare a tutto il male possibile che è stato detto ad Alda Merini. Per quale ragione, forse per invidia? Forse, ma se così non varrebbe la pena parlarne; piuttosto conta il pensiero che se un poeta ha successo vuol dire che si è compromesso, con l’établissement, se non ancor peggio con la mediocrità. Sarà vero?
Purtroppo non sono un lettore volenteroso, ho letto un solo libro di Erri De Luca, anzi l’ho ancora lì da finire perché mi aveva annoiato, quindi non so dire se De Luca sia un genio oppure no. La mia opinione è che Erri De Luca sia un ottimo personaggio televisivo, che buca, come si suol dire, perché in televisione bucano sempre le persone capaci di un minimo di pensiero intelligente e profondo. Almeno per qualche minuto è così, per tutti. Ricordo di aver visto in televisione altri poeti noti, parecchio tempo fa, cito solo per comodità Maurizio Cucchi e Raboni. Raboni se la cavò piuttosto bene, ma non abbastanza da riuscire a far leggere le sue poesie al pubblico, mentre di Cucchi ricordo che appariva tanto dimesso che dovevi alzare il volume per capirci qualcosa, e anche in quel caso avevi l’impressione che non stesse dicendo nulla che valesse la pena ascoltare. Chissà che avrebbero combinato Majakovskij o Whitman, per dire di due poeti dai toni altisonanti, se ai loro tempi ci fosse stata la televisione!
Sì, forse è vero che De Luca è un mediocre se riesce ad avere accesso in televisione, ma si è dimostrato in qualche modo incontrollabile. E poi, diciamolo, quali altri intellettuali sono intervenuti sulla faccenda di Val di Susa? Eppure di argomenti da trattare ce ne sarebbero moltissimi: dalle autonomie all’ecologia, dall’economia spinta all’opportunismo speculativo dei politicanti… mi chiedo se il limite non sia dovuto all’obbligo di schierarsi da una parte o dall’altra. Divide et impera!
D’altra parte, se hai per Ministro degli Interni uno come Angelino Alfano, a che vale essere intellettuali?
Dico la mia sull’articolata e raffinata analisi che Marco Gaetani ha fatto, a margine della vicenda giudiziaria di Erri De Luca, soffermandosi su due punti che mi paiono centrali nel suo scritto e che credo gli stiano molto a cuore anche personalmente: – il « ruolo dell’intellettuale ‘umanista’ nelle società contemporanee»; – il rapporto « tra parola e azione, con particolare riferimento a quella parola specialissima che si qualifica come «letteraria».
Riassumo con mie parole il suo ragionamento di fondo. Egli sostiene che Erri De Luca vuole incarnare il ruolo dell’intellettuale alla Zola (o alla Pasolini, che viene esplicitamente richiamato). Un ruolo di matrice romantica, a me pare: «testimone e portavoce» dei bisogni di una comunità (o di un “popolo” o delle «lotte civili»), «antagonista» rispetto al potere. E accusa, però, lo scrittore napoletano di svolgere tale ruolo in modo ambiguo e non coerente. Se invece Erri De Luca lo fosse (coerente), di fronte all’incriminazione da parte della magistratura non per aver fatto certe cose (atti di sabotaggio contro la TAV), ma «per aver detto» certe cose (che è giusto sabotare la TAV) – parole in cui i magistrati ravvisano un’istigazione a delinquere e invece De Luca stesso e i suoi sostenitori vedono soltanto un libero esercizio della libertà di parola – non dovrebbe distinguere tra quanto da lui detto in pubblico come «cittadino» in occasioni di assemblee o manifestazioni contro la TAV («una generica “parola pubblica” dello scrittore») e quanto egli scrive nella sua «opera letteraria» in quanto «scrittore».
In fondo Marco desidererebbe e auspicherebbe un Erri De Luca coerentemente cittadino-scrittore e saldamente coeso (“organico”) alla comunità ribelle della Val di Susa. E lo applaudirebbe senza più riserve né si limiterebbe a denunciare l’assurdità dell’accusa della magistratura, se si scoprisse che proprio i libri di De Luca (l’opera letteraria, la parola letteraria) e non la sua semplice parola pubblica di cittadino o quella « improvvidamente ‘rilasciata’ ai media» fossero capaci realmente di “istigare” (o si dovrebbe dire, uscendo dal linguaggio giuridico: promuovere, incoraggiare) la rivolta in Val di Susa. Tanto – scrive Marco – « per avere almeno, vivaddio, la soddisfazione di farsi condannare davvero, e giustamente!». E finisce per manifestare tutto il suo rammarico per il fatto che « la «parola contraria» di De Luca ammette una propria impotenza, si limita a una «(innocente) testimonianza», rimane *vox clamantis in deserto*, sostenendo cioè di non avere la forza necessaria a determinare «seguito di azioni».
Ora a me pare, in tutta sincerità, che Marco davvero guardi la vicenda De Luca fuori dal contesto reale d’oggi e dai rapporti politici esistenti (e non solo della Val di Susa, come gli ha rimproverato Mayoor); e trascuri la diffusa difficoltà di stare con quella lotta ( ma anche con altre più carsiche e di cui poco si sa); e non solo da parte degli “intellettuali” ma di tutti (noi compresi). A me pare soprattutto che trascuri la distanza reale che ci separa da esse. E mi dico (sorvolando sul personaggio pubblico De Luca, che anche a me non entusiasma ma a favore del quale comunque firmai tempo fa un appello): se la distanza c’è per noi, perché non dovrebbe esserc anche per Erri De Luca ed egli non dovrebbe tenerne conto e evitare di fare l’eroe o il martire?
Non è un caso, dunque, che Marco non spenda parole sulla lotta NO Tav, sul suo stato, sulle sue prospettive; e concentri esclusivamente il suo acume critico sullo scrittore, dando l’impressione ( almeno a me) di fargli eccessivamente le pulci giudicandolo a partire da un modello ideale di intellettuale “impegnato”, “organico” in un certo qual senso “eroico”.
Che non esiste più e, credo, non può più essere incarnato neppure da Erri De Luca (ammesso che lo voglia). E’ sulla possibilità che tale figura di intellettuale ci sia o possa tornare che bisognerebbe discutere. Ad es. riferendosi anche ad altri personaggi, secondo me ambiguamente e perfino burocraticamente “alla Pasolini”, tipo Saviano. Altrimenti ci alimentiamo di pettegolezzi su di loro.
Una posizione, che a me pare in netta rottura con l’”idealismo” di Marco, l’ho trovata su “La letteratura e noi” di Luperini (la riporto sotto …). Luperini critica proprio questa fiducia eccessiva nella parola degli scrittori: « Questa esaltazione della parola degli scrittori e del suo privilegio non mi appartiene, e, fra l’altro, mi pare molto anacronistica». E più avanti dice: « Trovo insopportabile che si scriva «La parola è libera – e quindi potente – oppure non è» oppure «Riconosco il peso terribile della parola che soltanto ha il potere di farci liberi». Certo non si riferisce agli scritti di De Luca ma all’appello compilato da altri a suo favore. Eppure la questione di fondo è questa: «davvero la parola letteraria ha tale potenza?». E valide mi paiono le altre affermazioni di Luperini che implicitamente possono riferirsi anche a quanto scritto da Marco : «Perché la libertà dovrebbe coincidere con la parola? E quelli che non sanno scrivere non hanno diritto alla libertà e non possono impegnarsi a favore della libertà?» ecc….
Discutiamone.
P.s.
1. Spero di non avere indotto Mayoor all’autocensura facendo presente che autore di questo scritto è Marco, redattore di Poliscritture.
2. @ Paraboschi. Insomma, sì alle poesie e semipoesie di De Luca, sì al De Luca biblista ma tutto quello che ha a che fare con una tradizione più o meno comunista (Gramsci, ’68) no? Cosa infastidisce ancora di quel tratto di storia? La nostalgia del ’68 o l’attenzione di De Luca alla protesta sociale in Val di Susa sul cui significato gli altri – intellettuali o meno – restano indifferenti? Meglio l’indifferenza?
Quanto alla magistratura qui si contesta l’imputazione specifica. Lascerei perdere i magistrati di destra o di sinistra…
3. Intervento di R. Luperini dal blog «La letteratura e noi»:
. Perché non ho firmato l’appello di Catozzella per De Luca
Scritto da Romano Luperini 23 Settembre 2015. Categoria: L’interpretazione e noi
Lo scrittore Giuseppe Catozzella fa girare un appello in difesa di un altro scrittore, Erri De Luca, che rischia una condanna a otto mesi di carcere perché ha invitato al sabotaggio della TAV. Vorrei spiegare perché non ho firmato questo appello anche se mi auguro che De Luca venga assolto, sono a favore della libertà di pensiero e mi sento solidale con chi lotta contro la TAV.
