di Cristiana Fischer
Uno era bruno, alto, aveva gli occhi blu scuro, giovane, ricordo il nome Antòn. Io avevo compiuto undici anni e i giovani maschi adulti mi affascinavano. L’altro un po’ piú vecchio, biondiccio e piú basso, un professore, cosí si spiegavano in latino lui e mio padre. Profughi dall’Ungheria. Mia madre cuoceva gli spaghetti, i due li condivano con la marmellata o con il cacao. Forse, non ricordo se è successo davvero, si sono convinti dopo le prime volte a condirli con il ragú.
Anche noi eravamo erranti, o nomadi, vissuti finora in case di parenti tra due città. In qualche collegio e colonia uno zio prete e due zie, l’una suora e l’altra patronessa dell’Azione cattolica, facevano sistemare noi bambini per brevi periodi. Ai profughi si era abituati, quelli cacciati dalla Yugoslavia, i poveri desolati e quelli furiosi, a gruppetti davanti alle aiuole di piazza Oberdan a Trieste.
Mio padre alla fine il lavoro lo aveva trovato al Cavallino, prima di Punta Sabbioni, che chiude la laguna. Da lí cominciava un lungo arenile selvatico per quasi trenta chilometri fino a Cortellazzo, alla foce del Piave (dove avevano sistemato i fuoriusciti), una serie di dune con ciuffi di erbe a stelo lungo e lame taglienti, serpenti neri detti carbonazzi, vipere, tartarughe grandi e piccine, da poco erano stati catturati i cavalli selvatici. Pinete sullo sfondo dell’entroterra, i carri a cavallo erano ancora diffusi.
Si viveva quasi tutti cosí poveramente che non si avvertivano differenze con gli ungheresi arrivati, se non perché parlavano una lingua di cui nessuno conosceva una parola. Il regime politico a cui si erano ribellati sembrava per noi un’esperienza dovuta masticare, a chi lo difendeva si rispondeva: ma non ti ricordi il fascismo? Forse la Russia – cioè l’Unione Sovietica – era meglio, ma non era cosa diversa: forse lo era il regime o l’ideologia, ma non il vivere, il modo di stare sotto il potere. Anche per questo i profughi ungheresi erano accolti bene, si erano ribellati anche loro come tutti noi almeno all’idea, del fascismo, alla miseria delle sue fandonie e dei suoi insuccessi.
Pochi anni dopo bisognò cambiare ancora, insieme a molti altri, da tutto il paese. Milano raccoglieva lavoratori da ogni parte, diventava la città di noi immigrati. I milanesi originari vivevano sparsi in mezzo a noi, anche nella città nuova, nelle periferie che si allargavano a raggera. Solo i ricchi e importanti restavano chiusi tra le vie antiche, in edifici storici e ville con parchi. Non c’era bisogno di incontrarli per doverci sentire diversi, la comune realtà lavorativa e la scolarità incoraggiata e estesa ci facevano sentire quasi uguali, comunque omogenei. Tornavano anche i lavoratori emigrati, raccontavano che altri paesi europei erano piú progrediti ricchi civili liberi e colti, ma noi eravamo come loro e potevamo migliorare moltissimo.
Da allora, per meno di un ventennio, non fummo piú migranti interni ma nomadi curiosi. Si tornava a visitare con consapevolezza cittadina le zone di origine, le regioni degli amici, dei colleghi di lavoro, dei compagni di credo politico. I viaggi presero un carattere di scambio politico e culturale, tra il nord e il sud del paese, poi tra i paesi europei,
e dovunque.
Quando finí il tempo delle rivoluzioni anticoloniali diventammo turisti. In luoghi non ancora macinati dall’economia, intatti e naturali, esotici e eccitanti quanto piú difficili da raggiungere, in mezzo agli oceani o in cima alle montagne.
I turisti hanno invaso – non solo le forze militari – paesi antichi con economie estranee ai circuiti delle merci occidentali, dove la gente indossava costumi tradizionali e parlava lingue con radici sconosciute. Hanno fatto nascere nuovi lavori e una classe di mediatori tra i turisti e la comunità. Hanno frammentato abitudini quotidiane, alterato i consumi, provocato il disadattamento di alcuni e la pretesa di altri a prendersi almeno una parte della ricchezza vagante davanti ai loro occhi.
Siamo stati turisti con un gusto antico di nomadismo, un gusto perfino storico, se pensavamo alle eccentriche provenienze delle nostre famiglie. Siamo arrivati dovunque, spesso per rinchiuderci in protetti alberghi di vetro, da cui osservare intorno, come in un batiscafo tra correnti marine. Oppure, rovesciando la prospettiva, noi eravamo i pesci, in vasche d’acquario, con la folla a guardarci curiosa, incerta o rabbiosa. (Da subito branchetti corsari di barracuda avevano cominciato a pinneggiare tra i grossi pesci in famiglia.) In ogni acquario c’è chi sovrintende a regolare i sistemi di temperatura, di pulizia delle acque, di erogazione del cibo, e controlla la salute delle popolazioni ittiche. Tra i pesci nessuno ha idea dei gestori e dei regolamenti.
