di Marcella Corsi
Gianmario Lucini è stato un poeta (non aggiungerei aggettivi), un editore coraggioso, un critico attento, sensibile, un umanista, un animatore socio-culturale a tutto campo e… una persona assolutamente amabile. Soprattutto uno che vale la pena leggere.
Ad un anno dalla sua morte, nel ricordarlo, vorrei far ‘vivere’ ancora le sue parole, perché mi hanno convinto, talora affascinato. Mi hanno anche aiutato, e penso possano farlo anche per altri. La sua è una poesia che aiuta a vivere.
A Roma lo rileggeremo il 6 novembre a partire da Istruzioni per la notte (Marco Saya editore, 2015) ma ricordando anche Cronache da Rapa Nui e Keffyeh (CFR, 2013 e 2014).
Per l’occasione ho realizzato un opuscolo con 9 poesie di Gianmario (alcune non sconosciute ai frequentatori di questo blog) raccolte sotto il titolo complessivo E forse parlerai con quello che non sei mai stato. [qui:plaquette] In copertina una foto di Stefania Corti, in quarta una foto di Gianmario con alcune notizie bio-bibliografiche e la breve poesia di Ennio in suo ricordo, pubblicata sul sito di “Poliscritture” il 28 ottobre dell’anno scorso. E’ predisposto per 4 diverse redazioni, ognuna con le stesse poesie ma una foto diversa in copertina. Si stampa con 3 fogli in A4 piegati in due a formare appunto un opuscoletto di 12 pagine, la prima (e ultima) pagina su un foglio di carta più pesante, per evitare che le immagini a colori passino sul retro. Le foto di Stefania che ho scelto per le copertine sono quelle che potete vedere anche qui di seguito.
Dall’intervento che ho preparato per l’incontro del 6 novembre traggo una parte che mi consente di farvi leggere o rileggere versi di Gianmario, tratti la maggior parte da Istruzioni per la notte ma qualcuno anche da Monologo del dittatore, Krisis, Per il bosco, Hybris, Vilipendio. A partire da un minimo di riflessione sulla sensibilità da ecologista che la poesia di Gianmario a mio parere dimostra: l’attenzione alla natura, l’accoglimento nei confronti dei viventi tutti, il dialogo prezioso con il silenzio naturale, il sentire ‘paritario’ rispetto agli animali, il sentirsi albero, l’appartenere ad un paesaggio. E la capacità di prescindere dal bamboleggiamento naturalistico, sempre, anche nei versi di maggior lirismo.
La poesia di Gianmario è, per sua stessa definizione, “poesia lirica che tematizza aspetti della realtà, pur nella sua crudezza. Il lirismo non è infatti soltanto poesia del cuore o dei buoni sentimenti ma è anche l’epica della coscienza, dei suoi conflitti e dei sentimenti che li agitano” (dalla nota che lui stesso premise a Vilipendio). Il fare poesia di Gianmario era “un appassionato inseguimento del reale” che si esprimeva soprattutto in testimonianza, impegno, proposta. Il sentimento della natura ne era parte. La poesia era per lui anche verità, quella verità che bisogna sapersi dire se non si vuole esser ‘morti’ pur essendo vivi.
Sentite come è forte l’ammirazione per la natura delle sue montagne: bella, tenace, silenziosa e nel suo silenzio epica, mossa dal vento ma ferma “a rammentare che la vita è soltanto un frammento di tenace poesia”. E’ una natura quella nei versi di Gianmario, sapiente, emotivamente partecipata, preziosa. In questo testo mi sembra inoltre significativo il fatto che il noi del poeta Lucini… coincida con quello dei fiori.
Guanciali di gioia sulla pietra
dove il crinale accarezza il sorriso del cielo
nel silenzio passiamo i giorni dell’estate;
acceso il viola che trema nel vento
a rammentare che la vita è soltanto un frammento
di tenace poesia,
che la Storia è anche questa lontananza
che non conosce storia, di magnifici poemi
che non conoscono parole.
(piccoli fiori delle alture)
Questo testo è tratto da Per il bosco (a p. 22, ma è anche nell’opuscolo a p. 3), il volume più esplicitamente ‘ecologico’ tra le raccolte in versi di Gianmario, nel quale sue poesie sono accostate ad immagini da lui stesso scattate. Anche le due poesie che sono nelle locandine [qui: locandina – bacche; locandina – colomba] sono state tratte da Per il bosco, accostate pure lì a immagini di Stefania Corti. Le fotografie di Stefania erano già in partenza ‘vicine’ ai versi di Gianmario. Foto e versi infatti sono stati ispirati dagli stessi paesaggi, quelli connotati dalla presenza dell’Adda.
Torniamo ai fiori d’altura, che ritroviamo anche in una poesia di Istruzioni per la notte (la IX della sezione Istruzioni per l’ascesa). “Una gloria perfetta e assoluta”, così definisce Gianmario il fiore d’altura. Non c’è solo ammirazione, c’è partecipazione, e un esplicito, garbato, affettuoso invito al rispetto. Riporto qui le prime due strofe di questo testo (che è anche a pag. 2 dell’opuscolo).
Nel fiore dell’altura c’è una vita intera
partorita nel travaglio della luce
per un tempo d’acqua che sfugge tra le dita
una gloria perfetta e assoluta.
Tu lo eviti, se puoi e lo scarpone
poco innanzi o poco indietro fai cadere
e cade il tuo sguardo sul colore
di quella giovinezza, come fosse
a te soltanto rivelata;
[…]
Questo privilegio di una comunicazione significativa con la natura, con il suo silenzio (nominato anche negli ultimi versi di questa poesia) si rileva nella sua soggettiva, evocativa precisione in un brevissimo racconto che è in un’altra delle poesie di Istruzioni per la notte (non di rado le poesie di Gianmario sono narrative), questa nella sezione che ha lo stesso titolo della raccolta (a pag. 20).
A volte risalgo di notte dirupi
per sentieri a me familiari, a brine
a brezze gelate, al suono di torrenti
ed è come nascere a mondi paralleli
l’occhio alla ricerca dei segnali
al lume incerto della torcia elettrica
da buio a buio in un viaggio onirico
aggrappato a un chiarore o a un riverbero.
E quando intravvedo lontano il chiarore d’un rifugio
e confuse sagome umane
quasi m’opprime un rimorso
d’aver tradito a se stesso quel dialogo onesto
col silenzio della montagna
e non farne più parte.
Sulla soglia qualcuno mi osserva
come venissi da un sogno oltre tombale
o da un limbo senza morte né vita.
Poi varco la soglia e chiedo la cena
uno come tutti risucchiato dalla luce.
Nel rapportarsi alla natura in modo aperto e senza paure, specie se il cammino è notturno, si può nascere a mondi paralleli, si può instaurare con il silenzio della montagna un dialogo onesto, di quell’onestà che spesso le parole tradiscono. La ricerca di Gianmario Lucini è invece proprio quella dell’onestà, della verità, pur soggettiva, pur provvisoria.
Noto parenteticamente come gli interessi comunicare col lettore, farsi capire. E come sia la notte (metafora a mio avviso della realtà difficile, dolorosa) a permettere una comunicazione profonda, anche con se stessi: “[..] ci vuole la luce negra della notte/ e le sue fresche braccia che raccolgono/ ogni colore in un colore solo.// E forse parlerai con quello che eri/ o che volesti e che non sei mai stato”. Sono i versi finali di un’altra delle poesie incluse in Istruzioni per la notte (p. 18) e pure nell’opuscolo (a pag.4 ), cui dà anche il titolo.
E ancora: “Ama la notte e sarai sempre amato:/ ti brilleranno gli occhi e nella mente/ non avrai che silenzio, ogni pensiero/ al suo posto” ( Istruzioni per la notte, pag. 24, e pag. 6 nell’opuscolo).
Gianmario ha la consapevolezza di appartenere ad un paesaggio, quello delle sue montagne e del fiume che le attraversa. Ne è pervaso, trae da esso identità, e quel residuo di speranza che la coscienza dei tempi gli consente.
“Se una speranza ancora perdura/ è questo dolce degradare di colline/ verso il mare, il gracchiare di corvi/ i richiami dei gabbiani nel mattino/ terso di febbraio”. Così inizia una delle Elegie brissinesi (cito sempre da Istruzioni per la notte, pag.80). Altrove è “la carezza del sole” che “ deterge lo sgomento/ per ciò che siamo e che potremmo essere” (questi versi sono in Vilipendio, pag. 83, ma anche nell’ultima poesia dell’opuscolo).
