Il “Prologo” del romanzo e una riflessione di Carla Benedetti
di Maurilio Riva
Prologo (7÷11)
Mi chiamo Marco Minnella ma non è di me che vi devo parlare. Mi accingo a narrarvi le peripezie di un amico carissimo. Ho detto amico ma, pur frequentandolo da più di vent’anni, non sono sicuro che sia la definizione adeguata.
Un tipo inquietante come ebbi modo di descriverlo un giorno, senza intenzioni spregiative. Indubbio che Remo fosse un inquieto. Apparteneva alla razza di coloro che si caricano sulle spalle i mali del mondo anche se non c’era persona che si fosse sognata di chiederglielo. Un agnello sacrificale.
Né santo né diavolo. Benché pure lui avesse pascolato nella terra di nessuno, in quella zona franca fra bene e male in cui quasi tutti prima o poi scorrazzano, commettendo la sua quota di peccati.
La dose d’inquietudine che gliene derivava, in aggiunta a quella innata, era il suo modo di espiare.
È un giudizio, badate bene, che non vuole scalfire la sua immagine di uomo pulito. Coerente perfino nelle irrazionalità. Onesto. Mi arrischio ad affermare che lo fu troppo. Troppo per questo tempo e per questo mondo.
Inquietante è un’altra cosa. Non riguarda lui ma te. O altri. Altri come te, come lui, forgiati della stessa pasta. Inquietante dal momento che riusciva a svelarmi, senza pronunciarne parola, i miei lati peggiori. Con lui un rapporto non avrebbe potuto essere senza problemi: né facile né piatto. Tuttavia, era uno fra i pochissimi che vedevo volentieri, come avevo a lui stesso confessato, tanto tempo fa.
Sto cadendo di nuovo in errore. Accade perché voglio onorare fino in fondo l’impegno che ho voluto contrarre.
Me ne parlò la prima volta alcuni anni fa, confidandomi l’argomento di un sogno premonitore:
«Ero in ospedale e dalla malattia che mi aveva portato in quel letto non ne sarei venuto fuori; tu sei venuto a trovarmi; ho fatto in modo di riuscire a parlare con te a quattr’occhi e ti ho chiesto di scrivere qualcosa su di me: un libro, un racconto. Qualcosa di me che restasse».
La questione si risolse all’apparenza in un banale resoconto e sembrò accantonata ma poco tempo dopo il mio amico tornò alla carica. Mi chiese se volevo assumermi il peso di due incombenze e me le espose. Mi condusse nel suo ufficio e mi consegnò una minuscola chiave: la chiave con cui aprire i cassetti della scrivania. Me ne mostrò il contenuto. Traboccavano di carte: c’erano 8 agende – i diari di 8 anni – e un sacco di fogli sparsi, fotocopie, ritagli di giornali, cartellette zeppe di manoscritti, alcuni tabulati, disegni, penne e matite, un timbro per ex-libris e altri ammennicoli vari.
«Guarda che ho avvertito i miei colleghi. Se mi dovesse accadere qualcosa, la chiave ce l’hai tu, apri tu e porti via solo tu. Tutto questo deve sparire. Niente deve essere portato a casa mia. Riguarda me, la mia vita, i “miei” pensieri. Sono i miei “segreti”. Non voglio che diventino fonte di sofferenza per alcuno. Prenditene cura. Vedi se ti possono servire per buttare giù quella storia».
La storia che mi aveva commissionato dopo il sogno dell’ospedale.
Al momento obiettai: «Parli come se dovesse succedere domani» ma acconsentii senza riserve ulteriori. Non so bene nemmeno io il motivo. Non potevo dirgli di no. Ecco un’altra spiegazione del suo essere inquietante. Metterti a disagio se accenni a tirarti indietro. Farti ammettere che sei in torto tu, non lui.
Accettando di occuparmene, inoltre, avrei avuto un’occasione per tornare a sentirmi utile. Confesso che quello che da qualche mese mi ha coinvolto, nel tempo che riesco a rubare alle cure domestiche, ai figli, alla famiglia, è un lavoro immane. Leggere è faticoso. Non aveva una bella calligrafia il mio amico: minuscola e nervosa. Prendo appunti. Trascrivo frasi e ricopio pagine fra quelle che mi colpiscono di più.
Scrivere una storia. È una parola. Non sono mai stato una penna facile. Per pigrizia, soprattutto. Credo. Già un’altra volta – un casino di tempo fa (quanti anni sono trascorsi?) – mi aveva chiesto di scrivere qualcosa sul suo conto.
Avevo iniziato. Ho scritto poche parole e ho subito smesso. «Mi piace. Peccato tu non sia andato avanti. Piuttosto che niente, me lo tengo come acconto», mi gratificò.
Ho ritrovato il biglietto tra le sue carte. Rileggendolo mi sono sentito aggredire dall’emozione. Una putrella mi ha bucato lo stomaco. Una mistura diabolica di ricordi, afflizioni e nostalgie ha invaso l’ipotalamo prendendone il completo controllo.