Trovo intollerabile la retorica. Anche quella di Catozzella. Trovo insopportabile che si scriva «La parola è libera – e quindi potente – oppure non è», oppure «Riconosco il peso terribile della parola che soltanto ha il potere di farci liberi», oppure «Quando uno scrittore nomina l’abisso – ovvero fa il suo lavoro – viene isolato dai più. Ci vogliono spalle forti per reggere il peso tremendo della libertà». Mica è solo questione di forma, di troppi e troppo roboanti aggettivi; è questione di pensiero, cioè di sostanza. Questa esaltazione della parola degli scrittori e del suo privilegio non mi appartiene, e, fra l’altro, mi pare molto anacronistica. Perché la libertà dovrebbe coincidere con la parola? E quelli che non sanno scrivere non hanno diritto alla libertà e non possono impegnarsi a favore della libertà? «Soltanto» la parola degli scrittori «ha il potere di renderci liberi». Soltanto? E gli atti, le azioni, il lavoro, l’impegno degli uomini comuni che non fanno gli scrittori? E scrivere, poi, significa nominare l’abisso? Dire che bisogna sabotare la TAV è nominare l’abisso? Scrivere, come Céline o Pound, che i nazisti o i fascisti hanno ragione è nominare l’abisso?
Gli scrittori non sono creature privilegiate. In uno stato democratico sono sottoposti alla legge come tutti gli altri. Spero che De Luca venga assolto e si riconosca così a tutti i cittadini la stessa libertà di pensiero.
Mi auto censuro solo per amore. Però, siccome ci sono passato, ricordo bene di quando mi trovai sotto processo nel 1978 ( istigazione alla disobbedienza), ed ero praticamente solo. A quel punto una mediazione giuridica si rese necessaria. Non so se rendo l’idea.
… per completare: voglio pensare che Erri De Luca abbia valutato le circostanze. Ti puoi sacrificare se servisse a qualcosa, se hai il chiaro sostegno di gran parte della popolazione (o dell’opinione pubblica). Ma forse l’obiettivo, se c’era, per questi tempi era raggiunto. Bravo Erri De Luca!
La figura da azzerare è quella dell’intellettuale che incarna nelle sue parole o scritti le mute o inarticolate istanze rivoltose. Quella figura non può rappresentare più nulla, non ha questo potere né risponde a vecchi bisogni.
Tuttavia non si può azzerare il senso che emerge dal fatto che una intervista e un libretto successivo hanno provocato una condanna, dal fatto cioè che “dire” nei luoghi mediatici pubblici -libri, giornali- non è “dialogare” in privato, sia pure questo privato i luoghi delle assemblee.
Non occorre una figura organica per urtare la cappa di nebbia o di piombo che deve continuare a dissimulare i fatti, basta che il netto confine tra il privato e il pubblico si attraversi e confonda.
Però la condanna compie lo stesso misfatto: attraversa il lavoro privato dello scrittore De Luca, e rende pubblica la lotta delle popolazioni della val di Susa!
Il reazionario, si diceva, solleva una pietra solo per farsela cadere sui piedi.
…penso che a tutti i cittadini si debba riconoscere la stessa libertà di pensiero, di parola, orale e scritta, di azione, nel rispetto di se stessi( comunità in cui si vive compresa) e degli altri…se mai lo scrittore, con qualche strumento verbale in più, può gratuitamente assumere il ruolo di avvocato difensore di una causa, come questa NO TAV, raccogliendone le istanze e le ragioni, sostenendo e incoraggiando le opportune azioni, cercando di riattivare un dibattito interrotto, senza però poi avere un trattamento privilegiato rispetto a chi in prima persona si espone, anche solo con la propria presenza. Così spero che Erri De Luca venga assolto, insieme agli altri
…e si concentri l’attenzione sul valore della causa stessa
@Ennio :
un breve risposta per paragrafi riassuntivi :
De Luca scrittore :
l’ho ascoltato in una conferenza, e l’ho trovato abbastanza ” suggestivo “, direi buono per affascinare una certa platea c.d. progressista.
In me aveva suscitato qualche dubbio, ma ciò dipende della mia allergia per i ” tuttologi ” ed ai ” teologi extraparlamentari “che insegnano ai preti come interpretare le Scritture “, sempre appoggiati dalla TV progressista.
De Luca sessantottino :
ho sempre letto che egli non ha mai rinnegato la sua appartenenza a qualche movimento di allora, che aveva rivendicazioni insurrezionali e di lotta armata, e sul cui nome non mi pronuncio perché temo di fare confusione tra le varie sigle di allora che, a mio parere, non hanno seminato altro che guai e lutti e disastri in questo paese.
Questo è anche il mio parere sul 68, pur non avendovi partecipato perchè ero troppo vecchio allora, e troppo giovane per avere fatto la Resistenza, ma di riflesso li ho vissuti entrambi per poterli giudicare prendendone le distanze.
Un sacco di cretini scansafatiche di quel tempo, che vedevo lottare per il 6 politico, poi, una volta adulti, sono finiti a lavorare in Regione.
De Luca e TAV :
penso sulla TAV si sono buttati in tanti, solo per guadagnare visibilità e di certo per ricavare qualche profitto economico.
Credo che il problema,- a parlarne oggi come oggi- , sia quanto meno ” velleitario e inutile “.
Le leggi le fanno i vari parlamenti, e noi possiamo contestarle fin quando si può ,ma non si ha il diritto di ricorrere alla violenza per modificarle, altrimenti si può continuare a ” sperare nella rivoluzione “, mentre il cosi detto nemico continua a fare ciò che il profitto gli suggerisce e le legislazioni gli permettono.
E per modificare le leggi non conosco altra via- da socialista di un tempo-, che quella del parlamento.
Ma noi, non dimentichiamolo : entrando in Europa siamo entrati in una prigione dalla quale non possiamo più fuggire ( e non mi aggrego con questo ai fan di Salvini).
Era allora, al momento delle decisioni di entrare in Europa, che bisognava opporsi ma il discorso è lungo e io non lo so fare e mi manca anche la voglia.
De Luca e gli intellettuali firmatari dai vari manifesti per la pace e altri argomenti :
A distanza di secoli ormai da quando nacquero i ” partigiani per la pace ” credo di poter dire che le firme sui manifesti non sono mai servite e nulla se non a fare il gioco di coloro che tiravano i fili per la guerra .
Faccio un nome : Moravia credo abbia firmato tutto quanto gli sottoponevano purchè fosse anticlericale e antiamericano, ricordi ?
E’ che quasi tutti i c.d. intellettuali firmatari ( ne dico uno per tutti: Picasso ) se ne sono sempre disinteressati della pace. A loro è bastato vendere i quadri o i loro libri e scoparsi un sacco di donne con la scusa di essere intellettuali progressisti
De Luca e la libertà di parola :
E’ una grossissima coglioneria incriminarlo per quel reato, non lo fanno neppure in Turchia, credo, quindi penso che la magistratura ( e scusami se ci ritorno sopra, perchè è lì il nodo cruciale del nostro paese, e non sono Berlusconiano, chiarisco ) dovrebbe astenersi dal creare martiri.
Ecco perchè prima citavo Gramsci, lui è stato un vero martire ( che è servito per anni al vecchio Togliatti ed al PCI a fare la loro politica) e magari altri di allora finiti a Ventotene all’epoca.
Mi scuso per le banalità che ho detto, ma mi avevi sollecitato e ti ho esposto il mio parere, e ti prometto che non replicherò più.
Scusami ancora a grazie per il tuo tempo.
D’accordo su quasi tutto, con Paraboschi, anche sul fatto che le battaglie si facciano in Parlamento. Purché si facciano per davvero.
Altre faranno fuori, sul campo. Anche qui, se non si è troppo permalosi.
Vorrei tenere aperta una prospettiva, come dire, più esterna, generale, sulla vicenda TAV e De Luca.
Non voglio giudicare De Luca, né per la sua storia personale, né per il suo ruolo di intellettuale nazionale piuttosto che teologico-extraparlamentare. Vorrei poter “contemplare” la vicenda da lontano, da non partecipante alle rivolte in val di Susa, da non tifosa della libertà di denuncia, né da critica delle velleità di sobillazione.
Che è successo?
