Tre poesie

courbet palavas 3
G. Courbet, La spiaggia a Palavas, 1868

di Ubaldo de Robertis con una nota di Ennio Abate

(A Max Frisch)

Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.
Non in Courbet. Fierezza, monumentalità,
unisce a quella solitudine, della sua luce
penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno
e ha bisogno della luce del mondo per esistere.

Nel retroterra un uomo è diventato pietra.
Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito
e a che fine le ombre s’intrecciano sul capo anguicrinito,
quale identità lui che, forse, ha conosciuto
molti luoghi in cui fermarsi per rendersi invisibile.
Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?

Lo spazio intorno trasfigura per la rapidità
con cui sfilano tram, un continuo va e vieni.
Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.

Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,
prendere una via, ripartire all’istante:
“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?
Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita
riducendomi in solitudine.”
Amnesia di esseri e luoghi.
Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere,
arduo trarre inferenze, deduzioni.
Immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri.

Quei peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri
iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,
sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice.
Il tempo estatico dell’insurrezione delirante
ti può esplodere in faccia, auto-annientare, come l’esaltazione
di Courbet per la Comune, pagata a caro prezzo.

Nessuna espressione, ansia di abbandonare le tenebre,
persiste la storica immobilità.
E quel suono alto nell’aria? Un nuovo espediente?
Solleva il Quartetto per Archi l’alto sentire, l’Opera 132,
quanto di più solenne e impenetrabile ci sia nel Genio,
afflitto da ipoacusia. Musica, tempo di redenzione, dell’utopia.
Nessuno che sia disposto ad accoglierla.
Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven.
Suoni, segni, e note, alte in numero sempre minore,
condurranno a un raggiro.
L’ assurdità è che uno ha coscienza della propria vuotezza
e l’altro, annichilito, non ha un’identità.
Ma se nella tasca interna della sua giacca scovate un biglietto,
solo andata, per Amsterdam,
Signori, non dubitate quell’uomo sono io.

*
Il presente: la sola dimensione.
E ha perso il nome, l’essenza, causa sui
e per l’azione di famulus miserandi
fautori dell’espansione, corruttori d’identità.

Fletto la passività, sfato la connessione,
frantumo gli argini, l’indolenza
che assume valenza metafisica.

A lungo fu il grigio degli sguardi
ora un piccolo astro rosso lucente
lumeggia nella mente come esigenza
di un luogo limpido, nuovo, d’aria e di luce.

(contro-voce)
Senza paesaggio che lo distingua,
con troppi punti di approdo,
troppi crocevia da oltrepassare.
Una trappola claustrofobica.
La fiera globale non è poi
così male, spinge lo sviluppo,
riduce la povertà, vale l’adagio
del sempre ci sarà chi affligge
e qualcun altro che sarà oppresso,
e poi… esiste la libertà intera?

In mare o terra, scortato dal miraggio
seducente, fra l’istante di un crollo
nell’abisso e il ritorno alla vita,
lascia dall’altro lato il servaggio,
l’inedito è di fronte, l’impazienza di scoprire
la propria identità,
l’idea di sé difforme dagli altri,
e di sé attraverso il tempo. Sincronico
e diacronico, – direbbe Saussure.

Co-abitare l’isola, antica come il mito.
Perché nessuno la nomina?
Perché gli echi sono inaudibili?
In quell’arcaica natura in cui si raccolgono
le ombre, mani come rami stringono altre mani,
arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra
vermiglia, s’ incontrano fra spigliate fioriture
di intenso color lilla, rosse bacche fragranti.
Una sorta di Origine.

E c’è chi, affrancato, scuote le catene,
festosamente, chi sente come un’epifania
la contorsione di quel corpo accorso
dietro una promessa che l’animale-uomo
è legittimato a fare: das versprechen darf.

Certi danzano, ridono,
altri parlano un lessico ermetico, inconsueto.

E’ forse necessario un nuovo linguaggio?
Un idioma segreto?

Co-abito l’inquietudine, il dubbio
che tradisce, scruto in faccia l’incertezza,
per capirne il senso.

La mancata dialettica non lascia individuare
inediti scenari, antidoti alla coazione a ripetere,
/vero elemento demoniaco/, la dimensione
dell’agire, saggiare la vertigine della libertà
che ad ognuno dovrà rivelarsi.

Majakovskij tuonava:
/Noi la dialettica non l’imparammo da Hegel //
quando sotto i proiettili /dinnanzi a noi
fuggivano i borghesi,//

Qui, alcuni fuggono, ripiegano,
tenendo in petto, semplicemente,
il senso di vertigine, il mancato riscatto.

Arretrano. Volgono i passi,
si consegnano alla prassi.
E i crolli?
Le macerie ammassate sulla via?

Eretto intorno all’isola, o forse nella mente,
l’archivolto azzurro-cielo sorregge l’utopia
perché il mondo non sia più
come un non so che di apparente.

L’esperienza gradualmente si invera.
In evidenza l’effettiva identità, la memoria,
stili di vita relegati ai margini,
in penombra le paure, le perplessità.

Per gioia ogni voce diventerà riconoscibile.
Nessuno incererà “de’ compagni/senza dimora/
le orecchie”, per godere la bellezza del canto
delle sirene, più deliziose che mai.
Nella congiuntura le incantatrici ritroveranno,
definitivamente, la loro dionisiaca voce.

*

Ad immagine dell’infinito

 
 «La clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo 
 capovolta e tu con essa...»
 Friedrich Nietzsche: La gaia scienza

La gravità zelante di un valletto, in ombra,
sul cono più alto, stagnante, ad ogni soprassalto.
Estraniato. Nella bonaccia. Sul palcoscenico di vetro
si illude di mandare fuori tempo il congegno.
Tempo rubato. Dilazionato.
All’improvviso si sente mancare la terra sotto i piedi,
mentre si avvicina alla gola che apre al sottomondo segreto,
non può tornare indietro, sospinto, a capofitto declina
in tante traiettorie frenetiche, sul fondo,
stilla come sangue da una stretta ferita,
scontroso, perché sa che non potrà abitare
le stesse posizioni ogni volta che la clessidra
sarà sovvertita.
Ma c’è qualcosa che lo umanizza,
che oltrepassa e trascende il tempo.
Perduto?
Ritrovato?
O un irreversibile salto verso il nulla?

E rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo
verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità
di ciò che passa, o anche la tenuità,
difficile esibire immagini coerenti della nostra presenza,
scoprire un’effettiva, reale, misura interiore,
per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)
in pensieri dicibili.
Dicci pure, Louis Borges: fu realmente di miele
l’ultima goccia attingibile della tua clessidra?

(Inedite)

Ubaldo de Robertis nato a Falerone (FM) nel 1942, vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Ha pubblicato Diomedee (Joker Editore, 2008), e Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa, 2009), Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore 2012); I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore 2013). Parte del discorso (poetico), (Del Bucchia Editore, 2014). Sue composizioni sono state ospitate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. Recensioni ed altri suoi versi si leggono pure sui blog Imperfetta Ellisse (qui), Alla volta di Leucade (qui), L’Ombra delle Parole (qui e qui), Il Ramo di Corallo (qui). Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, A. Spagnuolo, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. E’ anche autore di romanzi: Il tempo dorme con noi (Voltaire Edizioni) e L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria).

Su tre poesie di Ubaldo de Robertis

di Ennio Abate

La poesia di de Robertis ha una struttura ordinatissima di immagini meditate ed è lontana sia dai surrealismi di massa che dalle ebbrezze metaforiche. È poesia di riflessione che nasce da una cultura sedimentata. Vi s’intravvedono passati innamoramenti, raffreddati al punto giusto (nei tre testi in questione: i miti antichi, l’Ottocento positivista e romantico, il bagliore del futurismo majakovskiano) e un sottofondo filosofico inquietamente novecentesco tra Nietzsche, Pirandello e Borges. Le esperienze esistenziali e politiche dell’autore sono taciute, ma per l’insistenza su un nodo, che de Robertis chiama un po’ aridamente «crisi d’identità» (e io, altrettanto aridamente, “ricostruzione di un io/noi”),  si capisce che siano arrivate a un punto morto. E da «bastonati dalla storia», come diceva Fortini, autore anche a lui caro, siamo tornati incerti davanti a una domanda fondamentale: il mondo può mutare secondo un progetto umano o l’unico mutamento è quello “naturale”?  Ho scelto di analizzare, tra le molte poesie di de Robertis apparse sul Web queste tre, perché con tale domanda si misurano e costituiscono un trittico dai contenuti compatti e dalla forma abbastanza omogenea. Mi soffermerò soprattutto sulla prima per me centrale:

1.
I versi partono da un quadro, neppure tanto famoso, di Gustave Courbet, pittoretra i più decisi ad abbandonare il sentimentalismo romantico per il realismo. S’appoggiano sulla visione che egli ebbe di un mare e di un cielo precisi a Palavas in Linguadoca nel 1864 circa. E si soffermano, in apparenza fedelmente, sull’unica «minuscola figura che, «ritta sullo scoglio [sovrastata dalla natura circostante], si toglie il cappello / alzandolo il più possibile per sventolarlo». Non sappiamo se il suo sia un saluto rivolto ad altri umani. Forse no, perché ci viene detto che «non ci sono vele all’orizzonte». Potrebbe, dunque, essere un gesto d’entusiasmo panico per quella «visione maestosa». Chiediamoci: sono mare e cielo a imporsi in questo quadro? La riflessione novecentesca su arte e poesia (specialmente quella del formalismo russo) ci ha resi più consapevoli della distanza tra visione e rappresentazione (semplificando: tra vita e arte) e perciò rispondiamo: no, quel mare e quel cielo, irrecuperabili da de Robertis e da noi, ci impressionano esclusivamente tramite i colori scelti da Courbet. (Più esattamente tramite le attuali riproduzioni più o meno fedeli del quadro di Courbet). E smuovono pensieri e sentimenti e permettono di immaginare ancora oggi quel che egli vide o provò a Palavas (si ricordi, tra l’altro, che Courbet in quella località vide per la prima volta il mare) soltanto perché furono da lui, ormai da tempo defunto, furono «adunati in un unico sguardo». Ed è de Robertis poeta – ulteriore mediatore attraverso le parole – che suggerisce e giudica: fu/è una «visione maestosa, sublime». È de Robertis che, più di centocinquant’anni dopo, raccoglie lo «stupore» di Courbert, quella sua «ebbrezza», annotando – e sembra quasi un particolare banale, ma ci dice molto dello stesso de Robertis, poiché allude al problema che lo tormenta – che l’ebrezza «in un uomo ordinario sparisce./ Non in Courbet». Ed è sempre lui, poeta a Novecento concluso, che nei successivi versi esprime ancora un’ammirazione incondizionata per Courbet, pittore oggi da molti trascurato; e sottintende, credo, una certa affinità che lo lega al pittore naturalista. Infatti, a me pare che egli abbia appreso e tradotto in poesia la lezione di Courbet: come quello ritrasse la vita attorno a sé più che parlare di sé, così oggi fa lui in poesia, svelando altrettanta passione per il “reale”. E, quando afferma che la «sua luce» (io intendo: lo sguardo serio, realistico, scientifico di Courbet) «penetra il mondo» (metafora consueta con cui ancora oggi ci riferiamo al processo del pensiero umano o alla forza della ragione illuministica), sottolinea la simbiosi materialistica tra uomo e natura: è, infatti, la luce (del pensiero) che «ha bisogno della luce del mondo per esistere». Fin qui tutto è molto ottocentesco e positivo.
Nella seconda strofa, invece, lontano da mare e cielo (e luce), fa la sua apparizione la morte: «nel retroterra un uomo è diventato pietra». Proprio perché ‘un uomo’ è termine generico, qui possiamo intendere (e lo confermano i riferimenti presenti negli altri due componimenti) ‘umanità’ o ‘genere umano’ o ‘condizione umana’. Ed esso, come mi ha precisato lo stesso de Robertis, è la negazione della «minuscola figura»  della prima strofa e richiama il processo di annichilimento, di riduzione a nulla sia del mondo esterno che interiore, sia dell’esistenza dei singoli che delle storie collettive; ma anche la (temporanea o definitiva?) perdita di volontà e capacità di reazione di quelli che fino agli anni Settanta del Novecento potevano, con buone ragioni e non poche illusioni, rappresentarsi come ‘soggetti umani’. Da qui in poi l’andamento della poesia diventa più inquieto e de Robertis si addentra, con sconcerto e qualche ricorso a un lessico alto («sul capo anguicrinito »), nell’oscurità del mito («Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito»). Non rinuncia al realismo alla Courbet e, infatti, non smette di ragionare sull’essere impietrito o bloccato: « Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?», ma senza riferire vicende o possibili cause. Poi, nella terza strofa,  abbiamo un bruschissimo passaggio alla modernità, presentata nel suo continuo movimento (il contrario della pietrificazione). Ecco accennata un’immagine di metropoli quasi futurista: «sfilano tram, un continuo va e vieni». E poi quella d’una folla fugace di «uomini che si muovono come nuvole incombenti» e, come quelle, incoscienti: «senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale». L’attenzione è ora rivolta agli uomini ordinari pure nelle due successive strofe. E ad uno di loro (o forse a se stesso) viene rivolta una domanda che inchioda: «“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?». In tale mutato paesaggio non sono più possibili la fierezza e la monumentalità di Courbet. E neppure quel suo tipo di solitudine. La solitudine ora comporta perdite («amnesia di esseri e luoghi»), è (colpevole?) sottrarsi alla vita, forse punizione per aver tentato di sfuggire la sventura (anch’essa indeterminata e quindi carica di metafisico destino?). Non è una condizione scelta e piena di senso, ma ad essa, nella società di massa, si viene ridotti. «Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere» (o ragionare). E  in tale mondo, deprivato di concetti ordinatori, restano soltanto «immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri». E lo sono anche quelle che ci costruiamo di noi stessi, se il ritratto che viene subito dopo accennato, quello di un uomo dai «peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri/ iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,/ sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice», è in realtà un autoritratto del poeta de Robertis. Nei versi che seguono pare d’intendere anche il punto, comune ma sottinteso, tra la biografia di Courbet e quella di de Robertis: il benjaminiano «tempo estatico dell’insurrezione delirante». Per Courbet fu l’attimo della Comune di Parigi del 1871, che gli procurò un’esaltazione «pagata a caro prezzo», come si sa [1]; per de Robertis  il  tempo della politica. Poi l’amarissima constatazione: sì, «il tempo estatico dell’insurrezione delirante / ti può esplodere in faccia, auto-annientare». In tanti lo sappiamo oggi, in quest’epoca che, concluso il Novecento, mostra a chi ha creduto nella possibilità di un mutamento solo rovine di riforme e rivoluzioni; e ci ha messo di fronte a una «storica immobilità». Che ne è, dunque, della «promessa di felicità», afferrata nell’arte da Coubert? O nella musica del «Quartetto per Archi» (Opera 132) di Beethoven? Oggi – dice sconsolato de Robertis – non c’è più «nessuno che sia disposto ad accoglierla», «nessuno che sappia congiungersi con Beethoven». L’Ottocento – positivista e romantico – è lontano. All’«uomo senza qualità» (studiato da Musil) è concessa solo la «coscienza della propria vuotezza». O, se non vuol rinunciare al suo insaziato desiderio di non arrendersi, «un biglietto, / solo andata, per Amsterdam», città del Nord, «scrigno» per de Robertis di memorie d’arte (Rembrandt, museo di Van Gogh) e di storia (la casa nascondiglio di Anna Frank).

