di Luigi Paraboschi
con una nota di Ennio Abate
Il fiume San Lorenzo
Il fiume San Lorenzo corre veloce
tra le rocce prima del Ferro di Cavallo
e poi si schianta nel salto
dentro la nebbia d’acqua
ove galleggia microscopico un battello
dal nome ” Maid of the mist “.
Così noi, tu, io, assieme
alla maschera di Tutankhamon
e allo schiavo che eresse
la sua camera funerarie,
il defunto di Sant’Elena
e gli insepolti delle sue battaglie
i loro amori, le malattie, il sangue
delle ferite, ed il dolore delle baionette
dentro le viscere, i dissolti di Hiroshima,
i disintegrati delle torri
tutto scomparso dentro quella nebbia
ove basta un secolo per essere dimenticati,
anche tu, piccolo uomo che ora balli
al suono dei jingle natalizi
ti perderai nel flusso della corrente
e non saprai di me e dei miei amori
inconfessati e sotto silenzio
non troverai che echi di rimando
ma dell’emozione di una mano intrecciata
con la mia, di quelle labbra cercate
nella morbidezza di un abbraccio contrabbandato
chi ti potrà narrare ?
Eterna è la nebbia del fiume San Lorenzo
e naviga ogni giorno quel battello
con i turisti, tutto avvolge
questo tempo che ci è dato e tolto
in un istante senza poter capire
la ragione della sorte e del destino,
la nostra storia ed i suoi angoli
che non sappiamo arrotondare
e quel bisogno di narrarci all’altro
che talvolta neppure sa di noi
( o l’ha smarrito nelle pieghe
d’un desiderio morto )
e le partenze che rinviamo
con quei biglietti di sola andata
già obliterati, tutto tutto tutto
sarà avvolto e poi travolto
dentro quella nebbia che si scioglierà
soltanto in un incontro dentro quel Tutto
e finalmente respirerà la pace.
*Il battello Maid of the Mist prende il nome da una figura mitologica degli indiani Ongiara, trasporta passeggeri, nel bacino alla base delle cascate, sin dal lontano 1846. (da https://it.wikipedia.org/wiki/Cascate_del_Niagara)
Il pallone cade sempre al di là del muro
In quella fotografia non ancora color seppia
sorrisi, sguardi, complicità, inconsce
speranze, illusioni, tutto era ai nostri piedi
allora, il dubbio e l’incertezza non ci appartenevano,
ogni virgola era al suo posto, chi avrebbe immaginato
che il futuro sarebbe stato quello che divenne ?
A quel tempo si distendeva sotto i nostri piedi
il tappeto rosso delle stelle, tutto era in discesa
quasi senza pedalare, nessuna ombra
sarebbe apparsa sopra l’alba di anni nuovi,
Urbino sferzava i vostri visi col vento delle sue Cesane,
e così disperdemmo negli arabeschi delle strade
i nostri sogni fatti di attesa e i viaggi di speranza,
ma il tempo ci ha buttato addosso il suo mantello
e la vita è rimbalzata al di là del muro di confine
come talvolta avviene col pallone
e si deve scavalcare la recinzione
con la speranza di recuperarlo
ma l’erba è cresciuta a vista d’occhio
Al Premio di poesia
Non si nega l’applauso
è pura cortesia, affabilità,
civile comunicare un affiatamento
tra sconosciuti che hanno biascicato
le stesse parole, ordinandole
con diverse sfumature, domandandosi :
” ma cosa voleva dire ? ”
e la giuria indossa le piume d’ordinanza
si sciacqua l’ugola con le citazioni colte
s’arrampica sugli specchi
per dimostrare che ha letto
meditato e soprattutto ben capito
il senso, il messaggio (no, questa parola
non la si dice più, fa troppo anni sessanta)
meglio parlare di mission della poesia
e poi tutti a buttarsi a scapicollo
senza l’eleganza del censo e anche del ceto
sopra i bicchieri di vino bianco
la fettina di crostata e le tartine
gentilmente offerte dalle dame
d’una carità acculturata e progressista
poi la lettrice che declama i testi
con troppo birignao e l’autore
un po’ imbolsito che enfatizza
il suo prodotto, e tu che ascolti
ti domandi il senso di certe calligrafie,
se aiutano il mondo a farsi chiaro a noi
oppure se altro non sono
che l’appagamento d’una vanità
che ci attraversa e lascia folgorati
sopra una strada che mai non va a Damasco.
Infine ci si saluta, ci si complimenta
e si riparte, ognuno con la sensazione
di sfatto,di deja vù, di paura ben nascosta
per ciò che abbiamo dentro
e che avremmo voluto tirare fuori
ma le parole che avremmo usate
non sarebbero state degne del sentimento,
e domani ricominceremo a pennellare
la nostra vita sopra le vecchie tele
sperando che il senso si faccia avanti
e si dispieghi, ma non accade.
NOTA di Ennio Abate
Sin dal primo impatto con i versi di Luigi Paraboschi si coglie il tono fondamentale della sua poesia, che è lucido, dimesso e amaro. (Quando ho pensato ad un corrispettivo nel campo della pittura, mi sono venuti in mente i quadri di Edward Hopper, il ritrattista della solitudine americana). Paraboschi coltiva una poesia che non vuole essere per letterati. (Si veda il distacco ironico che mette tra lui e gli altri poeti nella terza poesia qui proposta). E che s’affanna, invece, sulle domande di senso della vita e delle nostre esistenze. Sono, immagino, domande sue. Che però ha sentito galleggiare anche nella mente della gente comune con cui sta a suo agio. Come lui, costoro non hanno una corazza di studi letterari o filosofici e non amano le “ideologie”. Né i ricami col linguaggio («e tu che ascolti / ti domandi il senso di certe calligrafie»). Di solito hanno fatto altri studi (tecnici e scientifici forse) o hanno vissuto in modo pratico buona parte della loro vita. Hanno pensato, cioè, dentro le sue maglie strette e spesso ispide, non in appartati seminari accademici o cenacoli letterari. Dalla poesia, perciò, reclamano qualcosa che abbia ancora a che fare con quel che hanno cercato e cercano nella vita di tutti i giorni. Ai versi chiedono innanzitutto « se aiutano il mondo a farsi chiaro a noi».
Conservando gelosamente un legame privilegiato con questo tipo di lettori, ai quali Paraboschi mi pare legato in modo tenace tanto da farne anche una sua maschera difensiva e selettiva, la sua poesia proviene da un sincero bisogno di narrare e di narrarsi all’altro. Ed è perciò colloquiale. Non resta comunque in superficie. Non ti intrattiene amabilmente ma ti porta nella profondità dei sentimenti da lui vissuti, dimessi e amari, come dicevo. A questo «desiderio di contatto» Paraboschi non si affida però del tutto e tende anzi a castigarlo. E qui entra il realismo che ha conquistato dalle sue esperienze di vita e di scrittura. Perché ha troppo chiaro che il mondo, di cui una volta i poeti, ma soprattutto i narratori, che credo egli preferisca, raccontavano abbastanza liberamente, non ha oramai più «colori e forme definite». E sa bene che «oggi tutto si muove in fretta, la stanchezza / ci attraversa senza lasciare al cuore il respiro /per un battito anche senza futuro». Quindi egli ancora narra, sì, ma con un sentimento di abbandono, di malinconia pacata, di deciso riserbo. Da solitario, in fondo. E, pur mantenendo per un’esigenza soprattutto morale il contatto con il lettore (ripeto: comune), scivola facilmente (e dolorosamente) nell’introspezione, nell’analisi di coscienza tormentosa e spietata con se stesso: «e so di avere lasciato persone come ombrelli /dimenticati sopra qualche tram al capolinea». Dunque, i suoi sguardi sugli altri, fotografici e realistici – le sue poesie partono spesso da immagini/fotogramma – hanno un moto esterno/interno: finiscono per restituirgli il suo stesso volto semplicemente moltiplicato: «I viaggiatori low cost che scelgono la notte / hanno pieghe increspate agli angoli degli occhi/ e bocche amare rivolte verso il basso».
