a cura di Ennio Abate
Ieri sera terminavo un mio commento rivolto a Marina Massenz (qui) così: «Europa dei popoli? Ritorno agli stati nazionali? Mica facile scegliere. Ma ragioniamoci su, sperando che ci sia tempo per farlo». E prima ancora rispondendo a Piras e ad altri su “Le parole e le cose” (qui) scrivevo: «Ritornare agli stati sovrani non mi pare meno difficile che fare uno Stato politico europeo. Ma indipendentemente da questo, qual è però la scelta di valore da sostenere, la scommessa da fare? Ritornare agli stati sovrani o costruire più decisamente lo Stato (politico o federato) europeo? E nella logica di «Jean Thiriart, di Napoleone, e anche di Hitler»? O in alleanza con la Russia di Putin, lodatissima da Barone e che però a me pare un semplice ribaltamento della «russofobia da quattro soldi» di Piras? A questo punto, criticate le varie posizioni, cosa potrei proporre (sempre ragionando in teoria)? Non certo l’utopia (né in forma socialdemocratica: « Una specie di Svizzera+Svezia» o una «Potenza gentile» alla Rusconi né « la rivoluzione proletaria planetaria» su cui ironizza Piras…). Semplicemente una posizione alla Madre Courage. Poca cosa, forse, ma questo è quel che penso».
Oggi riporto interamente un articolo di Francesco Berardi Bifo da «alfabeta2» (qui), che analizza in particolare la situazione francese ma amplia il quadro ad esempi storici (cfr. un sondaggio del 1939) e ad opere di autori come Houellebecq , Finkielkraut e Pankaj Mishra e permette un approfondimento della questione, affrontandola soprattutto nei suoi aspetti politico-sociali più che geopolitici. Anche se le prospettive che delinea sono piuttosto pessimiste. Lo sottopongo alla discussione, anticipando che nei prossimi giorni pubblicherò anche uno scambio di opinioni tra il politologo e asiatista Michelguglielmo Torri e lo scrittore e giornalista Piero Del Giudice sulla natura dell’Isis.[E. A.]
Il triste patriota Houellebecq
L’articolo di Houellebecq che il Corriere della sera ha pubblicato in prima pagina il 19 novembre è sconsolante: inizia dicendo che il governo francese è responsabile della tragedia che ha colpito Parigi, perché ha provocato le popolazioni di molti paesi arabi con i bombardamenti umanitari degli ultimi anni, poi rimprovera al governo francese di non essersi opposto con la dovuta energia all’ondata migratoria che nereggia ai confini d’Europa.
“Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo?” chiede Houellebecq con sdegno patriottico.
Poi elogia il buon popolo francese che “ha sempre conservato fiducia e solidarietà nei confronti dell’esercito e delle forze di polizia; ha accolto con sdegno i predicozzi della « sinistra morale» (morale?) sull’accoglienza di rifugiati e migranti e non ha mai accettato senza sospetti le avventure militari estere nelle quali i suoi governanti l’hanno trascinata.”
La confusione regna nella mente frastornata di Houellebecq, ma Houellebecq è un poeta, il suo delirio va letto con rispetto perché l’inconscio collettivo si esprime anche nella voce di Celine, di Limonov. Il delirio reazionario è un genere letterario talora apprezzabile, se non fosse che qualche volta incontra e fomenta un’onda reazionaria di massa. E allora sono guai.
E’ comprensibile che la popolazione sia spaventata dall’afflusso di stranieri, soprattutto dopo la notizia (falsa? vera?) che uno degli assassini del Bataclan è sbarcato all’isola di Leros confondendosi tra i siriani che cercano rifugio in Europa.
Ma è desolante che la xenofobia securitaria dilaghi negli ambienti intellettuali.
Ricapitoliamo le puntate precedenti per chi fosse arrivato tardi: in primo luogo le guerre che stanno devastando il mondo islamico da Kabul a Tripoli sono state provocate dall’intervento americano dell’ultimo quindicennio e da quello francese dell’ultimo lustro, per tacere di due secoli di oppressione coloniale europea.
In secondo luogo coloro che fuggono dalla Siria o dagli altri paesi lo fanno perché fuggono dal terrore, non perché vogliono portare con sé il terrore (anche se tra di loro possono nascondersi i terroristi).