E sentite cosa afferma nei versi finali di un testo, in Istruzioni per l’ascesa (pag. 33), in cui parla della sosta in montagna: “[…] è il momento/ di sentirti parte del paesaggio, di volare/ col cuore sopra il vuoto che ti colma/ precipitare in alto fra le nuvole/ dove dorme il silenzio che ti attira”. Saltano all’occhio gli ossimori: il vuoto che colma, il precipitare in alto. Ma la sapienza retorica del poeta non intralcia il suo intento comunicativo.
I versi in cui mi sembra più esplicita questa pervasività del paesaggio, almeno in Istruzioni per la notte, li riporto qui sotto. E’ la prima poesia della sezione Istruzioni per il viaggio (pag.59).
Invocazione per il viaggio
La mia terra è la casa solitaria
della neve e della tramontana,
del sole e della vigna che risale
gli scoscesi pendìì della montagna.
Chiedo all’azzurro dell’Adda e ai poggi petrosi
di riposarmi dentro e con me viaggiare
per ricrearsi in altri luoghi e in altri segni,
in altri boschi, al canto d’altri uccelli
e ci conosceremo un poco e un poco potremo
tanta fiera bellezza rammentare
di lontano – perché ogni terra sempre
la terra prima e l’ultimo rammenta
nostro destino ‒.
Lucini è consapevole di appartenere a questo paesaggio. Da esso trae ispirazione e forza. Ne è segnale, credo, anche la costruzione del testo, strutturato rigidamente in quartine.
Ed è consapevole di condividerlo, direi in modo paritario, con gli altri esseri viventi, animali e piante. In una delle prime poesie di Istruzioni per la notte parla di ”sottofondo spazio-temporale che ci accomuna all’animale” (p. 15), in un’altra, intitolata Racconto, qualche pagina dopo (p. 21) si legge: “[…] ci avviammo verso il passo stagliato nel cielo/ ancor cupo, come animali acclimatati all’asperità della montagna/ parte di un tutto che lento diveniva/ incontro alla gloria dell’alba”.
In montagna è più agevole mettere a fuoco i limiti degli umani, la lontananza ormai dalla natura, l’assai minore capacità rispetto agli animali di orientarsi, di avvertire il pericolo: “tu non sei un camoscio o un animale/ che sempre sa dove si trova/ e fiuta l’aria, interpreta l’eco/ dei suoi stessi richiami,/ tu sei soltanto umano e la natura/ ti è ormai aliena e tu ad essa”. Così nell’ottavo testo delle Istruzioni per l’ascesa (p. 34).
Più significativo è il III della stessa sezione (pag. 29), nel quale, in modo leggero ma riflessivo, è esplicitata tra l’altro la convinzione che in montagna sia augurabile, necessario forse, diventare come animali, meno abili di loro ma a loro il più possibile simili. Eccolo per intero, godibilissimo.
Due bastoncini allungabili leggeri
con una fettuccia al pugno ti saranno comodi
per scaricare dalla gambe la fatica
dell’ascesa, per meglio equilibrarti
dove l’asperità del terreno insidia.
Due protesi leggiere alle zampe anteriori
e diventiamo animali di montagna
seppure impacciati camosci o capre
di loro più lenti ma lentamente
dov’essi arrivano anche noi arriveremo
graffiando la pietra e lasciando il segno
della nostra animale umanità.
Ci vuole un aiuto anche alla metafora
dell’ascesa, un argomento che vinca
con pazienza ogni resistenza
e godere di un cielo più libero
quando la vetta ci chiama alla sua gloria
intramontabile nel tempo dell’effimero.
Trovo affascinante questo accostare all’episodio contingente la riflessione ampia, di taglio filosofico-sapienziale, frequentissimo nella poesia di Gianmario.
Tornando al tema, quella degli umani è per Gianmario una “animale umanità”. D’altronde già in Per il bosco aveva scritto, come un augurio per l’uomo: “Quando possiederai la mitezza dei miei occhi saremo/ fratelli e vedrai colori/ mai veduti/ conoscerai il destino/ come conosci l’ora del giorno”. Chi parlava era un cane pastore (pag. 24 in Per il bosco, 5 nell’opuscolo).
E in Krisis (p. 25): “Questa pioggia non piove più acqua e brucia i fiori del pesco a primavera; le gemme dei larici ingialliscono asfittiche nate già morte. Un mesto fradicio coro d’uccelli s’appoggia alla bruma della sera e pigola adagio unica/ voce che ancora si levi/ difesa accorata/ stremata// ‒ non questo mio inutile dolore/ che già svanisce nell’aria della notte”.
Versi molto significativi in questo senso li trovo in Vilipendio (pag. 75), nella sezione intitolata La scimmia democratica:
Nella concitazione del rastrellamento
le case ci scrutavano ed ogni portone
celava l’insidia. Si andava
guardinghi in silenzio a ridosso dei muri sparando
a ogni sagoma in movimento. Un cane
ferito a morte guaiva lontano
e quando mi avvicinai per finirlo
incrociai nel suo lo sguardo di mio padre
e di mia madre e una domanda
che da allora mi perseguita.
Porto ancora quegli occhi nei miei
nella tortura dei tramonti e delle veglie
quando la mente si scioglie
con un guaito in braccio alla notte.
La sua estrema onestà intellettuale ed emotiva induce spesso Gianmario a sentire gli animali in modo del tutto paritario.
Non solo, talvolta si ha l’impressione che egli si confonda con gli alberi, vi si mescoli, meticciandovi gli umani tutti: “Dalla notte ci verrebbe la sapienza/ se potessimo ancora sperare follia/ e a lei torneremmo, fra le sue mura/ quando il dubbio ci scalza alla radice/ e al vento ci disperde come foglie/ secche nell’abbaglio della luce”. Leggendo l’ultima strofa della prima poesia di Istruzioni per la notte sembrerebbe trattarsi solo di un paragone, ma quel “dubbio che ci scalza alla radice” fa di noi degli uomini-albero.
E’ una condivisione di condizione, una immedesimazione che è stata chiaramente espressa in una poesia di Per il bosco (tematizzata come metamorfosi, a pag. 42), la cui ultima strofa recita: “Le mie dita sono rami che frugano il cielo/ cercando verità che dormono da sempre,/ le gambe tronchi che gemono al vento/ ‒ tornando indietro nel tempo ero albero ‒”.
Un tempo eravamo alberi. Nei versi di Lucini un poco lo siamo ancora. Leggendo qua e là nei suoi volumi di poesia ne trovo tracce: “Sono arrivato dal nulla a questo angolo di luce/ e volgo le radici al cielo”. E’ lo straniero protagonista di Il respiro del male, nella raccolta Monologo del dittatore (pag. 63). E, ricordate quel noi dei piccoli fiori d’altura?
Al di là delle sue esplicite affermazioni (come quelle dell’introduzione a Cronache da Rapa Nui e le molte altre rintracciabili nei volumi prodotti), quel che mi fa sicura della integrale apertura in senso ecologista del nostro autore è il vedere come essa emerga, in modo diretto o indiretto, in ogni suo volume di poesie, anche in quelli riferiti quasi interamente alle contraddizioni provocate dalla guerra.
La prima delle poesie della scelta che ho utilizzato per comporre l’opuscolo, per esempio, è tratta dalla raccolta Monologo del dittatore (alla p. 73), dove non me la sarei aspettata. Vi è una definizione della “ pienezza dell’umano” particolarmente inclusiva. Ne copio qui sotto il testo anche per il piacere di lentamente rileggerlo.
Nel maggio dei campi rasati la bellezza
pare corporea, nella carezza
giovane dell’aria: nulla
manca alla pienezza dell’umano,
se per un attimo stai cheto nel silenzio
e ascolti la musica dei mondi che ruotano,
la misteriosa fisica dei suoni che riverbera
in ogni molecola dell’essere e delle cose.
Un attimo soltanto di grazia
e di panico
che sospende ogni regola e ti proietta
fuori da questo miscuglio di ipotesi
che chiamano vita e nessuno
sa che cosa sia.
Non continuo a cercare. In quel che ho già trovato leggo una disponibilità sostanziale a mettere in discussione la centralità dell’umano entro il complesso della realtà dei viventi: il modello antropocentrico di cultura avviato a decostruzione. Gianmmario Lucini mi sembra già portatore di un “umanesimo non antropocentrico”, quello di chi cerca di elaborare strategie di sopravvivenza culturale senza trascurare lo stretto legame tra cultura degli uomini e sapienza della natura.
