TERZO FESTIVAL DI “LIMES”
di Donato Salzarulo
1. – Sabato 5 marzo 2016, ore 12. Seconda giornata del III Festival di Limes. Genova, Palazzo Ducale, Salone del Maggior Consiglio. Resto fermo al mio posto. Il primo incontro, quello sui fronti esterni della “guerra al terrore”, è finito. Ora si passa ad altri argomenti: si terranno relazioni sulle dinamiche demografiche e tecnologiche che, insieme a quelle economiche e geopolitiche, concorrono a determinare i rapporti di forza fra Stati e organizzazioni.
Al tavolo della presidenza ci sono tre nuovi relatori. Comincia il più giovane. È Fabrizio Maronta, redattore di Limes e responsabile delle relazioni internazionali.
Controllo l’indice della rivista sulla “Terza guerra mondiale” (col punto interrogativo) e noto che all’interno vi è un suo contributo su «Gli usi geopolitici del commercio» (pag. 49-58). Riassunto: fra Cina, Usa ed Unione Europea si stanno giocando delle grandi partite. Nell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) si discute del concedere alla Cina il titolo di “economia di mercato”, titolo che questa nazione ha diritto di chiedere dopo 15 anni dalla sua entrata (11 dicembre 2001). Che significa ciò?…
Secondo un recente rapporto dell’Economic Policy Institute (Epi), un centro studi di Washington abbastanza interessato a mettere in guardia gli Europei sugli effetti del definitivo sdoganamento dell’economia cinese: «L’import di merci dalla Cina salirebbe di un valore compreso tra 71 e 142 miliardi di euro, riducendo il pil comunitario tra l’1 e il 2% (114-228 miliardi) e mettendo a rischio tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro (0,9-1,8% del totale), tra impieghi direttamente minacciati e indotto. […] Gli ambiti più a rischio sono, è ovvio, quelli maggiormente esposti alla concorrenza cinese: tessile e abbigliamento innanzi tutto, ma anche acciaio, ceramica, pannelli solari, ottica, mobili, manufatti metallici (soprattutto biciclette), elettronica di consumo.» (pag.50).
L’Italia c’è dentro in pieno con Francia, Spagna, Portogallo, Polonia e Germania. La Commissione che dovrà assumere questa decisione può farlo soltanto all’unanimità. Il che significa, meno male!, che ogni capitale europea ha potere di veto. Ma questa storia come quella del Trans-Pacific-Partnership (TPP) e del Trans-Atlantic Trade and Investment Partenership (TTIP) proposti dagli Usa ci fa capire come oggi le guerre siano innanzi tutto economico-commerciali. Perciò Limes titola la prima parte dei contributi raccolti sotto questo interrogativo: “Economia globale = guerra globale?”.
Per Maronta parlare di economia, demografia, tecnologia permette di superare la prospettiva di breve/medio periodo. Dagli “avvenimenti” si passa alla “lunga durata” a cui ci ha educati uno storico come Fernand Braudel. Le dinamiche conflittuali o meno hanno a che fare con forze di lungo periodo che costruiscono il loro potenziale molto lentamente. Due di queste forze sono rappresentate dalla demografia e dall’evoluzione tecnologica. Sulla prima parlerà Massimo Livi Bacci, professore di demografia nell’Università di Firenze e socio dell’Accademia dei Lincei, sulla seconda Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia.
Il prof. Bacci ha recentemente pubblicato un libro intitolato «Il pianeta stretto» (Il Mulino, 2015). Abbiamo pensato di “rubargli” il titolo per definire questo nostro incontro.
Rimandando alle relazioni, Maronta si limita a proiettare sullo schermo alle sue spalle e a commentare alcune tabelle estremamente significative relative allo sviluppo delle telecomunicazioni, di Internet e del traffico aereo nel mondo.
Non mi è stato possibile recuperare i dati nella forma in cui sono stati elaborati dal redattore di Limes, ho provato però a cliccare le relative voci su Google e qualcosa ho trovato che può indicativamente farci capire l’importanza che lui giustamente gli attribuiva.
Cominciamo dal traffico aereo. Un comunicato del sito AVIO-ITALIA.com indica che nel 2015 il numero totale di passeggeri trasportati su servizi di linea è salito a 3,5 miliardi, con un aumento del 6,4% rispetto allo scorso anno.
«Le partenze a livello globale sono state 34 milioni e il traffico di passeggeri nel mondo, espresso in termini di Revenue Passenger Kilometres, ha registrato un incremento del 6,8% con circa 6,5 miliardi di RPK.