Emozione per il mio amico, per quei lontani anni, per me.
Mi sono tolto le lenti, ho socchiuso le palpebre, appoggiandomi allo schienale della poltrona. Un treno di ricordi mi è passato davanti agli occhi. Ho continuato a inseguire immagini a ripetizione, a farmi cullare da intere sequenze del film di tutta una vita. Una visione appena disturbata dal velo di lacrime che si era formato nell’incavo degli occhi e premeva per sbordare sul viso.
Ho inspirato a lungo. Con lente ripetizioni. Ho strizzato con due dita le palpebre e i lati della sommità del naso e ho ripreso possesso della mia normalità.
Ricopio ora quell’abbozzo di ritratto. Non aspettatevi grandi elaborazioni, sono solo due righe utilissime a comprendere il seguito della storia.
«Conoscendo te, si può dire che il “morello”(1) non cambia colore tre volte” ma “cinquanta”. Per questo forse che ti voglio bene».
Come vi avevo detto non c’è nulla di straordinario, anzi. Ci ho trovato anche un’improprietà di linguaggio in quelle poche parole.
A ben vedere qualcosa di eccezionale il biglietto l’aveva in sé: la conservazione, per esempio. Descriveva un modo di essere del soggetto che lo ha custodito. Un modello di vita inesausto ed estenuante: un continuo andirivieni fra abbattimento e resurrezione, fra tragedia e rinascita. Araba fenice, Idra moderna dalle molte teste. Senz’altro un perdente. Mai domo però.
Leggendo tra le sue carte ne ritrovo il carattere. Nondimeno scopro sembianze mai conosciute prima. Pieghe e sfaccettature che si possono cogliere e decifrare solo guardandole dall’interno della propria anima. Dal lato oscuro di se stessi.
Ognuno conosce i suoi dolori, la propria sofferenza. Nessun altro.
Incapace di rassegnazione. Sconfitto ma pronto a ricominciare, a riaccendersi per nuove cause. Per sogni rinnovati.
Quasi morto. Mai morto del tutto. Almeno fino a qualche mese fa.
Ci sentivamo pochissimo poiché avevo cambiato lavoro e azienda, essendomi persuaso a scendere a patti con mio cognato, in modo che favorisse la mia assunzione nel centro commerciale di cui è direttore. Ero io a telefonare con maggiore frequenza, forse per una sorta di debito morale che sentivo nei suoi confronti.
Mi sembrava poco disponibile e per nulla loquace. Si esprimeva a monosillabi. Il tempo, si sa, assorbe i sensi di colpa e le telefonate si diradarono. Non ho notizie aggiornate su di lui, quindi. Non ci aiutano nemmeno i diari degli ultimi due anni: molte pagine bianche, molte facciate su cui c’è appuntata una frase, una citazione. Mai un discorso completo.
Non sapevo che avesse avuto questa nuova storia. Non me ne aveva parlato mai. Ho conosciuto all’incirca tutte le sue imprese precedenti. Di quest’ultima non si era mai lasciato sfuggire nulla. Mi è capitato, talvolta, di pensare che mi stesse nascondendo qualcosa.
Le nostre reciproche confidenze risalgono a un casino di anni fa. Con il tempo, siamo diventati entrambi più cauti. Timorosi di confidarci le nostre manchevolezze, i bisogni e le vicissitudini, il disagio palese per il nostro diventare antiquati. Come se ci vergognassimo di nutrire dei sentimenti. Parlo di slanci nuovi, alla nostra età.
Se e quando lo facevamo era per perifrasi, conversando d’altro. Mai in forma esplicita. A dirvela ora, in confidenza, non riesco a spiegarmi i motivi della nostra ritrosia.
Non ero al corrente perciò di questa relazione. È stata una sorpresa rinvenirne le presenze corpose nei suoi cassetti. Un’altra vita parallela, estesa e coinvolgente. Una storia infinita.
Scriverne le peripezie. È una parola! Come faccio a onorare questo impegno? Mi manca la stoffa… ma sono un esecutore testamentario onorevole. Fortuna che tra le sue carte c’era ciò che avrei dovuto scrivere io. Ho pensato di servirmi di questo testo tale e quale: non c’è molta differenza fra la storia del mio amico e la trasposizione letteraria. Mi sono limitato a rimpolpare, qua e là, le parti più scheletriche, a completarne i passi incompiuti. Il lavoro prevalente è stato il collage.
Non voglio dilungarmi oltre. Nelle pagine del mio amico è tutto decifrabile. Nomi e versione romanzata, a parte. Ho creduto valesse la pena, di tanto in tanto, aggiungervi brani dei diari che mi sembravano
di per sé eloquenti. Sono le uniche forme di libertà che mi sono concesso.