La definizione che di umanesimo non antropocentrico dà Serenella Jovino (Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, p. 68) sembra tagliata sui suoi panni: ‹‹un tipo di umanesimo esteso, capace di stabilire relazioni di prossimità costruttiva [..] con altre specie e con l’ambiente naturale. [..] basato sulla costruzione di identità flessibili e, in quanto tali, democratiche e dialogiche [..] (che) inventano un’etica del futuro a partire dal presente, inteso come com-presenza non dualistica di umanità e natura›› (uso la sintesi che ne diedi nello scritto su Franco Fortini pubblicato sul n. 9 di “Poliscritture”, la definizione di Jovino è molto più ampia).
Concluderei con un testo di Gianmario, a metà tra poesia e prosa, in Krisis, nel quale, da poeta, egli riflette sull’impotenza della parola, pur non rinunciando a praticarla:
Io non so se i prati sereni di aprile
di là dal mio balcone, domani fioriranno,
se altri sguardi li potranno amare e se altri, prima del mio, li hanno veduti come io li vedo, carichi di antico e di sempre nuovo ardore di vita e promesse di giorni.
Io non so se il poeta possa e debba qualcosa al mondo oltre le parole (un atto, una posa, un contrasto all’arroganza predatrice che ingrigia i paesaggi dei secoli a venire)
io non so cosa fare
per questo nulla che incombe e divora
ogni creatura e ci lascia inariditi:
non trovo la parola che uccide, non trovo la parola che risana, e dentro il mio dire il tutto e il nulla hanno la stessa consistenza dell’inutile, come se i giochi fossero giocati prima di lei e d’ogni gesto possibile
di amore o disprezzo
per la verità.
Non ha altro, il poeta, che questa indicibile parola e annaspa e rincorre la verità che fugge e a volte di sé dimentica un indizio, un lembo di veste, un’orma
che il vento subito cancella.
Quando si trova quest’indizio di verità, quest’orma (che il vento è pronto a cancellare), bisogna averne cura, farla riconoscere, se possibile riprodurla. Per questo riproponiamo le sue parole.
A Roma, Luca Benassi, Anna Maria Curci ed io, il 6 novembre alle 18,30 da LiberThè in viale Adriatico 20.
Antonio Sagredo e Paolo Statuti hanno provato una grandissima mestizia, e ancora oggi ne parliamo poi che avevamo trovato in Lucini l’editore ideale; Sagredo ha fatto in tempo a pubblicare la prefazione alle poesie di Puskin tradotte da Statuti… e entrambi avevamo fatto dei progetti per altri due o tre poeti russi, fra cui Zabolovskij e Chodasevic…. questo “in tempo” non doveva accadere così presto: non ci ha dato il tempo a tutti a tre di costruire una serie di plaquette “russe”.
antonio sagredo
Antonio Sagredo aveva parlato con Lucini due o tre volte e l’intesa era subito nata e con essa la progettazione di lavori su diversi poeti, e la possibilità che pubblicassi le mie prose: non è successo poi che questa Donna quel giorno si vestì di viola.
a .s.
grazie, Marcella!
…ti ringrazio molto anch’io, Marcella, per la lettura sensibile del volto ecologico di Gianmario Lucini, che davvero insegna a vivere, avendolo noi quasi dimenticato. Un poeta che nel serbatoio della natura, le care sue montagne (ma potevva essere anche il Mar Mediterraneo), cercava le sue vere radici di uomo pianta, di uomo animale…Non sottovalutava nessuna forma di vita, anzi nella fragilità di un fiore d’altura vedeva anche la forza, la sfida, “una gloria perfetta e assoluta”. da amare e rispettare e, se posto sul proprio cammino: “Tu lo eviti, se puoi e lo scarpone/ poco inanzi o poco indietro fai cadere…” Così per animali, ruscelli, fiumi e la “negra” notte, quando intraprendere “quel dialogo onesto col silenzio…”
“Non ha altro, il poeta, che questa indicibile parola e annaspa e rincorre la verità che fugge e a volte di sé dimentica un indizio, un lembo di veste, un’orma
che il vento subito cancella.”
Questo grandissimo e umile pensiero conferma tutto quanto era Gianmario Lucini.
Lui e il suo amore per la vita, per la natura e la sua nascita,quella da conservare , da proteggere fortemente contro ogni vento.
Grazie Marcella
grazie marcella, un pensiero molto bello
vm
per un attimo si ha come l’impressione che potremmo vivere come fiori d’altura lontani dalla gabbia che ci siamo costruiti e in cui siamo attirati continuamente con l’inganno.
e.g.
Grazie Marcella per questo tuo contributo prezioso.
Giuseppina
Sono rimasto molto colpito da questa lettura ecologista della poesia di Gianmario Lucini fatta da Marcella Corsi. Perché mette in discussione una mia lettura che feci proprio della bozza in preparazione di “Poesie per il bosco”, sulla quale nel gennaio del 2013 egli mi chiese un parere. Non voglio qui ora approfondire in cosa consista la differenza di sguardo e di sensibilità con cui Marcella ed io ci siamo accostati alla poesia di Gianmario Lucini. Magari ne parleremo più in avanti. Mi limito a pubblicare la lettera che gli scrissi. Non so se approvò o giovò alla continuazione del suo lavoro. Ed è questo un altro tormento che mal sopporto: il dialogo/confronto con lui, rimandato per impegni di entrambi e troncato di colpo su questioni nodali. (Si veda l’accenno al libro “Non c’è più religione” di Michele Ranchetti, che gli avevo prestato e di cui avremmo dovuto discutere).
25 gen 2013
Caro Gianmario,
Poesie per il bosco non mi pare un «peccatuccio lirico», ma un lavoro che sento complementare e in continuità con la tua restante produzione, almeno quella che ho avuto modo di leggere con più attenzione («Il disgusto», per es. di cui scrissi anche sul blog Moltinpoesia).
Sono meditazioni religiose al cospetto della natura, su tracce minime di essa: quelle indicate tra parentesi: Alberi morti nel bosco, tracce sulla sabbia del torrente, ecc. E le foto che le accompagnano coi loro grigi hanno la bellezza pulita, statica e povera degli anni ‘40-’50 (a me ricordano quelle che ritrovavo ragazzo, quando ero nell’Azione Cattolica, in certi opuscoletti che circolavano in parrocchia).
Il rapporto tra lo sguardo che raccoglie l’immagine esterna e la traduce in parole non è oggettivo. Da una parte chi, passo dopo passo (nel bosco?), sistema le sue sensazioni mi sembra che abbia un suo segreto, religioso dolore (o persino “colpa”), che lo devia dall’oggettività:
ignari viviamo un’altra vita nel caos dei lamenti
lo sguardo volto al passato e la felicità rinchiusa
dietro una porta che non osiamo aprire…).
Dall’altra egli “si consegna” fiducioso a un interlocutore oscuro, rinunciando (e mi pare una scelta di fondo) alla registrazione meticolosa, scientifica, dell’ oggetto indagato:
Scrivi tu i miei pensieri sull’acqua
nella grazia del tramonto
nella grazia dell’alba, nel cielo che sonnecchia.
In altri passi affiora una sua nostalgia per lontanissime mitologie:
sui declivi, umili segni, geometrie
nate da spiriti bambini
quando i sogni non avevano memoria
e il bosco custodiva dialoghi perduti.
O, come nella composizione contrassegnata dall’indicazione “oggettiva” (croci in Val d’Ambria),
viene raccolta l’eco di una civiltà perduta:
Stanno sotto i pilastri del tempio
verde del bosco, fisse
come capitelli spezzati.
Chi, dunque, ha scritto queste poesie per il bosco (titolo che – credo – si possa intendere sia come offerte al bosco sia scritte andando per il bosco) porta la poesia nella natura o ascolta solo la poesia che c’è (già) nella natura?
È un problema che mi sono posto leggendo versi come questi:
In questa bruma di neve
ancora canta la poesia,
in questo freddo che morde e risana
c’è il calore d’una casa antica
fra antiche parole d’accoglienza.