Ora, dalle vasche di proprietà (non per soddisfare un desiderio di stabilità gli immobiliaristi negli anni ’70 ci hanno resi proprietari di case e casette, ma per far circolare i capitali immobilizzati dalla fine della guerra, quando si comprarono a poco le aree urbane bombardate), e a bocca aperta davanti agli schermi in similvetro, assistiamo a un nuovo accalcarsi alle dogane. Li vediamo attraccare alle coste dopo viaggi infernali nei deserti dei rallies, sulle pianure salate delle crociere. Attraversano campi di mine, boschi di reticolati. Dormono nelle stazioni, li fanno alzare i poliziotti con bastoni e mascherine sanitarie.
Respiriamo in affanno, molti accusano i traghettatori – ma ci sono anche fra noi quelli che fanno il lavoro di mediazione, di denaro informazioni e armi. Come nuvole e ondate, hanno sfruttato le correnti per farsi depositare lungo i bordi. Le traiettorie sono arcane, si sospetta di polarizzatori magnetici che orientano le direzioni a spirale.
Pare che siano disposti a collocarsi nei buchi delle nostre società, che razionali non sono, a conformarsi a una vita operosa, ma le regole non le conoscono, niente è come appare. Sanno degli squali e delle orche che corrono i mari, ma non che la violenza ormai non azzanna piú noi ma i derelitti che arrivano, a loro è indirizzata.
Soprattutto non sanno che le nostre ricchezze sono state accumulate dai predatori, che ormai si combattono con squadre di professionisti sanguinari al servizio. E’ sconvolto il mappamondo dei sogni, per i vecchi turisti e i nuovi nomadi.
Quando si dà un’occhiata, dagli schermi delle vasche, ai nuovi migranti che arrivano, vediamo alcuni lazzaroni, come quando eravamo noi a viaggiare quasi gratis dappertutto. Altri vestiti con cura appropriata nelle loro fogge. Si capisce che affrontano l’avventura con l’incoscienza che avevamo noi, e quel fondo di disperazione rabbiosa che anche noi abbiamo provato.
Li vediamo correre, gente livellata dalle sconfitte, attraversare da incoscienti reticolati elettrici e boschi folti di predoni. Si vedono gli occhi, si ascoltano le voci che spiegano.
Allora il vetro delle vasche e il similvetro dello schermo non reggono le distanze, si fendono a raggera, e non ci sono piú il dentro e il fuori, che erano solo virtuali.
Mando i miei sinceri complimenti a Cristiana Fischer… o dovrei dire Cristiana-Follet per il sapiente mix di racconto e storicità che mi ha colpito gradevolmente nella lettura di questo scritto. Chiarezza espositiva e buon ritmo nella scrittura, dicono già molto delle sue qualità di promettente scrittrice di romanzi. Non ho alcun dubbio in proposito.
mi piace molto in questo racconto il parallelo che, Cristiana, riesci a stabilire tra la natura selvaggia e il selvaggio migrare degli umani, in ogni dimensione e forma, tanto da essere interscambiabili nella lora caparbia volontà di ricercare sempre nuovi equilibri di vita…
Non solo nella poesia ma anche nelle prosa Cristiana sa come utilizzare immagini molto potenti per illuminare i percorsi degli antichi e nuovi migranti: *Ora, dalle vasche di proprietà […] a bocca aperta davanti agli schermi in similvetro, assistiamo a un nuovo accalcarsi alle dogane* dopo aver superato, lei, l’esperienza del *lungo arenile selvatico* … * una serie di dune con ciuffi di erbe a stelo lungo e lame taglienti, serpenti neri detti carbonazzi, vipere, tartarughe grandi e piccine*.
Le difficoltà dell’ambiente e le difficoltà degli ‘umani’!
Bel pezzo di ricordo storico, ivi compreso quello dei profughi ungheresi che condivano gli spaghetti con la marmellata. Anch’io, da piccola ‘sfollata’, mangiavo la pasta così: la carne era un lusso impossibile. I contadini lasciavano raccogliere la frutta caduta dagli alberi (fichi, prugne) e con quella – e lo zucchero distribuito dai pacchi UNRRA – si faceva la marmellata che serviva anche per quell’uso.
R.S.
Come se mi fossi messa fuori dalla storia, le povertà disegnate oggi mi riportano alle difficoltà di arrangiarsi di una volta. D’altra parte un tempo così breve come un’esperienza vitale può avere rilevanza sugli ampi disegni che tracciano percorsi di epoche, di poteri, di modi di sopraffare e di difendersi? Di programmare?