2.
In continuità col primo componimento, nel secondo troviamo ancora la riflessione su questo «presente: la sola dimensione» (il muro fortiniano!). Essa però procede in un brusio di sconsolate e sommesse denunce da parte del novecentesco «uomo ordinario» che «ha perso il nome, l’essenza, causa sui/ e per l’azione di famulus miserandi/fautori dell’espansione, corruttori d’identità». Cogliamo qui echi dell’assillante dibattito sulla globalizzazione, la fine delle Grandi Narrazioni, la postmodernità. L’«uomo ordinario», a cui de Robertis presta la propria voce, tenta di reagire: «Fletto la passività, sfato la connessione,/frantumo gli argini, l’indolenza». Ma in una sorta di titanismo stanco e tutto interiore. Che pare avere a sua disposizione soltanto l’arte. Sono i contrasti dei colori ad alludere, con un altissimo grado di astrazione, alle passioni e alle ideologie non più nominabili storicamente. Si veda «il grigio degli sguardi» contrapposto a «un piccolo astro rosso lucente» tutto mentale. In essi sarà trattenuta l’utopia, «luogo limpido, nuovo, d’aria e di luce», «isola, antica come il mito», ormai da nessuno più nominata? Si sente un’unica «contro-voce» che però non fa che invitare all’accettazione “realistica” dell’esistente: «La fiera globale non è poi/così male, spinge lo sviluppo,/riduce la povertà, vale l’adagio /del sempre ci sarà chi affligge e qualcun altro che sarà oppresso». O allo scetticismo verso ogni Totalità armoniosa del rapporto uomo/natura: «e poi… esiste la libertà intera?». Il poeta, dunque, rimane in ostaggio, stretto tra la morsa dell’utopia, che ancora considera valore, e un’adesione alla “Nuova Religione del Capitale Globale”. Prevale in lui il richiamo utopico. Fraternamente farei notare, però, che abbandonarsi al sogno, sia pur stupendo, sia pur coloratissimo (ma troppi verdi, vermigli, lillà ci sono in questo paradiso dell’«Origine» evocato in questi versi!) è in fondo un atteggiamento regressivo. Il ritorno ad una mitica e arcaica natura «in cui si raccolgono /le ombre, mani come rami stringono altre mani,/arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra/ vermiglia, s’incontrano fra spigliate fioriture/di intenso color lilla, rosse bacche fragranti» è troppo letterario e non a caso Leopardi, che pur ne fu attratto, lo respinse scegliendo l’«arido vero». Il desiderio di ragionare in poesia, che, come ho detto all’inizio, a me pare in  de Robertis potente, non viene del tutto meno. E però qui la ragione è come inceppata da un’accumulazione di «astratti furori» un po’ vittoriniani («saggiare la vertigine della libertà/che ad ognuno dovrà rivelarsi»), di nostalgie di comunismo (i tuoni di Majakovskij che oggi, però, rotolano su lande deserte assieme a ben altri «proiettili»), di prese di distanze fin troppo facili dalla resa collettiva dei servi e liberti (di sinistra) vendutisi o pentitisi («Arretrano. Volgono i passi,/si consegnano alla prassi»). Troppo violento si fa sentire il richiamo ad una nicciana «dionisiaca voce» estranea all’utopia «concreta» su cui meditò Ernst Bloch. Come troppo forte mi pare la tentazione di ridurre la questione del rapporto con la realtà a mera questione di linguaggio, quando ci si chiede: «E’ forse necessario un nuovo linguaggio?/ Un idioma segreto?». Sì, «l’esperienza gradualmente si invera» e «per gioia ogni voce diventerà riconoscibile». Sono versi belli e commoventi, ma la tragedia, che il ricorso all’utopia  elude e che però i poeti non possono dimenticare, sta nel fatto che le orecchie sono state turate a milioni e milioni di viventi; e che primo compito, anche della poesia, è sturarle.