Mi sono chiesto, infatti, quanto ci mette di “poetico” l’immagine naturale stessa (o quanto il nostro contatto con la “natura” alimenta questa “illusione”, questa “finzione”) e quanto ne mette (di suo) invece l’io meditante, che ha lui (sempre di suo) la vocazione dell’anacoreta e (romanticamente) proietta il suo bisogno (di armonia, solitudine, abbandono) all’esterno, ad es. quando scrive delle croci:
sono vecchi anacoreti intenti a meditare
le sorti del mondo
Come mi sono chiesto da quali tempi parla (o s’immagina di parlare) la voce poetante se scrive, alludendo, a tempi mitici:
Eravamo vivi, un tempo, ora fantasmi
eravamo
onnipotenti
spensierati giganti
così forti da sfidare ogni abisso
Non per mio preconcetto, spero, dominante è, infatti, nella mia lettura l’impressione che la natura è aperta davanti agli occhi di chi medita quasi fosse un libro di preghiera o che suggerisce preghiere. Quali? Ad esempio, questa:
La fragilità del bianco sembra urlare
non mi spezzare morte
corporale
quando il tempo nuovo chiama alla speranza
e un popolo d’uccelli canta la sua gioia.
Non mi spezzare morte
della nebbia, vapore veleno
– accetta il candore della tenebra
uomo
l’essenza del mistero -…
(paesaggio di nebbia)
Qui e là ritrovo l’immaginario di resurrezione del cristianesimo:
parole nel sudario che sperano risorgere
dopo tre giorni dalle loro ceneri
O del francescanesimo, quando si rivolge agli animali come in (cani pastore). O, a proposito del vento, una sovrapposizione del divino (non nominato) al fenomeno naturale:
Ci piega dolcemente, il vento, al suolo
fino allo schianto. Dolcemente insiste
e non v’è chi resista
al carisma del suo fiato
Il tono della raccolta rimanda per me a qualcosa di chiuso o concluso:
e chiude gli occhi, rialza il bavero
rigido come un sipario.
È, direi, confermando un’impressione che avevo colto in precedenti letture dei tuoi testi, il chiuso (non nel senso di asfittico o negativo) della contemplazione che è – e mi devo ripetere, ma anche qui senza che ciò suoni rimprovero – astorica:
a rammentare che la vita è solo un frammento
di tenace poesia,
che la storia è fatta di queste lontananze
che non hanno storia
È la smemoratezza di sé e – credo di poter dire – del distanziamento dai conflitti che agitano la storia umana:
Nel silenzio fragoroso dei millenni l’abisso ci culla
e noi sulla riva dell’epoche con infinita pazienza attendiamo
l’alito primo della vita
Non senza il sospetto verso lo stesso divino a cui in fondo si guarda:
dio creato
che puoi farci morire per gioco
o adorarci per timore di un sinistro
mistero che ti cova dentro
Perché la contemplazione resta inquieta, non rappacificata:
sei restio a questo squarcio di mondo
che ti accoglie senza chiedere nulla
Oppure:
– solchiamo, esercito di solitudini,
la libertà degli spazi,
levitiamo fino a un’acme
per poi precipitare.
Non è perciò una contemplazione che mi sentirei di chiamare “spirituale” ma – e questo mi interessa – un farsi animale contemplativo:
spalanchiamo dunque gli occhi nella notte
come fa la civetta,
risaliamo l’abisso della notte
con l’istinto della formica…
Oppure:
Per immedesimazione: farsi animale ho detto ma farsi albero:
Le mie dita sono rami che frugano il cielo
cercando verità che dormono da sempre,
le gambe tronchi che gemono al vento
– tornando indietro nel tempo ero albero -.
Questi i miei primi appunti di lettura. Ripeto che non vedo contraddizione ma complementarità tra queste liriche e quelle più “sociali” o “civili”. Credo che però la sorgente più profonda di entrambe sia – diciamolo – religiosa. Qui si aprirebbe tutto un discorso ( Hai poi letto il libro di Ranchetti?…) che forse un giorno riusciremo a fare…
Un caro saluto
Ennio
Grazie a Marcella per averci guidato in questo percorso di approfondimento nella conoscenza di Gianmario Lucini. Più che una rimembranza è stato un farlo rivivere attraverso la sua poetica.
Grazie anche a Ennio che, non fermandosi solo alla rimembranza, vuole vitalizzare un discorso interrotto anzitempo e partendo proprio dagli stimoli che Gianmario ha dato.
R.S.
E’ forse più facile leggere queste poesie dopo la morte di Gianmario, perchè il loro significato è definitivamente compiuto e a noi consegnato, anche se tutt’altro che esaurito. Voglio leggere in esse, vicino all’amore appassionato per la vita, anche cenni di meditazione sulla morte
doppiando il crinale s’apre
il largo respiro d’una valle
che pare là in attesa
d’uno sguardo che la voglia amare
(sogno d’inverno)
poi la neve coprirà con suo sguardo
stupito
questa gioia spensierata
senza che alcuno la colga.
(bacche rosse)
Mi hanno arricchito la presentazione di Marcella Corsi sulla ammirazione e partecipazione di Gianmario alla natura, e la lettura di Ennio Abate sulla profonda sorgente religiosa di tutte le poesie di Gianmario. Le avevo ricevute, le “poesie per il bosco”, ma non ritrovo la sua mail e neppure la mia di risposta, ricordo di avergli scritto con stupore che il tutto mi sembrava una preghiera, e poi gli avevo detto che, come lo sguardo del suo cane nella poesia, anche lo sguardo della mia grande cana bianca era di comunicazione profonda. Credo di poter ricordare che abbia accolto quella mia lettura.
Stamane le ho rilette, ritrovando la connotazione del libro come preghiera, “a tu per tu” con il mistero, con il Tu che il mistero stesso interroga.
Un mistero che Gianmario non vuole schiarire, che evidenzia in tutte le forme che la natura stessa offre, nelle metamorfosi, nelle rinascite, nell’asprezza, nell’abbandono, nella ripresa. E usa immagini e figure, che rappresentano sì metamorfosi e incanto di vita, ma insieme sono simboli “archetipici” della tradizione cristiana, acqua croce (di rami) vento pietra fuoco, e concetti teologici. Forse, che i titoli delle poesie siano posti alla fine e tra parentesi, dice di questo rapporto tra diverse occasioni che la Natura offre e un filo continuo di riflessione
Scorre un’acqua e non sa dove andrà
…
Con la grazia di una giovane dea,
s’ingravida di noi
e dei rifiuti delle nostre pene.
Giungerà sfinita alla sua pace, al suo oblìo
disciogliendosi esausta nel suo dio
– lei, la dea fedele che non s’imbotra
ecco che l’acqua è la grazia stessa, la dea fedele che si discioglierà nel suo dio. Nella poesia si annodano altri due concetti, madre e natura
la nostra giovane prima madre
acqua;
segreta e docile sussurra con le fronde
una preghiera antica
ch’esse soltanto ricordano.
(ruscello a primavera)
Questa giovane nostra prima madre acqua-grazia-natura è la prima vita originaria, la creazione, forse il “paradiso terrestre”, la prima dimora, se sono le foglie che ricordano la preghiera antica.
Sulla madre e la nascita Gianmario ha due passaggi incisivi
l’amore è soltanto
madre
(cani pastore)
: l’amore, espresso dall’animale, è tutto ciò che l’animale conosce, e a noi questo dice che è la nascita il vero mistero, la nascita del tutto, la creazione (“l’immutabile che muta” della poesia “l’ascesa”) della materia e quindi dei corpi.
L’altro passaggio dice che noi, nati di donna, corporei e mortali, diventiamo portatori di sapienza e diventiamo tutti madre che si ingravida
Al cielo offriamo come un canto
la nostra solitudine gialla
la nostra solitudine azzurra e vermiglia
basta la musica del nulla e degli abissi
a cantare la canzone delle epoche,
una sola estate, un giorno soltanto
a raccogliere in noi ogni sapienza
ingravidandoci nell’inverno di nati
sogni nuovi da spargere
in altre primavere.
(fiori di tarassaco)
In un’altra poesia “scogli sullo Jonio” la nostra natura creata è divina ma anche in balia di sinistra inconsapevolezza
Nel silenzio fragoroso dei millenni l’abisso ci culla
e noi sulla riva dell’epoche con infinita pazienza attendiamo
l’alito primo della vita
la verità del suono che vibra negli spazi
siderali e l’universo muove
serbiamo il ricordo di tutte le ere sulla nostra pelle
incise dal sole che esalta le nostre asperità
– uomo fragilissimo
dio creato
che puoi farci morire per gioco
o adorarci per timore di un sinistro
mistero che ti cova dentro…-
“Uomo fragilissimo/dio creato”: qui alla lettera identificato solo come un capriccioso despota che può distruggere gli scogli, ma in realtà fragilissimi umani e dio creato siamo ognuno di noi, che qualunque cosa può distruggere o idolatrare, siamo noi i cullati dall’abisso, che attendiamo l’alito primo della vita, la verità del suono che muove l’universo.
