di Ennio Abate
Scaletta per un cantiere di Poliscritture
Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!
(Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo[1]).
La domanda che dà il titolo a questa scaletta potrebbe far da premessa a una mappatura della poesia contemporanea (quali sono i testi che oggi vengono giudicati ‘poesia’?) ma anche a un giudizio critico su di essa, che per varie ragioni molti giudicano insoddisfacente, insufficiente o peggio (non poesia, parapoesia, similpoesia).
«La poesia ha cento strade» ha detto tempo fa un poeta. E la sua affermazione coglieva in effetti la pluralità persino caotica delle attuali ricerche (un’antologia del 2005 s’intitolava appunto «Parola plurale» [2]) e alludeva anche al crescente numero di persone che scrivono e pubblicano versi (il fenomeno dei “moltinpoesia”).
Si pongono tre problemi:
– che il campo della poesia venga definito coi convenzionali criteri estetici di qualità, originalità, intensità della comunicazione oppure con altri meno rigidi e tendenti ad ampliarlo il più possibile (ad es. facendovi rientrare anche le canzoni o lo slam poetry), c’è da chiedersi se davvero tutte le strade conducono alla poesia e, se sì, a quale.
– i testi oggi considerati di poesia da chi se ne occupi per passione o per professione, reggono il confronto con quelli di un passato più o meno recente che definiamo ‘classici’ oppure richiedono altri criteri di valutazione (e quali)?
– le «cento strade» di cui la poesia disporrebbe oggi (riconducibili comunque ai due grandi “vialoni” del Formalismo e del Contenutismo, ora confluenti ora divaricantisi) sono tutte equivalenti e percorribili? O, come si dice oggi, “vanno tutte rispettate”? Oppure resta tuttora importante (anche se mai decisivo, perché a volte la poesia viene da strade dove non la si attende!) indagare il rapporto attivo e persino conflittuale tra poesia e extra-poesia (quest’ultima indicata di solito con termini quali: realtà, storia, società, politica, religione, scienze, filosofia, psiche) e definire quale sia la poesia necessaria o auspicabile oggi e perché e per chi?
Si chiede perciò a quanti si occupino di poesia (come autori, critici, lettori) un breve scritto (da inviare a: poliscritture@gmail.com) che risponda alla domanda del titolo argomentando il proprio parere e seguendo – se si vuole; e con ampia libertà di trattare tutti o soltanto alcuni dei punti – la seguente traccia:
- rilevanza o meno per il singolo (poeta, critico o lettore) del fenomeno della “scrittura di massa” nella poesia contemporanea (o dei “moltinpoesia”);
- necessità o meno di proporsi in poesia una ricerca che miri al confronto/scontro con l’extrapoetico;
- necessità o meno di puntare in poesia sull’utopia o sul sogno (assoluto) della poesia.
- possibilità o meno di trovare in poesia una mediazione tra il «bisogna sognare» e il «bisogna svegliarsi», tra utopia e realtà, tra bellezza e orrore (della vita o della storia).
- rapporto tra realtà (intesa in senso ampio: come esterno fisico e mondano, come interno o psichico, come tempo che scorre, come storia sensata o insensata, ecc.) e forma poetica (in generale e non solo intesa come “bella forma”).
- problema dell’esistenza o meno in poesia di una qualche tradizione a cui sia possibile ancorare le esigenze di eticità o di politicità connesse al linguaggio poetico.
- importanza maggiore o minore del tema o del contenuto in poesia. (Se si ritiene che esso, ben formalizzato, si depuri totalmente dei suoi tratti storici specifici; o se, malgrado tutto, la forma sempre sveli quel legame, non riuscendo mai del tutto a “sublimarlo”).
- Liricità e politicità (o lirica e epica; o io e noi) vanno considerati due campi in tensione tra loro (o addirittura contrapposti e irriducibili) oppure possono intrecciarsi e mediarsi.
[1] B. Brecht Dal frammento La bottega del fornaio
[2] A cura di Cortellessa ed altri, Sossella 2005
1 puntare sull’utopia E sul sogno assoluto della poesia
2 bisogna sognare per potersi svegliare, combinare sogni-incubi e utopia
3, 4 realtà (quale?) e forma poetica coincidono: il cosiddetto orrore non è appunto la bellezza?