Che un movimento di lunga durata di una popolazione di una zona periferica del paese che si oppone a lavori distruttivi dell’equilibrio vitale del loro ambiente è tornato alla ribalta nazionale per una serie di casi fortuiti: un’intervista, una iniziativa della magistratura, una serie di articoli, un libretto.
Su questa catena di atti si sono condensati posizionamenti che risalgono a precedenti prese di posizione confermate o corrette o rinnegate negli ultimi 40 anni.
Ma oggi, oggi cosa ci dice l’accaduto? Due cose:
1. che un intervento di parola e poi di scrittura registrato dal teatro pubblico mediatico, uguale per contenuti e per valutazioni ad altri interventi compiuti però in occasioni private cioè non arrivate alla ribalta mediatica, ha suscitato una reazione di sanzionamento giudiziario;
2. che la questione, svoltasi sul teatro pubblico, ha riportato alla attenzione le ragioni del conflitto in val di Susa.
Viva!
E non credo che questo fosse il fine che quei magistrati avevano inteso raggiungere.
Se arrivare alla ribalta mediatica fosse oggi il massimo e l’unico vero obbiettivo!….
No, è un caso. Ma siccome è accaduto, ne discendono alcune conseguenze, la condanna, le polemiche, il riaffiorare dei no tav. Come ho scritto, io guardo.
Ma anche per questo trovo che le polemiche su De Luca pro o contro sono… qualcos’altro, è di altro che discutono, come tu stesso hai chiarito alle 11.25 in risposta a Gaetani.
Invece mi fa piacere che la condanna abbia ridato un po’ di attenzione ai no tav… la storia del masso alzato che ricade sui piedi.
SEGNALAZIONE
La grammatica del dominio e la parola sabotaggio
di Girolamo De Michele
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/5892-girolamo-de-michele-la-grammatica-del-dominio-e-la-parola-sabotaggio.html
Stralcio:
Dopo l’intervista [di Erri De Luca] si sono prodotti episodi… e prima? Post hoc, propter hoc: dopo l’invenzione del fazzoletto, si è cominciato a soffiarsi il naso con esso – prima, non ce lo si soffiava?
Nella primavera 2013 si sono tenute a Bussoleno due grandi e pubbliche assemblee popolari – i cui video, pubblicati dagli stessi No Tav, possono essere consultati qui e qui –, nel corso delle quali la parola “sabotaggio” è stata pronunciata, declinata e interpretata con molta precisione, esplicitando i riferimenti a Gandhi, Nelson Mandela e Aldo Capitini: «il sabotaggio è assalto al funzionamento di un servizio, di un’industria, di un’impresa pubblica o privata, con danno o distruzione, e quindi oltre il limite della legalità. È essa una tecnica della non violenza? È stato risposto che essa lo è solo quando non vi è nessun rischio per l’esistenza di esseri viventi, particolarmente umani. È una delle misure di carattere estremo, quando il danno che viene apportato è superato dal danno che il funzionamento di quel servizio apporta». All’indomani di quelle assemblee fu attuata un’iniziativa di protesta consistente in alcune scritte fatte con le bombolette spray: un’iniziativa che «dà immediatamente seguito al dibattito sul sabotaggio del cantiere e delle ditte coinvolte in questa devastazione. Sabotare e boicottare queste ditte è giusto ed è legittimo», si legge nel comunicato emesso dal campeggio No Tav di Venaus. La parola “sabotaggio”, e anche la sua declinazione, era già presente nelle prese di parola della comunità di Bussoleno: non c’era bisogno di andarla a leggere sull’”Huffington Post” tre mesi dopo.
Chi voglia recarsi a Bussoleno, anche senza frequentare la bottega del barbiere, provi a entrare dal tabaccaio piuttosto che prendere un caffè al bar: e si sentirà osservato, non dallo sguardo fascistoide e truffaldino del solito padre Pio, come accade in mezza Italia, ma da quello di partigiani e partigiane armate, le cui foto decorano e abbelliscono gli ambienti: quella di Bussoleno e della Valle non è certo gente che ha bisogno di farsi dire da altri cos’è giusto fare, e cosa no. E quali relazioni si istituiscono fra la coscienza dell’ingiustizia, e i comportamenti conseguenti.
Ad esempio: cancellare con una spianata di cemento il più antico cimitero merovingio delle Alpi Occidentali, perché alle truppe d’occupazione faceva comodo un parcheggio per i blindati, non è sabotaggio al patrimonio culturale? Ad esempio: portare e abbandonare nei boschi i rocchi di filo spinato dalle farfallette d’acciaio affilate come rasoi usato per la recinzione degli accampamenti dei gendarmi, rendendo i boschi a rischio per i bambini e facendo strage della fauna, o radere al suolo un castagneto di 300 anni davanti all’insediamento delle truppe d’occupazione non è sabotaggio dell’ambiente? Non sono, questi comportamenti, istigazione a una reazione uguale e contraria in difesa del territorio e dei suoi beni?
«Ormai da qualche tempo si ha la sensazione di una complessiva forzatura dell’azione penale quando si leggono le imputazioni ascritte ad alcuni intellettuali o che l’autorità giudiziaria torinese formula nei confronti di giovani e meno giovani protagonisti delle lotte contro la costruzione della linea ferroviaria. Quasi che l’autorità giudiziaria torinese si considerasse investita non solo e non tanto del compito di reprimere i fatti penalmente illeciti, ma anche, immediatamente, della tutela dell’ordine pubblico, così contribuendo, a fianco di tutta una serie di poteri forti interessati alla realizzazione dell’opera, a che i lavori si svolgano rapidamente» – così ancora l’ex procuratore Palombarini. Le parole, le cose e gli enunciati della pubblica accusa al processo De Luca non fanno che rafforzare questo ponderato giudizio sul divenire-gendarme della procura torinese, e aggiungere ombra su ombra al ruolo che gli operatori degli apparati giudiziari si arrogano.
Così come aggiunge ombra su ombra la pavidità di buona parte del ceto intellettuale italiano, incerto fra l’ignavia e una pelosissima solidarietà cui si premettono giudizi negativi su De Luca scrittore dannunziano o sessantottino o quant’altro: meglio occuparsi di altro, o lasciarsi aperta la porta di una mezza ritrattazione attraverso la figura retorica che “ma anche no”, per quei moderatori della propria moderazione che hanno il problema di avere meno piedi della quantità di scarpe che sarebbe d’uopo calzare per non mancare ad alcuno dei salotti letterari che contano. Del resto, quando nel 2013 per la prima volta a Bussoleno fu organizzata un’iniziativa di scrittori in sostegno della Valle – Una montagna di libri –, risuonò forte e chiaro il monito dell’allora premier Monti, per il quale «silenzio del fronte intellettuale favorevole alle grandi opere si può capire visto che la questione crea un forte imbarazzo nella sinistra, come si può anche vedere da chi ci mette la faccia e da chi invece sceglie altre strade o la via dell’ambiguità». Il silenzio attuale spiega quello pregresso: l’ammuina davanti a questioni di poco rilievo come il diritto alla presa di parola contraria e il dovere della militanza intellettuale in direzione ostinata e contraria; ma anche, l’impegno forte e chiaro, senza e e senza ma, nelle discussioni sulla vera identità di Elena Ferrante, sul premio Strega bene comune e sul perché anche quest’anno porcazzozza il Nobel per la letteratura è andato alla persona sbagliata.
E’ così, il teatro pubblico va riempito da figurine di carta, nei teatri locali agiscono le persone vere, ma guai a chi attraversa il confine!
apprendo ora che il tribunale lo ha assolto perché il fatto non sussiste, e lui se n’è uscito dall’aula leggendo il suo proclama libertario ( ci mancava il braccio alzato con il pugno chiuso ) e il martire è stato glorificato dalle folle in attesa-
Meno male che c’era un giudice a Berlino.
Non comprerò mai più un suo libro.
Meglio leggere Alberto Volo
@ Paraboschi
Troppa acida ironia, Luigi!
Non vedo che c’entri il valore dei libri di Erri De Luca con *questo* processo.
E comunque la sua dichiarazione (qui sotto il link) non mi pare affatto quella di un “martire”.
https://www.facebook.com/roberto.fico.5/videos/1233699019989295/
VAL DI SUSA E DINTORNI.
1.
Quello che mi ha sorpreso nel dibattito sulle dichiarazioni di Erri De Luca a proposito della vicenda Val di Susa e Tav è la totale rimozione ( che forse Freud spregiudicatamente saprebbe spiegare ) dei “ fatti “ ad essa relativi. La sorpresa mi ha indotto, in un certo senso, al silenzio e, più in generale, al dubbio se il tipo di interventi che ho letto sia utile a qualcosa.