In altre poesie il nesso solitudine-poesia-silenzio. Solitudine come condizione umana ineliminabile, e la poesia può anche dimettersi e lasciare al silenzio un altro riempimento, d’oro.
… In questa bruma di neve
ancora canta la poesia,
in questo freddo che morde e risana
c’è il calore d’una casa antica
fra antiche parole d’accoglienza.
E sulla bocca si fa l’oro del silenzio.
(sogno d’inverno)
In un uomo così legato agli altri, solitudine e silenzio non sono rinuncia. La poesia, legata alla vita, è anche propriamente preghiera
Parole s’appoggiano con grazia
come s’appoggia la neve all’ossa dei rami
parole nel sudario che sperano risorgere
dopo tre giorni dalle loro ceneri
saremo forse, penombra di foresta
o una bocca, soltanto una bocca,
angusto spazio nella sera, silenzio
nostra sicura barriera.
(luna fra i pini)
Voglio ancora ricordare due poesie in cui la poesia si misura con il Tu -il nome che non si pronuncia- potenza della creazione
Ti sei evocato dal nulla attorniandoti di nulla
chiamando te stesso dal baratro
che ci attira e ci intrappola
unica parola
che nessuno saprà mai pronunciare.
– granello di sale, scintilla
e Tu, inconsumabile fuoco -.
(pensiero veloce)
Quello che noi chiamiamo nulla è solo nostro impensabile, e per noi anche tentazione e sperdimento (il baratro … ci attira e ci intrappola), se non sappiamo misurare la distanza tra il nostro parlare e l’unica parola che nessuno saprà pronunciare, la distanza tra la scintilla e l’inconsumabile Fuoco. Qui è della distanza tra dio e la creazione che si parla.
L’altra poesia è questa
Scrivi tu i miei pensieri sull’acqua
nella grazia del tramonto
nella grazia dell’alba, nel cielo che sonnecchia
in esauste pozzanghere, osserva
la scia della barca che apre gli abissi
e il canto degli abissi che ribrilla, scrivi
queste canzoni prima che si perdano
come granelli di sabbia nella sabbia
– perché saremo infelici e poveri
senza il cantico dell’acqua -.
(tramonto sul lago a Lecco)
In cui abbiamo l’acqua la grazia, il cielo che sonnecchia, la scia che apre gli abissi, ma la poesia è una richiesta – perché saremo infelici e poveri/senza il cantico dell’acqua -. e allora tutto si rilegge, l’acqua è l’acqua di vita, la grazia del tramonto e dell’alba è quella che dà e sostiene la scia della vita sull’abisso, sonnecchia il tepore spirituale, e al tu si chiede di scrivere, cioè dare senso, a pensieri e canzoni, prima che si perdano.
giacché Ennio ha dimenticato di inserire le linkature e io non so farlo, aggiungo che chi voglia avere il pdf dell’opuscolo o delle locandine può chiedermeli via mail e glieli spedirò.
ciao
marcella
Marcella, vedi che tutti e tre i link ci sono, in grassetto e preceduti dalla parola ‘qui’: plaquette; locandina – bacche; locandina – colomba.
E si aprono regolarmente!
SULLA RELIGIOSITA’ DELLA POESIA DI GIANMARIO LUCINI
La religiosità della poesia di Gianmario è indubbia. Nessuno la nega. E credo sia persino una delle ragioni principali di molte delle simpatie, immedesimazioni e consonanze con lui e la sua poesia espresse nei commenti, qui sul blog, da lettori e lettrici dei suoi versi a un anno dalla sua morte.
Diciamoci una cosa: in questo paese un uomo (e poeta) “aperto” al sentimento religioso e ai problemi religiosi suscita più simpatie di un uomo (e poeta) ateo o agnostico o critico della religiosità e delle religioni.
A me, che ho sempre riconosciuto questo fondo religioso in Gianmario, si pongono di conseguenza due problemi:
1. definire meglio quale religiosità o quale corrente di pensiero religioso emerge dall’opera poetica complessiva di Gianmario;
2. decidere cosa accogliere di questa sua religiosità e cosa di essa contrastare (in parte o totalmente); e perché farlo o in nome di cosa farlo.
Rispondo brevemente per ora: non provo simpatia per le istanze religiose che evitano (in modi palesi o mascherati) la conflittualità della storia e si chiudono in un rapporto contemplativo con un Tu misterioso. Oppure quelle che scivolano in una sorta di “panteismo” verso una immedesimazione – altrettanto astorica (e pseudopoetica per me) – con la Natura (animale o vegetale che sia). E perciò, se ho sempre apprezzato in Gianmario il taglio turoldiano-ereticale di critica alla Chiesa dei Signori, ho pure diffidato del suo voler stare nel conflitto enfatizzando l’importanza del piano culturale-artistico-poetico e svalutando invece il che fare in senso politico. Da qui il suo atteggiamento sapienziale, sì, ma nel senso pascoliano – per me negativo – di distacco eccessivo da “quest’atomo opaco del Male”.
Di tutto questo, come ho già detto, avremmo dovuto discutere assieme io e lui, partendo dal libro di Michele Ranchetti, «Non c’è più religione», che gli avevo suggerito di leggere proprio perché, pur da storico della Chiesa cattolica e non marxista, esprimeva comunque una critica che a me pareva ben più radicale e rigorosa della sua.
P.s.
Approfondirò ed esemplificherò queste note nella riflessione, che presto pubblicherò, su un altro libro di Gianmario, «Pensiero poetico e critica integrale dell’arte».
…le mie riflessioni non vogliono approdare a certezze, ma aspirano a cercare una maggiore consapevolezza, ascoltando prima di tutto voi…Mi muovo dalla considerazione che l’uomo si sia allontanato dal mondo naturale, ma anche dalla sua natura umana, ammettendo ,senza convinzione, che vi sia uno scarto…ne sono la prova i confliiti umani e il degrado ambientale che nell’ultimo secolo ci hanno portato sull’orlo della catastrofe… Non conosco specie animale che si voglia così autodistruggere…Parto anch’io da una prospettiva laica, da non credente (forse agnostica), ma penso che dovrebbe essere la natura, in particolare la nostra interrogata sino in fondo, a chiederici il perchè dal nostro processo di involuzione. La storia dell’uomo è sempre stata costellata di conflitti, ma le nuove tecnologie hanno degenerato il tutto a livelli insostenibili…E non riesco minimamente a confrontarli con quelli che pur troviamo in natura, essa si può esprimere con violenza, ma la malvagità è solo umana: terremoti, valanghe, lotte tra animali anche feoci per il territorio..niente a che vedere…Noi costruiamo armi di distruzione di massa e inventiamo strategie di guerra…Così che se entriamo in un bosco, senza scomodare il senso religioso, sentiamo risvegliarsi qualcosa in noi e, in strati e strati di lontananza ormai, misuriamo la distanza da noi. Come se avessimo perso l’innocenza dei bambini e la saggezza dei vecchi…Una poesia di G. Lucini nella raccolta “Per il bosco” sembra dirlo:
Un graffio inciso nella sabbia
che la brezza cancella
notte dopo notte traccia e brezza
segno dopo segno a tracciare un cammino
che di colpo si spezza
come l’orma incerta di un bambino
o di leggerissima vecchia…
(tracce sulla sabbia del torrente)
L’empatia con il bosco perchè dovrebbe distogliere l’attenzione dagli orrori? Secondo me, li mette ancor più in evidenza e ci chiede un impegno politico
@ Ennio
….ormai (anche senza ormai) anche la religione è politica.
Beati i mistici.
SEGNALAZIONE DAL BLOG DI PAOLO RABISSI “RIGHE E VERSI”
lunedì 2 novembre 2015
Rileggendo Lucini
E’ un autore per me intoccabile. Senti un fondo esistenziale drammatico che viene prima dello scontro con l’ingiustizia e con l’assenza di Dio. Quanto descrive è necessariamente ingiusto e senza Dio ab aeterno, pertanto è irredimibile e l’unica speranza possibile sale solo dalle carcasse dei morti.
Resta un anelito alla bellezza, alla poesia, a Dio che resterebbe generico se non si aprisse su scenari drammatici come quello della Calabria infettata dalla mafia. Qui sei costretto ad accettare il suo assunto e la sua testimonianza e la poesia si fa documento di un’anima tormentata e disperata di fronte al mondo perduto nelle mani dei criminali. A tratti lo sgomento è davvero impressionante e le parole scavano con precisione da scienziato la sofferenza dell’uomo e del popolo che abita un territorio apocalittico abbandonato da Dio.