In terzo luogo, al di là di ogni considerazione umanitaria, occorre riflettere su quello che potrà accadere nel prossimo futuro di questa massa umana che si aggira ai confini d’Europa. Non è difficile immaginare che da una massa di disperati possa emergere il prossimo mostro che atterrirà i buoni cittadini europei.
L’immensa folla che si sta formando alle frontiere meridionali e orientali dell’Unione europea (si parla di dieci milioni di migranti che dai deserti nordafricani alle coste turche dell’Egeo aspettano di potersi trasferire nel territorio europeo) potrà conoscere nel futuro due possibili destini: sarà il soggetto del prossimo Olocausto, o sarà il soggetto della futura ondata terroristica. O più probabilmente tutt’e due.
E’ inquietante come una parte consistente, anzi maggioritaria, della popolazione europea abbia deciso di chiudersi in una fortezza, anche se la fortezza ha mostrato di non funzionare. Ma è ancora più inquietante che una parte consistente, forse maggioritaria degli intellettuali francesi non vedano il nazionalismo che torna come un pericolo, ma anzi lo accolgano, lo fomentino.
Un sondaggio del 1939
Il 17 Novembre Hisham Thavoor ha pubblicato su Washington Post un articolo che ricorda la reazione dei cittadini americani (intervistati dall’agenzia di sondaggi Gallup, che allora stava cominciando le sue attività con tecniche certamente molto meno raffinate di quelle attuali), di fronte alla proposta di ospitare cittadini ebrei tedeschi nel 1939, dopo la Kristallnacht che diede il via all’Olocausto.
Il 4.9% degli americani intervistati si dichiarò favorevole all’accoglienza degli ebrei tedeschi, il 18.2% era favorevole solo a certe condizioni, il 67.4% disse che bisognava cacciarli via, il 9.5 non sapeva. Non so se esistano sondaggi sull’attuale disponibilità della popolazione europea ad accogliere i milioni di migranti che stanno fuggendo dai paesi in cui la guerra ha già raggiunto la sua piena estensione, ma non mi stupirei se le percentuali fossero più o meno le stesse. In ogni caso i governi europei, dopo avere ignorato per venti anni il montare di un’onda di emigrazione che da molto tempo appartiene all’ordine dell’incontenibile, dopo essersi trincerati dietro il razzismo economico delle popolazioni dell’Europa del Nord e del Centro, dopo aver tentato di gestire l’onda con misure amministrative tardive ed esitanti, ora sono giustificati a respingere la massa di disperati che non smette di crescere. Si costruiscono campi di concentramento sul territorio europeo, alle frontiere, o preferibilmente in paesi confinanti. La Turchia, governata da un regime militarista e islamista insieme, è il carceriere privilegiato. Dopo essere stata respinta per iniziativa precipua di Sarkozy, con motivazioni umanitarie (ma in realtà per non urtare i sentimenti di una parte dell’elettorato francese), la Turchia è stata spinta verso l’isolamento e ha finito per assumere caratteri di nazionalismo islamista. Fingiamo di credere che la Turchia, in quanto paese Nato, voglia partecipare alla guerra contro Daesh, ma sappiamo bene che i militari turchi colpiscono le donne e gli uomini kurdi che al momento sono gli unici a respingere l’offensiva jihadista. Nei primi giorni di Novembre la Cancelliera tedesca ha dovuto accettare l’imbarazzante incombenza di recarsi da Erdogan per chiedergli umilmente di tenersi due milioni di profughi, tra i quali naturalmente moltissimi curdi siriani.
La défaite de la pensée
Quando Marine Le Pen ha mostrato il suo apprezzamento per le posizioni degli intellettuali più letti (o più mediatizzati) della scena parigina, molti si sono chiesti sbigottiti come può essere accaduta una cosa così. Le Monde ha pubblicato un dossier dal titolo La derive des intellectuels, e la rivista Magazine literaire ha pubblicato un dossier dal titolo Lumieres contre Lumieres: La dechirure française. In verità non c’è tanto da stupirsi, perché una forma paradossale di nazionalismo domina la vita intellettual-mediatica parigina.