Così più o meno tutti si sono rifugiati in terreni diversi e impertinenti: Erri De Luca come persone e scrittore, la responsabilità degli “ intellettuali “ per l’uso delle parole e via dicendo.
Sono saltati fuori eroi e vittime dei regimi totalitari, il ’68, il voto politico, le brigate multicolori etc. Insomma si è data la stura ad una serie di “ opinioni “ e “ valutazioni “ su problemi astratti che non sono “ lo specifico problema dell’Alta Velocità in Val di Susa “ Un trionfo dell’ideologia, insomma.
2.
In anni passati – diciamo dal 1977 in poi e per molti anni – sono stato un “ viaggiatore assiduo e curioso “ della Val di Susa, una valle che si incunea tra i monti non altissimi delle Alpi Cozie e che, partendo da Torino, porta a luoghi di indubbio fascino sciistico e non solo ( Bardonecchia e valico ferroviario del Frejus ), Sauze d’Oulx ( una delle prime stazioni sciistiche d’Italia ), Cesana Torinese, Claviere e il Monginevro ( uno dei possibili passaggi degli elefanti di Annibale ).
Ci sono – in questa valle –anche memorie storiche ed artistiche: Chiusa San Michele ( luogo fortificato longobardo ), Il Forte di Exiles, Susa con i suoi resti di tarda età romana, l’antichissima Abazia di Novalesa ai piedi del Moncenisio, altro luogo che rivendica la presenza di Annibale.
Dal 1977 e per molti anni per raggiungere tali località – oltre alla ferrovia che all’epoca vantava dei treni ragionevolmente veloci e comodi., da integrare poi con corriere )- si poteva usare l’auto, come facevo. Bisognava arrivare a Torino e, olim, attraversare un pezzo di città; quindi imboccare una statale che via via si faceva sempre più tortuosa. D’inverno il più delle volte occorreva montare catene o gomme da neve. I disagi non erano di poco conto. Da un certo anno in poi si cominciò a costruire un’autostrada che –tratto dopo tratto ( i lavori durarono molti anni ) – consentì il passaggio immediato dall’Autostrada Milano- Torino
( senza attraversare tale città ) nell’Autostrada della Val di Susa. Essa finì per terminare a Bardonecchia e al Frejus e consentì accessi rapidi e sicuri alle altre località che ho nominato, compreso il Monginevro, porta per il Delfinato francese ed altre splendide località di tale Stato. Molti paesi , attraversati, prima dalla Statale, furono “ baipassati “ ed estromessi dal percorso; le montagne furono forate da numerose lunghe gallerie autostradali; tra rilievi e rilievi furono costruiti viadotti in cemento armato di non gradevole aspetto; si lavorò sul greto della Dora Riparia e insomma furono compiute tutte le opere tecnicamente
“ necessarie “ allo scopo, raggiunto dopo diversi anni. Tutto ciò avvenne nel silenzio totale delle popolazioni locali. Non si parlò di amianto ( le montagne bucate dall’Autostrada interessate al progetto No Tav ); non vi furono cantiere assaltati o minacciati di assalto; non vi furono Erri De Luca e incriminazioni per una libertà di parola conculcata. Ma allora come oggi i problemi reali – a parte la natura dei trafori e degli scavi – sono gli stessi. Sono il primo a riconoscere che la sensibilità verso i problemi ecologici è mutata ma- appunto – si tratta di un problema di ecologia che ESIGE la posizione di alcune domande.
3.
Se si parte dalla premessa che nel “ governo della cosa pubblica “ entra anche la programmazione di opere infrastrutturali tali da permettere una miglior utilizzazione delle risorse di un paese ai fini del “ benessere generale “ la domanda preliminare è: La No Tav serve a tale scopo? Che poi significa, con buona pace dell’ideologia sulla libertà di parola e sui martiri: analizzare i benefici previsti; compararli con i sacrifici prevedibili; considerare, in questi i pericoli di svegliare falde inquinanti ( l’amianto silente non è dannoso ); definire il danni alle culture e al generale stato dei luoghi ( le gallerie ferroviarie deturpano il paesaggio più o meno dei viadotti ? ); monitorare l’impatto sui sistemi di vita delle comunità interessate e non dei singoli individui allergici “ per principio “ al nuovo.
Non ho risposte a tali interrogativi. E non sono contrario alla protesta Ma credo che se si deve parlare di No Tav in modo serio occorre prendere, come si dice, il toro per le corna. Chi è “ pro guerra “; chi è “ pro amianto”; chi è “ pro distruzione dei campi “; chi è “ pro censura “ ? Alzi la mano e mi vedrà pronto a picchiarlo. Buona domenica. Giorgio Mannacio.
““ la domanda preliminare è: La No Tav serve a tale scopo? Che poi significa, con buona pace dell’ideologia sulla libertà di parola e sui martiri: analizzare i benefici previsti; compararli con i sacrifici prevedibili; considerare, in questi i pericoli di svegliare falde inquinanti ( l’amianto silente non è dannoso ); definire il danni alle culture e al generale stato dei luoghi ( le gallerie ferroviarie deturpano il paesaggio più o meno dei viadotti ? ); monitorare l’impatto sui sistemi di vita delle comunità interessate e non dei singoli individui allergici “ per principio “ al nuovo.
Non ho risposte a tali interrogativi. E non sono contrario alla protesta Ma credo che se si deve parlare di No Tav in modo serio occorre prendere, come si dice, il toro per le corna. ” (Mannacio)
Ma anche se uscissimo dalle paludi ideologiche ( ammesso che ci siamo entrati in questa discussione), la questione non mi pare più facile da risolvere. Riconosco di non avere seguito la vicenda nei dettagli, ma una cosa mi è parsa chiara: anche se placassimo le nostre passioni (ideologiche o meno) e ci affidassimo agli esperti (fisici, geologi, ecc) abbiamo due punti di vista comunque contrapposti. Come del resto su altre questioni complicate e spinose ( effetto serra, buco dell’ozono, nucleare, ecc.).
Insomma l’ideologia, buttata fuori dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Quanti secoli ci sono voluto perché diventasse opinione diffusa la verità scientifica di Galileo? E pensa che ci sono alcuni che addirittura vogliono rivalutare Tolomeo…
La scienza del resto non ha sempre una parola unica e risolutiva. Quindi… non è che siamo tutti sciocchi, superstiziosi e in preda ai fumi dell’ideologia.
Giorgio Mannacio
1.
Le mie osservazioni non hanno avuto la pretesa di semplificare, semmai di complicare il problema e dunque i rilievi di Ennio non mi riguardano. Se un problema è complesso – come quello della Val di Susa – deve essere esaminato come tale. Capisco che se non lo si vuole affrontare, la semplificazione rende più facile la vita.
2.
Galileo mi dà una mano. E’ la sua ricerca sperimentale ( dunque una discesa nella complessità ) ad aver reso possibile la denuncia del sistema tolemaico.
3.
Non mi nascondo la domanda -per me capitale – se la Tav sia un ” bene ” o un
” male “,anzi di tale dilemma ho fatto l’incipit delle mie osservazioni. Per stabilire – ai soli fini di una discussione serena e approfondita – se la denuncia contro la Tav sia giusta o sbagliata ( a prescindere dalla libertà di parola, indiscutibile ) non si può fare a meno del dilemma da me posto, dilemma che coinvolge principi fondamentali ( cos’ è il bene collettivo, come lo si misura etc ). Elementare , Whatson ! Che tutti i santi ci aiutino in questa ricerca. Buona domenica. Giorgio M.
I santi finora non ci hanno aiutato e suppongo che mai ci aiuteranno. Porre il dilemma: d’accordo. Ma chi lo risolve? E in attesa del Galileo di turno che dica una verità (provvisoria ma decisiva), non sarebbe bene far capire se, sulla base delle nostre scarse informazioni, propendiamo per i Tavisti o i Nontavisti? Mi si dirà che è meglio attendere. Forse. Mi si dirà che non conta nulla, nella pseudodemocorazia d’oggi, dire da che parte si sta. O che non valga la pena rischiare di stare “dalla parte del torto”. Ma io fino a prova contraria sto coi No Tav. Poi, quando arriverà il Galileo di turno, guarderò nel suo cannocchiale e, se mi convince che i No Tav fanno solo i loro interessi “particolari”, mi ricrederò.
