di Ennio Abate
Diciamolo di botto mentre il vespaio comincerà a ronzare. La poesia di Antonio Sagredo affonda le sue radici nelle Puglie e nel mondo che una volta si chiamava Est europeo e si muove nella potente Tradizione delle avanguardie novecentesche.
Sagredo, anche quando parla di certi poeti, è come se continuasse a parlare di sé. Vuoi perché li conosce a fondo e ne ha assimilato in pieno la lezione, condividendola senza riserve. Vuoi perché la sua scelta di campo poetico è assoluta e nettamente manichea. Vuoi perché ha mirato a costruirsi una identità unitaria e statuaria, chiusa all’altro da sé, ricorrendo – ma anche questo atteggiamento o posa attoriale o postura intellettuale sdegnosa gli viene un po’ da quella Tradizione – alla mitizzazione di se stesso come Poeta assoluto.
Vedete cosa ha scritto in un commento (qui) su Chlebnikov e ditemi se non sta suggerendo Chlebnikov = Sagredo o Chlebnikov precursore di Sagredo:
« Fu esempio, unico e irripetibile, di come il futurismo fu rivolto più al passato che al futuro stesso, poi che il poeta dissoda letteralmente la filologia primordiale (paleo), antica e classica… recupera delle parole consonanti e vocali e sensi e non-sensi li elabora, li mescola con le parole della sua epoca – inizi del ‘900 – e forma nuove parole, li cataloga nella sua “tavola”, li imprime nella nuova poesia del secolo, e ricrea rigenerando la Poesia dal niente!». Più che dal niente. . da altre parole, dai significanti…Per questo Chlebnikov si avverte subito di rifare una nuova “tavola”, come dire che dalle macerie linguistiche è necessario trarre in salvo quel poco che ancora è servibile!».
E se esalta il « baroccheggiare” dei Poeti» è perché lui baroccheggia a tutto spiano. E nuota felice – pesce fattosi col tempo barocco – quasi soltanto in acque barocche, nelle quali insegue le «tortuosità linguistiche». Coglie la relazione tra storia e linguaggio. Ed infatti così parla di quella che si realizzò attorno alla Prima Guerra mondiale: « in questa disgregazione universale del linguaggio in parallelo vi sono le vicende storiche: gli eventi belluini che paradossalmente accentuano la totale distruzione di ogni linguaggio sociale». Eppure si rifiuta di indagarla con la ragione. Che nei suoi versi è la grande assente, la rimossa o la castigatissima o vituperata Madre Cattiva. E perciò disprezza la domanda cruciale e responsabile di un Adorno: «e poi ingenuamente fu posta la stupida domanda se dopo il lager e il gulag si poteva ancora Dir di poesia e Far Poesia». Perché – che vuoi! – per lui «la Poesia è in grado di superare qualsiasi “segreto dedalistico”». E «se i labirinti della Vita non sono in grado di generare la Forma, sarà quest’ultima a generare la Vita!». Largo, dunque, a «Nuovi Labirinti» che «richiedono Nuova Forma!» e esalterebbero il fare poetico. La Forma è per lui tutto. È la sua Religione. Anche se il nichilismo continua a tenerlo in ostaggio: «la Forma da dar alla Vita è ben più importante… ma temo fortemente che anche questa ultima possibilità sia un inganno che travolge Vita e Forma». Per cui, invece di ribadire, come da tutt’altre sponde fece il da lui snobbato Franco Fortini, quando parlò della formalizzazione della poesia (in minuscolo) come anticipazione della possibile formalizzazione comunista della vita (sempre in minuscolo), indietreggia di fronte al problema dell’io/noi, lo rifiuta; e si rinchiude, orgogliosamente accecandosi, nell’io poetico: «A me resta il mio Canto privato. Al resto che è fuori di me e non so cosa sia… e a dirla davvero tutta: del resto me ne infischio!».
Le plaudenti. Ora, di fronte ad una figura di poeta così volontariamente autoreclusa in un Sogno dagli aspetti anche torbidi e spettrali, ci sono reazioni entusiaste, candide o inconsciamente consonanti, delle sue fans, numerose qui su “Poliscritture”. Tanto da porre un problema intrigante ma serio su cui ci sarebbe da meditare: come mai sono soprattutto le commentatrici a corteggiare la poesia di Sagredo inebriandosi di alcuni suoi versi o di certe sue immagini?
L’ultimo commento di ro (qui) dice impudicamente tutto questo fervore, che a me pare da setta iniziatica in cerca di “ingravidamenti spirituali” da parte del vate/sacerdote. Lo riporto per intero:
« ro
2 dicembre 2015 alle 9:49
#M’inchino a sagredo#, dovrebbe essere una nuova forma grammaticale, idonea ad indicare un movimento a carezza più che a(v)volta da soffitto a pavimento in un abbraccio a colonna, del tempio di un bell”Antonio che ogni volta che ti entra dentro, t’ingravida, potente e fertile, di tutta la sua memoria in canzoni a signorina poesia.»
Mi sono chiesto: ma siamo su “Poliscritture”, «laboratorio di cultura critica» o dove? Inchinarsi a Sagredo (o ad un altro Poeta)? E sia, ma che almeno si sappia a chi e a Cosa ci si inchina!
Ma c’è anche il critico plaudente…Più sorprendenti sono state le reazioni di chi di poesia si occupa da critico. Sul blog «L’Ombra delle Parole», ho trovato scritto – e proprio da un critico che si vuole anticonformista e Orbilius dei poetastri contemporanei – che Sagredo «non è un mortale»; e -suppongo – che ce lo dovremmo godere così come a lui (il critico) appare: «irriconoscibile, inimitabile, invulnerabile».
Diffido di ogni incensamento. E diffido pure dell’operazione da “pubblicità Progresso” in formato amicale, che vorrebbe fare di uno slavista apprezzabile, per giunta allievo di Angelo Maria Ripellino e amico di Carmelo Bene, una specie di outsider che avrebbe «sempre mantenuto un atteggiamento di ostilità nei confronti del ceto letterario italiano, e ne è stato, per così dire, ampiamente ricambiato con un silenzio che non sappiamo se di neutralità e cinismo o semplicemente di neghittosità».
Che la poesia di Sagredo conduca una sua contorta e complessa battaglia contro «le istanze realistiche e mimetiche invalse nella poesia italiana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento » o esprima una sua «natura espressionistica» – (ma sarebbe interessante precisare di che tipo di espressionismo si tratti …)- pare anche a me vero. Non si può dire prò, neppure per scherzo, che Sagredo sarebbe «caduto nella poesia italiana contemporanea come un alieno meteorite dal pianeta Marte». Qui il gusto eccessivo della metafora svia dalla analisi critica. Perché la cultura delle avanguardie del Novecento – e di quelle russe in particolare, delle quali s’è nutrito Sagredo, certamente a lungo in ombra (ma – mai dimenticarlo! – all’ombra pure di uno slavista che fu un accademico prestigioso come Ripellino) – è circolata abbondantemente per tutto il mondo (almeno occidentale), Europa dunque compresa. Ed è stata masticata a sufficienza, malgrado evidenti resistenze, anche in Italia. Visto poi che da tempo la cosiddetta «tradizione italiana» non è più soltanto italiana, ma percorsa da spinte variegate provenienti da ogni dove ed è campo conflittuale, tanto che ad essa s’è affiancata, a modo suo, anche la tradizione della neoavanguardia, in una delle tante “regioni” o “province” della poesia italiana può benissimo essere ospitato, se non proprio con il massimo degli onori, anche Antonio Sagredo.