L’autore che mi permette di capire cos’è accaduto è Alain Finkielkraut, che recentemente ha pubblicato La seule exactitude. Il libro è composto di articoli e conferenze radiofoniche: i fili di cui il libro è tessuto sono l’identità, il pericolo dell’immigrazione islamica per l’identità francese, la necessità che la scuola pubblica trasmetta i valori dell’identità repubblicana e dell’universalismo.
Nella mia personale memoria Alain Finkielkraut (oltre ad avermi segnalato quando eravamo ragazzi l’AndiOedipe, pochi mesi dopo la sua prima edizione) è l’autore di La defaite de la pensée, un libro del 1987 che poneva il problema dell’universalità dei valori moderni di fronte al riemergere della logica dell’identità. Quel libro anticipava che l’appartenenza aggressiva riprendeva uno spazio decisivo nella storia del mondo. Ciò divenne evidente negli anni ’90, il decennio della guerra jugoslava, ma anche il decennio di Internet, oceano delle identità che si auto-confermano nell’ignoranza dell’altro.
Finkielkraut raccontava in quel libro che dalla fine del secolo diciottesimo si affrontano in Europa due visioni: quella dei diritti dell’uomo fondata sull’universale astratto dell’umano, e quella della nazione e del popolo che nasce dalla storia plurale delle tradizioni e dei luoghi.
Nel mondo globalizzato la merce circola senza confini mentre le culture si rinchiudono nel particolarismo delle identità: nessun principio universale può governare la trasparenza informe delle merci. Nessuna legge universale può governare l’opacità aggressiva dei discorsi, delle memorie, delle identità.
La defaite de la pensée mi parve un libro lungimirante, ma gli sviluppi più recenti del pensiero di Finkielkraut hanno prodotto un paradosso: l’identità francese è fondata sulla ragione universale incarnata dalla legalità repubblicana. Universalismo e identità si intrecciano in una sorta di maligno doppio legame.
La Francia è il paese in cui meglio si manifesta l’universalità della ragione, ma proprio per questo ha aperto le porte all’invasione dei dogmatici, dei fanatici, di coloro che nel nome del dogma religioso escludono e aggrediscono. La tolleranza universalista ha permesso ai più intolleranti di occupare lo spazio della pluralità per poi piegarlo con la violenza.
Ecco allora che in nome dell’universalismo Finkielkraut finisce per legittimare una cultura politica neo-identitaria.
Il groviglio è paralizzante, e da questo groviglio la destra emerge con le sue soluzioni ignoranti, semplici e violente.
La novità del presente
Nel suo nuovo libro, La seule exactitude, Finkielkraut ci mette in guardia contro la tentazione di leggere il presente attraverso le lenti del passato, e di chiamare “fascismo” la rivendicazione di identità nazionale che sta diventando maggioritaria. Se nel presente cerchiamo i segni del ritorno del passato, dice l’autore de La seule exactitude, se nell’islamofobia contemporanea cerchiamo i segni del ritorno dell’antisemitismo nazista, allora il passato si trasforma in una lente deformante che ci impedisce di comprendere l’essenziale del presente, perché perdiamo di vista la novità della violenza e dell’ignoranza contemporanea.
L’invito a non leggere il presente con le lenti del secolo passato è sacrosanto,
ma nel primo squarcio del nuovo secolo gli effetti del social-darwinismo neo-liberale si intrecciano con le molte forme (contraddittorie fra loro) di rancore identitario e sovranista.
La novità del presente (la seule exactitude, per l’appunto) non sta nella nazione, o nel popolo, o nell’identità, e neppure sta nell’universalità della ragione e del diritto. Questi sono i fantasmi che ossessionano l’inconscio europeo e particolarmente il pensiero francese che cominciò un tempo a chiamarsi nouvelle philosophie perché era il ritorno di tutte le parole che diventarono vecchie dagli anni ’70 in poi.
L’ottica identitaria di Houellebecq Finkielkraut e molti altri della generazione sessantottina inacidita, impedisce di vedere le cose essenziali.