I problemi si sono “complicati” quando qualcuno, una intera comunità, ha osato opporsi ad una sentenza decisa dai nostri governanti, che han considerato come strategiche le opere per la TAV . Ma come, fa notare Giorgio, per decenni han traforato con gallerie l’intera penisola e nessuno s’è mai opposto, perché ora sì? Perché d’un tratto qualcuno sceglie di opporsi invece di assistere passivamente come s’è sempre fatto? Gli abitanti di Val di Susa hanno obbligato lo stato ad una riflessione più approfondita. Per questa ragione, perché credo che i cittadini abbiano il diritto di dire la loro, e non solo votando, mi sento di sostenere la loro protesta.
Questo balletto NoTAV e proTAV va avanti a fasi alterne da circa dieci anni coinvolgendo governi di varia coloritura, e quello che doveva essere un principio di tutela del territorio si è trasformato in un principio di guerra con tutti i costi materiali, economici e morali del caso. Guerra giusta, of course. Il problema non è di poco conto, anche perché pare che i tavoli delle trattative non riescano a trovare una formula di compromesso e così, tra una ritirata e un attacco, si va avanti.
C’è più di qualche cosa a non essermi chiara! Quali partite in gioco?
Premetto che rispetto tutti coloro che stanno lottando per le loro idee, ma posso permettermi di immaginarmi un film fantapolitico, non certo per dissacrare ma per cercare di capire perché non si arriva mai al ‘dunque’?
Forse l’interesse primario non è più la TAV ma il brand che essa rappresenta (la Francia, per la sua parte, dà l’impressione di pensare ad altro o ad altre soluzioni). La ridente (?) Val di Susa diventa così il luogo fisico dove si può ancora andare a lottare contro il potere per il benessere dei cittadini, o per gli ideali. Un teatro che il Potere stesso permette in quanto minuscolo e poco fastidioso neo. Il Potere che è in tutt’altre faccende affaccendato e dove non vuole essere disturbato: allora, non più ‘panem et circenses’ bensì ‘panem e NoTAV’.
Se qualcuno mi può dare una qualche altra lettura, ben venga!
R.S.
Viene detto che è un’opera non necessaria, e una buonissima opportunità per i magna-magna, nostri e d’oltralpe. Fosse qualcosa di più, non sarebbe teatrino di scontri ma cosa fatta.
…nessuna altra lettura…ma la costanza e la continuità con cui la popolazione della valle si è sempre schierata contro la realizzazione dell’opera, anche con atti di boicottaggio e sabotaggio, affiancata e appoggiata da esperti in materia di salvaguardia ambientale, credo deponga a favore di NO-TAV… Sono prima di tutto gli abitanti a poter decidere delle sorti del loro territorio…Spesso rinunciamo ai nostri diritti, credo…per fortuna qui le voci contrarie si sono sentite. Pensavo anche alle oltre 800 grandi opere iniziate e mai terminate, come cattedrali nel deserto, oppure inutili ad opera completata…
Ancora dalla Val di Susa.
1
A Ennio, Mayor, Rita.
E’ evidente – ma è bene sottolinearlo – che i santi ( carattere minuscolo ) sono una metafora. Con tale termine intendevo riferirmi ad un modello di uomo saggio che, con le proprie esperienze e i propri studi, sa riflettere a fondo sui fatti umani indagando sulle origini, sulla struttura e sugli esiti degli stessi. Ma si vede che il detto popolare – scherza coi fanti e lascia stare i Santi – è ancora d’attualità. Scelta di campo – senza approfondire – è locuzione ambigua. Sia Galileo che i suoi giudici hanno fatto scelte di campo.
Non so descrivere con la necessaria precisione il sentimento che tali scelte mi procurano, ma non cedo – per catalogarli – alla tentazione di invocare esperienze personali, metodo quanto mai fallace. Ho scarse informazioni sulla Tav e vorrei saperne qualcosa di più. Mi chiedo se la mia astensione non equivalga alla posizioni di chi è contro TAV allorquando questa comporti il solo sacrificio di “ una parola in più “.
2.
A mio giudizio manca spesso nelle “ prese di posizione “ la considerazione di alcune premesse che sono fondamentali. La situazione sociale e politica del tempo presente è caratterizzata – dato indiscutibile – da una sempre più intensa emergenza di
“ esigenze individuali” e/o di “ minoranza “. Le cose stanno così e, sul piano valutativo, è giusto che stiano così. Si sono create dunque le premesse per conflitti sempre più frequenti ed intensi tra tali esigenze ed esigenze della collettività se si crede – altra premessa – che vi siano esigenze collettive la cui individuazione ( nel grado di importanza e nei mezzi per
soddisfarle ) competa all’organizzazione della collettività cioè allo Stato, la cui potenziale conflittualità con l’individuo non va dimenticata.
Vogliamo “ banalizzare “ queste notazioni astratte e costruire un ipotetico fatto significativo ? Basta andare in Sardegna e prendere un treno che ci porti da Cagliari ad Olbia. Il malcapitato che voglia – ad esempio – entrare nell’ospedale di Olbia attrezzato per un determinato intervento ,spenderà più di metà della sua giornata, se non ha ( non puo’ permetterselo, non sa guidare, è invalido etc ) un proprio mezzo di locomozione. Identico discorso vale per un lavoratore, uno studente.Si decide di sostituire il tratto ferroviario esistente ( ancora a scartamento ridotto nel 2015!, con locomotrici a combustione, carrozze al limite dell’inagibilità ) con una rete ferroviaria “ normale “. Immaginiamo che la costruzione di essa comporti il sacrificio di alcuni ( splendidi) sughereti proprietà di pochi soggetti. Che fare ? E si griderà: giù le mani dai sughereti, orgoglio della Sardegna…. La narrazione , con varianti sui nomi e sulle conseguenze ,può continuare….
Dunque hic sunt leones: quando ci troviamo di fronte ad un interesse collettivo che deve prevale su quello individuale o di “ minoranza “ ? O i leoni sono scomparsi ? Mio dio ( ancora minuscolo ) che non si possa, a volte, ragionare così ?Un cordiale saluto. Giorgio Mannacio.
P.S
I leoni reali stanno – ahimè – scomparendo e quelli metaforici – ancora ahimè – aumentando.,
Non sono così cieco da non vedere che si può anche contestare la necessità dello Stato e la sua “ tollerabilità “. Ma questa è “ un’altra storia “ con le proprie catene di premesse e conseguenze. Cordialmente . Giorgio.
VAL DI SUSA: COME DISCUTIAMO DI UN PEZZO DI REALTA’ CHE CI SFUGGE
Una cosa mi pare certa: tutti ammettiamo di non conoscere i termini concreti dello scontro TAV/NO TAV. Ergo: annaspiamo più o meno nell’incertezza o nell’ideologia. E direi che le nostre prese di posizione (esemplificandone alcune: la mia, «fino a prova contraria sto coi No Tav»; quella di Giorgio, «ci troviamo di fronte ad un interesse collettivo che deve prevale su quello individuale o di “ minoranza”?»; quella di Rita: « non più ‘panem et circenses’ bensì ‘panem e NoTAV’?») rivelino diverse difficoltà a collegarci alla realtà (di come stanno le cose in Val di Susa e di come sono i rapporti di forza politica a livello nazionale e europeo, se non oltre…). Nessuno di noi può decisamente e razionalmente appellarsi alla realtà e proclamare che quello che sente o vuole trova in essa sostegno e conferma.
La mia posizione apparirà perciò preconcetta, unilaterale o populista. Quella di Mannacio tende a sbilanciarsi verso una ragione di Stato, perché non è così certo che esso in questo caso (lasciamo stare gli altri o un’analisi generale dello Stato) incarni «un interesse collettivo» ma piuttosto di lobby interessate a guadagnare in proprio dalla costruzione della TAV. Quella di Rita insinua addirittura il dubbio di una simbolicità innocua delle forme di resistenza diffuse in Val di Susa o una sorta di tolleranza di uno Stato strapotente che le può utilizzare come “valvole di sfogo” per dare un contentino a “rivoluzionari” in erba o in pensione (come Erri De Luca). Quest’ultimo mi pare un ragionamento preoccupante, che tra l’altro si potrebbe estendere a tutte le forme attuali di resistenza, di riflessione o di sopravvivenza individuale o di gruppo, ivi comprese quelle che tentiamo qui sul Web o con la rivista).
Ora mi chiedo: se fossimo davvero intenzionati a mettere mano sulla realtà di quel problema sorto in Val di Susa e a non tenercene a distanza ( e qui però i motivi andrebbero esplicitati e valutati…), chi c’impedirebbe di informarci di più sulle ragioni dei pro TAV e dei No TAV, di fare un’inchiesta appena meno approssimativa sulla questione? E se avessimo valide ragioni per non poter avvicinarci di più a quella realtà (e ai suoi legami con quella più generale) e dovessimo continuare ad annaspare nell’incertezza o nella nebbia delle ideologie, quale delle posizioni qui espresse è meno soffocante o disperante?