Insomma, Sagredo pota è in buona e allegra (e a volte un po’ tenebrosa) compagnia, anche se per il momento – non si sa in futuro – non è arrivato alla corte della Mondadori o della Einaudi. E, comunque, ce ne sono di letterati e poeti che nel Novecento italiano hanno saputo ««giocare» con le parole e […] portarle, di colpo e di continuo, dalla fogna all’empireo…». Come ora fa Sagredo, proseguendo, per questo, una tradizione e innovando ( e qui ancora bisognerebbe precisare di che tipo sia tale innovazione) all’interno del solco neoavanguardistico.
«La poesia di Sagredo attinge la più alta vetta di «verità»»? Quale, per favore. E lo si dimostri. Ed è davvero «menzogna e sortilegio, alchimia e mania, fobia e follia»? O sarebbe quella « di un marziano che abbia della confusione in testa e che non riesce a translitterare le parole dalla sua eccelsa lingua nella nostra povera, prosaica, umana e terrestre»? Sarei più cauto e paziente. In fin dei conti, per quel che ho detto sopra, Sagredo marziano non lo è. (Come non lo fu Ennio Flaiano, che così si dipingeva per consolidarsi anche lui il suo piccolo mito letterario). Di più: farei notare che la confusione (in testa o nel cuore) non è di per sé cosa da cui trarre troppo vanto. E ancora: perché la lingua poetica di Sagredo sarebbe «eccelsa»? E soprattutto perché – anche qui l’inchino mi pare di maniera – la nostra ( cioè la lingua degli altri poeti) sarebbe «povera, prosaica, umana e terrestre»? (Ammesso e non concesso che questi siano difetti di cui vergognarsi. Io credo lo siano solo per chi civetta con Heidegger e l’ heideggerismo e s’è convinto dell’ «impotenza del linguaggio ordinario al cospetto dell’Essere» (Onofrio)).
Eppure anche nell’ombra delle parole qualcuno accende una lucina…Più sincero, equilibrato, non strumentale, mi pare il commento lasciato da Ubaldo De Robertis. Egli sottolinea un elemento fondamentale della poesia di Sagredo: «l’infinita processione di tutti quei significanti che incalzano e si propagano». Che – ripeto – non è tanto “ereticale” o “rivoluzionaria” oggi, essendo anzi norma quasi canonica in tutte le ricerche poetiche sperimentali (anche italiane) del Novecento, che infatti si vogliono anarchiche, innovative, futuriste, avanguardiste. Quando poi De Robertis sottolinea nelle poesie di Sagredo «i continui rimandi a fatti ed eventi che spesso risalgono ai tempi della santa inquisizione», mette davvero il dito nella “piaga” di questa poesia (meglio: sul contenuto o sull’ideologia o – più semplicemente – sui suoi temi, elementi fin troppo trascurati da commentatori e commentatrici). I temi di Sagredo girano, infatti, prevalentemente e ossessivamente attorno ad un nucleo dove una religiosità pesantemente controriformistica si scontra e si macera in un suo interno conflitto con un ateismo esplosivo ma irrisolto. (Come altre volte ho scritto in vari commenti dedicati ai versi di Sagredo pubblicati su “Poliscritture”).
Invece di inchinarsi. Riassumendo. Sagredo non è un marziano ma appartiene alla tradizione avanguardistica del Novecento e i suoi temi sono – semplifichiamo per scandalizzare e svegliare ipnotizzati e ipnotizzate – di una religiosità livida (controriformistica) e conflittuale. Allora perché inchinarsi?
Al posto dell’inchino al “marziano” o dell’incensamento del “non mortale” meglio insistere con il lavorio paziente della critica sulla forma dei suoi versi e sul loro contenuto. E dare, ad esempio, ascolto a queste altre giuste parole di Ubaldo De Robertis:
«A me, dimessamente laico, lasciano di stucco certi improvvisi scivolamenti verso il sacro, il dio, le eresie, intendendo queste come dottrine che si oppongono a ciò che propone la chiesa madre, ma sono pur sempre dottrine, linea teologiche che si scontrano dalla linea direttrice. Questi temi mi sembrano quasi una ossessione. Un furore sacro».
A meno che sia proprio questo ambiguo «furore sacro» ad affascinare ammiratori e ammiratrici della poesia di Sagredo.
Io sarei anche più vigile di De Robertis, che, lui pure, quando afferma: «Il linguaggio poetico di Sagredo è inimitabile, singolare, ispessito di conoscenze, possente a volte, anche se trovo difficoltà nel decifrare molti di quegli attraversamenti che il poeta ritiene scontati», finisce per cedere le armi della critica di fronte a qualcosa che, appunto, non si comprende e non si sa che cosa sia. E perché mai questa dismissione del lavorio critico? Proprio la «difficoltà di decifrare» dovrebbe indurre non a rinunciare ma a moltiplicare i dubbi e le interrogazioni. La poesia di Sagredo è «inimitabile» per la sua indecifrabilità? È «singolare» per questo? Perché – volgarmente parlando – “non si capisce”, sorprende o spiazza? Con quale ricavo per chi “non capisce” e tuttavia s’inchina? E con quale ricavo per l’autore (Sagredo stesso), che fa di tutto per non farsi capire (egli è riottoso ad ogni richiesta di spiegazione sulla sua poesia); e forse davvero manco lui la capisce. (Attenzione: non sto facendo le lodi della poesia trasparente e che si capisce come uno slogan; sto rifiutando il culto sacerdotale e orfico dell’ombra delle parole, della loro oscurità, che rende indicibili verità dicibili o addirittura già dette storicamente e ancora valide; proprio come spesso fa anche il culto, apparentemente laico e razionale, della trasparenza). E se in Sagredo, come scrive sempre De Robertis, «al verso da cui emerge la bellezza segue l’altro che ti spiazza, che ti fa inorridire», vogliamo o no chiederci perché questa discrasia? Forse si compensano bellezza e orrore? Ed è così “giudizioso” tale accoppiamento? (Qui rimando ad uno vecchio scambio con Rita Simonitto che ora non trovo…).
Per finire. Sagredo non me ne voglia. Questa non è una “coltellata critica”. «Vergin di servo encomio / e di codardo oltraggio», pretendo pubblicamente – da amico ed estimatore, critico però, di una poesia come la sua, altra da quella che a me sta a cuore – metterlo in guardia da troppo facili plausi e un po’ dal suo esorbitante narcisismo.
* Nota
Tutte le citazioni di cui mi sono servito sono tratte da qui
Sì un narcisismo esplicito . sarà questo coraggio a renderlo sorprendente. fra le righe tutti siamo narcisi nascosti e perciò non sorprendenti. Essere sorprendenti non basta. Sagredo fa pensare , fa riflettere ,ci ruba il tempo. Basterebbe non leggerlo e invece ci incuriosisce. È nel momento in cui il verso abbandona la sua baldanza che mi accorgo della bravura di Sagredo.