3.
Sempre in coerente continuità, nella terza composizione è proprio questo «sottomondo segreto» ad attirare non soltanto l’«uomo ordinario» ma anche il poeta-intellettuale Ubaldo de Robertis. L’apparenza, di cui siamo ostaggi e che ci vuole imporre «la gravità zelante di un valletto, in ombra», è imponente. Lo è pure il senso di morte, che ci pervade come singoli e come società, insinuandosi – diciamocelo e facciamo entrare questo dato nella nostra riflessione! – specialmente in noi avanti con gli anni. Chi, granello di sabbia nella clessidra del mondo che sta nella parte alta dell’ampolla indifferente, «all’improvviso si sente mancare la terra sotto i piedi» – e per questo basta una malattia, un lutto, un amore o un lavoro perduto, un dissesto finanziario la fuoriuscita traumatica dal «tempo estatico dell’insurrezione delirante» – s’avvicini «alla gola che apre al sottomondo segreto», cosa prova? Qui l’interrogazione di de Robertis continua decisa ma affannosa. Certo, l’uomo-valletto «non può tornare indietro». (E nemmeno all’«Origine», aggiungerei io). È sottoposto alla legge del tempo («la clessidra»). Può tentare di aggrapparsi alla speranza («Ma c’è qualcosa che lo umanizza,/che oltrepassa e trascende il tempo»). O ricadere, un attimo dopo, nel dubbio scettico («Perduto?/Ritrovato?»). O nel nichilismo («O un irreversibile salto verso il nulla?»). O arrendersi per l’impossibilità di «scoprire un’effettiva, reale, misura interiore». A questo punto cruciale, in vista della morte, avallo sufficiente non c’è neppure negli esempi letterari novecenteschi (Proust, Borges, magari anche Pirandello) che de Robertis evoca. Né altra risposta. Egli onestamente ci consegna la sua interrogazione in una sorta di incompiutezza. A cui non dobbiamo rassegnarci.

[1] perché, essendo tra i promotori della demolizione della "Colonna della Grande Armée" di Place Vendôme, fu, repressa poi l’insurrezione, condannato prima a sei mesi di carcere e al pagamento di una multa di 500 franchi dalla corte marziale di Versailles.

19 pensieri su “Tre poesie

  1. Una conferma di ciò che ho sempre scritto sulla poesia di U. de Robertis: pensieri, meditazioni, dubbi, inquietudini, vita, realtà, saudade, e slanci onirici per sottrarsi alle aporie del quotidiano. Il discorso corre limpido e fluente senza invischiarsi troppo in accademici strati di metaforicità; e, soprattutto, acquistano valore nel suo canto le plurime immagini. Sì, le immagini, vale a dire quelle configurazioni trascorse e macerate in un animo pronto a nutrirle di storia, di esistenza, di vicissitudine, di melanconia, anche; figure lontane ormai dalla semplice realtà ma ritorni complessi, maturati, e desiderosi di uscire a nuova vita concretizzandosi in versi di visiva plasticità; in un realismo lirico di memoria capassiana.
    Complimenti
    Nazario Pardini

  2. Caro Ubaldo,
    ho letto queste tue poesie con grande piacere. Mi congratulo con te per la tua felice vena poetica. Mi piacciono soprattutto la chiarezza e la bellezza delle tue immagini.

  3. Siamo di fronte a una poesia d’ampio e lento respiro che si muove in flussi spazio-temporali e verbali variamente composti, dove spesso l’immagine si fa reale, la riflessione attuale e totale (“homo sum, nihil humanum a me alienum puto”, Ter. Heaut. ), l’io poetante severo nel controllo di ogni sconsiderata, gratuita o eccentrica fuga di una vivace fantasia sui variegati versanti della vita; sulla quale, peraltro, un’anima o una mente già indaga, pone domande, si confronta con i problemi, prende coscienza di sé. E del fantastico accetta il necessario, non di più.
    Poesia, perciò, apparentemente ( o, forse, parzialmente) oggettiva e fisica, sostanzialmente speculativa. Però, se scavi, senti il rimbombo di un cuore (ora anche rinnovellato, vero, Ubaldo?) che permea di sé tutta questa magnifica storia di versi e ne tiene saldamente le fila.
    I miei complimenti
    Pasquale Balestriere