Al fondo della sua ricerca in poesia c’è una religiosità desolata, espressa in una poesia così:
ma l’amore per coloro che stanno
ai margini non sa portarti
oltre una solitudine di sabbia
così cammini dentro le acque
alla ricerca di quel Dio
che altri fanno pane quotidiano
mentre impasti desolata
la tua farina senza lievito.
Da tale religiosità gli viene, credo, una sorta di sfiducia scettica (e fortemente critica) verso la cultura più ufficiale o di moda e soprattutto verso gli “intellettualismi”. Ma anche verso la stessa poesia, specie quella che mira volentieri al sublime, all’oscuro o al troppo eccitato. Paraboschi sa che «la bellezza non ci salva, come / non salverà l’illusione del signor Ramsay / di rimanere dentro la storia del pensiero». E sa pure che, vagabondando per la letteratura, si procede quasi sempre « sopra una strada che mai non va a Damasco». Dove a lui preme, invece, almeno avvicinarsi. Un brivido di appagamento gli viene dal praticare la poesia (un po’ orgogliosamente) restando esterno alle correnti ufficiali o più rumorose o più intellettuali. Collocandosi, cioè, volontariamente ai margini della cultura italiana. E fingendosi a volte persino “non all’altezza” di certi discorsi o meno critico e più disinformato di quello che realmente è. In fondo, più che dalla cultura letteraria italiana, egli ha molto assorbito, come avevo scritto in un precedente commento, la lezione della poesia/prosa di tradizione anglosassone: verso lungo, concretezza dei temi, tono serio e riflessivo, nessun svolazzo iperlirico o letterario. Lo provano i continui rimandi culturali presenti nei suoi testi; e pure la frequente composizione di poesie che sono meditazioni e quasi mini-saggi su autori che s’è scelto, ha letto ed amato. Su questi autori costruisce vicende sottilmente romanzate, rivivendole dall’interno e facendo di essi dei personaggi-maschera (anche della propria esistenza e del suo modo di pensare). E di molti di loro, spesso narratori come ho detto, asseconda in poesia proprio la loro andatura.
Collegando tempi arcaici e tempi d’oggi, alludendo sempre con tenerezza a sentimenti amorosi e a immagini sensuali, si potrebbe dire che la poesia di Paraboschi sia cresciuta soprattutto nella malinconia. Non credo che essa sia dovuta solo al fatto che, come tanti di noi, abbia dovuto praticare la poesia e la scrittura facendo altro nella vita. (Quasi tutti i poeti del Novecento non sono vissuti di poesia). E neppure al dispiacere di essere rimasto un “illustre sconosciuto”. La sua malinconia è più vasta, più esistenziale; e questa è la mia ipotesi: ha radici religiose. “Illustre sconosciuto“ penso che Paraboschi si consideri anche, come credente, rispetto al Giudice che s’è scelto e che dovrebbe misurare la santità da lui raggiunta anche (ma non solo) attraverso la poesia.
Le tre poesie che pubblico mi paiono confermare questi tratti principali della sua figura. Soprattutto la prima sulla quale mi soffermo.
Il componimento parte da un’immagine precisa e realistica. Chiudessimo gli occhi, dopo averla letta, è facile immaginare fiume rocce cascata e battello. I nomi permettono di risalire a informazioni o foto (come quella che ho scelto) che documentano l’esistenza tuttora dei luoghi qui nominati. Il fiume è proprio il San Lorenzo, non un’invenzione fantastica. Ma poi da quella «nebbia d’acqua» si trapassa a ben altra nebbia, una sorta di realtà che fu e non è più. Sono immagini carbonizzatesi nel nero della memoria. Colte in un galoppo disordinato tra le macerie dei secoli. Quel «basta un secolo per essere dimenticati» è un monito terribile. Del tutto ignorato dall’anonimo piccolo uomo che balla, ma non dall’io del poeta. Che ancora vuole essere centrale, che ancora vuole resistere narrando le preziose (per lui) emozioni: minime, semplici ed evocate in maniera pudica. In quel cumulo di immagini-simbolo concretissime siamo risucchiati «noi, tu, io», servi o potenti. E quel che ancora tentiamo di chiamare storia si fa Nulla. Non c’è denuncia, non c’è polemica o rivolta. La nebbia assume appunto una forma mitica, eterna, insondabile. E sta per il Nulla, per gli inferi antichi. E quel battello che naviga diventa acheronteo o zattera di Delacroix: è senza meta e senza senso (senza poter capire/ la ragione della sorte e del destino»). A me pare di cogliere un intento sadico-gnomico nel rappresentare il «piccolo uomo», che inconsapevole si diverte e non sa, non pensa. Come invece fa, allarmato, il poeta. Che pure lui è trascinato «nel flusso della corrente» ma da sveglio, ad occhi aperti. Quel piccolo uomo è, comunque, lo stesso a cui il poeta vorrebbe far conoscere qualcosa di sé, dei suoi amori. È proprio a lui che vorrebbe narrare. É a lui (o ad altri simili a lui) che ha già cercato di dire almeno la sua paura di stare «nel flusso della corrente». Viene così rappresentata la stessa ricerca in poesia di Paraboschi. Con la sua resistente fiducia nel valore del narrare e nell’esistenza di un lettore possibile a cui narrarsi. Questo può offrire la poesia. Prima di entrare in quella nebbia con i biglietti «di sola andata». Prima che – si noti la ripetizione angosciata – quel «tutto tutto tutto /sarà avvolto e poi travolto» per diventare astratto gigantesco «Tutto». Che per Paraboschi è però non l’abisso leopardiano ma Dio, l’unico che può sciogliere la nebbia e dare in cambio pace.
Grande poesia e grande critica. Complimenti a Paraboschi e Abate .
Belle le poesie, sulle quali ha davvero già detto molto Ennio Abate, che qui saluto affettuosamente. Mi piace anche l’anticonformismo della terza, con la sua fresca ironia sulla giuria del Premio di poesia. Qua e là c’è a mio avviso qualche ridondanza prosastica, che eliminerei.
L’andamento prosastico esprime il distacco da una certa poesia di “profondità”, e anche la reticenza nei confronti del dibattito poetico corrente.
In parte l’aristocratico riserbo impoverisce il testo, come con l’ideologismo di “Al Premio di poesia”, invece il pulviscolo d’acqua polverizzata dalla fisica caduta apre una prospettiva di distruttività cosmica non solo alle esistenze ma anche alle memorie.
Splendide poesie e vere. Soprattutto vere.
Il disimpegno/ impegnato di Paraboschi ( che non sono parole in libertà ma parole e libertà espressiva ) mi è subito piaciato ( Petrolini ) . E poi c’è l’ironia , variamente dispiegata , che è una dote rara , che non s’impara e che è spesso decisiva per avvicinare una possibile “verità”. Una lettura piacevolissima , per cui ringrazio l’Autore e sentitamente Ennio Abate che l’ha proposto .
Sono pensieri, anche profondi, in una forma appunto scarna, prosastica; che naturalmente insegnano, ma fino a un certo punto.
Intendo dire che, se sono d’accordo sulla sostanza (figurarsi, se uno come me non vede i premi letterari come la peste…), o ne rispetto certi punti di vista (nelle altre due), questo modo di “far poesia” (virgolette volute, me ne scuso con l’autore) mi conferma come la conoscenza – anche intesa in senso lato – sia faccenda costruita “a cipolla”: ognuno arriva a conoscere sulla base del potenziale che si ritrova ad avere e su come l’ha addestrato e sfruttato.
Senza quindi voler nulla togliere al lodevole tentativo di Paraboschi, sono assolutamente convinto che si possa, tramite la poesia, “far conoscere di più” di un dato argomento, magari proprio sfruttando le infinite possibilità del linguaggio, che a qualcuno temo possano far sorgere sospetti di radicalismo-chic. In qualche caso confermabili, chiaro…
La conclusione è che, di nuovo, ciascuno arriva a conoscere ciò che vuole conoscere, fermandosi magari quando il cammino si fa scosceso… E il rischio a cui si va incontro, è prendere la strada che ha portato al collasso la scuola italiana: abbassare i livelli, in modo che gli altri siano convinti di sapere, quando in realtà sanno molto meno di quello che credono; e soprattutto di quello che serve.