Si può, cioè, *in assenza di presa sulla realtà, non riuscendo ad arrivarci (eureka!), avere un atteggiamento meno ideologico e più valido di quelli qui espressi?
Seleziono questi tre punti:
1) Gli abitanti di Val di Susa hanno obbligato lo stato ad una riflessione più approfondita. Per questa ragione, perché credo che i cittadini abbiano il diritto di dire la loro, e non solo votando, mi sento di sostenere la loro protesta. (Mayoor)
2) Sono prima di tutto gli abitanti a poter decidere delle sorti del loro territorio…(Annamaria)
3) La situazione sociale e politica del tempo presente è caratterizzata – dato indiscutibile – da una sempre più intensa emergenza di “ esigenze individuali” e/o di “ minoranza “. Le cose stanno così e, sul piano valutativo, è giusto che stiano così. Si sono create dunque le premesse per conflitti sempre più frequenti ed intensi tra tali esigenze ed esigenze della collettività se si crede – altra premessa – che vi siano esigenze collettive la cui individuazione ( nel grado di importanza e nei mezzi per soddisfarle ) competa all’organizzazione della collettività cioè allo Stato, la cui potenziale conflittualità con l’individuo non va dimenticata. (G. Mannacio)
Io penso che ci sia da fare un discorso più approfondito (e più politico) che riguarda proprio il concetto di ‘cittadino’ qui chiamato in causa. E sento, nello stesso tempo, già ruggire i ‘leones’ perché non è facile esporre un pensiero di minoranza quando la maggioranza è così agguerrita e salda nelle sue convinzioni.
G. Mannacio richiama, e a ben vedere, la conflittualità tra Stato e individuo, conflittualità che dovrebbe essere in qualche modo mitigata quando l’individuo si spoglia della sua individualità per diventare un cittadino, processo che viene favorito attraverso il voto, ovvero la scelta di chi rappresenterà nell’agone pubblico non solo il singolo e i suoi particolari interessi, bensì quelli della collettività nel suo complesso, valutando costi e benefici.
Ora, la mia impressione è che oggi questo processo si sia involuto tornando ad una condizione ‘primitiva’ in cui ‘gruppi territoriali’ avocano a sé le decisioni sulle sorti di fette di territorio delegittimando il potere centrale.
Potere centrale che, come rileva giustamente Annamaria citando le ‘cattedrali nel deserto’ (e anche certi disastri tremendi), non ha dato certo una buona immagine di sé. Ma nemmeno l’hanno data tutti quegli ostracismi – sto pensando a precisi fatti locali di mia esperienza – che si trinceravano dietro fantasmagoriche difese ambientali salvo recedere, dopo anni di immobilità dei lavori e costi decuplicati a causa di penali varie (oneri distribuiti poi sui cittadini), su punti che potevano benissimo essere sciolti prima. Cui prodest? viene da chiedersi.
In un Paese dove il Parlamento ormai non ha nulla di rappresentativo e il cosiddetto ‘potere del voto’ risulta essere soltanto espressione di un mercimonio gestito più mafiosamente che politicamente, viene percepita come logica conseguenza l’assunzione del principio “fai da te”.
Così sembra che non viviamo più fra “le genti del bel paese là dove ‘l sì suona” (Dante, Inf. XXXIII, vv. 79-80) ma, parafrasando, dove risuona il ‘no’, a prescindere.
L’ambiguità del ‘qui lo dico e qui lo nego’. La confusione.
E ciò è legato a (ed è un prodotto di) un clima pesante di persecutorietà e di sospetto – la continua caccia a ‘colpevoli’ da qualsiasi parte provengano. C’è sempre un nemico ‘esterno’ da combattere! – che sta aleggiando e impregna tutte le nostre esperienze quotidiane. Ed è facile, in un clima siffatto, andare alla ricerca dell’eroe che sconfiggerà il ‘mostro’! ‘Esterno’, naturalmente!
p.s.
Nel mentre stavo postando questo intervento leggo quello di Ennio e stralcio questo passo:
* Quella di Rita insinua addirittura il dubbio di una simbolicità innocua delle forme di resistenza diffuse in Val di Susa o una sorta di tolleranza di uno Stato strapotente che le può utilizzare come “valvole di sfogo” per dare un contentino a “rivoluzionari” in erba o in pensione (come Erri De Luca). Quest’ultimo mi pare un ragionamento preoccupante, che tra l’altro si potrebbe estendere a tutte le forme attuali di resistenza, di riflessione o di sopravvivenza individuale o di gruppo, ivi comprese quelle che tentiamo qui sul Web o con la rivista)*.
Beh, so di sfondare una porta aperta sostenendo che è meglio avere un dubbio che una certezza assoluta! E che avere delle preoccupazioni su un punto non significa ‘generalizzare’!
Non intendevo assolutamente investire *di ‘simbolicità innocua’ le forme di resistenza diffuse in Val di Susa*: non lo sono affatto, anzi, sono molto, molto ‘concrete’ e ‘viscerali’. Purtroppo! Fossero simboliche, vi verrebbe implicato il pensiero che è molto più complesso della relazione binaria “on-off, Si-No”. O con me o contro di me.
Non sono una ragazzina di primo pelo (anche se a volte mi piacerebbe esserlo per vedere le cose da punti di vista del tutto ‘altri’, e non solo antitetici): i miei picchetti a suo tempo li ho fatti così pure le contestazioni; le mie botte me lo sono prese e le discriminazioni rispetto al mondo dei benpensanti le ho patite. Non rinnego queste esperienze. Ma è quando ha incominciato a serpeggiare il motto del “ribellarsi è giusto”, per cui il progetto politico passava in secondo piano, non mi sono trovata più d’accordo. E’ come chiedersi, attualmente: ci sarà pure una differenza tra il No-Tav e il No-Dal Molin? Dal punto di vista politico, intendo.
E poi non puoi parlare di *TUTTE [maiuscolo mio] le forme attuali di resistenza, di riflessione [……….] ivi comprese quelle che teniamo qui sul Web o con la rivista*.
Perché questa indifferenziazione? Forse che anche Gianmario non portasse avanti, a modo suo, una forma di resistenza? Ma quali le ‘ricadute politiche’, se si può ancora parlare in questi termini?
E non è importante poter distinguere se si tratta solo di sopravvivenza e non anche (o soprattutto) di ricerca dove ci si confronta, magari a muso duro, ma per un obiettivo che va al di là del nostro singolo aver ragione o torto? Un pensiero politico, al fine? Perché è questo ciò che intendo valorizzare nel lavoro che viene portato avanti da Poliscritture.
R.S.
…sono d’accordo su tante cose che Rita dice: che ci sono resistenze e resistenze, che bisognerebbe dare più imporanza ad alcune battaglie, come No-Dal Mulin, una base NATO, che occorrerebbe valutare attentamente e distinguere gli interessi collettivi da quelli più particolari…tuttavia questa battaglia No-Tav mi è sembrata l’unica in Italia degli ultimi tempi ad avere assunto una colorazione ecologista e noi siamo indietro in questo campo: l’ecologia non è mai stata investita da noi di una importanza politica…e poi si vedono le conseguenze. Pinete, sughereti, fiumi, montagne sono alleati della salute e della sopravvivenza e vanno rispettati, spero di non essere considerata retorica; in questi giorni penso a Messina senz’acqua, una città che frana non solo per cause naturali…Spesso sono schierati interessi forti e contingenti, collettivi e particolari, ma al futuro bisognerebe anche pensare.. Con questo non voglio dire di conoscere a fondo i problemi della Val di Susa, ma almeno è una voce contro
E’ stata – a mio giudizio – una discussioine molto utile perchè ha messo in luce punti centrali del problema. Ed anche di più. Sì, stiamo entrando, se non ci siamo già, in uno stato di crisi che ha aspetti paradossali. Mentre da un lato la concentarzione dei poteri
( in ciò a mio giudizio consiste la globalizzazione ) esigerebbe una controrisposta adeguata delle ” minoranze ” dall’altro gli aspetti sempre più particolaristici e
” minoritari ” vengono agitati non in funzione di una una gestione ” più giusta ” delle cose comuni ma semplicemente per resistere ad istanze che più che collettive vanno definite universali ( per quanto tempo le migrazioni di massa saranno definibili come
” particolarità ” ? ) . Siamo davvero di fronte a sfide epocali. Un caro saluto. G.M
«Fare un discorso più approfondito (e più politico)»(Rita)?
