di Giorgio Mannacio
Un franc, un franc s’il vous plait. Il petulante saltimbanco ci offrì, in cambio, un allegro cartoncino listato a lutto. Con enfasi tutta francese prometteva brividi ed emozioni . A pagamento , si intende. Una cifra modestissima per uno spettacolo come Azhote di Renè de Obaldia.
Au Magazin des ombres umidità ed odore di putredine salivano dal grande fiume , presente ed invisibile. Subito un’ aspirina quando saremo a letto , oppressi in eguale misura dalla tappezzeria a fiori incombente e dal ricordo gastrico del poulet roti avec frits. Vuoi mette’ du’ spaghetti co’ le cozze ? Anche qui sono arrivate le quadrate legioni di Cesare.
Il saltimbanco, intanto, si trasforma in mimo. E simula, con straordinaria perizia, un’asfissia. La fine del mondo, naturalmente. Che altro può interessare chi è arrivato al vertice del progresso?
Ha un grande avvenire, il nostro amico , se non morirà prima che il grande avvenire lo raggiunga. Si, le guance scavate e gli occhi pesti non sembrano destinati a durare più di qualche stagione teatrale.
Lo spettacolo ? Mah! Perché pronunciarsi definitivamente quando tutto è effimero? Rivedemmo nella grande piazza la folla che si alternava equanimemente tra spettacoli di avanguardia e cibi di retroguardia insenapati quel tanto che basta a cancellare le stigmate organolettiche della decadenza.
Carta unta e carta stampata si mescolavano ai piedi dei platani. Ecco Giosafat, ecco la valle dove sono chiamati a raccolta i romanzi neppure concepiti, le immortali odi mai scritte, le omissioni concrete di tutti i potenziali cronisti di una notte di mezza estate, gli omicidi non commessi per pura pigrizia e trasformati nel gesto di San Martino.
Lui comparve saturninamente diverso, divenuto venditore diretto di biglietti. Ci sorrise, abbozzò con grazia l’offerta di un altro spettacolo , quella sera stessa o più in là. Con eguale grazia – e ci intendemmo subito – lo mandammo a quel paese.
Quando – di fronte ad una Stella Artois (chi non l’ha bevuta almeno una volta nella vita ? ) – rilessi il cartoncino che non avevo strappato, capii che lo spettacolo era stato un pretesto perché qualcuno, un grande spirito, ne scrivesse la presentazione con queste poche parole: la tigresse qui gagnera la dernière.
Guardai intorno inutilmente. Del felino nessuna traccia.
Ci eravamo fermati, strada facendo, da un conte in disuso. La contessa che – invece – era in piena attività, ci accolse, presentandoci l’altro ospite: un piccolo spagnolo nero e frenetico. Si aggirava per le ventiquattro stanze chiedendo con voce stridula pennelli e colori, colori e pennelli. Ma soprattutto uova, uova al burro. L’uovo , lo si sa fin dai tempi antichi, è pieno di ogni sostanza. Se ne può dubitare se lo dice anche il grande Guglielmo (Romeo e Giulietta. Atto III, scena I )?
Ci parlò , tra l’altro , della violenza abstracta di alcune tigri di un piccolo quadro. Una di esse azzannava – ridendo – un tenero cerbiatto tra le foglie attonite del Paradiso terrestre. In un altro troneggiava, a grandezza naturale, il Conte vestito da Cavaliere di Malta.
Il pittore andò in estasi per un mio aforisma ( non me lo ricordo più ) e ci invitò a restare. Ci descriveva la pianura padana come piena di insidie, di notte. E poi, ultimo argomento: qui, escluso il vino, tutto il resto è eccellente.
La Contessa, rifacendogli il verso, lo chiamava il mio hidalgo al burro e rideva e ad certo punto mi sembrò che il suo sguardo cambiasse direzione e si rivolgesse a me in un modo specifico.
Riflettendo sugli scambi simbolici tra viaggi ed eterno femminino, declinai l’offerta che avevo, con presunzione, letto in quel sorriso. Ma avevo anche paura. La straordinaria cortesia dello spagnolo avrebbe potuto trasformarsi in furia omicida. Forse sotto la giacca un tantino stretta è celato un pugnale. Cuando esta vibora pica no hay remedio en la botica.
Sorpassi facili su lunghe strada ondulate mi hanno portato qui, in terra di Francia. Luci rosate sostano sulle pietre dell’antico palazzo. E d’improvviso , non si sa da dove, non si sa da chi chiamato , arriva a due passi da noi un gruppetto di flics , efficientissimi.
Il giovane vagabondo dalla lunga chioma sembrava una cometa. Polvere di stelle sul suo giubbotto sdrucito? Solo parole in libertà. Fango rappreso di sottoponti, sozzure di binari morti, macchie enigmatiche di battaglie urbane. E il suo odore? Disperso dal vento. Ecco il tutto. Venne agguantato, buttato a terra , picchiato q.b. Si agitava sotto i tentacoli, anguilla in secco.E sparì in un tetro furgone dal muso piatto accucciato a fari spenti in un angolo della piazza.
Della presenza di esso ci accorgemmo quando, partito silenziosamente , lasciò libero alla nostra vista uno scorcio della stradina e , in fondo , la parte bassa del muro di cinta del castello. Quella violenza, ignota nelle sue ragioni e nei suoi esiti, mi sembrò simbolica ed irredimibile. La tigre che, alla fine, avrà partita vinta?