Trovo l’analisi del Sig. Ennio Abate precisa e calzante. Forse tre poesie di Luigi sono poca cosa per poter apprezzare in pieno la sua poetica, è sicuramente un autore che lascia il segno.
un saluto a tutti
…nell’immagine, tra i vapori della cascata, appare un arcobaleno, come a visualizzare quell’ultimo verso della poesia “Il fiume San Lorenzo” “…e finalmente respirerà la pace”. Una poesia che appare “una cartolina dal mondo” (e già altre il poeta Luigi Paraboschi ne ha scritte), testimonianze di luoghi visitati, abitati, ma con uno sguardo più profondo di quello del turista, sebbene i paesaggi siano puntualmente descritti. C’è sempre una visione, una riflessione folgorante, che trascende la realtà immediata per considerare quella dell’uomo nel tempo: “…questo tempo che ci è dato e tolto/ in un istante senza capire/ le ragioni della sorte e del destino” e la nostra dissolvenza tra i vapori della cascata. Grazie al poeta e ad Ennio per la sua critica puntuale e completa…
@ Rizzi ( ma il discorso vuole essere generale e non personale…)
Devo dirla chiara e tonda: no, non bisogna prendersela con la prosa. E fingersi «d’accordo sulla sostanza» e poi svalutare « questo modo di “far poesia”», virgolettando (e cioè, appunto, svalutando).
Il fatto « che si possa, tramite la poesia, “far conoscere di più” di un dato argomento [?], magari proprio sfruttando le infinite possibilità del linguaggio» mi pare un luogo comune dei poeti idealisti che denota una fiducia rischiosa nel potere della Parola o del Linguaggio.
Le «infinite possibilità del linguaggio» tanto sondate lungo il Novecento da avanguardie e neoavanguardie aspettano di essere valutate. Hanno dato ma non hanno aperto una prospettiva che sfugga alla *cattiva infinità*.
Molti di questi “sfruttatori delle infinite possibilità del linguaggio” a volte hanno lavorato meritoriamente, perché davvero ci si era imbalsamati in un linguaggio convenzionale e normale che chiudeva all’esplorazione della cosiddetta “realtà”. Altre volte, invece, sono state esperienze del tutto gratuite o che si sono inoltrate più che nella sempre cosiddetta “realtà” in territori di folle e eccitata lussuria linguistica. Praticati e praticabili sì, ma soprattutto da eccentrici e privilegiati borghesoni, magari imitati da proletari *maledetti* finiti più facilmente di loro nei manicomi o nei bassifondi. E tali esperienze (futuriste, surraliste, ecc.) attendono ancora di diventare *pensabili* ( e praticabili) per le cosiddette *masse*. E non so sa se questo accadrà mai, perché le esperienze elitarie e “sacerdotali” vogliono essere *per pochi* e ottenere solo il consenso e l’ammirazione dei *molti* non un mutamento delle condizioni stesse dell’esperire.
Fare i conti con la prosa anche *in poesia* non è, dunque, fermarsi impauriti «quando il cammino si fa scosceso» o «abbassare i livelli» per ottenere l’applauso, ma fare i conti col tutto il mondo in continua e sconcertante e spesso noiosa trasformazione tenendo ben presente gli altri, la gente comune, come fa Paraboschi. Poi quel che si produce sarà più o meno significativo, ma non taglia fuori programmaticamente il “basso” , la “prosa del mondo”.
P.s.
Per una fortunata coincidenza, mentre mi accingevo a scrivere questo commento, ho letto su LPLC la recensione di un narratore, Giorgio Falco, ad un’opera di un altro narratore. E mi pare opportuno sottoporne uno stralcio alla discussione per alcune coincidenze con quel che qui ho scritto sul (necessario per me) rapporto prosa/poesia.
*
“Preghiera tra parentesi. *Il brevetto del geco* di Tiziano Scarpa”
29 gennaio 2016
di Giorgio Falco
Stralcio:
Quanta fede religiosa e quanta nell’arte riesce a sopravvivere nei luoghi di lavoro?).
Federico Morpio – artista in crisi, spietato prima di tutto verso se stesso – si chiede se abbia il talento necessario, se ne valga la pena. Vivere fino in fondo la propria arte è una vocazione religiosa (e qui i punti di contatto con Adele): “Non è che la mia arte, così com’è, conta non per le poche opere che produco, ma per quel che mi costringe a vivere?”
Quando “il demone tentatore” gli si accosta all’orecchio, con la vocina suadente, pubblicitaria, gli chiede: “Ti faccio diventare ricco e famoso come Maurizio Cattelan, vuoi?”, Morpio non vuole. “Magari per sempre sfigato e sconosciuto, ma autore delle mie opere”. E Morpio resiste quando il demone gli propone di “diventare Gerhard Richter o Nathalie Djurberg. L’idea che ottenere quel successo e quella fama non fosse possibile se non passando per quelle opere, e che fosse necessario assumersene la paternità, annientava in lui qualunque sturbo invidioso”.
E in questo Morpio, benché pieno di dubbi, è un vero artista, sa che è importante (faticoso e divertente) il processo che conduce all’opera, più di tutto ciò che ne segue (anche se, come diceva un fotografo-artista tedesco morto pochi anni fa: il 90% del mio lavoro, diceva, è relazione, il 10% è l’opera. Allora mentre lui parlava pensavo che l’artista riconosciuto in questa epoca dovesse piuttosto fingere il contrario, ovvero dare l’impressione di trattare il 10% dell’opera come se fosse addirittura il 100%, e trattare quel 90% relazionale come se fosse il 10%, anche meno).
Morpio è stanco dell’ambiente a cui ancora appartiene, pur senza farne parte completamente.
“I curatori conformisti che obbediscono alle tendenze di moda. I vecchi artisti-professori che spingono avanti i loro allievi. I curatori gay che scelgono artisti gay. Le curatrici donne che scelgono artiste donne. I curatori maschilisti che scelgono artiste carine. I collezionisti ricchi che trasformano in grandi opere robaccia inconsistente solo perché la pagano tantissimo”. Morpio non è quindi un artista frustrato, semmai patisce un eccesso di lucidità, che gli fa vedere troppo ciò che lo circonda e lo compone (e quando sei troppo lucido, non è mai un bene, quello il momento in cui coloro che appartengono completamente, ti dicono che sei rabbioso, invidioso del successo altrui). Allora Morpio pensa a un gesto eclatante, disperato: con i soldi che ha sul conto corrente potrebbe comprare “centosettantacinque ombrellini” colorati, salire fino all’ultimo piano del Pirellone e da lassù si lancerebbe con tutti quegli inutili e finti paracaduti (non più La vita agra, la rabbia sociale del personaggio di Bianciardi, arrivato a Milano per distruggere quel grattacielo nano; la protesta performance è ciò che ancora può attirare un minimo di attenzione, anche se la notizia per i media non è perché si protesta macome si protesta; e Morpio, senza rendersene conto in quanto intossicato dall’arte, ipotizza di comportarsi allo stesso modo dei lavoratori di questi anni recenti, costretti a salire su gru e tetti per ricevere un po’ di attenzione; ma come tutte le mode, anche questa consuetudine ha già perso di interesse; e in fondo il “morire alla grande”, la performance estrema, l’ha fatta – senza volerlo, ha detto l’inchiesta – nel 2002 Luigi Fasulo, schiantatosi con il suo piccolo aereo contro il Pirellone, causando la morte di due donne che lavoravano al ventiseiesimo piano).
[…]
L’arte e la religione servono anche a questo, e ci farebbe comodo trovare il misterioso “cronovisore”, un apparecchio in grado di mostrare quanto accaduto in un determinato giorno, un secolo o duemila anni fa, per captare, attraverso “le onde residue degli avvenimenti passati” qualsiasi cosa, anche la Resurrezione di Cristo).