L’industria dell’aviazione, composta di circa 1400 compagnie commerciali, 4.130 aeroporti e 173 fornitori di servizi di assistenza alla navigazione aerea, continua a giocare un ruolo fondamentale nel 2015 nella promozione del turismo e del commercio. Oltre la metà degli 1,1 miliardi di turisti registrati nel mondo si muovono in aereo e gli aeromobili trasportano il 35% dei commerci su scala mondiale.»
Maronta sullo schermo aveva proiettato una mappa della Terra piena di linee di collegamenti. Si aveva la sensazione di un pianeta rimpicciolito, coi suoi paesi e le sue città facilmente raggiungibili.
Se non raggiungibili in aereo, comunque, fittamente telecomunicanti.
Telecomunicazioni significano telefono, radio e televisione, ma anche cellulari, Internet e GPS. Per ogni singolo Stato le loro infrastrutture sono diventate oggi una risorsa strategica. Garantiscono sviluppo socio-economico e indicano la sua forza a livello internazionale.
Nel 2013 i diversi comparti delle comunicazioni hanno totalizzato ricavi per quasi 1.900 miliardi di euro (fonte: AGCOM) . Il solo settore delle telecomunicazioni fisse e mobili fattura 1.145 miliardi, ossia il 60% delle risorse dell’intero ecosistema, mentre la componente broadcasting (TV e Radio) produce circa un quarto (426 miliardi di euro) dei redditi dell’industria comunicativa.
All’interno del settore delle comunicazioni elettroniche, i ricavi imputabili a Internet rappresentano circa un terzo del totale. La penetrazione di Internet cresce anno dopo anno. Su una popolazione mondiale di 7 miliardi e 395 milioni accedono alla Rete 3 miliardi e 400 milioni (46% del totale, nel 2015 era del 42%). Facebook è – di gran lunga – il canale social maggiormente utilizzato (più di 1.5 miliardo di utenti attivi), Whatsapp si sta avvicinando al miliardo di utenti attivi (oggi, gennaio 2016, ne conta 900 milioni, contro i 600 di 12 mesi fa).
Le telecomunicazioni non sono soltanto un settore importante dell’economia mondiale. Le guerre, non dimentichiamolo, sono anche mediatiche. Da qui la necessità di forme specifiche di protezione e/o sicurezza.
Senza queste tecnologie le “primavere arabe” forse non ci sarebbero state. Da sole non fanno la rivoluzione, ma svolgono certamente un ruolo condizionante. Soprattutto se ad usarla sono migliaia di giovani come i tantissimi che avevano partecipato alle manifestazioni e animato queste vitalissime e speranzose primavere. Altro, ovviamente, è il discorso sul loro esisto.
A questo punto, il redattore ha proiettato un’altra importante tabella sulle stime di crescita della popolazione mondiale.
Oggi siamo 7 miliardi e 395 milioni. Nel 2030 arriveremo a 8 miliardi e mezzo. Nel 2050, a 9 miliardi e 700 milioni.
Questa crescita globale rappresenta già di per sé un problema. Se, però, prestiamo attenzione alla geodemografia, a dove si distribuisce la crescita e a come si distribuiscono le varie classi di età nei vari Paesi del mondo, il problema si fa più intricato e allarmante.
Più della metà della crescita si concentrerà in Africa: in Nigeria specialmente, in Etiopia, in Uganda, nella Repubblica democratica del Congo, in Tanzania…
È vero che, grazie alle politiche di controllo della fertilità, il tasso di incremento della popolazione mondiale quasi si dimezzerà e la percentuale di persone con età uguale o superiore ai 60 anni dovrebbe più che raddoppiare entro il 2050. Ma, intanto, oggi in Africa i bambini al di sotto dei 15 anni sono il 41% della popolazione, in America latina e Caraibi il 26%, in Asia il 24%. Così nel 2050 la fascia di popolazione che avrà 60 anni o più, mentre in Europa arriverà al 34%, in Asia e Sudamerica si attesterà sul 25% e l’Africa ne avrà appena il 9%. Come sostengono alcuni, il nostro sarà il secolo dell’invecchiamento. Ma non sarà sicuramente distribuito in modo uniforme.