Motivo il mio volteggio a inchino verso le porte di Sagredo, in modo tale da consentire ai professionisti dell’arte poetica, ergo in primis coloro dotati di studio/strumenti critici, quel confronto vitale (fertile) in primis al poeta. Vitale in quanto ci sia ancora da lavorare e tanto sulla parte “tecnica”, materia che non riguarda la semplice competenza di un mio o altrui inchino. Questo si appalesa come movimento, se torno indietro con la memoria, fin da subito, fin da quando Ennio ce lo ha fatto conoscere e ho cercato di inseguirlo nelle sue adorabili trappole, qui e là, fra l’inferno e il paradiso della rete. Perchè m’intrappolo con piacere nelle danze , antiche e moderne di Sagredo? Perchè l’unica nota, o scena, o battuta, o pausa, che mi riporta alla realtà, quasi ridicola dell’oggi, qui e ora, è il luogo del tutto osceno, nel senso di fuori scena in accezione mediatica, che conclude spesso questa o quella con “Vermicino”. Il bambino Sagredo che ha rapito una perfetta nessuno, di colpo finisce in un altro bambino e in tutt’altro pozzo. Il bacio e la carezza sono usciti dal sogno e si ritorna alla dura e cruda realtà. Sagredo , dunque, può essere anche a un’allergica patologica ai narcisi (ai costruttori per sé e per altri di trappole, agli egocentrici et similia) tutto ciò che è, che dicono sia, che argomentano potrebbe essere. Sagredo è in primis per me, il perfetto (uno) nessuno (centomila) come me, tuttavia nel suo nessuno a volte più omerico altre più pirandelliano, è un quid quasi avulso dalla carnalità della parola a danza con cui mi ha fatto ballare, perché rappresenta tutto ciò che il mio nessuno non è ruscito a essere, sia in termini di studio e conoscenza, sia in termini artistici e a lui va riconosciuto tutto il sudore e lo spessore della sua vita. Il suo aspetto artistico più rilevante a un’appassionata come me (esageratamente…. come è , può e deve essere a maggior ragione una/un artista) , è la capcità di entrare in scena e tenerla fino in fondo e poi, d’improvviso, boom!, l’uscita di scena. Sagredo mette in scena signorina poesia quasi cinematograficamente, tanto che quando esce di scena, ti viene il dubbio se sia anche il cinematografo stesso e anche il regista e un po’ l’attore e un po’ nessuno. E’ duqnue il mio massimo rappresentante, se fossi apprendista dei moltinpoesia in avanguardia, perchè può con la sua conoscenza,produzione nonché traduzione, rappresentare a pieno titolo quella controèlite culturale all’attuale al potere. Ovviamente, non solo lui, perchè ad esempio, ma naturalmente è solo una mia opinione, non è nè nel suo programma nè nel suo mandato, un genere poetico “satirico-politico” o surreale politico etc etc che denuncia oltre l’espropriazione da una terra, infatti, perduta, l’occupazione di questa dura e cruda e realtà da parte di chi , con cosa e come e perchè.
Per quello che ho letto di Sagredo, ed è davvero poco, ma non nulla, la sua religiosità controriformistica, pesante e livida, è Altro da sé, è estraneità padronale e assurda. Teatrale-mortifera. Direi che non si stanca mai di additarlo. La denuncia, la provoca, la invita per lo scontro e il dileggio.
Certo, uno potrebbe dire che non se ne è liberato. Ma un conto è liberarsene attraverso l’ignorare, altro lavoro è non smettere di attaccare mettendo in scena. In questo un meridionalismo tragico, una radicalità che non libera ma lega, pesante.
La presenza delle suggestioni della religiosità è intima alla “infinita processione dei significanti”, questa è la sua poesia, figure che gemmano in trasformazioni e in altre figure. Una volta avevo parlato di wunderkammer a suo proposito, invece è la metamorfosi, credo, la chiave di approccio. E chi assiste al continuo mutare è un personaggio tragico, continuamente provocato e svuotato dal reale che si sussegue, impossibilitato a consistere.
…la vita reale è estranea, secondo me, alla poesia di Antonio Sagredo, a parte nelle ultime poesie da me lette(Carta 1-2-3 e una Poesia Beata) dove viene rappresentata
l’ interiorità del poeta , se vuoi in maniera narcisistica ma anche tragica e autentica, di un mondo umano intriso di solitudine, di desiderio di amore, di ricerca del tempo perduto. Il linguaggio diventa più consueto. Nelle altre poesie, invece, solo raramente fa capolino il poeta nella sua immediatezza, avendo A. S. privilegiato una forma di teatro-poesia dove il simbolismo prevale…Il poeta ha scelto una maschera, evidentemente a lui congeniale, per rappresentare la vita, ma collacondola fuori dal suo tempo storico: si inscena lo scontro tra il male assoluto, per lui l’operato dell’Inquisizione della Controriforma con i suoi efferati delitti e l’eroe eretico, per eccellenza, Vanini, nel cui personaggio forse si identifica. Nei versi si alternano allora squarci di bellezza, legati anche alla meridionalità del poeta (la sua città Lecce, ma anche Praga), e abissi di orrore, in un cozzo continuo di acrobazie e architetture barocche spesso oscure nei significati. Il tutto appare piuttosto suggestivo…Certo manca uno sguardo sulla realtà contemporanea che tanto ci inquieta, sembra che A. S. voglia sostituire la vita con la forza della forma simbolica. Non so se anche questo potrebbe essere considerato un segno dei nostri tempi…
Per me la poesia del caro amico Sagredo è semplicemente allucinante. Cercare di capirla è una perdita di tempo. E’ un po’ come quando si guarda un prestigiatore, resti affascinato da quello che fa, anche senza capire come fa. O quando si guardano i fuochi artificiali. Tempo fa scrissi un testo ironico intitolato “se si capisce non è poesia”, per Sagredo devo invertire i termini, cioè devo dice “se non si capisce è poesia”. Mi sembra però che si stia lentamente convertendo, optando per uno spiraglio di luce. “Et fiat lux!” e adesso aspetto il seguito: “et lux facta est”!
..si , concordo pienamente, infatti il sogno è un’allucinazione, la più simbolica e ancestrale della vita “concreta” di ogni essere. Bello il suo commento, Paolo! tutto parola per parola comprensibile sull’incomprensibile, compreso quel filo di luce che s’intravede dietro il telone tragico o nero (come al cinema)
“date a Cesare quel che di Cesare”
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Farsesco
Passavo di cantina in cantina
le notti
tra le rosse strade di Scipione,
ieratico, sotto quei lampioni indifferenti,
poi che Roma non ha una mortalità decente.
voce:
e tu, dio, che invano guardavo negli occhi
attratto dai tuoi specchi inaccessibili
volgevi altrove i tuoi interessi divini,
come una donna accetta altri amori.
altra voce:
ma il tuo amore nessuno lo canta,
contro tutti e contro tutte
leverò le mie ossessioni
sarò… nella mia follia… un semi-serio!
Oggi è la festa della Saggezza:
ho letto tante volte i Cantici
e sono stato ucciso mille volte, come i Cesari!
antonio sagredo
Roma, maggio 1981
(pubblicata in “Tortugas” – Zaragoza, 1992 )
Finezza ironica di Sagredo! Chi è Cesare? E la -premonitrice- poesia, a chi dà conferma?
A me pare che Ennio Abate abbia felicemente colto una buona parte degli aspetti che caratterizzano la scrittura in versi di Sagredo, scrittura che fino ad ora, non ho mai voluto commentare per l’ evidente istrionismo su cui si regge e per il debordante barocchismo che la connota, alimentato da un linguaggio ipertrofico, eccessivamente caricato sotto il profilo semantico. Ritengo che la poesia, quella vera, debba basarsi su altri e più probanti presupposti.
Mi fa anche piacere che, nel suo intervento critico, Abate abbia tenuto conto delle interessanti valutazioni espresse dall’amico Ubaldo de Robertis il quale, nonostante nella sua vita lavorativa abbia svolto un’attività apparentemente molto lontana dall’ambito letterario, ha spesso intuizioni di bella finezza critica.
Pasquale Balestriere
Ma voi tutti o quasi dite di me su appena il 5% che ho scritto!
e avete la presunzione di conoscermi a fondo. Vi sbagliate del tutto,
e il Tutto fa parte dei Vostri errori quotidiani.
Basta così: avete esagerato, troppo!
Non commentate più i miei versi: non siete all’altezza!
a.s.
Baci, baci!
Caro Antonio, leggendo il tuo ultimo sfogo vedevo la grinta di Majakovskij… e per questo ti capisco e ti ammiro!