Io ho posto una questione che mi pareva concreta: perché siamo poco informati su cosa sia in gioco in Val di Susa e perché non superiamo l’opacità (ideologica) della nostra opinione su quella vicenda?
E nei precedenti commenti a me pare che già si stavano confrontando tre differenti visioni politiche. Nel precedente commento le ho schematicamente così esemplificate: « la mia, «fino a prova contraria sto coi No Tav»; quella di Giorgio, «ci troviamo di fronte ad un interesse collettivo che deve prevale su quello individuale o di “ minoranza”?»; quella di Rita: « non più ‘panem et circenses’ bensì ‘panem e NoTAV’?»).
Parlando ora ancora più chiaramente e in modo persino tendenzioso (cioè dal mio punto di vista) direi che:
1. La mia spingerebbe verso un avvicinamento simpatetico (studio? inchiesta?) a quella vicenda.
2. Quella di Giorgio a diffidare di quella lotta perché particolaristica e minoritaria.
3. Quella di Rita, che ha articolato ancor più la sua posizione replicando alla mia nota, fa capire ( a me!) che: – lei ha molti dubbi su quella lotta; – perché quelle forme di resistenza sarebbero « molto, molto ‘concrete’ e ‘viscerali’» e basate sulla « relazione binaria “on-off, Si-No», che esclude « il pensiero che è molto più complesso della relazione binaria “on-off, Si-No”»; – invece di andare a prendere ancora botte in Val di Susa, dove serpeggerebbe « il [deleterio] motto del “ribellarsi è giusto”, per cui il progetto politico [passa] in secondo piano», sarebbe più valida *politicamente* la lotta No-Dal Molin (che – aggiungo io – non sarebbe basata « sulla « relazione binaria “on-off, Si-No»?); – ci sono varie forme di resistenza (da non mescolare o confondere insieme, come io avrei fatto) e che quelle di sopravvivenza ( quelle No TAV?) sarebbero meno valide di quelle « di ricerca dove ci si confronta, magari a muso duro, ma per un obiettivo che va al di là del nostro singolo aver ragione o torto».
Se questa mia sintesi tendenziosa (allo scopo di chiarire uno scambio di pareri finora a mio avviso alquanto generici) non è campata in aria, chiarire, come ho chiesto nel precedente commento, quale di questi tre punti di vista può portarci a «fare un discorso più approfondito (e più politico)» non vi pare indispensabile?
Il buon senso suggerirebbe che se gli abitanti di Val di Susa non vogliono che la TAV passi nelle loro montagne, quantomeno quelli del governo dovrebbero abbassarsi a chiedere spiegazioni per trovare una soluzione, fosse anche se solo tra quelle possibili, ma andrebbe fatto. Invece accade un putiferio che va a finire su tutti i giornali e nei talk show. Risultato: un mera contrapposizione tra sì e no TAV Davide e Golia). A mio modo di vedere questi sono metodi autoritari in stile moderno, vale a dire camuffati dal consenso creato dai media, con quel tanto di contrapposizione che basti a dargli ancor più ragione. Certo che se ci si mettono anche gli intellettuali… comunque fu questa la prima reazione del governo: chiudere gli abitanti di Val di Susa in un campo di concentramento. Da lì i disordini. Dunque si aprono almeno due questioni: la prima se è vero che abbiamo un governo autoritario, e viviamo in una società autiritaria. La seconda è: non sarà che il movimento No TAV ( movimento europeo, presente anche in altre nazioni, contro l’alta velocità) sia in qualche modo anti progressista, un po’ come accadde in passato… aiutatemi, quelli che sabotavano le macchine. Insomma, che i No Tav siano fuori tempo, in netto contrasto con lo sviluppo industriale e commerciale ecc. qualcosa di ideologicamente squinternato, destinato ad essere presto dimenticato; come curioso episodio di arretratezza culturale che si esaurì da lì a poco, quando arrivarono i primi marziani sulle astronavi Nina, Pinta e Santa Maria.
… quando arrivarono i primi marziani sulle astronavi Nina, Pinta e Santa Maria. E della Val di Susa non gliene importò più a nessuno… Tranne a Giorgio Mannacio, ovviamente, che senza la TAV tra i c. poté finalmente tornarci per le sue passeggiate in tranquillità.
Scherzo.
Quindi la domanda potrebbe essere questa: quale idea di progresso abbiamo? Sempre se ne abbiamo una, ovviamente.
Alla domanda chiarificatrice di Lucio ne aggiungerei un’altra ( così ci colleghiamo anche alla discussione strisciante sulla cosa – non si sa se marzianissima o passatista – del comunismo e persino al discorso sulla poesia di Gianmario Lucini): in questa eventuale idea di progresso i culturalmente “arretrati” (valsusini ma anche profughi e, forse, alcuni di noi pure) hanno un posticino o vanno decimati come gli indios?
Carissimi, mi sono autoallontanato dal Val di Susa per circostanze fortuiti e non ci vado più da moltissimi anni. Accetto volentieri lo scherzo di L.M.T. Al quale però obbietto che la sua domanda è troppo generica. Salvo il caso – da me stesso fatto – sulle scelte di civiltà per le quali la ” qualità ” dovrebbe essere predominante su altre considerazioni – la gestione per così dire ” ordinaria ” delle esigenze collettive è più ” terra a terra “. E per questo – paradossalmente – sottoposta a più minute considerazioni.
Non tiriamo in ballo il Progresso ad ogni scelta. Tanto Lui se la ride perchè sa che su di Lui non sappiamo niente. Un caro saluto. G.
Forse la domanda è anche collegata a Pasolini, tema di questi giorni*. Noi italiani sono ancora un popolo? E se lo siamo, siamo ancora quelli che s’entusiasmarono del Duce e di quanti si presentano ancora in questa veste? Oppure siamo disposti a cambiare registro, a diventare onesti e a decidere collettivamente prendendoci maggiori responsabilità per il bene comune. Ricordo che recentemente, quel genio di Angelino Alfano ( lo stesso che ha annullato i matrimoni gay), ha tentato di risollevare la questione del ponte sulle stretto di Messina, chissà se per ricavarne dei voti in epoca di carestia di consenso… mi chiedo dove stia l’arretratezza.
*Ho corretto. Ma forse anche ‘gironi’ andava bene. [E.A.]
…penso che se ti risvegli una mattina con l’acqua sino al collo e poi magari per un mese non ne esce dai rubinetti, un’idea te la fai, e precisa, del “progresso”…e se un giorno hai la casa e i figli e il giorno dopo ti risvegli sola-o sul marciapiede e segui la fiumana umana di uccelli migratori senza bussola, lo sai…
Rispondo, anche se con ritardo, perché non volevo che rimanesse inevasa l’osservazione di Ennio (04.11.2015, ore 23.27).
Ennio scrive: ****Quella di Rita, che ha articolato ancor più la sua posizione replicando alla mia nota, fa capire ( a me!) che: – lei ha molti dubbi su quella lotta; – perché quelle forme di resistenza sarebbero « molto, molto ‘concrete’ e ‘viscerali’» e basate sulla « relazione binaria “on-off, Si-No», che esclude « il pensiero che è molto più complesso della relazione binaria “on-off, Si-No”»; – invece di andare a prendere ancora botte in Val di Susa, dove serpeggerebbe « il [deleterio] motto del “ribellarsi è giusto”, per cui il progetto politico [passa] in secondo piano», sarebbe più valida *politicamente* la lotta No-Dal Molin (che – aggiungo io – non sarebbe basata « sulla « relazione binaria “on-off, Si-No»?); – ci sono varie forme di resistenza (da non mescolare o confondere insieme, come io avrei fatto) e che quelle di sopravvivenza ( quelle No TAV?) sarebbero meno valide di quelle « di ricerca dove ci si confronta, magari a muso duro, ma per un obiettivo che va al di là del nostro singolo aver ragione o torto».***
Avevo scritto l’intervento che segue circa una quindicina di giorni fa e poi non più postato a causa di indecisioni relative alla utilità o meno nell’inseguire le ‘precisazioni’, i chiarimenti degli intendimenti, ecc. anche se riconducibili, grosso modo e sinteticamente, alla dialettica tra fatto-contingente e fatto-politico. E, non ultimo, un pensiero sui rapporti di potere. (*)
Oggi, dopo i fatti di Parigi al Ba-ta-clan, c’è una ‘nuova’ emergenza a fronte della quale si anima il giusto nostro sdegno e, a seguito di esso, si sventaglia tutta una miriade di reazioni emotive che rende davvero difficile ciò che pur Ennio richiama, citando Fortini, e cioè “uscire di pianto in ragione”.