Tanto di cappello! Si sa che i poeti, quando ci si mettono, sanno scrivere in prosa meglio di chiunque altro. Badano ai frammenti e ti sorprendono più spesso. E poi questo racconto è teatro che sconfina, perfino nell’etere, quindi avrà le stesse regole del palcoscenico: basta un niente che ci si annoia. Già l’avevo scritto in un commento, che Mannacio è meglio ‘e Shakespeare!
L’articolarsi di piani diversi, spaziali, temporali, sociale di ceti e classi, di spazio aperto e spazio chiuso, di citazioni culturali rispetto al cap e muort del saltimbanco, con rapido glance alle mosse femminili, hanno fatto per me di questo brevissimo racconto un autentico godimento.
…”Sorpassi facili su lunghe strade ondulate mi hanno portato qui, in terra di Francia. .” mi viene di immaginare al posto di persone in comoda autovettura, un cavaliere errante e il suo seguito che, in notti estive, se ne vanno per fiere e castelli, allegramente spinti dal desiderio di avventure e dal gusto della vita… Così trovandovi gli esemplari umani più curiosi e pittoreschi, ma c’è tuttavia incombente una “minaccia”: la presenza della tigresse contessa, a cui il cavaliere sfugge, ma non il malcapitato vagabondo, “picchiato q.b.” dai flics e portato via.
Un racconto divertente e malizioso
complimenti, un racconto eccellente, con ottimi rimandi e riferimenti mai appesantiti, solo una tocco quanto basta.
bravo un bel pezzo
Quando dico a Giorgio Mannacio che non sbaglia mai , non è solo una delle mie solite emozioni che non mi danno il tempo di sostare sullo scritto e vedere anche ciò che potrebbe essere un errore o una scusa per farmi sentire una lettrice critica, lo dico perché questo poeta scrittore, arriva sempre al centro , ma prima di gli gira intorno con tutto il suo desiderio di immagini e sogni. Un Fellini della scrittura . In questo breve racconto c’è tutto questo . Sogni vissuti come realtà, realtà vissute come sogno . Qualcuno potrebbe volere di più? No , sicuramente no. Complimenti Giorgio!
Il racconto breve, brevissimo, mantiene sempre un fascino particolare quando è ben scritto come “Il felino finale” di Giorgio Mannacio. Si capisce che l’Autore si avvale di molti punti di vista, altre arti, non ultima l’intersezione con la poesia. Intelligenza ed estro al servizio della scrittura narrativa nel raccontare, con elegante rapidità e con acuto senso di humor, storie di uomini e luoghi: “un allegro cartoncino listato a lutto”; “spettacoli di avanguardia e cibi di retroguardia”; “Ha un grande avvenire, il nostro amico , se non morirà prima che il grande avvenire lo raggiunga”, tanto per fare qualche esempio. Mannacio, ricco di una finissima cultura, attento a ciò che di singolare si genera dal reale (mi riferisco alla ricerca del raro sempre preziosa nella letteratura e nella vita, che poi è la stessa cosa), concede ampio spazio alla libertà di tono e al bel respiro della propria scrittura.
Ubaldo de Robertis
Nella lievità di un racconto di viaggio (nel presente? nel passato? ci sono ancora i franchi, fa differenza?), Giorgio Mannacio non lesina le sue frecciatine sull’asfissia che oggi ci consuma: *la fine del mondo, naturalmente. Che altro può interessare chi è arrivato al vertice del progresso?
Ha un grande avvenire, il nostro amico , se non morirà prima che il grande avvenire lo raggiunga*. Non si astiene dall’immettere nei personaggi la sua visione (politica!) del mondo. Lo fa con leggerezza (non utilizza eccessiva senape, che il più delle volte serve per con-fondere i distinti sapori). Lo fa con l’eleganza sorniona del felino, sia pure esso la tigre del Bengala sul cui manto in movimento noi non siamo che una fuggevole striscia! Lo fa con tragico umorismo, dove la carta unta volteggia assieme a quella stampata, così come l’omicida (più o meno mancato) e il santo (più o meno celebrato) si incontreranno nella valle di Giosafat: davvero saranno salvati tutti?
In poche ma densissime righe, Mannacio presenta pittoricamente un mondo complesso che utilizza la città come teatro dei suoi sacrilegi (*Polvere di stelle sul suo giubbotto sdrucito? Solo parole in libertà. Fango rappreso di sottoponti, sozzure di binari morti, macchie enigmatiche di battaglie urbane. E il suo odore? Disperso dal vento. Ecco il tutto*).
Mi ha fatto venire in mente M. Chagall – autore che, peraltro, non mi sollecita particolarmente -, nel suo “Saltimbanco” del 1943, quadro in cui si addensano, quasi immobilizzati da un immenso orologio da polso, molteplici personaggi.
Bello anche il duetto con la contessa dove le ‘ritrosie’ sono invertite nel gioco delle parti (*Riflettendo sugli scambi simbolici tra viaggi ed eterno femminino, declinai l’offerta che avevo, con presunzione, letto in quel sorriso. Ma avevo anche paura*).
Detto in altri termini, un “gioiellino” di prosa poetica.
R.S.
Cari lettori del Il felino finale, vi ringrazio di cuore. Le vostre osservazioni, impressioni ed emozioni mi aiutano molto ed anche mi spaventano perchè vorrei essere ” sempre ” ( si fa per dire ) all’altezza della vostra generoso apprezzamento. Un saluto e buona domenica. G.Mannacio.