E dunque poesia di testimonianza, a tratti quasi mistica, tesa e coerente nella sua disperazione,che non si può ignorare, che si ascolta in silenzio e in punta di piedi,
(http://righeeversi.blogspot.it/2015/11/rileggendo-lucini.html?spref=fb)
@ Ennio
… non mi sembra che nella condizione di credente di Gianmario che si esprime nei versi ci sia, pascolianamente, un distacco eccessivo dal male, almeno negli ultimi libri, quelli pubblicati postumi. La sua è una poesia lirica, che però non si distacca dal male, almeno non sempre, non soprattutto. Certo ci sono anche momenti di confessione di stanchezza, di solo desiderio di pace ma…
Cito da Istruzioni per la notte , che ho più presente, l’ultima parte del quale è intitolata Istruzioni per un sentimento trascendente.
Ho bisogno del tuo franco ammonire
nel mio labile tempo che dimentica
l’origine del tutto e del possibile:
cerco l’intelligenza del distruggere
e del creare
[..]” (pag.101]
E a pag. 105, la penultima poesia la copio interamente:
Riflessione al margine di un conflitto (questo è il titolo)
E’ un dolore senza contorni quello che rompe
dalla cosa in sé di questo vivere
diviso in due come se due
fossero i destini e uno l’uomo
somma intelligenza della natura
il potere dato e il potere abusato
la regola creata dall’abuso
e questo andare ottusi dietro alla legge
del più forte nel nome di Dio
come Dio fosse mio o tuo
e la vita un eterno che non chiede
e non dà ma usurpa e conquista
nel nome di quel dio creato
da un sogno marcescente
di oppressiva libertà.
In Vilipendio scelgo quasi a caso un esempio a sostegno:
Nelle pietraie di Qaboshi volano le teste dei bambini
spiccate sopra la terra che si agita e grida. Cristo
in silenzio sputa nella polvere e impasta il fango
della rimembranza in una lingua ignota. Tremano
i soldati invocando il loro Dio
in fuga verso le montagne e grande
una nube di piombo si addensa all’orizzonte.
Prega il soldato stranito e bestemmia
salmi e cantici ingiuriando il nemico
sogna un incubo antico e nella notte
gelata il sudore gli cola sul viso.
Ogni sporca faccenda s’affaccia nel sonno precario
mentre il coro dei bambini canta un miserere.
Dio inorridito non sa cosa dire.
(Ps: scusa per le linkature, troppa fretta: mi sembrava che non si aprissero)
@ Marcella Corsi
Già parlare di Male e Bene (tra l’altro spesso con la maiuscola) significa iscrivere la propria ricerca in un campo religioso e metastorico, che vede, appunto, i conflitti *storici*, mai riducibili (se si ragiona e non si cede a valutazioni moralistiche o di propaganda) a scontri tra Bene e Male. Ricorderai, credo, l’espressione di Reagan *. E questi versi di tutt’altra impostazione di Fortini:
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
(Da “Forse il tempo del sangue…”, 1958)
*Da Wikipedia: Impero del male (in inglese evil empire) è l’espressione antonomastica con la quale il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, in un discorso pronunciato l’8 marzo 1983 davanti all’Associazione Evangelica Nazionale a Orlando, per primo designò l’Unione Sovietica.
Il bene e il male, anche con le iniziali maiuscole, sono la cecità o l’apertura di ognuno di noi. Oggi lo ricorda bene Gianfranco La Grassa, nella sua intervista sul comunismo, collocandoli fra le “contraddizioni in seno al popolo”…
Su questa capacità di relazionarci tra di noi, oppure di schierarsi contro, *si può* arrivare a ipotesi religiose o metafisiche ma non è necessario.
E’ sicuro che perseguire il proprio interesse contro gli altri abbisogna di una natura piuttosto cattivella, e sommando (anche solo parziali) ipocrisie, sadismi, brutalità, servilismo, superbie, egoismo cieco, falsità ideologiche (come l’Impero del male), usw, si costituiscono parti sociali, si fissano maggioranze, si confermano poteri.
Gianmario mi pare vedeva queste possibilità in ciascuno, che la sapienza ingravidasse o che un sinistro mistero guidasse l’agire.
Il “mistero” è tale -non necessariamente metafisico- per chi si chiede come si possa arrivare, anzi come si arrivi, a comportamenti di violenza o sfruttamento degli altri. Il mistero -potrei io uccidere o, se fossi un capo, far uccidere? potrei torturare se fossi una soldata ad Abu Ghraib?- non solo non impedisce di combattere, ma anzi spinge a scoprire come si organizzino quei comportamenti perfino in forme relativamente permanenti.
Il bene e il male
sacri fratelli
insieme nel mondo
facciamo il loro gioco
la nostra vita
rovinosamente nostra.
emy
Ennio, non mi dispiace che tu ci abbia ricordato il senso ‒ di fuga nel metastorico ‒ che ha il parlare di Bene e Male, né mi dispiace rileggere i versi di Fortini (che, anch’egli, usa i termini bene e male, direi in modo non troppo dissimile da come ho usato io il termine male). Riflettendo: anche Fortini come Gianmario era un credente ( ma questo non gli ha impedito di esserlo spesso in modo non metastorico).
Ma come si applica questo ai versi di Gianmario che ho riportato? Quei versi non parlano di Male né di male ma di precisi mali: parlano di potere abusato, di andare ottusi dietro alla legge del più forte nel nome di Dio, di un sogno marcescente di oppressiva libertà, di bambini decapitati in Siria o Irak (non so dove siano le pietraie di Qaboshi), di un Dio inorridito (il che per me significa di credenti inorriditi) che non sa cosa dire. Cercano l’intelligenza del distruggere e del creare… Rimango dell’idea che, soprattutto nelle ultime raccolte, la fede di Gianmario non lo trascinasse nel metastorico. Vilipendio soprattutto è un libro di grande onestà intellettuale – con in più questa incredibile capacità che ha di mettersi nei panni degli altri ‒ e tutto dentro la realtà.
Stiamo parlando della sua poesia, ma se dovessi applicare i versi di Fortini che citi a qualcuno… mi sembra che si sovrapporrebbero quasi perfettamente a quel che è stato Gianmario Lucini, che, anche con la poesia, ha cercato i suoi uguali, ha osato riconoscerli, ha lasciato che lo giudicassero (e come onestamente, talora duramente, si giudicava), li ha guidati e… e così via fino a servire la realtà, negarla, mutarla nei limiti del suo possibile.
@ Marcella Corsi
Le mie osservazioni non si concentrano sui versi specifici di Gianmario che tu hai riportato. Può anche sembrare che in *questi* Gianmario sia vicinissimo a Fortini.( Ma lo conosceva poco – mi disse – e lo stava appena scoprendo…) . Qui di certo non parla del Male (con la maiuscola) ma di «precisi mali». Ma non basta nominare o elencare «precisi mali» per stabilire se il discorso è storico o metastorico, ecc. Bisogna vedere in quale cornice concettuale essi vengano inseriti e interpretati. Gianmario era de tutto refrattario al marxismo, fondamentale invece nel “credente” Fortini. ( Ma tra l’altro Gianmario, quando gli scrissi quella lettera sulla bozza di “Poesie nel bosco”, parlandomene a telefono, non mi parve molto soddisfatto della mia interpretazione e rivendicò la sua “laicità”). C’è un punto su cui riflettere: tra gli autori a cui fa riferimento in «Pensiero poetico e critica integrale dell’arte» Marx è assente. Ci trovi invece discorsi riconducibili a quelli sulla «crisi della ragione» (Gargani), sulla «rinascita di Nietzsche» e dell’heideggerismo e sugli sviluppi del «pensiero debole» (Vattimo in particolare; quest’ultimo non a caso allievo di Pareyson, a cui Gianmario direttamente attinge per formulare la sua tesi). Un filone, cioè, apertamente contrastato (assieme a pochissimi intellettuali) da Fortini. Ma ne parleremo, spero. Dev’essere chiaro, però, che sottolineare queste differenze non è sminuire la figura (per me fraterna) di Gianmario. Quelle che – lui morto – oggi scrivo sono cose che -smozzicate – gli avevo accennato; e che, più meditate, gli avrei detto, se ci avesse ancora accompagnato per un altro po’ di tempo. Noi però dobbiamo smettere le piccole apologie rituali. Dobbiamo mirare a un approfondimento critico della sua poesia e del suo pensiero.
Beh, in occasione dell’anniversario di una morte è quasi inevitabile che si promuovano piccole apologie rituali. Però non era mia intenzione farla, come tu non intendi sminuire la figura di Gianmario sottolineandone le differenze con Fortini.