(da http://www.leparoleelecose.it/?p=21859#more-21859)
Ma sì, è chiaro, Ennio: quello che scrivi è giusto, sui rischi dello scrivere poetico, quanto alla capacità di raggiungere certi risultati.
Sono veri i fallimenti come i successi, i grandi che hanno provato (e magari pagato di persona, a prescindere dal risultato) e il codazzo di imitatori; la facilità di cadere nell’autocompiacimento, nel virtuosismo fine a se stesso quando si tentano nuove strade, specie dal punto di vista tecnico.
Il punto è un altro, cioè che gli stessi rischi, magari in maniera speculare, si corrono andando nella direzione opposta, quella che tu hai indicato. Quindi torniamo al solito, per me tristissimo punto: l’incapacità che la maggior parte della gente dimostra, di saper mediare fra due schemi. Non funziona in un modo? Buttiamo via tutto e andiamo nella direzione opposta; non “avanti”, ma nella direzione opposta. Di esempi storicizzati ce n’è a bizzeffe, purtroppo…
E’ un condizionamento mentale, un inprinting, me ne rendo conto; e c’è ben poco da fare, la maturazione e il cambiamento possono venire solo a livello personale.
Così il problema non è “prosa contro poesia”: la prosa è la lingua parlata, portata elevata a strumento di introspezione e studio; la poesia è linguaggio col plusvalore della musicalità (non so se mi spiego, ma nel poco tempo che ho, questo è il meglio che mi viene): non è che una sia meglio dell’altra, solo raggiungono scopi e soggetti diversi.
Per cui il problema si riduce a chi voglio raggiungere: come ho scritto nel commento, l’autore raggiungerà di sicuro una fascia di lettori, che avranno modo di riflettere sui temi trattati e di “crescere”. Ma il fatto che questo numero sarà maggiore di quelli che potrebbero essere raggiunti da una poesia, non prova nulla.
La qualità e la quantità hanno solo una cosa in comune (anche poeticamente): la rima. Certo, abbassando il livello, si arriva a più persone, il messaggio (essendo più semplice da tutti i punti di vista) viene compreso bene e – ancora – da più persone. Ma si rischia di applicare alla cultura il noto teorema di Craxi: da “tutti ladri, tutti innocenti”, a “tutti (abbastanza) ignoranti, tutti dottori”. Poi non ci si lamenti, se le cose non cambiano, o cambiano in peggio.
Vedo questo scadimento ogni giorno nella scuola; e, siccome tutte le componenti della società sono legate, la cosa non mi stupisce, vista la deriva che ha preso quella italiana, e non solo. Ma mi rende triste; e sempre più sicuro che la soluzione di cui s’è discusso nei commenti sulle mie poesie qui gentilmente ospitate, sia quella giusta. Sperando che funzioni…
@ Rizzi
Inviterei a non staccarci dai temi principali del post: le tre poesie e il tipo di ricerca condotta da Paraboschi. Nessuno qua finora ha contrapposto poesia e prosa.
Nessun problema. Mi era solo sembrato utile fornire precisazioni, su quanto avevo scritto al riguardo; un po’ come ho fatto con tutte le osservazioni (tue e di altri), stimolate da quanto di mio pubblicato: trovo normale – del resto e per fortuna – che un argomento pubblicato su un blog o un forum, apra discussioni anche su temi ad esso più o meno collegati.
Vediamo quindi, se i prossimi giorni porteranno nuove considerazioni, che possano fornirmi qualche spunto di riflessione.
….secondo me, nella poesia di Luigi Paraboschi il linguaggio coniuga felicemente i caratteri della poesia e della prosa, così i contenuti sono ancorati alla realtà, descritta in maniera trasparente, visiva e con musicalità: “Eterna è la nebbia del fiume San Lorenzo…” (Il fiume San Lorenzo), dove l’andamento lento apre lo sguardo alla vastità del paesaggio, oppure con ironia: “…la lettrice che declama/ i testi con troppo birignao e l’autore/ un po’ imbolsito che enfatizza/ il suo prodotto, e che tu ascolti / ti domandi il senso di certe calligrafie…” (Al premio di poesia), e proprio in questi versi è sottintesa, in contrasto, la scelta del poeta per la chiarezza dei contenuti e non per l’oscurità, per un’espressione limpida e non enfatica…Anche nella poesia “Il pallone cade sempre al di là del muro”, il poeta si pone fuori dalla competizione, in una dimensione più appartata di riflessione sul senso dela vita…
@ Abate :
non so come ringraziarla per l’attenzione che ha messo nella lettura dei miei testi
e per il felicissimo accenno all’accostamento con la pittura di Hopper, un artista che più di altri ha saputo parlare delle solitudini urbane ed individuali, specie delle donne.
@ Emilia Banfi : le è gentilissima, signora, come sempre del resto.
@ Franco Toscani : grazie a lei, prof., so di non essere lirico nella scrittura, e credo di conoscere un po’ le sue preferenze letteraria, e mi spiace che la mia ” prosaicità ” non riesca a farla volare come invece avrei voluto, ma la prego di perdonare il mio limite.
@Cristina Fisher : Grazie anche a lei signora. Temevo un giudizio meno benevolo, conoscendo la sua accurata preparazione e il suo “impegno” socio-politico che seguo sempre con attenzione.
E’ vero, sono reticente, ma forse sarebbe meglio se dicessi che mi sento a margine, culturalmente parlando, del dibattito poetico corrente, e credo di avervi fanno cenno indirettamente nel testo ” al premio di poesia “, testo che, le assicuro è sbocciato proprio in occasione di uno dei concorsi di poesia culturalmente più qualificati.
@Furio Detti : mi piace che la lettura dei mie versi le abbia suscitato le sensazioni che lei ha descritto, per questo la ringrazio
@leopoldo attolico : L’ironia non è forse la mia dote precipua, ma talvolta cerco di farla mescolare con un po’ di ” sana cattiveria ” che ritengo indispensabile per la sopravvivenza in questa società.
grazie anche a lei per il suo tempo
marilena ingranata : vorrei invitarla, visto che lei è tanto benevola e ricca di affermazioni molto lusinghiere per i miei lavori, ad inviare alla redazione di questo sito il suo ultimo libro di poesie affinché questo pubblico di lettori specializzati possa assaporare quello che io considero uno tra i migliori testi di poesia pubblicati di recente.
@ A. Locatelli : che dire se non un ” complimenti signora per il suo sguardo così profondo ” ?
Mi sembra che lei abbia afferrato bene il significato dei miei scritti quando afferma che in essi ” c’è una visione, una riflessione folgorante “.
Sì, lei ha toccato il punto esatto sul come io concepisca la poesia , che è : quella di fare domande al lettore e di testimoniare attorno a ciò che l’autore vede
Grazie di cuore
@alberto Rizzi :
molte grazie anche a lei per la sua attenzione.
Ha ragione quando scrive che ” la conoscenza è faccenda costruita a cipolla “, su ciò concordo pure io che mi diletto di lavori nell’orto, e ammetto che tali ortaggi talvolta non raggiungono le speranze di coloro che li hanno messi a dimora, cosi’ come la poesia spesso non arriva a toccare i punti che ogni autore si ripromette di raggiungere, e forse è proprio per colpa di quella mancanza di spessore culturale che spesso contraddistingue quelli come me che da tempo inseguono il desiderio di realizzarla.
E’ di certo vero che tale spessore si costruisce nel tempo e con le giuste letture e le frequentazioni e lo studio della tecnica scrittoria, ma io credo non basti saper costruire una rima, codificare il verso dentro un settenario o un endecasillabo, o almeno oggi non basta, nel nostro tempo, forse era necessario quando la poesia era appannaggio di poeti come Carducci, o simili ,ma oggi, dopo 200 anni o quasi, questo poeta è capace di dire ancora qualcosa all’uomo del nostro tempo ?