Non si vede anzitutto il fatto che i nodi del colonialismo sono giunti al pettine:
cento anni di umiliazione culturale e di impoverimento sociale hanno prodotto il mostro dell’islamismo contemporaneo, e due secoli di violenza colonialista hanno scavato un fossato di odio che non si può dissolvere con la tolleranza universalista, come racconta Pankaj Mishra nel libro From the Ruins of Empire: The Intellectuals Who Remade Asia(2012). un libro che ricostruisce l’origine del discorso identitario in India in Cina e nel mondo islamico tra il tardo ‘800 e il primo ‘900.
Nel groviglio dell’attuale guerra frammentaria che tende a divenire globale si mescolano innumerevoli conflitti, ma quello decisivo nel lungo periodo è il conflitto delle identità post-coloniali che rivendicano una redistribuzione delle risorse sottratte dalle potenze coloniali europee.
il vento gelido dell’astrazione
In Europa sta emergendo un fronte disomogeneo di nazionalismi europei che in modo sempre più omogeneo si oppongono all’euro, al globalismo della merce, e rivendicano sovranità.
Questo fronte che va da Orban a Le Pen a Salvini-Berlusconi, e include gli stessi anti-russi polacchi, guarda a Putin come a un esempio di sovranità riaffermata, di nazional-populismo e di rigore anti-islamico.
Il futuro d’Europa si gioca nell’alternativa tra violenza finanziaria e violenza nazionalista. Nei prossimi anni appare impossibile immaginare l’autonomia della società da questa alternativa infernale, e la sola alternativa all’orizzonte alla devastazione sociale neoliberista è oggi il nazionalismo dilagante e la guerra civile europea.
Ciò che sfugge al nazionalismo temperato di Finkielkraut, e all’esangue paradossale identitarismo francese, è il rapporto stringente fra il dominio dell’astrazione finanziaria e la reazione identitaria e aggressiva del corpo sociale separata dal suo cervello, poiché il cervello funziona secondo un codice automatico. Dal dominio dell’astrazione soffia un vento gelido che istilla nell’anima francese un’immensa tristezza che Houellebecq ha raccontato ne La soumission: un libro sulla tristezza che nasce dalla dissoluzione del desiderio collettivo e dal bisogno rancido di identità e di appartenenza.
La sottomissione alla volontà suprema (quella di Allah o quella del Mercato) non esclude affatto (anzi implica) la sopraffazione dell’uomo sull’altro uomo, e particolarmente la sopraffazione dell’uomo sulla donna, come Robert Rediger, rettore della Sorbona al soldo dei Sauditi dice con una specie di islamo-darwinismo nell’ultima parte de La soumission.
Sottomettersi all’appartenenza identitaria, o sottomettersi all’astrazione finanziaria. Il catalogo è questo, e per il momento non si vede una via d‘uscita.
19 novembre 2015
Quello che è singolare, in questo articolo di Bifo, è che la “contraddizione principale” è posta tra l’astrazione finanziaria e la reazione identitaria, qui da noi, in Francia e in Europa.
E non, per esempio, tra la concentrazione proprietaria e l’esclusione, che si è trasformata in espulsione, trasversali all’economia globale.
“Come categoria analitica, quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di ‘esclusione sociale’: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.” http://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/6036-saskia-sassen-le-nuove-logiche-del-capitalismo-predatorio.html
Due conseguenze secondo Bifo della contraddizione (principale, secondo lui) tra universalismo e identità: il fossato di odio tra l’occidente e le identità post-coloniali; una visione globalista dei movimenti nazionalisti o sovranisti europei. E’ sparita… la lotta di classe!, o chiamiamoli almeno conflitti di interesse nelle società europee. Il ceto medio si potrebbe svegliare dalle sue astrazioni svincolate dai rapporti di classe.
Io credo che ipotesi sovraniste possano e debbano invece partire dai conflitti di interesse interni ai singoli paesi, e che da qui si possano stabilire alleanze e con altri paesi e con gli immigrati, che sono i più esposti direttamente allo sfruttamento.