E mi è sembrato che nel mio intervento ci fosse una qualche pertinenza anche con l’attualità e così ecco il testo in cui rispondevo senza alcun intento tendenzioso nei confronti di Ennio (anche perché lui certi concetti li mastica bene e molto meglio di me).
Avere dei dubbi sulla validità rivoluzionaria (o trasformativa) di certe lotte che coinvolgono il potere non può essere oggetto di anatema.
Li ho avuti (i dubbi) per le lotte arcobaleno (di esse sono rimaste oggi solo sbiadite bandiere); per le primavere arabe (**) e li ho tutt’ora in merito al conflitto palestinese-israeliano (***).
Questo non significa né predicare l’immobilismo e limitarsi a stare a guardare (perché continuo nella ricerca di sfrondare i miei dubbi e le mie perplessità), e nemmeno impedire agli altri di portare avanti ciò che a loro sembra più opportuno. Ciò che rivendico è la possibilità di dire la mia senza alcun intento apodittico – anche se può essere che la mia forma espressiva possa apparire tale – e non accetto di dover essere ‘reclutata’ per il ‘sì’ o per il ‘no’.
Potrei mettere temporaneamente tra parentesi il mio pensiero soltanto in una situazione ‘rivoluzionaria’, nel senso che si poteva – utilizzo il tempo ‘passato’ – dare a questo termine, ovvero riguardante una lotta portata avanti da pochi per il beneficio (?) di molti e in un contesto che non segue soltanto i (pure giusti) moti di ribellione, ma che fa sì che questi possano essere raccolti da una ‘guida’ politica al fine di un progetto di cambiamento sufficientemente radicale. Mi si risponderà: mica bazzecole!
D’accordo! Ma nello stesso tempo mi chiedo: di ‘quale politica’ si può parlare visto che il concetto di ‘polis’ è naufragato miseramente?
E, alla domanda: “ma la situazione odierna non potrebbe essere foriera di una trasformazione?”, mi sento di rispondere con un’altra domanda “Su quali basi? Perché quelle attuali – caratterizzate dall’assenza di un pensiero critico rispetto ai processi storici intervenuti e una insufficienza (=scoordinamento) delle analisi sul presente – non mi convincono”.
Alla osservazione “ma a volte non è sufficiente un piccolo fuoco per incendiare la prateria?” (cito Mao a braccio), risponderei che incendiare è facile, costruire è difficile.
Quanto alla differenza tra No Tav e No Dal Molin non la leggo in termini di meglio o peggio, una più valida e l’altra meno: intrinsecamente lo sono tutte e due e proprio per il valore, la validità, che i soggetti che vi partecipano danno loro. Ne faccio una questione di prospettiva, qualche cosa che travalichi la mera contingenza.
La lotta No DalMolin trascende la mera difesa del territorio della zona nord di Vicenza, perchè esprime il rifiuto all’insediamento della 173 Brigata aviotrasportata statunitense, come Unità d’Azione pronta in poche ore a giocarsi nei vari scenari di guerra che potrebbero aprirsi, dal Medio Oriente all’Europa Orientale.
Trascende dal contesto locale per inserirsi in una problematica ‘internazionale’ in cui si palesano, qualora non fosse ancora chiaro, i rapporti di sudditanza del nostro paese alla politica statunitense (e quindi di non libertà di decidere del proprio territorio).
Mette maggiormente in moto dinamiche di potere al livello dei dominanti.
Ma non posso costringere gli altri a pensarla come me, anche se mi farebbe piacere sentire meno il peso dell’isolamento.
Nello stesso tempo, ritengo comunque importante che ognuno faccia la sua personale palingenesi, così come scrive G. Lucini: *“Nella nostra vita occorre trovare un luogo sempre accessibile, dove sia possibile una personale palingenesi, altrimenti si rischia di deformare ogni nesso, ogni significato, ogni contatto con la realtà.
Io l’ho trovato nelle mie montagne, a pochi passi da casa mia. Ognuno lo può trovare, dove decide di trovarlo. C’è sempre un bosco che ti attende da sempre – soltanto te, nessun altro”.*
Mi sento però un po’ perplessa rispetto alla considerazione di Marcella: * Credo che almeno da un certo punto in poi (è possibile che anche il confronto con te [Ennio] e con Poliscritture lo abbia stimolato) anche il marxismo sia stato considerato da Gianmario entro quel patrimonio culturale dell’umanità cui far ricorso per perseguire i propri scopi*. Ascrivere il marxismo sotto l’etichetta di ‘appartenere al patrimonio culturale dell’umanità’, rischia di sottovalutare la specificità di un pensiero che intendeva non (soltanto) interpretare il mondo bensì modificarlo.
Ma passiamo oltre.
Perché in altri post parliamo della importanza della funzione del ricordare e poi succede che la nostra ‘memoria’ diventi ‘selettiva’ adottando ciò che ci è più idiosincratico ricordare e/o dimenticare?
Prendiamo ad esempio l’esperienza della Resistenza.
Tra le tanti correnti all’interno di quel movimento, la spinta più significativa era sostenuta da un progetto politico che aveva il suo fulcro nel ‘pensiero comunista di derivazione marxista’. Ci si appoggiava sì alla lotta per la libertà contro l’oppressione, ma si voleva andare oltre, verso una trasformazione della società. Trasformazione che sembrava ‘possibile’, un processo oggettivo secondo la visione di Marx, un socialismo che si sarebbe (?) in seguito (?) sviluppato in comunismo (?).
E invece poi tutto si trasformò in ben altro, per ragioni intrinsecamente ovvie (necessità di uscire dalla crudezza della guerra) e, per altra buona parte, per motivi politico-strategici tutt’ora da chiarire e da studiare. Diventò pian piano un movimento concreto e viscerale di liberazione dall’oppressore, perdendosi, o annacquandosi per strada, ogni idea che avesse a che fare con una Resistenza potenzialmente traghettatrice verso un profondo cambiamento storico. Dalla spinta alla trasformazione si passò al trasformismo e, cambiando il quadro di riferimento (la Resistenza equivaleva ormai alla lotta all’oppressione nazifascista), non fu nemmeno possibile esercitare una analisi critico/politica sul ‘se’ (e in che modo) le premesse di combattere per una trasformazione radicale della società fossero davvero praticabili, oppure no, a partire da quello specifico contesto. E con ogni probabilità mancavano davvero i prerequisiti. Ma era difficile pensarci, trascinati per anni in quell’equivoco di tenere alti i valori della Resistenza identificati esclusivamente come ‘lotta al fascismo’, e mettervi mano equivaleva a oltraggiare le ‘sacre radici’ della nostra libertà sancita dalla Costituzione.
Poi abbiamo visto come è andata a finire: in un crescendo drammatico, abbiamo assistito ai tradimenti della Costituzione, alla dissoluzione del rapporto che gli elettori instaurano con i loro rappresentanti al potere, ecc. ecc.
E nessuno che ha mosso dito! Tranne i soliti mugugni diventati ormai lo sport nazionale.
(*) A proposito di potere, mi era venuta in mente una canzone di Ivan Della Mea, del 1966, “Io so che un giorno”. Parlava di ‘manicomio’, di ‘matti’ che credevano che ancora potesse esserci la libertà (“la libertà più non esiste”).
I versi conclusivi sono questi: “Viva la vita/pagata a rate/con la Seicento/la lavatrice/viva il sistema/che rende uguale e fa felice/ chi ha il potere/ e chi invece non ce l’ha”. Era il 1966 con il ’68 ancora da venire!
Annamaria parla di ecologismo e ben venga. Ma anche il ‘sistema’ parla di ecologismo, solo che a modo suo – e per gli usi che gli sono propri – e lo permette anche fintanto che tutto questo non modifichi la sua struttura di potere.
(**) Prendiamo ad esempio l’Egitto: dopo i moti di piazza Tahrir e la cacciata di Mubarak non ci si aspettava un regime, quello di Al-Sisi, nei confronti del quale la stessa Amnesty International esprime una forte preoccupazione per la gran massa di processi irregolari, crimini impuniti commessi da militari e forze dell’ordine, violenza diffusa e bavaglio per qualsiasi voce fuori dal coro.
(***) Molti degli interventi su Bataclan danno una qualche idea dello scontro geopolitico che si esprime anche in quel conflitto.
R.S.