SCENA PRIMA:
Disse la Grinta a Majakovskij : Ciao, ciao, vado con Antonio!
Disse Majakovskij alla Grinta: Ah, traditora!
Disse Sagredo a Majakovskij : Non eri alla sua altezza!
Statuti capì e ammirò.
Fischer mandò baci e abbozzò.
SCENA SECONDA:
(da scrivere…)
Ebbene sì, abbozzo. O, maternamente, sono terza. O pedagogicamente, da insegnante, mi limito l’accesso.
(Terzo in realtà mi è parso Sagredo, con la sua poesia delle 22.27 di ieri e il suo commento successivo.)
La critica fronteggia un autore. Aderisce o distingue, ma sarà l’autore corpus vile da sezionare? In che superiore (i)stanza alloggia la critica?
O ci sarà un reale -oggettivo- a cui commisurare autore e critica? (chi vede più completo e più lontano?)
Oppure lettore e autore sono i soggetti in rapporto, senza una costruzione (tridentina?) in riferimento?
Obiezione: se ognuno scrive come gli pare, e nessuno può criticare senza che suoni censura, siamo sperduti, relativismo e nichilismo assediano ai fianchi!
Oppure, è la mia proposta: un passo indietro, rilevare, accogliere, distinguere… apprezzare o ignorare, coinvolgere, affratellare (alla lunga, come racconta il “figliol prodigo”, che alla fine non si sa se prima è lui che torna o prima è dal padre cercato. Si rilegga per verificare.)
p. s. Affratellare… O siamo già nel mondo del wto di cloni senza identità che non sia da proiettare volontaristicamente?
Un mio caro amico, profondissimo studioso di storia, spesso mi ripete che solo chi ha sviscerato ogni piega dell’«Istoria del Concilio Tridentino» di Paolo Sarpi può capire perfettamente le ragioni di molte cose che accadono nel presente e di molte che accadranno nei secoli ancora a venire. Voglio troppo bene al mio anziano, coltissimo amico per poterlo contraddire apertamente con le molte ragioni che credo di avere contro questa sua fermissima convinzione. Preferisco ascoltarlo in silenzio e far tesoro dei suoi molti insegnamenti. Ho ripreso così la lettura di quell’Istoria e mi sono così imbattuto in questo decreto della “Quarta sessione” che discuteva intorno agli “Abusi a riformare intorno alla Scrittura”: “Che nissun ardisca usare le parole della Scrittura divina in scurrilità, favole, vanità, adulazioni, detrazioni, superstizioni, incantazioni, divinazioni, sorti, libelli famosi; et i trasgressori siano puniti ad arbitrio de’ vescovi”. In effetti il mio amico storico qualche ragione ce l’ha: i vescovi tridentini avevano già previsto che ci sarebbe stato qualcuno che un giorno avrebbe scritto versi del tipo:
e tu, dio, che invano guardavo negli occhi
attratto dai tuoi specchi inaccessibili
volgevi altrove i tuoi interessi divini,
come una donna accetta altri amori”
Per fortuna però, contro ogni previsione tridentina, “l’arbitrio dei vescovi” oggi non accende più roghi… Stammi bene, Antonio Sagredo!
Ma era il concilio tridentino, no? Che avrebbe detto, alla fine, anche di lei che scrive in questo sito? Rogo magari no, pero’ il sito non ci sarebbe stato …
.
gentile Ottaviani,
ma sono più di 40 anni che scrivo che i roghi ritorneranno!
e chi sa sotto quali maschere!
…..e continuo a dirlo… giusto appunto qualche giorno fà…
perfino nei componimenti prossimi che ho già intitolato:
“poesie beate”
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non si fidi della Storia!
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E la discesa verso l’inconsistenza…
dei corpi e degli spiriti!
I grandi amori: queste grandi finzioni!
Come si rinnovano i patiboli e i roghi
per deserti, campi, giardini… sono sempre intorno!
Tutte le latitudini e longitudini sanno cosa sono le sofferenze dei corpi e delle menti!
——–
E nella notte, noi, ancora gli occhi sui fuochi teniamo desti
Perché nei terrori temiamo le nostre fluide maschere
Che di giorno si dissolvono per esser fuori da ciò di cui siamo formati
E dissipiamo i sogni sui capestri
e dopo i roghi raccogliamo, ciechi, le nostre ceneri – disperse!
antonio sagredo
Roma, 30 nov. -2 dic. 2015
Quanto a questo Balestriere consiglio una doccia alle Fonti di Castalia, perché almeno una goccia di quell’acqua possa bere e divenir poeta… ma invano poi che nemmeno incidentalmente questo può accadere, anche se la sua bocca resterà spalancata per l’eternità.
Povero Sagredo, come fatica ad accettare -così pieno di sé, come sventuratamente si trova a essere- qualche rilievo critico , magari duro, ma onesto!
A proposito di acque, io gli consiglierei quella delle Ninfe Nitrodi, nell’omonima località dell’isola d’Ischia, già conosciuta in epoca romana e che ci ha offerto la più ricca serie di rilievi votivi marmorei dell’Italia meridionale. Dicono che quest’acqua faccia miracoli e che purifichi da ogni cosa. Anche dall’egotismo più sfrenato e ridicolo.
Venga a Nitrodi, Sagredo. Le farà bene.
“questo Balestriere”
SCENA SECONDA
Balestriere (entra cantando):
Se quell’istrion io fossi,
se con debordante barocchismo scrivessi,
e in linguaggio ipertrofico mi gonfiassi…
Fischer (temendo già il peggio):
Affratellare, affratellatevi, orsù!
Ottaviani (sdegnoso):
Mai e poi mai! Che Sagredo non ardisca usare le parole della Scrittura divina in scurrilità, favole, vanità, adulazioni, detrazioni, superstizioni, incantazioni, divinazioni, sorti, libelli famosi; et sia punito. Che rogo sia!
Sagredo (con un tono «irriconoscibile, inimitabile, invulnerabile»:
Ma sono più di 40 anni che scrivo che i roghi ritorneranno! Credo d’essere sufficientemente pronto a farmi arrostire!
Fischer (materna):
Rogo magari no! Che dite mai!
Sagredo (con voce adirata e non mortale, ora che s’è accorto di Balestriere):
Io a questo Balestriere consiglio una doccia alle Fonti di Castalia, perché almeno una goccia di quell’acqua possa bere e divenir poeta…
Balestriere (anche lui ora adirato canta a squarciagola):
Sagredo m’odi?
Sagredo m’odii?
Vien qui a Nitrodi!
Ho Ninfe elettrodi!
Salderan i tuoi nodi!
(Forse ci sarà una terzo scena…)
… con Mangiafuoco.
Questa giornata, grazie ad Ennio Abate,
comincio con un sacco di risate.
Grazie ad Ennio Abate per la sua teatrale lievità. Spero che tutti sorridano!
Un grazie di cuore anche ad Antonio Sagredo per quell’appellativo – “gentile” – di cui mi ha fatto dono… E’ così che si impara non a temere ma ad amare “le nostre fluide maschere”…
“… i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari
come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.”
Anch’io ho riso e ciò mi fa bene perché sono convalescente.
Grazie per lo spirito fine e per le “acque lustrali”.
le virgolette sono mie perché non è una citazione.