Vede, in risposta ad Abate lo ringraziavo per il fatto di aver evocato la pittura di Hopper, ebbene, forse sarò molto limitato come spessore della mia cipolla culturale, ma guardi che mi commuove molto di più questo artista di quando non sappia fare Raffaello con la sua perfezione che non dice nulla al mio cuore di uomo del 2000. Mi intriga più una rivisitazione di Bacon che il vero Velasquez al quale egli si ispira, mi fa tremare più un paesaggio di Morandi che il trionfo della nuvole di Constable, mi turba di più ” il canto notturno ” di leopardi che i voli astrusi di Sanguineti in Laborintus.
E ancora sulla poesia, le confesso che leggere qualcosa della Symborska mi coinvolge molto molto di più che tornare a leggere i Sepolcri di Foscolo, o quelli di Byron, perchè pur essendo io un ” vecchio ” ( ho 77 anni ) ritengo che la poesia debba esprimersi con il linguaggio del proprio tempo, e soprattutto sono convinto che la funzione della poesia sia quella di far nascere qualche dubbio dentro le sicurezze del lettore, che lo costringa a mettersi in discussione sul significato che egli attribuisce alla sua vita.
Grazie comunque perché è sempre un piacere confrontarsi con chi dissente
Egr. Sig. Paraboschi,
lei dimostra prima di tutto una buona dose di autoironia, che – le assicuro – è dote rara di questi tempi, non solo fra chi opera nella creatività.
E non sottostimi il suo bagaglio culturale e la sua sensibilità, se sa leggere gli autori che cita: insegno Storia dell’Arte da 30 anni e l’assicuro (di nuovo), che anche questa è una capacità rara, anche di chi abbia meno anni di lei.
Il suo preferire autori contemporanei a quelli, del passato, che lei cita, è il modo nel quale dovrebbero andare le cose: la comprensione di quegli autori, può avvenire appieno, solo se si riesce a collocarli all’interno del dibattito e del livello culturale dell’epoca nella quale operarono. Fatto salvo il loro valore assoluto, s’intende. E se un Hopper (autore che apprezzo moltissimo) è ancora attuale, ciò è dovuto in gran parte al fatto che i problemi da lui toccati, sono ancora ben presenti nella nostra vita, se non – temo – acuiti.
Ma, soprattutto, quello che ha scritto in risposta mi ha fatto comprendere meglio la sua ricerca: che non condivido del tutto – rimanendo convinto delle considerazioni che ho espresso in altri commenti – ma che adesso stimo in misura maggiore.
Le auguro buon lavoro e che il suo tentativo di comunicare queste situazioni di disagio, abbia il successo che merita.
QUALCHE NOTA SU POESIA E PROSA
«Così il problema non è “prosa contro poesia”: la prosa è la lingua parlata, portata elevata a strumento di introspezione e studio; la poesia è linguaggio col plusvalore della musicalità (non so se mi spiego, ma nel poco tempo che ho, questo è il meglio che mi viene): non è che una sia meglio dell’altra, solo raggiungono scopi e soggetti diversi» (Rizzi).
Siamo (pare…) d’accordo nel non contrapporre prosa e poesia; ma, siccome colgo una tendenza a *dare addosso alla (chiamiamola) “poesia-prosa” (o poesia che *si spinge* verso la prosa), accusandola di “prosaicità”, vorrei fare alcune precisazioni.
Mi rifaccio – eh, sì! – ancora una volta all’intervista a Fortini di Rai Educational (http://moltinpoesia.blogspot.it/2010/10/proposta-di-lavoro-n1-ottobrenovembre.html#more). Dove si legge:
« Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie presenta innanzitutto una dimensione fonica o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti: “Lenta lenta lenta va/ nei canali l’acqua verde/ e co’ suoi cigni si perde/ nella grigia immensità/ Oh dolcezza del mio cuore/ dei miei sensi un poco stanchi!/ Vanno i cigni i cigni bianchi/ sullo specchio dell’amore”. In una poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche meno folte tenderà, invece, a diventare importante il tema, l’argomento, la vicenda. Per esempio: “Vent’anni è stato in giro per il mondo./ Se ne andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne/ e lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola, talvolta/ ma gli uomini più gravi lo scordarono, ecc.”».
Dopo questo confronto tra quelli che per me sono *due possibili modi di fare poesia*, Fortini così commenta:
«Naturalmente questi versi di Pavese hanno anch’essi un ritmo. Succede, tuttavia, che chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione soprattutto al racconto della vicenda e dopo avverte che c’è una cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta i versi di Moretti ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un canale olandese».
O, in un altro passo della stessa intervista, parlando di alcuni versi di Saba, scrive:
«L’altro esempio fatto viene da una poesia di Umberto Saba. È necessario mettere in evidenza che QUELLE RIGHE CHE CI SEMBRAVANO PROSA(maiuscolo mio): “il maestro ci aveva fatto ad alta voce, come allora usava, la lettura: ‘immagina un bambino che va solo in America a trovare sua madre’” invece sono organizzati in tradizionali endecasillabi, di cui è fatta la stragrande maggioranza della poesia italiana lungo otto secoli, e che quindi è come se, per dir così, ci venisse consigliato non di leggere “immagina un bambino che va solo in America” quale sarebbe l’intonazione colloquiale, bensì “Immagina – pausa forte, a capo – un bambino che va solo in America”. Insomma noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione dei sentimenti soggettivi, invece anche quella poesia moderna, come è il caso della poesia di Saba, che sembra essere un moto immediato dell’animo, è una intenzionale e organizzata finzione.»
E così conclude:
« Insomma, tutta la poesia ha con sé dei fini di persuasione, di esclamazione, di informazione e di emozione; afferma qualcosa, lo nega, lo chiama, ragiona ecc. Tutto l’intero discorso poetico è disposto in modo tale da evocare una separatezza da quei fini, in modo da mostrare una seconda finalità, è disposto in modo da costringere il lettore, l’ascoltatore ad avvertire una quantità di sintomi che negli altri discorsi non ci sono o che non sarebbero così importanti, come ad esempio la quantità delle figure retoriche o del discorso, gli effetti fonici, le scelte lessicali e così via, IN RAPPORTO CON STRUTTURE CHE APPARENTEMENTE SONO SIMILI A QUELLE CHE APPAIONO NELLA COMUNICAZIONE NON POETICA (maiuscolo mio). In un passo del vecchio Goethe si legge: “quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa, è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”, il che è abbastanza sorprendente considerando che chi diceva queste cose aveva scritto credo una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. E tuttavia c’era qualcosa di vero: QUANDO NON SI HA NULLA DA DIRE NEL SENSO DI COMUNICAZIONE, QUALE PUÒ ESSERE LA COMUNICAZIONE PROSASTICA, ALLORA SI ADOPERA QUEL MEZZO DI COMUNICAZIONE CHE DICE ALTRO DA QUELLO CHE DIREBBE LA PROSA(maiuscolo mio)».
Nel caso della poesia di Paraboschi, ci saranno sicuramente i fautori della poesia intesa soprattutto come *lirica* che arricceranno il naso e vi vedranno un eccesso di “prosaicità”, per cui – sottinteso – tanto varrebbe scrivere certe cose in prosa. Se, invece, si è convinti che Paraboschi usa «strutture che apparentemente sono simili a quelle che appaiono nella comunicazione non poetica» (proprio come Pavese o Saba) si riconoscerà la poesia anche se esula dal genere strettamente lirico.
Dicendo questo, non sostengo che il genere poesia lirica vada condannata e vada scelta la poesia che “va verso la prosa”. Né che chi scrive poesia debba pensare prima quali lettori “vuole” raggiungere. Credo che le scelte di poetica non possano farsi “a tavolino”, “a freddo”. Avvengono come prodotto di vicende complicate individuali e collettive. La spinta verso l’io lirico è massima in certe epoche e minima in altre. E così avviene anche per la spinta verso il noi epico (narrante, colloquiante). E sul singolo poeta, nel lungo e oscuro processo d’incubazione delle sue passioni e adesioni culturali, giocano appunto un insieme di fattori (culturali, storici, psicologici). In ogni epoca il poeta si dibatte tra questi due poli (dell’io e del noi). E ora finirà per fare una scelta estrema a favore dell’io. Ora a favore del noi. Ora per trovare un punto più o meno di equilibrio.