Deduco quel che dico dalla lettura delle sue raccolte di versi. Se leggo “Non sto in ginocchio davanti a Te perché ci hai fatti dritti/ capaci di parlarti e guardarti negli occhi” mi confermo nella convinzione che fosse un credente (sebbene il naturalismo delle poesie di Per il bosco non sia a mio parere d’ispirazione religiosa)… Di Pensiero poetico non posso dir nulla, non avendolo letto che a tratti e senza troppa attenzione (e non so dire se una citazione di Marx fosse opportuna o necessaria). Ma mi sento di mettere in dubbio l’affermazione che Gianmario fosse ” del tutto refrattario al marxismo”. Sai qual è l’ultimo verso dell’ultima poesia di Istruzioni per la notte? E’: (tra virgolette) non più servitori né padroni. E la poesia è datata 2011. Probabilmente il suo essere dalla parte degli ultimi aveva più a che vedere con la dottrina sociale della Chiesa che con il marxismo ma…
@ Marcella Corsi
“sebbene il naturalismo delle poesie di Per il bosco non sia a mio parere d’ispirazione religiosa” tu scrivi: vorrei però osservare che le figure naturali esprimono sempre atteggiamenti emozioni e pensieri umani, e più che attribuzioni di chi vedeva e ora legge, sono vere e proprie personificazioni “Mondo nel mondo immobile presenza/acqua nell’acqua che ripensa la sua essenza”.
Inoltre l’universo eterno rispetto a cui “la vita è solo un frammento/di tenace poesia” non è quello di Leopardi, cieco e muto alla domanda di senso, ma è creazione.
Lo dice anche questa poesia, il richiamo dell’assiolo, in cui “non c’è più senso” perché tutto è onnipresenza.
Ora le nuvole sono di fuoco
il buio muggisce, non c’è pace
nell’era dei miracoli dell’etere,
dell’onnipresenza.
Non c’è più alfa né òmega
non c’è più èffeta
non c’è più senso.
Espliciti riferimenti alla creazione sono “la verità del suono che vibra negli spazi/
siderali e l’universo muove” e “Ti sei evocato dal nulla attorniandoti di nulla/
chiamando te stesso dal baratro”.
E’ vero che la creazione non è la fonte diretta dell’ispirazione, però è il quadro in cui si collocano la materia e la vita.
Purtroppo non conosco Vilipendio, non credo che l’idea creazionista possa però venire meno, non credo si passi dal creazionismo al materialismo tra un libro e l’altro.
…a me sembra che nella raccolta “Per il bosco”, Lucini esprima un suo modo denudato di entrare nel regno della natura, paritario: la natura parla in termini umani di solitudine colorata, di silenzio dialogante, di pienezza di vita… e il poeta allunga radici con gli alberi, si fa stambecco con piccole protesi…Non mi sembra cogliere in G. Lucini una venerazione religiosa verso la natura, quanto rivendicare il farne parte. Quando invece affronta il disumano nell’uomo, in altre raccolte, testimonia con rabbia e disperazione: anche in questo caso il conforto religioso non mi sembra avere un vero spazio nella poesia di G. Lucini, se non come irrinunciabile speranza…Soprattutto nella denuncia e nella lotta continua cerca una forma di rivalsa dell’uomo uomo sull’antiuomo…
@Cristiana
Questa dimensione cui accenni esiste in Per il bosco ma a mio parere non è affatto prevalente (dovessi quantificare, a naso direi in 5-6 poesie su più di 30).
Il creazionismo è certo uno dei punti di partenza di Gianmario, e anche in Per il bosco qua e là affiora. Ma la tentazione di perdersi nella “metastoria” religiosa è rintuzzata con efficacia.
Quel che rende all’autore necessari questi testi, quello che li guida (li ispira dunque) è un’esigenza, non religiosa, di rigenerarsi per riconquistare o mantenere un contatto non deformato con la realtà. Il rapporto con la natura ne è lo strumento.
Se leggi la nota dell’autore al lettore che è premessa ai testi ne trovi conferma.
E i versi, secondo me, complessivamente non tradiscono l’intenzione dell’autore.
Il testo che ho di Per il bosco è quello che mi ha inviato Gianmario, non ho la nota cui accenni.
Sono d’accordo con te che i testi non sono ispirati dal loro essere parte della creazione, lo ho scritto già. Noi stessi siamo nella creazione, materia e corpi, e quello è il nostro orizzonte ontologico. Da questa convinzione discendono altre idee, amore-madre per esempio.
Volevo solo segnare un confine netto: se si è creazionisti si è credenti, non atei né agnostici, l’ispirazione non è in senso stretto religiosa, ma sta dentro un quadro che religioso è, e profondamente.
Diciamocelo: non siamo d’accordo. O almeno io non sono d’accordo con Marcella e Annamaria (e per altri versi con Cristiana, ma questo lo spiegherò non stasera, bensì in un prossimo commento). Non è un dramma. Abbiamo voci e modi di pensare diversi. Importante è capire perché, ciascuno/a argomentando al meglio quel che pensa.
Io ho basato la mia interpretazione (Cfr. 1 novembre 2015 alle 0:40) sulla bozza che Gianmario mi aveva inviato; e non credo che essa differisca molto dal testo definitivo poi pubblicato.
Anche in una mia lettura (7 feb. 2012) de «Il disgusto» (http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/02/ennio-abate-la-polis-che-non-ce-2-su-il.html#more), raccolta poetica di Gianmario che aveva come tema non il rapporto con la natura ma quello del poeta con la società, sottolineavo aspetti simili a quelli su cui mi sto soffermando adesso.
Da essa scelgo alcuni stralci che illustrano il mio punto di vista critico:
– «Lucini si rivolge ai potenti come se con loro un dialogo fosse possibile su un terreno comune (in questo caso quello cristiano)»;
– «Non è possibile qui a uno come me, che si richiama a Marx, a Fortini e, sul versante cristiano alla lezione del “Non c’è più religione” di Ranchetti, argomentare il proprio scetticismo e il proprio rifiuto verso ogni forma di esortazione che chieda una sorta di “suicidio dei potenti” in nome del bene comune. Mi limito a notare che la visione sicuramente evangelica, che alimenta la vena didascalico-politica di Lucini è costretta all’elegia»;
– «È per questo che un grande distacco prevale, malgrado tutto, rispetto alle cose del mondo (e alla storia). In questo ha un grande peso l’atteggiamento religioso verso la morte. Il pensiero di morte penetra in quasi tutti i suoi versi »;
– «Alla fine il conflitto sociale (“il branco dei contendenti”), che con la sua “follia di sempre”: attraversa la storia e al quale tanti suoi versi pur prestano ascolto, è guardato con distacco, come da un ghiacciaio»;
– «Questo sguardo richiama quello (forse più atterrito) del Pascoli del X agosto (“E tu, Cielo, dall’alto dei mondi/ sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi/ quest’atomo opaco del Male!”) o del Pasolini friulano più melanconico»;
In quell’occasione, Gianmario, rispondendo, aveva scritto:
«Vi prego di leggere i miei testi in questa chiave, che è politica ma non ideologica: io non mi sono appellato a nessuna ideologia, scrivendole, ma semplicemente all’evidenza dei dati disponibili e, al di là di quanto potrebbe apparire, sono convinto sempre di più che l’unico modo per risolvere i nostri problemi davvero sia quello culturale, di cambiare cultura, la cultura della povertà o se vogliamo dell’equilibrio, della responsabilità, se vogliamo un potere vero e non questo mostro irrazionale, fatto di pulsioni sadomaso che chiamiamo “potere”, e alla sua logica autoreferenziale che si tramuta in norma civile, in legge, in tendenza di opinione e di pensiero.)»
Oppure:
– «Non ci servono più le vecchie categorie di giudizio: cristiano o laico o altro: ci servono idee diverse, perché queste categorie non sanno più interpretare la direzione della storia che, se vogliamo aprire gli occhi, corre con velocità vertiginosa verso un abisso di caos…..;
– «Pertanto, dal mio punto di vista, i valori del cristianesimo ai quali qui mi appello (compassione, compartecipazione, giustizia, sostegno per le ragioni degli ultimi e dei più deboli, ecc.) NON sono soltanto valori cristiani, ma patrimonio dell’umanità, sono un’antropologia. Forse è fuorviante il fatto che ci sono dei riferimenti al Trascendente, alla Religione, al Papa, ecc.: io certo sono credente ma, in questa e in tutta la mia poesia, NON è la religione a muovere l’ispirazione, ma una cultura laica che mette la sopravvivenza della specie al primo posto. Non mi interessa il potere come classe e non voglio intraprendere nessun dialogo col potere: non è vocativa, la mia poesia. Il potere è ottuso e ignorante: non ci puoi ragionare. A me interessa la baracca, tutta la baracca, con dentro potenti, poveri, ribelli, conniventi, mafiosi – e in questo Ennio ha ragione – ma NON cambiando il potere “dal basso” (che, peraltro, in basso proprio non mi sento, davanti a certe nullità della politica, della cultura, ecc., che sono concentrazioni assurde di potere). La baracca è una e se crolla ci seppellirà tutti, nessuno escluso».