Simili numeri non contribuiranno a cambiare il peso delle potenze regionali sullo scacchiere globale?…È possibile pensare che tutto ciò non abbia un impatto su di noi e che non si attivino circuiti migratori?… I confini di Stato contano ancora, ma chi può negare che siano continuamente trascesi?…Sono trascesi dal traffico del commercio mondiale, da quello aereo, da quello delle comunicazioni e volete che non siano trascesi anche dalle persone?…
È il momento per Maronta di cedere la parola al professore di demografia. Cosa che fa volentieri.
2. – Massimo Livi Bacci, professore di demografia nell’Università di Firenze e socio dell’Accademia dei Lincei.
Il pianeta si è ristretto di mille volte rispetto a 10.000 anni fa. I 10 milioni di esseri umani che lo abitavano – è un’ipotesi – nell’epoca dei primi inizi dell’agricoltura, tra meno di mezzo secolo diventeranno 10 miliardi. Mille volte di più. Il che significa che il pezzetto di pianeta che ogni essere umano avrà a disposizione diminuirà di mille volte. Per intenderci e far dei paragoni: 10 mila anni fa un rappresentante della specie “homo sapiens” aveva a di sposizione teoricamente 13 chilometri quadrati (la metà della superficie dell’isola del Giglio o un quarto dell’isola di Manhattan), tra pochi anni dovrà accontentarsi di un campo di calcio.
Siamo diventati mille volte più numerosi. Ma anche mille volte più veloci. Magellano impiegò per circumnavigare il globo più di mille giorni (per la precisione: 1.125; partì, infatti, il 10 agosto 1518 e rientrò l’8 settembre del 1522), oggi per un jet o un aereo supersonico basta 1 giorno. Per non dire delle telecomunicazioni su cui ha richiamato prima l’attenzione Maronta. Ricordate quanto tempo ci voleva per telefonare in America una cinquantina d’anni fa?…Io lo ricordo. Al mio paese, bisognava andare al centralino pubblico e prendere l’appuntamento per il giorno dopo.
I contadini del Neolitico utilizzavano poche migliaia di calorie al giorno e potevano contare sull’energia dei loro muscoli o, dopo averli addomesticati, su quella fornita da qualche animale da tiro. Poi impararono a utilizzare anche l’energia del vento per le vele o quella dei ruscelli per i mulini. Ma non c’è paragone rispetto ad oggi. L’energia a disposizione di un abitante dei paesi più ricchi è attualmente cento volte maggiore.
Mille volte più numerosi e mille volte più poveri di spazio. Ma una popolazione per vivere necessita di spazio. Spazio per abitare, per coltivare terre, allevare animali, produrre alimenti, estrarre combustibili, costruire strade, piazze, scuole, uffici, ecc. Se una popolazione cresce, cresce la domanda di spazio. Le due variabili procedono in parallelo. Cresce quella che i geografi chiamano “antropizzazione” del territorio e diminuiscono gli ambienti naturali.
Tolte le aree ghiacciate, di alta montagna e quelle dei deserti, la superficie terrestre utile agli insediamenti umani è di circa 134 milioni di Kmq. Uno studio recente valuta che nel 2007 il 47% di questa superficie è stata impiegata per coltivazioni agricole, forestali e pascoli; il 3% per le aree urbane, un altro 3% per attività economiche di vario tipo e un 1% per infrastrutture (viarie, portuali, ferroviarie) e attività minerarie. Totale: 54% . Più della metà. Crescita delle popolazioni significa aumento della contaminazione ambientale (possibilità d’inquinamento) e del riscaldamento globale. Ma ci sono almeno tre criticità che meritano di essere sottolineate:
a) Ulteriore avanzata del processo di deforestazione (in particolare delle foreste pluviali) con i noti effetti sull’equilibrio bionaturale del pianeta.
b) Intensificarsi degli insediamenti umani lungo le aree più fragili: fasce costiere, rive dei fiumi e dei laghi.
c) Esplosione dei processi di urbanizzazione.