Non mi sembra il caso di fare di Antonio Sagredo un “caso” come ai tempi della mia infanzia si fece di Minou Drouet (una tribuna di ragionamenti critici non è un rotocalco), di rinchiuderlo nella categoria del pittoresco, sulla scorta, che niente dovrebbe avere a che fare con la lettura testuale, delle sue caratteristiche caratteriali (è bisbetico, è dispettoso, è polemico, è narcisista – tutti lo siamo, lui lo dichiara apertamente.–, è disattento al mondo in cui vive. Io credo che al mondo sia attento ‘di traverso’, passando ogni volta da sé, ogni volta tornando al ‘via’). Non è un marziano, un meteorite piombato all’improvviso da chissà dove; è uno scrittore colto che attinge introiettandola alla tradizione novecentesca, quella che tentò avanguardie, e neoavanguardie; ma quel che conta è osservare, sui testi, che sono l’unica arena in cui si gioca il gioco dell’interpretazione, come di tutto quel bagaglio, cui si affiancano, da prima, le sue svariate geografie, Brindisi, Lecce, Praga, si declini una scrittura personalissima e originale. Naturalmente mi astengo da osannanti divinizzazioni: non piacerebbe a lui, non piace a me.
Ma, pur tenendo conto delle ascendenze di ogni tipo, a mio parere quel che conta è il risultato in essere, il testo, che per un momento, il momento della lettura, è sottratto a storia e geografia, per quella contemporaneità, e ubiquità, per quell’equivoco univoco che stringe a ‘cosa’ compatta e una una poesia.
Abate osserva che Sagredo rifiuta di fornire commenti sull’indecifrabile. È, io credo, un modo più che legittimo di vivere il passaggio, il salto nel vuoto dall’autore al lettore. Un modo che colloca quel salto nell’istante stesso della lettura, uncino grave a filo corto , responsabile di ogni ferita e smacco che il testo appronta. «Quel che dico lo dico qui, e lo dico così».
E poi l’eterna questione dell’interpretabilità, o, ancor prima, della comprensibilità. Certo, anche quello che appare comprensibile dev’essere interpretato, sennò siamo allo slogan citato da Abate, ma la scrittura di un certo tipo, come quella di Sagredo appunto, per così dire è fatta di fuga dalla chiarezza; non perché lo faccia ‘apposta’, o per chissà quale dispettosità (è anche dispettoso, sì, ma in altre sedi), ma perché, appunto, è una ‘fuga’. Nel senso della «metamorfosi» di cui parla Cristiana Fischer, e nel senso dell «infinita processione di tutti quei significanti che incalzano e si propagano» che indica Ubaldo De Robertis, e per quell’allucinazione di fronte ai gesti del prestigiatore ingannevoli (la decezione barocca, aggiungo io) perché contemporanei in finzione di durata (o viceversa) che individua Paolo Statuti.
Immediatamente proseguendo, ecco il barocco. Ma il barocco non è, o non è soltanto, secondo una visone diffusa, ornato e accumulo di forme mosse e avvolte; il barocco è fondamentalmente, strutturalmente, subitanea compenetrazione di contrari e lontani, analogia catalizzata da sé stessa, slittamento impercettibile di figure l’una nell’altra, un maelström di ragioni e figure (anche ragioni, tengo a precisare) che tutto centrifuga e tutto restituisce secondo linee in movimento, salvo poi agghiacciarsi a volte, come nei gravi monumenti funebri di Góngora, come lo scheletro nel castone dell’anello. Fuga, inganno, decezione, l’autorita dell’’ancora’ e dell’’altrimenti’.
Tutto questo nella scrittura di Sagredo è presente, ma è presente anche come testimonianza concreta di luoghi perturbanti e attorti (Lecce, Praga), e di eventi che molto assomigliano ai catafalchi gongoriani e alle macabre oreficerie: l’Inquisizione, gli eretici arsi, l’amatissimo Vanini, vanto della sua terra e del libero pensiero. Ma non sono anticaglie; sono, a mio parere, una identificazione e polarizzazione di luoghi e di eventi congeniali, e tali, nella loro madornale nerezza, da poter esprimere perfettamente una evidentissima idea di libertà ribelle. Mi si potrà chiedere: «E l’olocausto?; e tutte le altre pulizie etniche della storia?; e tutte le guerre?; e tutti gli orrori di ogni tipo che contristano e offendono il nostro tempo?». Rispondo che ogni mente-cuore, ogni sensibilità sceglie, ma ancor prima di scegliere trova il terreno di guerra sul quale meglio gli pare di poter levare i suoi vessilli. Che sono parole.
Le parole di Sagredo, strettamente cucite a filo forte dentro una grammatica e una sintassi che a quelle parole rassomigliano (ché sono tutte un linguaggio unico e coeso, un’identità di espressione – «la forma da dare alla vita», dice Abate) a me non pare francamente che, chiuse in un piccolo orto coltivato da un solipsista (un egoista?, per tornare al rotocalco) escludano, per citare Abate, «l’io/noi». Fra l’altro molti versi sono diretti a un ‘tu’, o lo citano in terza persona, e poi basta pensare alle turbe in movimento, a quei carnai illuminati da foschi candelabri, a quelle migrazioni in spazio recluso che, a volte, fanno paura. Il tutto in mondi antichi, ma conferiti all’oggi dall’indistruttibilità del male.
Ho dimenticato di dire che a me la scrittura di Antonio Sagredo piace assai, ma con judicio
Per ragioni di chiavetta prima di scrivere il mio commento non avevo letto gli ultimi interventi, dal primo testo in versi di Sagredo in poi.
Li leggo adesso, con grandissimo divertimento. La vena comica di Abate è deliziosa, e anche gli altri gli stanno al passo molto bene. Una parentesi piacevolissima, e morte all’Inquisizione!
Cara Annamaria De Pietro, forse con il suo apprezzato intervento ha fornito elementi al drammaturgo Abate per la stesura delle terza dilettevole scena. Questa creazione teatrale mi ha riportato alla mente ciò che avveniva intorno agli anni ’30 a Copenaghen presso l’Istituto di Fisica Teorica diretto Bohr, centro della ricerca mondiale dove convenivano scienziati da ogni dove. Lo sviluppo impetuoso di ipotesi e teorie produceva talvolta posizioni contrastanti, confusioni terminologiche e di principio. Nei momenti di massima contrapposizione si prese l’abitudine di scrivere e rappresentare, in modo satirico, qualcosa che alludesse a tali contrasti. Rappresentazioni che tiravano in ballo personaggi i più rappresentativi. Ad esempio in una operetta scritta ad imitazione del Faust di Ghoethe salirono in scena personaggi quali: Pauli, lo stesso Niels Bohr , gli americani Oppenheimer e Millikan, i russi Gamov e Landau, il britannico Dirac. ecc. Monumenti della storia scientifica del novecento.
Quella di scrivere un “dramma” per sdrammatizzare è un’operazione molto intelligente. E’ una pratica degna dei luoghi dove si fa cultura con la C maiuscola!
Tornando a Sagredo lei scrive: “Mi si potrà chiedere: «E l’olocausto?; e tutte le altre pulizie etniche della storia?; e tutte le guerre?; e tutti gli orrori di ogni tipo che contristano e offendono il nostro tempo?». Rispondo che ogni mente-cuore, ogni sensibilità sceglie, ma ancor prima di scegliere trova il terreno di guerra sul quale meglio gli pare di poter levare i suoi vessilli. “
Io credo che Sagredo quando scrive di patiboli e roghi comprenda tutto, tutte le nefandezze compiute dal genere umano, ad ogni latitudine. In fondo nei lager la gente non finiva al rogo?
cordialmente, Ubaldo de Robertis
Caro De Robertis, lei mette in parole il mio sogno, nato ieri ma già maturo, di
entrare in una maniera o nell’altra nel dramma di Abate. Mi piace che si rida con me.
E grazie del suo apprezzamento.
Post scriptum di traverso: Ennio, fammi calcare ti prego il palco di questo teatro d’aria.