  4. Mi sembra di buon auspicio introdurre il nuovo anno di Poliscritture con queste importanti poesie di Ubaldo de Robertis a fronte delle quali, quasi un metatesto pittorico, si declina l’intensità del dipinto di G. Courbet, dove il realismo di questo pittore *risponde all’urgenza di prendere coscienza del mondo nelle sue contraddizioni e lacerazioni, di immergersi in esso, di viverlo, di formarsi quella nozione della situazione oggettiva, senza la quale il pensiero produce solo pura utopia* (Seele Fragat).
    Due voci d’arte, dunque, accomunate nell’intento di *scoprire un’effettiva, reale, misura interiore,/per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)/in pensieri dicibili* (U. de Robertis)
    Due figure che si pongono sulla soglia, sul limite tra passato e futuro. Di quale ‘realtà’ possiamo parlare? O di quali ‘realismi’?
    Si tratta di domande che tormentano non soltanto il singolo soggetto che le pone, o il poeta che ne è portatore, ma che riguardano la nostra storia collettiva, la memoria, ciò in cui abbiamo creduto. La loro intensità è supportata, in queste poesie, da un versificare che alterna fluidità e nervosismo, ad esempio quando affronta i diversi tipi di solitudine, la solitudine della ricerca allorchè *penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno/e ha bisogno della luce del mondo per esistere* (riferendosi a Courbet), e la solitudine dell’isolamento, *Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,/prendere una via, ripartire all’istante:/“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?/Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita/riducendomi in solitudine.”/Amnesia di esseri e luoghi*.
    Si tratta di una realtà che non si sa più come rappresentare.
    Ma il poeta non si arrende. I riferimenti al Mito, alla Storia, il ricorso alle dotte citazioni, non sono qui orpelli retorici ma strumenti utili per portare avanti una interrogazione che persiste, nonostante da ogni dove oggi si parli della caduta della centralità del soggetto. E della ragione. Mentre la centralità si è spostata sulla forma, il dominio dell’immagine. Ma qui vediamo come l’utilizzo delle immagini non sia al servizio del creare stupore, bensì è il lavoro di cesello di un sentire che necessita di quelle per rappresentarsi (*In quell’arcaica natura in cui si raccolgono/le ombre, mani come rami stringono altre mani,/arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra/vermiglia, s’ incontrano fra spigliate fioriture/di intenso color lilla, rosse bacche fragranti*. Oppure *E c’è chi, affrancato, scuote le catene,/festosamente,…/*. O, anche * Certi danzano, ridono,/altri parlano un lessico ermetico, inconsueto.*)
    Sarà questo il futuro?
    Scartata l’ipotesi dell’”Homo faber” (Max Frisch) e di fronte alla assurdità che mentre *uno ha coscienza della propria vuotezza/e l’altro, annichilito, non ha un’identità* (perché a questo ci conduce un *presente* vissuto come *la sola dimensione*), che rimane da fare?
    L’uomo ‘tecnologico’ è diventato pietra non perché si è incrociato con lo sguardo di Medusa (la Verità) ma perchè *la mancata dialettica non lascia individuare/inediti scenari, antidoti alla coazione a ripetere* (è la coazione a ripetere che è mortifera). Il linguaggio segreto starebbe allora nel raccordare la scienza all’arte: *Musica, tempo di redenzione, dell’utopia./Nessuno che sia disposto ad accoglierla./Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven*.
    Ma non è il ‘sentire dei sensi’ che deve essere liberato, non è liberarci dalla ipoacusia che ci fa sentire all’unisono con il Genio, ma è sollecitare la musica interna. Ennio scrive che *le orecchie sono state turate a milioni e milioni di viventi; e che il primo compito, anche della poesia, è sturarle*. Purtroppo (e per fortuna) non funziona così: il Mito della Gorgone sta lì a dissuaderci dall’accostarsi al Grande Reale senza le dovute protezioni. Non tutti sono Perseo. Né tutti sono Odisseo.
    E’ difficile accettare, nel rapporto io/noi, *l’idea di sé difforme dagli altri,/e di sé attraverso il tempo. Sincronico/e diacronico, – direbbe Saussure*.
    Nello scenario courbettiano, “La spiaggia a Palavas”, può essere esercitata la capacità binoculare, ossia la possibilità di cogliere due movimenti diversi e contrapposti pur nella immobilità dell’immagine. Se guardiamo da una certa distanza la figura che si erge sullo scoglio, possiamo cogliervi una duplice prospettiva: la posizione di chi accoglie, quasi con un inchino, ciò che di nuovo si può presentare, qualche cosa che appare, che può ‘levarsi’ alla sua sinistra (l’attesa de *l’inedito scenario*), e, dall’altro lato, la posizione, eretta, fiera nella difficile opera di contemplazione dove * rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo/verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità/di ciò che passa, o anche la tenuità,/difficile esibire immagini coerenti della nostra presenza,/…*. In questo gioco tra intuizione (artistica) e stabilità (scientifica) forse si può costituire un nuovo linguaggio.
    R.S.

    1. “Ennio scrive che *le orecchie sono state turate a milioni e milioni di viventi; e che il primo compito, anche della poesia, è sturarle*. Purtroppo (e per fortuna) non funziona così: il Mito della Gorgone sta lì a dissuaderci dall’accostarsi al Grande Reale senza le dovute protezioni. Non tutti sono Perseo. Né tutti sono Odisseo.” (Simonitto)

      Non invocavo eroi “liberatori”. Semmai pensavo agli “uomini ordinari” di cui parla De Robertis. E Odisseo le orecchie dei suoi marinai non è che le sturasse…Ma il compito di sturarle è ancora valido o no?
      Sulle *dovute protezioni* sarei d’accordo. Basta intendersi su quali siano.

  5. Leggo spesso le Opere di Ubaldo De Robertis e non finisco di stupirmi. Un ricercatore nucleare applica la propria disciplina alla poesia con la stessa facilità con la quale una donna applica la propria femminilità alla maternità… Mi si perdoni la similitudine, ma trovo, ogni volta di più, nei versi di quest’Autore prolifico, immaginifico, sociale, civile eppure animato da un’afflato lirico che ruba l’anima, spunti di lacerante modernità e, al tempo stesso, di soavi riferimenti al passato. Il quadro di Courbet, é già premessa. La dedica a Max Frish… é evidenza. L’architetto Frisch viveva nella consapevolezza che la costruzione letteraria avesse bisogno di geometria, ordine, simmetria, spazio. La curiosità per l’ architettura non lo abbandonò mai. Proprio come il nostro Ubaldo applicava la sua disciplina alla letteratura. Era rimasto travolto dalla complessità dei problemi, dalla velocità delle trasformazioni.
    “Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
    senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
    e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.”
    Nessuna società ha vissuto un cambiamento così violento del paesaggio urbano.
    In Ubaldo v’è sempre la tendenza a rendere la scienza figlia dell’uomo e l’uomo figlio di se stesso. Lo attesta la lirica “Ad immagine dell’infinito”, introdotto da una frase di Friedrich Nietzsche «La clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa…» Disamina della sorte dell’uomo, segnata inesorabilmente dalla clessidra del tempo, dai minuti che ci vengono accreditati alla nascita. Tutto è scritto. Segnato. Eppure Ubaldo recita:
    “E rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo
    verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità
    di ciò che passa, o anche la tenuità,
    difficile esibire immagini coerenti della nostra presenza,
    scoprire un’effettiva, reale, misura interiore,
    per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)
    in pensieri dicibili”
    Lo scienziato scivola sulle sabbie mobili della vita e lascia le impronte incancellabili del Poeta… Non credo che le mie povere nude parole, possano essere all’altezza di tanta Arte. M’inchino e lo abbraccio!