Con una densità abitativa pari alla civilissima Singapore (7.541 ab/Kmq) tutta l’umanità potrebbe vivere concentrata in Francia e in Spagna e, mettendoci anche l’Italia, astrattamente si potrebbero assorbire i tre miliardi in più che stanno per nascere o nasceranno. Astrattamente, appunto. La realtà racconta un’altra storia. La velocità di crescita della popolazione, a partire dalla rivoluzione industriale ha reso percepibile, la finitezza di questo nostro pianeta, i suoi limiti, i suoi vincoli chimico-fisici e biologici. Per fare un solo esempio: il volume delle emissioni di gas serra (per i quattro quinti anidride carbonica) tra il 1970 e il 2010 è cresciuto dell’80%. Tutte le attività umane (produzione di energia, attività industriali, agricole, residenziali e commerciali, trasporti) hanno contribuito a questo incremento. La responsabilità maggiore, però, circa il 50%, è da attribuire, secondo alcuni studi, alla crescita della popolazione che in 40 anni è passata da circa quattro miliardi a sette. Ovviamente questa relazione è mediata dalle condizioni economiche delle diverse popolazioni. In concreto: dal 1980 al 2005 i paesi ad alto reddito, pur avendo contribuito soltanto per il 7% alla crescita della popolazione, sono responsabili per il 29% all’incremento di gas serra, mentre i paesi a basso reddito con il loro 52% di crescita demografica ne sono responsabili per appena il 13%. Individuare responsabilità è giusto. Serve per capire a chi bisogna chiedere cosa. Il fatto indubbio è che, comunque, un aumento della popolazione esercita diverse pressioni sui delicati equilibri del pianeta. Un pianeta, appunto, diventato velocemente “stretto”.
«Non sono né catastrofista, né ottimista…», dichiara il prof. Bacci, «cerco di essere realista e sono acerrimamente nemico dei luoghi comuni…»
A suo parere, uno di questi luoghi comuni è quello relativo alla parola d’ordine dello “sviluppo sostenibile”, un vero e proprio mantra, incapace di tradursi in azioni concrete. Sostenibile…per chi? Innanzitutto il concetto. Lo si trova nel Rapporto Brundtland, dal nome della norvegese, Gro Harlem Brundtland, che presiedette la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, che lo redasse nel 1987. “Sviluppo sostenibile” sarebbe quello capace di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri. Si tratta, di un generico principio di responsabilità che viene ulteriormente generalizzato collegando “sviluppo economico” e “ambiente”. Non perché non esistano connessioni o relazioni, ma dal momento in cui non vengono precisate e tradotte in azioni concrete e obiettivi da raggiungere, il tutto rimane abbastanza indeterminato. Conclusione: il concetto di “sostenibilità”, proveniente dalle scienze naturali con preciso riferimento a nozioni come “equilibrio ambientale”, “salvaguardia della biodiversità”, migra, allargandosi, nel campo economico-sociale e si riduce ad una generica raccomandazione morale. Secondo Bacci, invece, occorre uscire da queste prediche e valutare correttamente le variabili dei diversi fenomeni. Nel caso specifico, per quanto riguarda la demografia, mentre si parla tanto di “sviluppo sostenibile”, la sua meraviglia è che essa sia di fatto scomparsa dall’agenda delle Nazioni Unite, come se la prevista crescita demografica dei prossimi decenni fosse irrilevante e non significasse rinnovo e stabilità sociale, occupazione di spazio, utilizzo di risorse, consumo di cibo, effetto serra, ecc.
Due miliardi e mezze di persone in più da qui al 2050 non pongono nessun problema di sostenibilità? Queste persone non dovranno essere nutrite, alloggiate, riscaldate, curate, trasportate, rifornite di sedie, tavoli, letti, frigoriferi, ecc. ecc?…L’allarme rosso sulla “bomba demografica” lanciato nel secolo scorso, tra gli anni ’60 e ’70, può considerarsi cessato?…
Il tasso d’incremento della popolazione, rispetto agli anni Settanta, si è indubbiamente quasi dimezzato (da 2% del 1970-75 a 1,1% del 2010-15), ma questa ragionevole misura non giustifica le illusioni che, secondo il prof., sembrano diffondersi.
Prima illusione. Si è convinti che i “comportamenti demografici” (riproduzione, sopravvivenza, mobilità, migrazioni) convergano verso modelli uniformi con popolazioni stazionarie come se le macroscopiche differenze fra aree geografiche, gruppi etnici, sociali o religiosi siano destinate a ridursi e ad annullarsi.
Seconda illusione. Si ritiene che con popolazioni stazionarie e modelli omologati di comportamenti demografici, anche la geodemografia tenda ad assumere una struttura fissa. Ma ciò è altamente improbabile.
Per dimostrare che siano due illusioni è sufficiente confrontare l’andamento demografico previsto in un Paese come la Germania con quello della Nigeria tra il 2015 e il 2050.