Il mix salentino-slavista e’ micidiale ma sono tratti caratteristici di quella terra che si ritrovano in altri autori piu’ giovani (Ruggeri, Zizzi, fino a Petrelli). Il di piu’ di Sagredo viene dal rapporto con la maturita’, da come i suoi versi lottino eroicamente il tempo. Saluti.
Gli autori citati da GiuseppeC non conosco affatto: mi piacerebbe saperne qualcosa, oltre i cognomi; perciò Le chiedo se può darmi qualche informazione in più.
Grazie
Caro Sagredo, la prima e’ la fu Claudia Ruggeri, della quale si e’ creato un piccolo culto dopo la scomparsa e che probabilmente Abate conosce in versi; il secondo e’ Michelangelo Zizzi, quasi cinquantenne ora attivo a Martina Franca e prima a livello nazionale; il terzo e’ Angelo Petrelli, che nei suoi vent’anni era assai vivace ma oggi nei trenta chissa’ che fa. C’e’ parecchio di loro online e quindi la lascio a Google. Volevo sostanzialmente dire che l’imprinting salentino (barocchismo, teatralita’ alla Carmelo Bene, luci & colori meticci dalle vicine terre dell’oltre Adriatico) e’ ancora molto marcato e che una casa editrice che ben lo rappresenta, oltre alla nota Manni, e’ la Besa. Di nuovo saluti.
Grazie della risposta. Avevo pensato dapprima alla Claudia R., ma poi mi son detto avrebbe scritto “Claudia”, che invece conosco molto bene da dedicargli alcuni versi.
Gli altri due mi sono totalmente estranei.
gentile GiuseppeC.
(diamoci del Tu)
ho letto una ventina di poesiole di Petrelli… che Ti devo dire? quei “versi su lecce fanno pena! Non si muove una gosli se si scrive sul Salento e su Lecce in quella maniera: cose vecchie dove non c’è vita, e nulla di nuovo: meglio Toma col suo culto della Morte!
Se mi invii il Tuo e-mail Ti invierò alcuni versi “salentini”.
Caro Sagredo, ma il Petrelli era un bimbo eheheh. Zizzi invece lo trovi attivo sulla sua Scuola Pound https://www.facebook.com/Scuola-Pound-348545855292828/ , secondo me sarebbe lieto di fare la tua conoscenza, insistete infatti su modi ed immaginari compatibili o quantomeno affini. Ciao! Giuseppe
AH, UN UN POETA PIAZZISTA!
TRE POST A CASO DELLA “SCUOLA POUND” PUGLIESE INDICATA DA GIUSEPPE C. CON MIE SOTTOLINEATURE…
1.
Riccardo da San Vittore, Confucio, la paganità classica, il taoismo, Sant’Anselmo, i Fedeli d’Amore, sono stati i massimi nutrimenti culturali di Ezra Pound.
Questo voluminoso, radioso, eccelso autore, la cui portata d’opera deve essere paragonata agli inni omerici o alla poesia trobadorica, a Dante come ad Eliot, a Shakespeare come agli scaldi medievali di origine scandinava, è la pietra miliare dell’opera poetica nella contemporaneità o nella postmodernità. Intitolare e dedicare una Scuola di poesia a lui significa lanciare un augurio. Di sanità, grandezza, riconoscimento di Stato e Forma.Questo è quello che invoco al suo nume: che i poeti che frequenteranno la scuola a lui dedicata comprendano quanta poca poesia passi solo nelle turbolenze di un cuore minore, quanta di più ne passi nell’intermittenza di un cuore che si sta unificando.L’auspicio che lancio ai poeti corsisti è questa: che l’invocazione dello Stato di Grandezza faccia corrispondere modi e pesi, forme-ritmo e forme-spazio, affinché ogni cosa sia compiuta in sé. Precisa, concisa e senza vanità. Affinché ogni autore, a seconda della dotazione a lui concessa, possa dirsi compiuto.
Michelangelo Zizzi
2.
Dopo il grande successo dell’esordio, Fucine Letterarie è fiera di annunciare l’apertura delle iscrizioni ai test selettivi per la II Edizione di Scuola Pound.
La migliore Scuola di Scrittura Poetica in Italia.
3.
Scuola Pound è un master di scrittura poetica. È la migliore scuola di poesia italiana, poiché se non è possibile insegnare a scrivere poesia, è possibile riconoscere i massimi attori che la incarnano, conoscerli di persona, dialogare con loro e capire come crescere in un mondo che, oltre al talento, richiede conoscenza e competenze specifiche.
Scuola Pound si propone di far crollare ogni provincialismo da parte del poeta; far acquisire al poeta professionalità; far acquisire la storia della lingua poetica italiana, affinché l’autore produca un proprio laboratorio-fucina di lingua sincronizzata col tempo in cui scrive; avvicinare gli autori alla lettura della poesia oltre le letture qualunquistiche di Neruda e Hikmet; permettere a ogni autore effettivamente valido di arrivare a una pubblicazione prestigiosa ed entrare nell’apprezzamento critico della grande poesia italiana.
I docenti sono i massimi poeti italiani: Franco Buffoni, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Andrea Inglese, Andrea Leone, Franco Loi, Valerio Magrelli, Antonio Riccardi, Carla Saracino e Michelangelo Zizzi.
I primi cinque classificati vinceranno il Premio Pound, consistente in cinque pubblicazioni gratuite con Case Editrici di livello nazionale.
Scuola Pound è aperta anche a eventuali uditori, previa necessaria prenotazione.
Si ringraziano Hotel Akropolis e Makestudio per la preziosa collaborazione.
Ottimo, e senza commento.
..no no…non corndo affatto , mi manca un elemento, perdona Ennio 🙂
in sordoni, per “cuccarsi” tutta sta grandezza dianetica , tutto sto po po di gloria poetica da scientology, quanto se piglia l’art director in questione?
mammamia che ambientini e non oso immaginare quanti cretini che ci cascano pure, e pure in nome di signorina poesia…meglio i banditi, almeno in poesia fate i banditi per carità!
Specifico, si sa mai, cosa intendo per banditi. Mi riferisco ai vari della criminalità ormai soppressa, modello Vallanzasca. Non mi riferisco quindi ai criminali seduti tanto nella Nato, quanto all’Onu, o a Bruxelles, in Bce, o nelle cosidette case di qualcosa “migliore”, comprese le case di poesia.
A mangiar patate & radici non c’e’ obbligo ne’ c’e’ merito in poesia eheheh. Saluti.
risposta assolutamente fuori tema , perché non stiamo parlando né di patate nè di radici, ma di altra “MERCE”
@ Ennio
Pensa se ci fosse ancora Gianmario Lucini!
Il caro Gianmario così lontano da questi “ambientini”, come dice Ro, cosa avrebbe detto o scritto in risposta. Forse così:
Gianmario Lucini:
Poesia luddista
Un tempo lo chiamavamo padrone
ma oggi è soltanto un gonzo
ammalato di produzione
responsabile alienato di mille alienazioni
votate alla grandezza dello sviluppo
delle infelici sorti e progressive.
Mostriciattoli infami che rodono e insozzano
morendo nell’ansia per paura di morire
paladini di un sapere criminale che inghiotte
ogni futuro, squittiscono e strisciano
di notte lasciando scie velenose
a riflettere il pallore della luna.
Andate a costruirvi un regno e un’alcova
nelle periferie gassate, sulla merda dei rifiuti
e non venite qui sulle mie montagne
a cementare e in reti di acciaio
ingabbiare quel che resta dell’azzurro
e con un ultimo singulto di coscienza
degnatevi crepare sanandovi indecenza.
…cos’è? La selezione naturale della specie per fini massonici ovvero logge poetiche?