  6. Può sembrare poesia ricca di immagini, che si compone per visionarietà, ma non è così: le immagini proposte da Ubaldo De Robertis hanno già il loro autore, e anche le musiche. In realtà, Umberto dimostra di essere un cacciatore di senso. E’ con le continue riflessioni che va componendo le sue poesie. Indagatore sensibilissimo ed entusiasta, riesce ad appassionale il lettore su immagini che sembrano lontane, ma che conservano domande e segreti ancora da esplorare, nell’oggi e nel domani. La pregnanza di senso fa di lui un poeta realista ma solo in apparenza ( io ci trovo qualcosa di Milosz); al contrario, trapela anche l’indagine metafisica ed esistenziale, senza però che l’autore si sovrapponga più di tanto con considerazioni soggettive, che vadano oltre una sentita partecipazione. Percorsa da innocente vitalismo, la poesia di Ubaldo sembra proporre una modalità del pensare: trasmette il gusto della scienza ad indagare, a capire e risolvere. Buon poeta, bravo.

  7. Ubaldo si tuffa nell’enigma della vita e del tempo. Fa filosofia con la poesia e poesia della filosofia. Non so se se sia stato miele l’ultima goccia tangibile della clessidra di Borges, ma nel cielo oltre noi luccicano le stelle. Egli sente il peso della terra e della materia, ma ascolta e tocca i profumi diversi e contraddittori che porta il vento. Egli non spiega e non sentenzia, ma indaga e ricerca, camminando nel presente…
    Alessandro Scarpellini

  8. …molto belle e sapienti queste poesie di Ubaldo De Robertis e da meditare. Alla prima lettura mi ha colpito lo stile classico e romantico, richiamandmi “I Sepolcri” di Ugo Foscolo per quel ricordare all'”uomo ordinario” l’ebbrezza , l’entusiasmo, l’utopia degli artisti, dell’uomo di genio, ma anche dei politici di una volta,( “..a egregie cose il forte animo accendono l’urne de forti…”)quando oggi invece il presente pietrifica l’essere umano in pensieri ripetitivi, voluti da altri…La descrizione del dipinto di Courbet dove la natura è immensa e l’uomo minuscolo come nei dipinti orientali (la luce degli occhi risveglia il paesaggio e a sua volta è generata) vuol forse essere un invito per l’uomo a ridimensionarsi e a ricreare il rapporto smarrito di simbiosi con la natura “mare e cielo adunati in un unico
    sguardo”…Il poeta non esita poi ad inserirsi nella vicenda umana descritta e quando tratteggia il suo autoritratto a me sembra anche di intravvedere quello di Van Gogh, con i suo elemento di follia creatrice, come a suggerire “..la vertigine della libertà che ad ognuno dovrà rivelarsi…”

    1. Ricevo al mio indirizzo di posta elettronica e la trascrivo la mail di Salvatore Martino:

      “ …. quella poesia, la tua poesia che si svolge tra due grandi miei amori Nietzsche e Borges con la travolgente disanima del tempo “Perduto”? “Ritrovato”? Dove sei Marcel? E l’agguato verso il Nulla. E tutto accade dentro di noi ogni qual volta “la clessidra sarà sovvertita” e il candore dell’acqua avrà illuminato la figura sul mare. Ma “siamo noi nella bonaccia o sul palcoscenico di vetro”? Passiamo attori inconsapevoli di un copione trascritto in una lingua che non conosciamo, in un teatro che mai ci è dato di abitare. Poesia la tua irta, difficile, ma in fondo cristallina, filosofica ma infarcita di immagini, che arrivano a toccare il profondo dell’anima del destinatario, anche sconosciuto, al quale destini il tuo discorso. Io non ho la dimensione del critico, non l’ho mai cercata, di fronte al saggio di Abate rimango incantato, quasi in un gesto di meraviglia…ma poi devo ritornare al testo alla mia maniera. Le mie sono impressioni , che mi raggiungono dalle tue parole “tra l’abisso e il ritorno alla vita”
      Immagino così che anche tu hai parlato con la morte, in quel dialogo che ci trasfigura e ci consente di gettare sulla carta quei versi che più ci appartengono, più dolorosamente veri, più trasfigurati verso l’esorcismo di questo breve, meraviglioso viaggio, che ci hanno donato il Caso e l’Anima, la nostra volontà di conoscenza.
      Affettuosamente ammirato, Salvatore”

      1. @ Salvatore Martino

        Salvatò, i’ vorrei che tu Ubaldo ed io
        fossimo presi d’altro incantamento
        e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
        critica-mente andasse al voler vostro e mio

        1. Quale splendido invito mi arriva in questo inizio dell’anno nel nome di Guido Cavalcanti di Dante e Lapo Gianni, un onore per me essere coinvolto in questa triade , ed essere accomunato nello stesso tempo a de Robertis e Abate. Salvatore Martino

  9. Un motivo collega le tre poesie in sequenza: una svolta, un capovolgimento, “trasfigura” mi pare un termine chiave. Tra i blocchi articolati l’opposizione: campo/controcampo del paesaggio marino e dell’uomo nel retroterra, il paesaggio aperto e quello urbano, la confusione e l’identità, la solitudine e la contro-voce.
    Un personaggio si muove attraverso queste opposizioni, attraversa l’arte e il comune, il grande Beethoven e il minuscolo uomo di fronte al mare, attraversa se stesso e il sé altro, il proprio e le idee ricevute.
    Non per questo è raggiunta una postura stabile: su tutto, il sovvertimento della clessidra “gola che apre al sottomondo segreto” segna il punto di svolta.
    Questa svolta riproietta all’indietro un senso sull’aver sfuggito la sventura, sull’essersi reso invisibile, ma “l’altro non deve tornare”. Anche se le coordinate sono quelle fissate dall’arte, che è extratemporale (e l’isola di Utopia potrebbe forse essere quella dei Beati) il presente impera.
    “E rovesciato, nell’aria, inizia un nuovo ciclo/verso un tempo nuovo di cui è arduo carpire l’intensità”. Il presente accoglie, pacificato mi sembra, la difficoltà di “scoprire un’effettiva, reale, misura interiore/per comporre tutti questi frammenti(di sabbia)/in pensieri dicibili”. E all’arte, a Borges, si può chiedere se “fu realmente di miele/l’ultima goccia attingibile della tua clessidra”.