Quelle categorie globali che Bifo identifica, l’universalismo dei valori, l’identità nazionale, sono proprio le vecchie categorie novecentesche, è vero che la seconda internazionale ha perso la sua battaglia contro la I guerra mondiale, ma non va bene riutilizzare di nuovo concetti generali per occultare i conflitti interni. Proprio perché, di nuovo, servono, nonostante gli scongiuri, a preparare alla guerra.
quest’inverno
Prima cadranno le foglie dei frassini
colore d’arancio e di vino
e gli aceri color di mora
e il sorbo rosso trionfale
un solo giorno spoglierà di vento
l’ulivo resta nei suoi fumi
grigi versanti. Intorno la foresta
di rami all’aria bianca.
Allora traffici di formiche nel fango
e discorsi sospesi
intanto, diceva il poeta,
io credo che tutto che sempre
per ogni luogo è novembre
a una stazione di posta
accompagnava chi parte e restava
attesa d’inverno che asciuga
nuovi succhi di carne
artigli d’ignoto sulle vesti
in fila i migranti respinti
come popoli antichi che hanno perso la terra
del Nord hanno visto l’annuncio
la luce e il freddo in una morsa
che stringe gente libera
alla fatica e a obbedire
e servire perfino
“E’ sparita… la lotta di classe!, o chiamiamoli almeno conflitti di interesse nelle società europee. Il ceto medio si potrebbe svegliare dalle sue astrazioni svincolate dai rapporti di classe. Io credo che ipotesi sovraniste possano e debbano invece partire dai conflitti di interesse interni ai singoli paesi, e che da qui si possano stabilire alleanze e con altri paesi e con gli immigrati, che sono i più
esposti direttamente allo sfruttamento” (Fischer)
Due domande su cui riflettere:
1) è sparita o no la lotta di classe?
2) se sì, da cosa è stata sostituita?
3) se è stata sostituita da “conflitti d’interesse nelle società europee” , quali sarebbero?
4) se non è sparita [la lotta di classe], come si concilia con le ipotesi sovraniste che a me paiono coincidenti con quelle nazionaliste *?
* Anche se su “Le parole e le cose” Vincenzo Cucinotta, sostenitore di tali ipotesi, mi ha obiettato:
“Mi pare che il cuore delle tue obiezioni rispetto a quello che ho scritto, sta nel sovranismo.
Innanzitutto, bisogna sgombrare il campo dalla confusione tra nazionalismo e sovranismo.
Secondo me, senza dilungarsi in riflessioni di carattere teorico, v’è un modo immediato per distinguerli.
Il nazionalismo è singolare, e il sovranismo è plurale. Chi è nazionalista, vuole far prevalere la propria nazione a scapito delle altre, ha quindi un punto di vista di parte.
Chi invece è sovranista, immagina un processo che possa avere compimento parallelamente in tutti gli stati, perchè non c’è la pretesa di conferire un ruolo preminente al proprio, ma quello di contrastare il globalismo.
Il contrasto è tra sovranismo e globalismo, non tra nazionalismo ed internazionalismo.
Mi spingo sino a dire che il sovranismo è internazionalista, perchè suggerisce una via, un’opzione politica buona per tutti, anzi oggi il vero internazionalismo non può che essere sovranista. Chi per primo riuscirà a sottrarsi al globalismo distruttivo ed antiumano dominante, avrà svolto già con il suo stesso esempio una funzione di stimolo e di suggerimento per tutto il mondo, per tutta l’intera umanità.” (http://www.leparoleelecose.it/?p=21088#comment-316997)
A Cucinotta avevo già obiettato che “un processo che possa avere compimento parallelamente in tutti gli stati, perchè non c’è la pretesa di conferire un ruolo preminente al proprio, ma quello di contrastare il globalismo” non si è mai dato perchè gli stati europei non sono mai stati tutti uguali.
Mi aveva risposto ribadendo una visione graduale e pacifica di sovranismi per imitazione, il sovranista più virtuoso indurrà gli altri man mano a sovranizzarsi. A tanta celeste utopia non ho creduto possibile rispondere. Se le ipotesi di sovranismo sono come quelle di Cucinotta direi che non c’è speranza.
Ma continuo a pensare che speranza ci sia a partire dalla politica concreta, che riconosca ben chiari conflitti e interessi e che li nomini. (Se ritrovassi un testo letto qualche mese fa, in questa prospettiva di identificazione e di alleanze tra classi, lo citerei, forse Airaudo? altrimenti bisogna accontentarsi della mia scarsa capacità di illustrare il tema.)