@ Annamaria De Pietro
Cara Annamaria, mi spiace, ma il tuo intervento (8 dicembre 2015 alle 17:42) è così serio e appassionato che non posso per il momento introdurti nella Terza Scena, che non so ancora se scriverò. E perciò ti rispondo per ora seriamente e puntualmente:
1.
Abate osserva che Sagredo rifiuta di fornire commenti sull’indecifrabile. È, io credo, un modo più che legittimo di vivere il passaggio, il salto nel vuoto dall’autore al lettore. Un modo che colloca quel salto nell’istante stesso della lettura, uncino grave a filo corto , responsabile di ogni ferita e smacco che il testo appronta. «Quel che dico lo dico qui, e lo dico così».
Chiarisco. Non «commenti sull’indecifrabile». Come farebbe il povero Antonio a parlare di quel che lui stesso non decifra? Gli ho sempre chiesto chiarimenti su termini o costrutti sintattici o montaggi di immagini provenienti da mondi culturali persi di vista o sconosciuti a me (e a lettori che immagino come o più ignari di me). Questo mi pare possibile. E persino doveroso anche per un Poeta. Invece di stuzzicare ( o addirittura sbeffeggiare) il lettore, come a dire: ”dai, indovinate o se no siete dei ciucci”.
2.
la scrittura di un certo tipo, come quella di Sagredo appunto, per così dire è fatta di fuga dalla chiarezza; non perché lo faccia ‘apposta’, o per chissà quale dispettosità (è anche dispettoso, sì, ma in altre sedi), ma perché, appunto, è una ‘fuga’.
Anche questa «fuga dalla chiarezza» a Sagredo io non gliel’ho mai imputata come fosse *di per sé* un difetto. O qualcosa di scandaloso. Tempo fa abbiamo avuto un’intensa discussione su comprensibilità e incomprensibilità in poesia, tema affiorato mentre si parlava della poesia di Eugenio Grandinetti (qui: https://www.poliscritture.it/2014/07/03/su-comprensibilita-e-incomprensibilita-in-poesia/), e – a memoria – ricordo di aver sostenuto che l’oscurità in poesia va interrogata: per distinguere quella autentica – appunto quando il poeta non lo fa ‘apposta’ – da quella che maschera un’inconsistenza o un vuoto o una maniera e si riduce a belletto. E dunque c’è fuga e fuga: quella che “fa pensare” (e bisognerebbe anche vedere che pensieri porta…) e quella che è gioco da prestigiatore (che può anche barare). Il problema per me resta aperto.
3.
Il barocco non è, o non è soltanto, secondo una visone diffusa, ornato e accumulo di forme mosse e avvolte; il barocco è fondamentalmente, strutturalmente, subitanea compenetrazione di contrari e lontani, analogia catalizzata da sé stessa, slittamento impercettibile di figure l’una nell’altra, un maelström di ragioni e figure (anche ragioni, tengo a precisare) che tutto centrifuga e tutto restituisce secondo linee in movimento, salvo poi agghiacciarsi a volte, come nei gravi monumenti funebri di Góngora, come lo scheletro nel castone dell’anello. Fuga, inganno, decezione, l’autorita dell’’ancora’ e dell’’altrimenti’.
Nulla contro il barocco in sé. Anche se in partenza avessi un pregiudizio contro il barocco, sono sempre disposto ad andare a vedere – sui testi, appunto! – se *le strade lastricate di barocco* conducono inevitabilmente all’inferno o – perché no – alla (buona) poesia. Ancora più interessante sarebbe tentare di capire a fondo perché Sagredo “baroccheggia” tanto e s’avvolge ( di suo o per influssi gongoriani, ecc.) in sudari funerei…
4.
Testimonianza concreta di luoghi perturbanti e attorti (Lecce, Praga), e di eventi che molto assomigliano ai catafalchi gongoriani e alle macabre oreficerie: l’Inquisizione, gli eretici arsi, l’amatissimo Vanini, vanto della sua terra e del libero pensiero. Ma non sono anticaglie; sono, a mio parere, una identificazione e polarizzazione di luoghi e di eventi congeniali, e tali, nella loro madornale nerezza, da poter esprimere perfettamente una evidentissima idea di libertà ribelle. Mi si potrà chiedere: «E l’olocausto?; e tutte le altre pulizie etniche della storia?; e tutte le guerre?; e tutti gli orrori di ogni tipo che contristano e offendono il nostro tempo?». Rispondo che ogni mente-cuore, ogni sensibilità sceglie, ma ancor prima di scegliere trova il terreno di guerra sul quale meglio gli pare di poter levare i suoi vessilli. Che sono parole.
Le parole di Sagredo, strettamente cucite a filo forte dentro una grammatica e una sintassi che a quelle parole rassomigliano (ché sono tutte un linguaggio unico e coeso, un’identità di espressione – «la forma da dare alla vita», dice Abate) a me non pare francamente che, chiuse in un piccolo orto coltivato da un solipsista (un egoista?, per tornare al rotocalco) escludano, per citare Abate, «l’io/noi». Fra l’altro molti versi sono diretti a un ‘tu’, o lo citano in terza persona, e poi basta pensare alle turbe in movimento, a quei carnai illuminati da foschi candelabri, a quelle migrazioni in spazio recluso che, a volte, fanno paura. Il tutto in mondi antichi, ma conferiti all’oggi dall’indistruttibilità del male.
Questo è un punto cruciale e controverso. Nei versi di Sagredo la storia *in un certo senso* c’è. Se parla dell’«amatissimo Vanini», non puoi dire che non rimandi al clima persecutorio della Controriforma. Ma come c’è la storia nella sua poesia? Mi pare di poter dire *in modo astorico*, cioè non *prendendola sul serio*, non tentando di penetrare le *ragioni* (quelle evidenti e note e quelle più oscure) dei suoi mutamenti, conflitti, orrori. C’è, dunque, ma – baroccamente o si potrebbe anche dire postmodernamente – come “carnevalizzazione” della storia. Rimando, per il Novecento, a due lontanissimi nel tempo ma importanti – per me – articoli di Fortini: «Il dissenso in Urss e gli intellettuali europei: non alziamo le spalle» ( 17 luglio 1977); «L’Unione sovietica nelle memorie di Pljusc» (4 gennaio 1979) ora in «Disobbedienze I,II, il manifesto, Roma, 1997, dove il concetto di ‘carnevalizazzione’ (da Bachtin) è analizzato e criticato da un preciso punto di vista *storico* (marxista) che io nella sostanza ancora condivido. Scriveva, ad es., Fortini in una nota: «Sappiamo bene quali pericoli si accompagnino alla carnevalizzazione. Petruska e Arlecchino sono fin troppo complici dei padroni che li fanno bastonare dai loro gendarmi e dai servi. Eppure la protesta dei singoli testimonia il bisogno di uscire dal carnevale sanguinoso. Il mondo alla rovescia svergogna le pretese dei ragionanti perché invoca un più alto livello di ragione» (Disobbedienze I, p. 165).
Di questa ‘carnevalizzazione’ mi sento di chieder conto alla poesia di Sagredo. Non sarò certo io quello che lo rimprovererà di non riferirsi direttamente o indirettamente all’Olocausto, alle pulizie etniche o magari alla guerra in Siria. Levi i suoi vessilli dove «meglio gli pare». Nel Seicento o nel Novecento. Ma è il modo – credo di poter dire nichilista – in cui li leva che va criticato. *Anche quando producesse buona poesia*. Anche quando le sue parole sono « strettamente cucite a filo forte dentro una grammatica e una sintassi che a quelle parole rassomigliano». Perché da quel modo di guardare alla storia si vede anche la qualità di quella che tu, Annamaria, definisci «evidentissima idea di libertà ribelle». Anche qui pedantemente ti devo ricordare che c’è ribellione e ribellione. E che la «libertà ribelle» è stata nella storia spesso quella dei dominatori e, più rara, quella dei dominati. (O, in termini più espliciti, c’è la libertà di dominare e la libertà di chi rifiuta il dominio). Infine, a me pare che il solipsismo della poesia di Sagredo sia sentimento e filosofia profonda (nutrita della lezione di Nietzsche e Stirner…), non smentito dal fatto che molti suoi versi «sono diretti a un ‘tu’, o lo citano in terza persona»; e molto lontano – politicamente e filosoficamente – da quell’«io/noi» inteso come inquieto andirivieni tra opposti o mai coincidenti sentimenti e ragioni con cui molti di noi tentano ancora di vivere (o sopravvivere a) questa crisi.
con Gongora, non dimenticate l’amatissimo Quevedo!