Ma nessuna gerarchia “oggettiva” può essere stabilita a favore della lirica o della poesia-prosa. Fortini: « anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso». E viceversa, aggiungerei. Il difficile è provarlo, verificarlo sui testi.
Rileggendo, ho apprezzato meglio Il pallone cade sempre al di là del muro, il movimento della seconda parte, gli spazi aperti in discesa, i luccichii, il vento che viene da lontano e si dispiega, ma intanto lo spazio si restringe nel disegno ingrovigliato (arabeschi) delle strade, fin che tutto si chiude in un buio opaco con il verso “ma il tempo ci ha buttato addosso il suo mantello”. L’unica apertura possibile è allora scavalcare il muro – come se fosse un gioco – e come se l’erba alta non intralciasse forse ormai lo slancio…
Le chiedo scusa di non averla letta con più attenzione la prima volta, e di non avere messo in luce il movimento nello spazio proprio di tutte e tre le composizioni.
Perdonerete il tono provocatorio se dico che a me, la distinzione tra poesia e prosa, ricorda il dibattito in corso sulle unioni di fatto ( dibattito che volge inesorabilmente verso il mutamento) ; e se dico che bisognerebbe mettere da parte il termine contemporaneo quando ci si riferisce ad autori del secolo novecento, siano essi poeti o pittori. Il passato, compreso il non del tutto passato, diventa classico; ed è classico quel che resta, senza distinzioni tra un secolo e l’altro. Aggiungo anche che trovo superata la definizione di poesia lirica, perché musicale, in quanto, a ben vedere, il secolo novecento ha contribuito non poco a far piazza pulita anche nella metrica: in musica parole e testo.
Formalmente, le tre poesie di Paraboschi a me sono piaciute proprio per la loro solitudine stilistica. Ma ho anche apprezzato il senso figurativo, e metaforico, sia de Il fiume di San Lorenzo che della poesia Il pallone; e l’immagine, per me Renoir di certe feste in giardino, della terza, Al premio di poesia. A me piace la solitudine di questo inizio del millennio, mi concede la libertà di preferire una battaglia navale ottocentesca ai paesaggi post impressionisti, e via dicendo, per puro gusto personale. E in poesia qual che riconosco come poesia, indipendentemente dalla forma, proprio perché quest’ultima è incostante. E poi Paraboschi non sceglie un linguaggio davvero popolare, altrimenti ricorrerebbe a certe scansioni della modernità ( del frammento e del web, suppongo); quindi va per la sua strada senza scomporre, se mai per toccare con sensibilità, ché questa è un’altra parentesi da porre dopo il pur pregevole avanguardismo degli ultimi cent’anni. A me non sembra un passo indietro ma un farsi di lato, tra le schiere dei difensori (democratici) della langue: tutta salute per quelli che – e mi ci metto anch’io – scriverebbero sempre per l’invenzione.
Ma in effetti – e sperando di non andar fuori tema – la distinzione che io feci “qualche commento fa”, era una distinzione “tecnica” e non di merito su queste poesie: quando si cerca di far riflettere il lettore su certi guasti della società moderna e contemporanea, si è dalla stessa parte della barricata; e prosa o poesia sono complementari, non contrapposte: al massimo il target – come si dice adesso… – che gli autori si propongono di raggiungere, è differente.
Non sono invece d’accordo (rischiando anche in questo caso di aprire un tema importante, ma leggermente fuori dalle poesie dalle quali abbiamo preso l’avvio), sul suo ritenere superato il concetto di musicalità nella poesia: perché essa dovrebbe avere proprio un quid di musicalità, in grado di “fare la differenza”, di aggiungerle valore.
E’ vero, che le Avanguardie si proposero di far piazza pulita della metrica: ma solo perché ogni campo delle Arti registrò e coerentemente resettò le proprie corde, su quella che era la caratteristica base dell’appena nata società industriale: il disordine che produce rumore. E se, in musica, il rumore fu inserito “de facto” (da Tschaikowski in poi) nelle partiture, in poesia questo elemento si tradusse, appunto, nello scardinamento delle “forme chiuse”.
Ma la musicalità in un modo o nell’altro rimane una caratteristica che distingue la poesia dalle altre forme di scrittura; nella ricerca della quale l’autore contemporaneo, ora che non ci sono più regole precise da seguire, può anche scivolare malamente: per mancanza di sensibilità, di conoscenze tecniche, supponenza e chi più ne ha, più ne metta. Ma sono i rischi del mestiere…
A parer mio, i poeti al massimo cercano di salvaguardare la lingua e le tradizioni di un popolo, ma non decidono e raramente influiscono sul linguaggio che si trasforma per suoi meccanismi collettivi. Pur svolgendo un compito centrale, il linguaggio non sostituisce i fattori che lo travalicano per importanza, quali il punto d’osservazione, l’estraneità e l’indipendenza che da sempre contraddistinguono l’atto creativo. Certo, non è facile coniugare emozione e pensiero passando per vie diverse dalla tradizione (perché già collaudata, offre più garanzie nel risultato), ma si può fare: ce lo dimostrano i poeti che nel passato seppero innovare. E oggi? Quella cosa misteriosa che chiamiamo poesia può avere anche altre priorità, altre caratteristiche: oltre al ritmo e alla musicalità, conteranno le immagini, le idee, i paradossi… tutte cose che, certo, si possono dire anche in prosa. Eppure senza passare per forza dalle metafore si avrà comunque poesia. Pensi soltanto a quanta poesia sopravvive nelle traduzioni, quand’è impossibile mantenere il ritmo della lingua che le ha create… Ma ne convengo: Paraboschi scrive con musicalità, muovendosi agilmente sulle tracce dell’endecasillabo. Sono scelte, non delle colpe. Se proprio dovessi dire dove sta l’azzeramento, direi che è del nuovo che cancella; nella ricerca di sempre nuove tendenze, che nel novecento ha sfiorato il terrorismo. Ma anche questo è dipeso solo in parte dai poeti che, anzi, spesso ne hanno fatto le spese: vedi Campana o Vincenzo Calogero, ma anche lo stesso Pavese di Lavorare stanca che a tutt’oggi resta un’anomalia. Purtroppo, tutto dipende da dove va l’editoria. Fa bene Paraboschi a cercare un contatto autentico con il lettore, come ha ben fatto notare Ennio Abate, anche perché il rapporto tra poesia e pubblico forse non esiste, forse esiste solo l’one to one con chi legge.
@Abate : Ennio, non posso che apprezzare tutto ciò che lei dettaglia così bene, e se intervengo ancora non lo faccio per ” pestare l’acqua nel mortaio ” ma l’acutezza sua nell’accostare la poetica di ” lavorare stanca” con quella di Moretti, mi ha fatto andare indietro negli anni quando, ragazzi, scoprimmo la musicalità di questa raccolta che ancora oggi ha una sua validità espressiva e un musicalità che quando si aprono le orecchie ci si rende conto di come Pavese abbia parlato e parli ancora al lettore con un suo cantare che ha saputo trasportare benissimo ( si pensi a Dialoghi con Leucò ) anche in prosa.
Mi scuso di essere tornato, ma è cosi appassionante parlare con persone come voi sempre documentate e precise nei riscontri che il tempo passato a discorrere di queste ” cose superflue ” al nostro tempo mi sembra quello speso meglio.
@Cristi[a] na Fis[c]her : signora, la prego, non si scusi di nulla, per me confrontarmi con ciò che lei scrive e dice è sempre motivo di piacere perchè niente è più gratificante per l’animo che quando riscontra nell’altro la possibilità di dialogo.
Lei ha riletto e scoperto qualcosa nei miei versi ? Bene, è meraviglioso saperlo che le ho fatto questo dono, mi creda.
Alberto Rizzi : prof. la sua generosità di giudizio e la sua benevolenza mi gratificano per avere cercato di tenere aperto il dialogo tra di noi.
E’ vero ciò che lei afferma in merito al fatto che non si possa comprendere bene il presente se si dimentica, o quanto meno si ignora da dove questa presente abbia origine.