  10. Ringrazio tutti e soprattutto Ennio per la preziosa critica, che mi ha aiutata a comprendere meglio e ad apprezzare le tre poesie.
    Da parte mia dopo averle rilette più volte, posso dire che la riflessione sulla vita, induce il poeta ad esaltarne ogni sua forma , sembra che non esistano confini di tempo in cui l’arte (fortunatamente?) prende il sopravvento.
    Qui mi fermo…le devo rileggere forse ancora… più di una volta. Complimenti a De Robertis.

    1. Un grazie a Ennio Abate per averci proposto tre poesie di Ubaldo De Robertis, che tracciano in maniera veramente significativa il suo percorso umano e artistico e soprattutto introducono una novità da sottolineare sia sul piano del significato che del significante. Un modo di fare poesia che supera il tradizionale ermetismo asfittico, così come si è sviluppato fino ad oggi, tutto concentrato sulla propria interiorità e su una ricerca estenuante di un linguaggio straripante di figure retoriche. De Robertis ha superato il cosiddetto tabù poetico della narrazione, approdando a una poesia di ampio respiro che si ricollega alla storia, alla cultura e partendo da esse, trae ispirazione per sviluppare un percorso originale e profondo.
      Nella prima poesia c’è il sogno nostalgico dei i miti romantici dell’ottocento spazzati via dai drammi sociali e esistenziali del novecento. Da questo contrasto nasce la tremenda disillusione del presente, l’incomunicabilità tra gli uomini, l’incomprensione cosmica, l’esigenza di “un nuovo linguaggio” di “un segreto idioma”, nella consapevolezza che ogni linguaggio è figlio della propria epoca. Che non si può continuare a fare poesia come si è sempre fatto, ma si deve invece entrare in sintonia profonda con la modernità, e che per fare questo è anche necessario “co-abitare l’isola, antica come il mito”.
      Questo tuttavia non affranca l’uomo dal dramma esistenziale della sua precarietà, del tempo irreversibile che sfugge al suo controllo, pur negli illusori, infiniti capovolgimenti della clessidra. La scienza spiega tutto questo con le sue logiche ferree, forse da risposta alle domande, ma non alle esigenze dell’uomo. Resta come unica strada quella di “scoprire un’effettiva, reale, misura interiore
      per comporre tutti questi frammenti (di sabbia) in pensieri dicibili” E cos’è questo verso se non la definizione più pregnante di poesia!

  11. Le tre poesie del de Robertis, per la loro ricca e stimolante complessità, mi hanno spinta a interrogarmi, fin dalla prima scena della prima poesia, su alcuni aspetti quali l’elemento spazio-tempo, già invero così riccamente individuato negli interventi precedenti, e a ricercare, per meglio capire, qualche suggerimento in merito sia sul piano letterario sia su quello culturale e scientifico.

    Procedo per ordine. – Un uomo saluta le onde e, attraverso la luce, il quadro di Courbet «penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno / e ha bisogno della luce del mondo per esistere.» Il tono piano denota un modo di guardare alle cose del mondo senza affanni.
    La seconda strofa si sposta su di uno spazio senza mare e ci immette in un paesaggio nuovo così come nuovo è il personaggio o, meglio, l’oggetto su cui il poeta punta lo sguardo: «un uomo è diventato pietra»; ma non sappiamo chi sia l’uomo-pietra, sappiamo che non è stata Medusa a punirlo.
    Con un movimento ulteriore abbiamo un terzo flash-back: una città caotica, in cui ci sono «Uomini che si muovono come nuvole incombenti». Colpisce la sequela dei cambiamenti, le stesse figure umane subiscono un processo di liquefazione, alla maniera dei gas di scarico diventano «Forme dissolventi».

    A governare è ormai lo scompiglio, persino i rapporti umani non sono più gli stessi.
    Ma che tipo di rapporto c’è tra l’uomo di Courbet, l’uomo-pietra e lo scenario cittadino?
    Al caos della città, interviene il caso: «Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?».

    A partire da questo punto il poeta, con quella domanda, con un ‘cambio’ ulteriore, fa un resoconto della sua vita e la mette in relazione con la vita che Courbet ha «pagato a caro prezzo» Un resoconto a tratti amaro, nel quale ci parla di “solitudine” e di «Amnesia di esseri e luoghi.», dove a prevalere è una desolazione indefinita, proiettata come si trasmette un messaggio in codice da decifrare («Nessuno… Nessuno… Nessuno»).
    L’immagine del quadro demarca un confine (interno-esterno? uomo-soggetto, uomo-oggetto?). In tal modo in quel ‘retroterra’ de Robertis avverte già la trasformazione sotto il triplice aspetto sensoriale, emotivo e culturale. E, così facendo, il poeta si apre a nuove prospettive.
    Grazie anche alla citazione che de Robertis fa del poeta argentino, mi vengono in mente le parole utilizzate da Blanchot a proposito del libro “Finzioni” sull’idea dell’infinito, teorizzato come luogo «senza uscita», per cui «la verità della letteratura risiederebbe nell’errore dell’infinito». O almeno, il senso dello spazio espresso con l’immagine dell’uomo di Courbet, le immagini sulla città ed il successivo raffronto di sé con il personaggio-simbolo, mi richiamano ciò che Blanchot spiega come “il senso del divenire”. Dice Blanchot:

    L’errore, il fatto di essere in cammino senza potersi mai fermare, mutano il finito in infinito. Si aggiunga questa peculiarità, che dal finito, sebbene conchiuso, si può sempre sperare d’uscire, mentre la vastità infinita è prigione, perché senza uscita. Così ogni luogo senza nessuna uscita diventa infinito. Il luogo dove ci smarriamo ignora la linea retta; non ci si sposta da un punto all’altro; non si parte di qui per andar là; nessun punto di partenza e nessun inizio al cammino. Prima di cominciare, già si ricomincia; non si è ancora finito che già si ripete, e questa assurdità di ritornare senza essersi mai mossi, o di cominciare col ricominciare, è il segreto della «cattiva» eternità, corrispondente alla «cattiva» infinità (e forse in entrambe è nascosto il senso del divenire). … (Blanchot)

    Con il senso del divenire il libro, che racchiude un mondo, di rimando moltiplica i mondi possibili. Cosa che, per estensione, si può intendere riferito anche al mondo delle poesie.
    «Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare», dice de Robertis.