FUGA? : qualche esempio per schiarire il cerebro di qualcuno.
Ma adesso, Vi prego, finiamola!
Con l’intervento della De Pietro, non ha più senso fare altri interventi.
e spero che il mio sia l’ultimo. Grazie a tutti
————————————————————————————————————
Non temere una mia fuga di catastrofi in quello Ionio che mi
scompiglia i pensieri, come le greche lotte di un senile Omero
che se la ride degli eventi fortunosi e delle morti degli eroi.
Tutti pagliacci, buffoni, marionette e burattini… cibarie – per il riso!
———————————————
Ricordi d’ossa – e là nel patio, Antonio, hai lasciato il midollo dei tuoi occhi a una fontana
di calce, e s’attorsero radici d’orbite in risacche in fuga dai marosi, come se il molo il sale
divorasse dei venti una rosa – australe in quelle terre dove il grido era più semplice di un muggito,
e non sapevi scegliere fra la Via dei Macelli e quella dei Patiboli – ancelle di tortura!
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Ma dalle quinte non si generava l’atto e la mia parola
che ti prestai in contumacia, e nella fuga io persi il suono
e il grido perché avessi tra le mani il tuo benestare e il prestito
di un orecchio che la battuta negava al tuo rivale teatrale.
———————————————————————
Il suono di una candela la luce fora di Leuca
su una pergamena traslucida di miti… era, non so,
la marina che scalciava al guinzaglio il canto… nella casa,
umida e in esilio, la finzione in fuga dalle quinte.
—————————————————————————–
Ma quale estensione e dolcezza non sapevamo dei tasti ?
Se dalle corde d’amore di una viola d’amore dettata era
la sua voce, mentre i codici in rovina i misteri sulle dita
invano battevano in fuga gli occhi musicali fra le lacrime!
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Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente… battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi. Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti… i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle spume.
————————————————————————————————–
CHE COLPO!
SCENA TERZA
De Pietro (bussando ansiosa alla porticina che dà sul palcoscenico):
Abate, fammi calcare, ti prego, il palco di questo teatro d’aria!
Abate:
Lo vuoi proprio? Accomodati…
De Pietro ( con tono solenne):
Inclito pubblico, sono qui per mettere il cacio sui maccheroni preparati da Banfi e ro nei precedenti commenti. Lo vedete Sagredo? É bisbetico, dispettoso, polemico, narcisista, indecifrabile, colto, novecentesco, avanguardista, neoavanguardista, barocco. Non si guardi alla (sua) testa ma al (suo) testo. La sua scrittura è fuga dalla chiarezza. Ma non lo fa apposta. Teniamocelo così! Assieme alla sua madornale nerezza che esprime perfettamente una evidentissima idea di libertà ribelle.
Sagredo (che sta seduto al tavolo da pranzo al centro della sala):
Dai, Annamaria, che ho fame!
Samizdat (entrando da sinistra trafelato):
Scusi, De Pietro, potrei aggiungere un po’ di pepe al piatto per Sagredo?
Sagredo (impaziente):
Basta, basta! Ho fame! A me il piatto preparatomi dalle signore va già benissimo così!
De Pietro (si volta incuriosita verso Samizdat):
Un momento solo, Antonio! (Poi rivolta a Samizdat) Che tipo di pepe vorrebbe aggiungere?
Samizdat:
Ah, il mio è di tipo marxista! Oggi non se ne trova più in giro! Ma Abate ne ha conservato una scorta e me l’ha passato.
Sagredo (innervosito):
No! Annamaria non dargli retta. Portami subito qui il piatto e senza quel maledetto pepe! (Poi di botto si alza infuriato, afferra un ombrello e si scaglia su Samizdat colpendolo)
Banfi ((uscendo dal pubblico in platea, saltando sul palco e applaudendo entusiasta):
Che colpo, Sagredo! Bravo!
Samizdat (tastandosi un grosso bernoccolo e lamentandosi):
Ohi, ohi! Qui il pepe della critica nessuno lo vuole più!
Sagredo:
Tutti pagliacci, buffoni, marionette e burattini… cibarie – per il riso!
Samizdat:
Ma che c’entra?
Sagredo:
Ricordi d’ossa – e là nel patio, Antonio, hai lasciato il midollo dei tuoi occhi a una fontana
Samizdat:
Ma che c’entra?
Banfi:
Non lo so. Ma mi piace il narcisismo esplicito di Sagredo. Mi colpisce!
Samizdat:
Veramente ha colpito me!
Banfi (distratta e estasiata):
Sagredo fa pensare, fa riflettere, ci ruba il tempo. Incuriosisce. È nel momento in cui il verso abbandona la sua baldanza che mi accorgo della bravura di Sagredo.
Sagredo (compiaciuto):
Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne andarono
via da me lentamente
Ro (sale anche lei sul palco raggiungendo la Banfi):
Io pure m’intrappolo con piacere nelle danze, antiche e moderne, di Sagredo!
Lui è il perfetto (uno) nessuno (centomila) come me, tuttavia nel suo nessuno a volte più omerico altre più pirandelliano, è un quid quasi avulso dalla carnalità della parola a danza con cui mi ha fatto ballare, perché rappresenta tutto ciò che il mio nessuno non è riuscito a essere!
Sagredo (ancora più compiaciuto):
Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano beccavano il sangue
dei tramonti…
De Pietro (anche lei in sollucchero ma sempre con un contegno principesco):
La seguite questa «infinita processione di tutti quei significanti che incalzano e si propagano», come ha indicato Ubaldo De Robertis? E la decezione, che froda, ma è tanto barocca? E l’autorità dell’’ancora’ e dell’’altrimenti’ non vi sconvolge l’intelletto? Ammirate le parole strettamente cucite a filo forte dentro una grammatica e una sintassi che a quelle parole rassomigliano!
Samizdat (allontanandosi quasi disperato):
Ho capito. A qualcuno piace caldo… e senza pepe!
E già! la Poesia è anche Carnevale
Dunque, ogni scherzo vale!
Anche senza il pepe di Abate.
Tutti i personaggi all’unisono esplodono in un grande starnuto, il pepe di Abate ha avuto il sopravvento!
… il tendone si chiude mentre Ottaviani, portando via un sontuosa, celliniana saliera, sparge il sale sul pavimento…
Siamo tra personaggi (tranne Ottaviani), amici, persino Mangiafoco si traveste da Samizdat, è teatro! Che pacchia per Sagredo.
“Non temere una mia fuga di catastrofi in quello Ionio che mi
scompiglia i pensieri, come le greche lotte di un senile Omero
che se la ride degli eventi fortunosi e delle morti degli eroi.
Tutti pagliacci, buffoni, marionette e burattini… cibarie – per il riso!”
Il riso!, i grandi materialisti, e stoici, sorridevano, Lucrezio, Orazio, Spinoza.
Se altro non c’è, sorridiamo!
se c’è, confidiamo nel riso di dio.
Cristiana, molto arguta!