O ancora:
«Non ho mai visto una rivoluzione avvantaggiare i poveri, ma soltanto dare origine a nuove classi di ricchi e a nuove ingiustizie. O può essere anche un fallimento generale, un “default” che provoca la caduta a domino dell’occidente, con conseguenze che non riesco proprio ad immaginare. E forse, quella sarà la nostra sorte».
Io ancora gli replicai e chi ha interesse ad approfondire può vedere al link sopra indicato sia i miei commenti sia quelli di molti altri che intervennero. Si tratta, ancora oggi, di continuare ad approfondire.
P.s.
1. Tengo a precisare una cosa: mentre qui discutiamo se Gianmario fosse marxista o meno ( Marcella:« mi sento di mettere in dubbio l’affermazione che Gianmario fosse ” del tutto refrattario al marxismo”»), dobbiamo sapere che c’è stata la liquidazione quasi totale del pensiero marxista e di quello di Marx stesso dal panorama culturale italiano.
2. Anticipo qui che ho guardato i tre video segnalati da Franco Nova (qui: http://www.conflittiestrategie.it/basta-chiacchiere-sul-comunismo-intervento-di-g-la-grassa-a-cura-di-m-tozzato), che confermano ulteriormente questo orientamento culturale di liquidazione di un modo di pensare il mondo e la società. Ci tornerò su appena possibile.
Grazie per questo scorcio di memoria che mi salverò tra le cose più care da leggere …
Grazie. Ho segnalato variamente. Saluti.
Grazie a te. Un saluto
Questa riproposizione di conversazioni per me sconosciute mi sembra preziosa. Grazie.
C’è un brano di Gianmario che riporti, Ennio, che risponde in pieno a quello che volevo affermare: ” i valori del cristianesimo ai quali qui mi appello (compassione, compartecipazione, giustizia, sostegno per le ragioni degli ultimi e dei più deboli, ecc.) NON sono soltanto valori cristiani, ma patrimonio dell’umanità, sono un’antropologia. Forse è fuorviante il fatto che ci sono dei riferimenti al Trascendente, alla Religione, al Papa, ecc.: io certo sono credente ma, in questa e in tutta la mia poesia, NON è la religione a muovere l’ispirazione, ma una cultura laica che mette la sopravvivenza della specie al primo posto.”
Credo che almeno da un certo punto in poi (è possibile che anche il confronto con te e con Poliscritture lo abbia stimolato) anche il marxismo sia stato considerato da Gianmario entro quel patrimonio culturale dell’umanità cui far ricorso per perseguire i propri scopi (in questo senso dicevo “mi sento di mettere in dubbio l’affermazione che Gianmario fosse del tutto refrattario al marxismo”).
La nota dell’autore alle poesie di Per il bosco:
“Nella nostra vita occorre trovare un luogo sempre accessibile, dove sia possibile una personale palingenesi, altrimenti si rischia di deformare ogni nesso, ogni significato, ogni contatto con la realtà.
Io l’ho trovato nelle mie montagne, a pochi passi da casa mia. Ognuno lo può trovare, dove decide di trovarlo.
C’è sempre un bosco che ti attende da sempre – soltanto te, nessun altro”.
Che bello, Marcella!
Grazie Marcella per il lavoro prezioso sulle poesia di Lucini e per quest’ultimo intervento che, insieme a tutti gli altr, ci ha fatto conoscere la ricchezza e la complessità di Gianmario Lucini uomo e poeta.
Maria Maddalena Monti
Non ho fino ad ora partecipato al ricordo di Lucini per il semplice fatto che non ho avuto modo di conoscerlo direttamente. Per quanto ne avessi sentito parlare dai tempi delle mie prime frequentazioni nel laboratorio dei moltinpoesia a Milano e poi collaborando con Poliscritture, non ho mai avuto l’interesse e la volontà di capire meglio e bene di che cosa si trattava. Nel fiume comunicativo nel quale siamo immersi di scritture di ogni tipo, spesso quelle più importanti e profonde sfuggono.
Oggi mi pento di questa svista grossolana, di non avere colto l’importanza della sua opera editoriale e di animatore culturale, del suo fare poetico e la riflessione di Marcella mi fa dire che quello che da anni cerco nella poesia e nella condivisione con chi la scrive sicuramente la trovo anche nella ricerca proposta da Lucini.
Una poesia che si collega e cerca le sue ragioni nel contesto nel quale vive il poeta e gli altri con lui, nella realtà presa in carico nelle sue contraddizioni e nel suo orrore quotidiano. Penso in questo senso ad una opera come “L’impoetico mafioso”, alle ragioni dell’introduzione che certo non sono altra cosa rispetto ai versi qui in discussione.
Una ricerca non solo estetica della bellezza ma riempita di contenuti tra i quali quello ecologico, interpretato nei termini proposti da Marcella, a mio parere è quello più necessario e centrale per il quale possa valere la pena scrivere ancora. Vorrei sottolineare che l’ambiente e il tema natura sviluppato nei versi proposti hanno una valenza diversa da quello che di solito si legge sul tema. Lucini mi pare che cerchi di andare oltre l’approccio oggettivo, per il quale l’ambiente resta solo uno sfondo sul quale proiettare la nostra sensibilità o la morale ambientalista. I suoi versi si orientano, ed in buona parte ci riescono, verso un rapporto con la natura di tipo bio-centrico nel quale ci riconosciamo parte minima di un tutto ben più ampio. L’assumere il punto di vista dei fiori d’altura, o quello animale mi pare che si ricolleghi, non so se consapevolmente e se lui conoscesse questi autori, con le riflessioni e le scritture dei poeti che hanno assunto l’ecologia profonda come riferimento. Mi riferisco ad autori come Gary Snyder, Arne Naess, Wendell Barry ecc che operano e hanno operato principalmente nel contesto americano e dei paesi nordici. In questi versi di Gary Snyder, tratti dall’opera più ampia “Verso il climax” ad esempio scorgo una affinità e una convergenza con quelli proposti:
la scienza cammina nel bello:
una rete è molti nodi
la pelle è la guardia di confine, una pelliccia
è caldo preso in prestito;
un arco è la curva di un ramo nel vento
un immenso edificio nel centro
è il letto di un torrente messo in piedi
le vie del detrito. “maniere complesse e ritardate
di trasmettere il cibo attraverso reticoli”
maturità, fermarsi a ripensare. attingere alla
ricchezza accumulata della mente. il sogno, la memoria
l’immagine semidigerita
della propria esistenza. “le vie del detrito”-
sono quelle che nutrono
le molte minuscole cose che nutrono il gufo
mandare il cuore in viaggio arditamente
sul fuoco dei morti e sepolti.
Filtrato dalle deformazioni dell’animalismo patinato quotidiano, che delle questioni ambientali di gestione delle risorse non si occupa, il sentirsi parte dell’ambiente assumendo il punto di vista di tutte le sensibilità umane e non umane che lo abitano è non solo un atteggiamento individuale (spirituale? religioso? pre-politico?) ma una posizione fondata scientificamente: il riconoscimento della base biologica del nostro esistere e la necessità di un equilibrio generale nel quale collocarla. La radice profonda dell’impatto insostenibile che lo sviluppo industriale esercita sulle risorse non risiede principalmente nella cesura operata, principalmente a livello culturale, tra l’uomo e il proprio ambiente naturale? Io credo che la politica debba partire anche da questo dato e non liquidarlo perché non integrabile con le categorie abituali dell’agire politico.
…penso anch’io che il discorso ecologista abbia una valenza politica (se non viene fuorviato e strumentalizzato per nascondere l’intero pacchetto dei problemi dell’uomo e le dinamiche perverse che li sottendono) ed è centrale per aiutarci a riprendere uno spazio non antropocentrico in seno alla natura…Luca, quello che tu dici sul poeta G. Lucini mi colpisce e non solo per la sincerità…