5, 6 se realtà è tradizione siamo… fregati
7 il contenuto non si depura, e perché mai?
8 la tensione tra i due campi -io e noi- è il campo dell’arte, della poesia
Vorrei dirlo senza tanti giri di parole, che qui sotto accusa c’è niente meno che il caposaldo dei canoni artistici: quello dell’ universalità. Ci si chiede cioè se non sia il caso di metterla da parte per prendere una posizione netta e chiara, sui fatti spiccioli della vita come per le grandi circostanze. Di conseguenza si va a toccare la sua funzione simbolica e rappresentativa, quella che ingloba la molteplicità dei significati, dovuta all’intento di essere quanto più aderente al reale. Se ne va l’imparzialità e qualsiasi misura del giudizio interpretativo. Tranne naturalmente quello investigativo, basato su fatti concreti, siano essi di carattere sociale, psicologico o perfino anche metafisici. In sé non sarebbe una novità perché già Dante… ma forse occorre ribadirlo perché la cultura post-moderna ha generato parecchi equivoci sulla classicità.
BOH!
@ Fischer
Non capisco se le tue siano o no risposte telegrafiche ai punti della scaletta. Se sì, davvero troppo telegrafiche… e (per me) criptiche.
@ mayoor
Mi meraviglia l’affermazione: « qui sotto accusa c’è niente meno che il caposaldo dei canoni artistici: quello dell’ universalità» e quel che segue. Tanto più che, pur essendo io l’estensore della scaletta, ho scartato una prima formulazione forse troppo “personale” e “orientata” (o “tendenziosa”) e scelto di scriverne una aperta e, credo, più che problematica. Che non esclude le tesi contrapposte a quelle da me sostenute in altri numerosi interventi.
In effetti qui non si parla di poesia esodante. Può essere che ci si arrivi, almeno nei contenuti.
Hai ragione, Ennio, le mie note precipitose sono criptiche, prova provata che un’illuminazione interiore risulta buio pesto per gli altri.
Riprendo in mano il filo e lo svolgo in modo discorsivo. Al punto 8 tu proponi che io e noi, oppure lirica ed epica, oppure liricità e politicità, siano un argomento su cui riflettere. Se vadano considerati due campi in tensione tra loro, oppure contrapposti e irriducibili, oppure intrecciati e mediabili.
Tra io e noi individuo un unico campo, non due, e uno spazio, che percorro sia come lettrice che come facitrice di poesie. E’ lo spazio che compio avvicinando la poesia di altri, comprendendola (lo spazio si interseca), risuonando io stessa del senso della poesia che ho avvicinato e del senso che altri (la critica) hanno messo in comune. Lo spazio è effettivamente diventato un “campo”.
La stessa creazione di relazioni, quindi di spazio che è anche un campo di tensioni, avviene se scrivo per essere letta.
Mi sembra però che non sia equivalente la tensione tra io e noi alla eventuale opposizione tra lirica ed epica. Epica come un poeta che racconta una collettività? che la interpreta? che la registra? Non mi vengono in mente poeti di oggi che siano *solo* epici e non *anche* lirici (so però che in realtà ne conosco poca, di poesia).
Non so neanche se sia consistente identificare una opposizione tra liricità e politicità al campo io-noi. La lirica non vuole essere voce che grida nel deserto bensì voce che vuol farsi ascoltare, il deserto non è una scelta ma una disgrazia che a volte accade (oppure la conseguenza di una pessima lirica). La politicità è interna alla lirica anche quando soggettivamente il poeta la voglia escludere.
Un altro aspetto è invece quello di volere scrivere poesia intenzionalmente politica, come la poesia proposta di Majakovskij, ma è un argomento che per me va trattato a parte.
Aggiungo solo che non intendo identificare il campo io-noi con la società letteraria, i lettori sono molti di più dei letterati perchè il campo che viene creato dalla poesia attraversa più spazi e più tempi. Il lavoro di esplorare, arare e nutrirsi del campo io-noi della poesia, è quello che stiamo facendo, non è così?
Mi fermo qui, per quanto riguarda il punto 8, riprenderò sull’utopia.