Vado a memoria : qualche anno fa in una mostra a Milano ho visto un quadro di Picasso, neppure dei migliori a mio parere, che si intitola credo ” le fucilazioni di Corea, oppure ” i fatti di Corea “, una quadro credo degli anni 50, su tonalità verdastre, molto diverso dai soliti Picasso, ebbene, la folgorazione mentale è stata immediata : ” ma si è rifatto a Goya ” alla sua fuciliazione” ho detto ancora prima di andare alle note in calce, e però quanta più drammaticità in questo autore spagnolo a lui antecedente , quanto tragedia in quel nero, giallo, in quelle camicie bianche trafitte dai colpi.
Insomma, lei ha ragione, il passato non lo dobbiamo lasciar perdere, in nessun campo dell’arte, ecco perché di fronte a Koons, che conosco poco e male, lo ammetto, ed alle sue installazioni sono in difficoltà, perché per un amante della pittura come tale io mi sento ( oltre che della poesia ) non posso non ammettere che questo secolo non è più adatto all’arte figurativa, quale io ho apprezzato ed ammirato.
Grazie per l’augurio che mi fa di proseguire nel mio tentativo di fare poesia, ormai credo di non avere molte possibilità di farla conoscere se non in incontri occasionali come questi, ma in compenso leggo molta poesia di quella che fanno i più giovani di me.
Auguri grazie
@ Paraboschi
“ma l’acutezza sua nell’accostare la poetica di ” lavorare stanca” con quella di Moretti”.
Per non prendermi meriti che non mi spettano: l’accostamento è nel testo di Fortini da me citato, non mio.
@ Luigi Paraboschi: gentilissimo, la prego, corregga la scrittura del mio nome e cognome, non per narcisismo, per realismo.
Nota di E. A.
Fatto
@ alberto Rizzi :
mi perdoni se torno ancora sul tema ” musicalità ” e le trascrivo qui di seguito un’altra mia poesia che a mio parere ( suscettibile di smentita ) che io ( e altri non so ) giudico abbastanza musicale pur se, glielo confesso, non saprei contarne le sillabe.
La musicalità è speso anche pausa, calma, narrazione lenta, relax interiore da trasmettere al lettore
Il vuoto d’una finestra
Il vuoto d’una finestra
spalancata sul mattino
è spazio che racconta
l’inizio d’una giornata altrui
e, con occhi avidi, indugio
su quel riquadro scuro
senza conoscere il genere
o l’identità che vi vorrei vedere,
ho solo un desiderio di contatto
– smarrito
dentro una rete dalle maglie lacerate-
in questo mattino di pioggerella marzolina,
si sarebbe scritto
nel tempo in cui il mondo
aveva colori e forme più definite,
ma oggi tutto si muove in fretta,
la stanchezza ci attraversa
senza lasciare al cuore il respiro
per un battito anche senza futuro
costretti all’angolo del ring
tiriamo il fiato
intanto che ci spruzzano il viso
con parole bugiarde,
cercando di rimetterci in bocca il paradenti,
ma lo rifiutiamo, decisi
ad arrivare all’ultimo round
ansiosi
di incontrare il pugno definitivo.
p.s le mie scuse ad Abate per avere approfittato in modo esagerato della sua ospitalità.
Guarda caso, delle quattro è quella che mi piace di più… E, sì, è quella che – a parer mio – ha più musicalità. Guarda caso. E a prescindere dal fatto che lei sappia o no contare le sillabe, sappia o no dove mettere gli accenti: perché alla fine la musicalità siamo noi. In ultima analisi siamo vibrazione e la vibrazione è la base della musica: se ce ne rendiamo conto – in maniera cosciente o meno, colta o istintiva – troveremo la nostra musicalità e quella adatta per comunicare al meglio un dato concetto.
Ma – a proposito di caso – quanta poesia ci trovo in quello che, non stento a immaginare, è un refuso dovuto appunto al caso; quanto un lettore, che abbia sufficiente sensibilità poetica, si ferma di fronte a quel “un rete” (vs. 11) e spalanca la sua immaginazione: cosa che non farebbe di fronte al più ovvio (e prosaico) “una rete”…
Nota di E. A.
Ho corretto ‘un rete’ nel testo di Paraboschi
@ Mayor : lei molto intelligentemente scrive : “anche perché il rapporto tra poesia e pubblico forse non esiste, forse esiste solo l’one to one con chi legge. ” e credo di poter concordare con questa affermazione. Alla fin fine scegliamo sempre quegli autori che ci parlano più direttamente.
Grazie per essere passato da queste parti.
@ Fischer : le domando scusa per l’involontaria svista alla quale Abate ha già provveduto
@ Rizzi : grazie ancora e spero che Abate possa rimediare al mio banale errore di dattilografia che lei considera con benevolenza.
a tutti ancora molte grazie per le letture
Personalmente ricorro alla poesia per tentare di svelare le cose che non riesco ad esprimere con la narrazione.
Paraboschi è un buon poeta. Questo è ciò che conta.
Se la poesia acquista vitalità ben vengano le forme ibride, un’idea spuria di poesia.
Alla poesia attiene un sovrassenso(Dante), anche la capacità di appropriarsi della mobilità lessicale della prosa, di avvantaggiarsi della visione congiunta con le altre arti: la pittura( non è così Lucio Mayor? non è così Ennio Abate?) e la musica.
Ubaldo de Robertis
@ De Robertis : molto gentile da parte sua il definirmi ” un buon poeta “, e non è falsa modestia quella che mi spinge a scrivere ciò, ma la consapevolezza di quanto sia difficile anche solamente essere semplici poeti. Grazie davvero
Ribadisco quanto scritto, Luigi,( se ho ben capito siamo quasi coetanei e ti do del tu), per me “buon poeta” è tanta roba. Vuol dire che consistenti sono le tue qualità poetiche. Ciò è del resto confermato da tutti gli altri interventi meglio articolati del mio. Non posso dilungarmi perchè sono assillato da problemi fisici. Complimenti e saluti, ubaldo
Trovo le poesie di Paraboschi molto belle e non capisco come sia possibile negar loro ritmo e musicalità che indubbiamente hanno. Per evitare analisi lunghe e noiose appunto il mio sguardo solo sulla prima (“Il fiume San Lorenzo”). La materia verbale è disposta su cinque strofe irregolari. Nella prima viene presentato il fiume che, manco a farlo a posta, porta il nome di un santo; viene detto che “corre veloce / tra le rocce prima del Ferro di Cavallo” e già nei primi due versi il nostro Paraboschi accumula un bel po’ di allitterazioni: “Lorenzo/veloce/cavallo”; “veloce/rocce; corre/Ferro”. È vero che sono due versi lunghi. Se conto bene, il primo di 12 e il secondo di 13 sillabe. Ma non c’è da farsi ingannare. I versi hanno cesure interne, per cui si può leggere “Il fiume San Lorenzo / corre veloce // tra le rocce / prima del Ferro di Cavallo”. È come se avessimo a che fare con versi composti che il respiro s’incarica di scomporre, secondo il ritmo di lettura. Anche la prosa ha un ritmo! Ogni lingua ha la sua musica, prodotta, in primo luogo, dall’accento tonico delle sue parole. Forse che il francese ha la stessa musicalità dell’italiano?…
Per farla breve, il nostro Paraboschi nella prima strofa: ha due versi della stessa lunghezza (il 2° e il 5°: “tra le rocce / prima del Ferro di Cavallo” “ove galleggia / microscopico un battello”) e, se si segue, il suggerimento della cesura interna/scomposizione: su sei versi abbiamo tre ottonari, due settenari, due quinari e un quadrisillabo. Senza contare, ripeto, la musicalità prodotta dalle tante allitterazioni: “Cavallo / galleggia / battello”. Comunque, nella prima strofa, oltre al fiume San Lorenzo, compare una parola chiave che viene ripetuta ben quattro volte: LA NEBBIA. La parola, infatti, la reincontreremo nel primi versi della terza strofa (“tutto scomparso / dentro quella nebbia”) e della quarta (“Eterna è la nebbia / del fiume San Lorenzo”) e, infine, nel second’ultimo verso della quinta strofa (“dentro quella nebbia / che si scioglierà “). Il fiume di San Lorenzo, anch’esso ripetuto, e la nebbia rappresentano i luoghi di conclusione e compimento della poesia-destino umano. L’ultima strofa, infatti, recita:
e le partenze che rinviamo
con quei biglietti di sola andata
già obliterati, tutto tutto tutto
sarà avvolto e poi travolto
dentro quella nebbia / che si scioglierà
soltanto in un incontro / dentro quel Tutto
e finalmente / respirerà la pace
Come si fa a negare musicalità a questa strofa? I primi due versi hanno la medesima lunghezza (decasillabi), gli ultimi tre lo stesso (12 sillabe) e poi con quel “tutto” ripetuto quattro volte, e quel “dentro” due volte e quella rima interna “avvolto/travolto”…Per quanto mi riguarda, potrei dire solo che la conclusione non mi sembra all’altezza delle altre quattro strofe molto più evocative e suggestive; ma, nel complesso, la composizione è notevole per ciò che dice e per come lo dice.