“PARTITA DOPPIA. Un resoconto esistenziale”
di Carla Benedetti
Remo, il protagonista, è un personaggio a cui si vuole subito bene perché somiglia a tutti gli esseri umani. Per lo meno a quelli che hanno il coraggio di guardarsi allo specchio e di mostrarsi con tutte le contraddizioni, la molteplicità, i lati oscuri, la ricchezza e la miseria di cui siamo fatti.
Attraverso la sua storia percorriamo la storia degli ultimi sessant’anni, respiriamo il clima che si respirava negli anni delle lotte operaie, la ferita prodotta dal terrorismo, la droga che ha falciato tante vite, le speranze disilluse, ma mai abbandonate del tutto.
Remo è un uomo del suo tempo ma è anche un personaggio che non ha tempo. Le sue passioni, i suoi amori sono universali. Le riflessioni sulla morte, sui libri, sugli animali. La descrizione di un grande amore impossibile, dei tanti piccoli amori, della passione per gli ideali in cui crede, della lotta per affermarli – amore e ideali – travalicano il tempo e i confini della sua vita.
E’ la lotta dell’uomo alla continua ricerca di qualcosa che non raggiungerà mai. Una completezza che non è possibile ma che è la molla, lo stimolo per la ricerca, per la crescita come essere umano e come coscienza.
E’ l’uomo moderno, frammentato, che ha perso ogni certezza e che non si acquieta. Che non ha un centro fuori di sé e che è condannato a cercarlo in sé, pur sapendo che l’unico centro che può trovare è solo momentaneo. Che la vita è più grande di ogni certezza, che non c’è pace. Che la pace dura solo un momento e poi tutto salta di nuovo. Che la vita è un’amante e una puttana. Ti ama e ti tradisce. E tu puoi solo viverla al meglio, non perdendo mai il rispetto di te, cercando di essere leale con i tuoi compagni di viaggio, non tradendo ciò che sei, non adattandoti a soluzioni di comodo.
Remo fa tutto questo e lasciarlo, alla fine, ci dispiace perché era un esempio, uno a cui chiedere consigli, uno da guardare con rispetto, nonostante il suo caratteraccio.
Da un punto di vista stilistico mi sono piaciute molto le tante voci. La storia narrata dall’amico, la coscienza di Remo, i tanti appunti, brani di libri, canzoni, biglietti ecc di cui la storia si nutre.
E poi nella parte finale la scrittura diventa più lineare come per seguire anche stilisticamente lo srotolarsi imprevisto della storia, che non rivelerò per non rovinare la sorpresa al lettore.
Un ultimo appunto va alla capacità di parlare di emozioni. Un modo magistrale di andare a fondo, di entrare dentro, di scorticare.
L’autore ha il potere di mettere a nudo il suo personaggio e il lettore. “Partita doppia” lascia il segno. E’ un libro scritto con coraggio, i suoi lettori non possono essere da meno.
Carla Benedetti
Maurilio “Rino” Riva nasce a Taranto nel 1947. Ha svolto numerosi mestieri prima di occuparsi in un’impresa di telecomunicazioni. Sposato, ora in pensione, risiede a Milano. Nel 2006 ha pubblicato “Il sogno inverso di Tito Biamonti” con Arterigere Edizioni. Nel 2010, “2022 Destinazione Corno d’Africa” con Libribianchi Edizioni. Nel 2014, “Partita doppia” con Lettere Animate. Alcuni dei suoi racconti sono stati editi su riviste, antologie e blog. Altri libri attendono nel cassetto o sono in corso d’opera.
Carla Benedetti è nata a Empoli e vive a Certaldo. Esperta di metodologie autobiografiche, è conduttrice dei corsi di scrittura autobiografica. Nel 2009, ha pubblicato il suo primo romanzo “Il futuro, ancora”, Edizioni Masso delle Fate.
L’incipit è interessante; scritto bene, intriga e incuriosisce: cioè fa, quel che un incipit dovrebbe fare.
Su quanto Lei ha scritto (“E’ l’uomo moderno, frammentato, che ha perso ogni certezza e che non si acquieta. Che non ha un centro fuori di sé e che è condannato a cercarlo in sé, pur sapendo che l’unico centro che può trovare è solo momentaneo.”) mi permetto di dissentire: nel senso che è dentro noi stessi, che ciascuno dovrebbe cercare il proprio centro; il quale è tutt’altro che momentaneo, anche se poi – nel corso di una vita – una o due volte può pure cambiare con le esperienze. Non all’esterno: se no – per cercarlo – si finisce col ruzzolare via; e semmai lo si trova e si dovesse poi perderlo, si cadrebbe di brutto.
Quello che poi accadrà al protagonista?
Chiaramente non lo so; e chissà se questa mia piccola osservazione potrà servire ad aprire una discussione.
Il titolo Partita doppia mi fa pensare a scambi sostituzioni retroazioni tutto ciò che è della simmetria e della simmetria inversa, lo specchio. Ma partita doppia sono anche le mosse di un conflitto, un duello. Credo di capire che il romanzo sia testimonianza, trama, plot, e anche allegoria.