    «Dubbio» e «incertezza» sono compagni sicuri di chi agisce. Nella seconda poesia c’è una colpa («causa sui») alla quale «l’animale-uomo» non può sottrarsi.
    Al poeta non rimane nulla (il “salto verso il nulla” della terza poesia ce ne dà una conferma) , ogni categoria è come capovolta («Fletto la passività, sfato la connessione…»). il senso della perdita dà modo di saper vedere in una maniera nuova al mondo. Ma una voce in controcanto revoca in dubbio le ultime speranze («e poi… esiste la libertà intera?»).
    Alla domanda replicherei: Se esiste per davvero questo qualcosa che tanto ci preoccupa, perché mai ne siamo così disperatamente attratti? («Per gioia ogni voce diventerà riconoscibile»).

    Oppure, per esprimerci (e capire) «È forse necessario un nuovo linguaggio?»
    E quale potrebbe essere il linguaggio nuovo? Ecco ancora il discorso tempo-spazio, in maniera forse più prosastica ora inteso come una dimensione che sia confacente all’individuo, se è vero che il “mistero” del tempo può essere paragonato al linguaggio, «entrambi prodotti con meccanismi nervosi complessi e fragili da diverse aree cerebrali». (Arnaldo Benini)

    Complimenti a de Robertis!

    GDL

  12. Sembra che la poesia di Ubaldo De Robertis segua nella sostanza, oltre che nella forma, una sorta di trasversale e intrinseca sinestesia. Un modo di interpretare la modernità nel modo più pieno e profondo, che è quello di intersecare e accumunare espressioni artistiche solo apparentemente diverse come la poesia e l’arte figurativa. Questa idea di trasversalità artistica è tipica dell’arte moderna e trova la sua consacrazione nello “Spirituale nell’arte” di Kandinsky; i colori divengono suoni, animazioni, movimento, evocano significati che hanno a che fare con la sfera dell’inconscio.
    E’ un’eredità dell’espressionismo che ci portiamo dietro da un secolo e che ha contaminato più intensamente le arti figurative. La poesia è stata in un certo senso fuori da questa contaminazione, concentrandosi su un verticalismo introspettivo da divenirne in qualche modo ostaggio.
    De Robertis ha superato questa limitazione ingombrante proprio, e non è un caso, utilizzando la pittura. La pittura del novecento non si è fermata a sondare le profondità umane, si è allargata all’interpretazione di universi che vanno oltre il nostro comune sentire. La spazialità si è relativizzata, ha cominciato a fare i conti con la quarta dimensione, come nel futurismo e non solo. Il dinamismo ha superato la staticità classica. L’opera d’arte va colta nel suo divenire, perché il divenire rappresenta la fisica della natura e allo stesso tempo la condizione umana. La scienza si è così aggiunta in una trasversalità che raggiunge una complessità inaudita.
    La chiave di questa rivoluzione è una nuova categoria poetica, il tempo, ma non il tempo statico, unità di misura fisica, il tempo della storia, il tempo vissuto nell’accezione di Bergson, che si lega inevitabilmente allo spazio deformandosi a vicenda.
    E’ la categoria dello spazio-tempo a cui fa riferimento Giuseppina Di Leo. Mai riferimento fu a mio avviso più opportuno non solo sul piano del significato, ma anche su quello del significante, cioè del linguaggio come aggiunge ancora la Di Leo, che, secondo me, è la risposta più adeguata alla domanda di De Robertis “E’ necessario un nuovo linguaggio?”. Non c’è dubbio che sia necessario, ma non è un linguaggio canonizzato in figure retoriche o iperboli, è il linguaggio dell’arte e della scienza che trovano ormai un comune denominatore. Un linguaggio finalmente libero dall’ermetismo minimalista per divenire filosofico, scientifico, logico, artistico, metafisico, declinato nella maggiore vastità per rappresentare l’universo che ci circonda e di cui siamo fatti. Tutto questo nella drammatica consapevolezza che la scienza, la filosofia, l’arte sono solo linguaggi per interagire con ciò che è inafferrabile, come il “noumeno” kantiano. E ancora nella consapevolezza della nostra impotenza, dell’impossibilità di invertire la clessidra, di riordinare i pezzi, nell’irreversibile e incontrollabile fluire del tempo.
    De Robertis ci ha forse dato la chiave di un nuovo linguaggio e soprattutto di una strada che, credo, la poesia abbia ormai iniziato a livello europeo nelle espressioni più innovative e che sia destinata a percorrere.

  13. Ciao Ubaldo.
    Ho letto le tue tre poesie su Poliscritture.
    L’impressione è che il tuo sguardo attualmente si collochi nella prospettiva giusta: coraggio senza temerarietà, ironia senza ferocia, speranza di verità e allo stesso tempo disillusione che tuttavia si nutre di una curiosità che non si sazia e non si arrende, continua a guardare per vedere e a chiedere per indagare veramente, per cercare una risposta non per avere ragione, come solo i bambini sanno fare, oppure i filosofi, o i folli, o tutte e tre le componenti insieme, che sono poi la ricetta della poesia, le tre istanze contraddittorie che convivono, a dispetto di tutto.
    Continua a scrivere così, coerente con te stesso, senza compiacere mode o tendenze.
    Ho letto nei commenti ai tuoi testi le firme di autori ed amici che stimo. Hanno detto parole sentite, e so che sono persone schiette, se non avessero apprezzato avrebbero taciuto, nel migliore dei casi.
    Quindi, avanti così.
    Buon 2016 anche a te e alle persone a te care.

    Un saluto
    da
    Ivano

  14. Mi appare assolutamente pleonastico commentare queste tre poesie di De Robertis. Bisogna leggere e rileggere questa marea di versi memorabili. C’è tutto quello che nella mia sete di lettore chiedo alla poesia : il mistero, la musica, la folgorazione delle immagini, uno stile assolutamente personale, il pensiero che si snoda a volte limpido a volte inquietante avolte ancora da decifrare, la commozione profondamente interna e sempre trattenuta da un eccessivo sentimentalismo, i legami con gli autori del passato fossero essi filosofi o poeti o musicisti…e quell’accenno al quartetto metafisico il 132, che ci tiene inchiodati al mistero più inconoscibile, e l’exergo della clessidra del mio amatissimo Nieztsche, concorrono a farmi sentire fraternamente vicino a questo interprete della luce oscura che tanto ci conquista la mente e l’anima. Salvatore Martino

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