Ma – per quel che mi riguarda – la mia critica alla musicalità di quelle poesie, si basa sulla considerazione che, lavorando di più sui singoli vocaboli e sulla composizione interna delle frasi e dei versi, tale musicalità sarebbe stata maggiore; aggiungendovi perciò valore: sia dal punto di vista strettamente poetico, sia da quello della ricchezza di contenuto.
E’ evidente che un lavoro di questo genere, comporterebbe il restringersi dell’audience. Ma – e qui andiamo a toccare però scelte personali – la preoccupazione di poter raggiungere un numero maggiore o minore di lettori, non h mai condizionato i miei parametri di scrittura.
la poesia di Luigi Paraboschi, che leggo da anni attraverso siti di scrittura che entrambi frequentiamo, ha forza, vitalità. Non confondiamo per favore una poesia “aperta” quindi non ermetica con una poesia “prosastica” che è anche un modo di disprezzare che non scrive in punta di forchetta. L’anima di Luigi, di cui la poesia è lo specchio, gli occhi di Luigi dei quali la poesia è lo specchio, sono postazioni fondamentali per questa scrittura e in questa poesia decisamente di ottimo livello, anche per ritmo. Luigi è poeta moderno e post di niente, bravo Luigi
gli ultimi commenti mi impongo un ringraziamento al sig.
Salzarulo che molto generosamente ha voluto ” far di conto ” ai miei versi, ed al quale farò una confessione molto sincera : la poesia è nata di getto, non è stata ritoccata, non è stata ri-pensata, ( e si vede, direte ) ma è frutto di un risveglio angosciante con un senso mortifero che mi avvolgeva in quei momenti, travolto da un senso di inutilità esistenziale che , purtroppo, lo ammetto, spesso sconvolge molte delle mie giornate che si affacciano sulle notizie di questo mondo.
Almerighi : anche a te non posso dare del lei, visto che ci frequentiamo da tanti anni. E vorrei dirti grazie per le parole che hai speso dicendo che la mia scrittura non è post di nulla.
Spero solo che non diventi ” post-mortem ”
E sfacciatamente invito i lettori di questo sito a sottoscrivere il crowdfunding presso l’editore Samuele per la pubblicazione del tuo libro di poesie in uscita, e assicuro tutti voi che mi leggete che questa mail non è una delle solite carinerie che ci si scambia, ma Almerighi ha scritto uno dei libri più solidi che saranno in circolazione nei prossimi tempi.
Chiedo scusa a tutti
Non mi addentro nel dibattito poesia / prosa perché mi pare che abbia impropriamente spostato altrove l’attenzione che qui deve essere rivolta solo alla poetica di Paraboschi, protagonista dell’articolo. Abate ha eseguito una disamina precisa e condivisibile alla quale è davvero difficile aggiungere qualcosa. Solo non si e’ soffermato sulla vena amaro-ironica dell’autore che invece io intravedo come importante caratteristica, presente non solo nel terzo pezzo qui riportato, dove è palese, ma sempre sottostante a ogni suo impianto poetico. E’ ciò che, in altre occasioni, ha fatto definire Paraboschi poeta disincantato, è ciò che gli fa descrivere la propria sorte personale in modo scanzonato, è ciò che avvicina alla Terra le questioni celesti e metafisiche spesso evocate. Ma qui si potrebbe discutere a lungo di cosa sia l’ironia, io cito V. Jankelevic: “La forma naturale dell’ironia è la litote… La litote deflazionistica è diametralmente opposta all’enfasi…” e così, spostandosi di lato, ammiccando, senza abbassare alcun livello intellettuale o metaforico, ci si avvicina al lettore e si invade il suo spazio immaginario e meditativo, come fa appunto il nostro.
Mi piace il paragone a Hopper, tuttavia il grandioso malinconico realismo dell’artista si connota soprattutto per la cristallizzazione dei momenti in istantanee senza vocazione evolutiva. In Paraboschi invece la vita scorre verso un divenire, gli attimi descritti, anche passati, contengono sempre un ché di ipotetico. Inoltre Paraboschi è poeta e uomo di grande dolcezza. Dunque personalmente preferisco accostarlo a un Ruggero Savinio.
Mi complimento con Ennio Abate per la scelta di pubblicare queste poesie e per il commento ad esse. Mi complimento con Luigi Paraboschi, che con orgoglio annovero tra gli amici – quelli piú cari – che proprio la stima artistica mi ha dato occasione di avvicinare, per il suo sempre ottimo lavoro di scrittura.
Cari saluti a tutti.
Sempre originale e colta la produzione poetica di Luigi Paraboschi.
Riesce ogni volta a sorprenderci con il variare delle sue tematiche, pur conservando
un’impronta stilistica che lo rende quasi sempre riconoscibile. L’acqua del fiume San Lorenzo scivola come l’esistenza e si fa cascata per poi rimbalzare al di là del muro.
La forma ha la stessa fluidità di quell’acqua che scorre , di cui sembra quasi di avvertire la sonorità.
Complimenti a Luigi per questa ulteriore prova delle sue notevoli qualità di poeta.
un tardivo grazie a queste amiche che sono intervenute :
@ Zironi : mi fa piacere che tu abbia riscontrato nelle mie parole sia l’ironia che il ” disincanto “, ed è forse proprio su questa mia caratteristica ( ovviamente dovuta alle inevitabili “scottature” derivate dalla età ) che spesso appoggio i miei lavori.
Non sono così certo che la litote sia una mia caratteristica, ma, lo confesso, non ho fatto studi letterari specifici, però lascia che apprezzi fino in fondo l’immagine della pittura di Hopper che Abate ha evocato parlando dei miei scritti, mentre, pur con molta buona volontà non riesco ad intravvedere in essi alcun accostamento con la pittura di Savinio, pittore che per quel poco che so di lui, mi risulta alquanto lontano , come il suo più famoso fratello.
Grazie in ogni caso, per aver detto che posseggo ” grande dolcezza ” ( come si vede che non conosci mia moglie ))))
A presto
@ Paola Moreali : anche a lei il mio grazie.
so che ha avuto modo di conoscere altri miei lavori e che ha sempre sottolineato quanto essi siano di suo gradimento, testimoniando anche a loro favore in diverse occasioni.
Sono lieto che anche questa volta io sia riuscito a trasmetterle qualcosa che ha toccato un poco il suo animo che so profondo ,sensibile e gentile.
grazie davvero
Sempre originale e colta la produzione poetica di Luigi Paraboschi che, nonostante il
variare delle tematiche, conserva un’impronta che rende l’autore quasi sempre riconoscibile per chi ha letto le sue opere precedenti. L’acqua del fiume San Lorenzo scivola rapida come l’esistenza per poi compiere un balzo a cascata che va al di là del muro. Fluida la forma come l’acqua che scorre, di cui quasi si avverte la sonorità.
Complimenti a Luigi per questa ulteriore dimostrazione delle sue notevoli qualità poetiche.