«In Germania, la popolazione sotto i 60 anni declinerebbe di un terzo, quella oltre gli 80 avrebbe un abbondante raddoppio; gli ultra-ottantenni, nel 2050, sarebbero più numerosi dei minori di vent’anni. In Nigeria la popolazione triplicherebbe in tutte le classi di età (quadruplicherebbero gli ultraottantenni). La popolazione della Nigeria, più che doppia di quella della Germania nel 2015, nel 2050 sarebbe di otto volte più numerosa. A quest’ultima data, l’età mediana dei tedeschi sarebbe di 54 anni, quella dei nigeriani di 17. Qualsiasi modello di sviluppo si applicasse a questi due casi darebbe risultati deprimenti: un deperimento strutturale della Germania, pesantissimi oneri del welfare, produttività in declino. Un impoverimento generalizzato per la Nigeria e un pesantissimo gravame sugli equilibri ambientali del paese.» («Il pianeta stretto», pag. 77-78)
Andamenti demografici simili non riguardano soltanto la Germania o la Nigeria. Come governare gli inevitabili processi migratori che si attiveranno? Questo il vero interrogativo, urgente. Per Bacci sarebbe necessaria la costruzione graduale di un’istituzione sovranazionale, che svolga varie funzioni: dalle più semplici (raccolta di informazioni e dati, analisi delle tendenze, anagrafe generale della popolazione, ecc,) alle più complesse, quali il coordinamento e la cooperazione fra gli Stati, il rispetto dei diritti degli immigrati, ecc. Ma nell’attuale dibattito internazionale siffatte proposte sono tutt’altro che popolari. Nessun Paese è disponibile a cedere anche frazioni minime di sovranità. Mi agito sulla sedia. Non c’è da stare allegri.
3. – Roberto Cingolani, fisico, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia.
«Sto vivendo una fase di profonda riflessione su ciò che facciamo come comunità di scienziati…», attacca il direttore con un tono abbastanza accattivante. E subito dopo, richiamando l’attenzione su alcune caratteristiche dell’homo sapiens rispetto alle altre specie animali, si profonde in domande di tenore antropologico: quale altro animale si propone come noi di dover crescere economicamente del 2% all’anno?…Quale altra specie misura il proprio Prodotto Interno Lordo, il famoso PIL?…Ci sono forse altri animali che si propongono consapevolmente di curarsi e allungarsi la vita?…Diciamolo pure: tali obiettivi sono contro-natura. Eppure sono nostri obiettivi: la crescita di risorse a nostra disposizione, il benessere, la salute, il prolungamento della vita, ecc.
Per certi versi, siamo come gli altri animali (nasciamo, cresciamo, ci riproduciamo, muoriamo, ecc.); per altri versi no, perché ci imponiamo al resto del mondo (minerale, vegetale, animale), cerchiamo di dominarlo. Sotto questo profilo, siamo dei “parassiti biologici”. Ospiti del pianeta, utilizziamo le sue possibili risorse, trasformiamo materie prime, perforiamo il suolo, costruiamo edifici, strade, ponti, ferrovie, capannoni industriali, coltiviamo terreni, tagliamo alberi, alleviamo animali, ne sterminiamo altri; insomma, continuiamo a cambiare pericolosamente la faccia di questo pianeta… Siamo dei parassiti perché non produciamo risorse, ma consumiamo in modo spesso sconsiderato quelle esistenti. Anche trasformando, consumiamo. Si pensi, tanto per fare un esempio, al processo di urbanizzazione che continua ad avanzare e alla conseguente cementificazione dei suoli. Già ora, ma in previsione di un ulteriore crescita demografica, come hanno sostenuto i precedenti relatori, esso diventa uno dei principali problemi.
Cementificazione significa rischio accresciuto di inondazioni, contributo all’incremento del riscaldamento globale, minacce alla biodiversità, sottrazione di terreni all’agricoltura o al paesaggio naturale. Questo è probabilmente l’uso più impattante che si possa fare di questa risorsa. Se non la perdita totale, ne risulta compromessa ampiamente la funzionalità rispetto al suo ruolo nel ciclo naturale degli elementi. Riducendo suolo, infatti, viene persa una parte della capacità, che esso ha, di depurare acqua e aria, di accumulare e drenare acque piovane, di trattare e filtrare le sostanze tossiche, di regolare climi, ecc.
Non si urbanizza e cementifica senza energia, così come non ci si insedia in abitazioni senza acqua, luce, gas. E senza cibo.
Oltre a quella di costruire quartieri e città meno energivori, di fronte alla prevista crescita demografica, c’è la sfida alimentare: nutrire dieci miliardi di esseri umani non è come nutrirne sette.
Un po’ di anni fa un gruppo di scienziati di varie discipline mise in relazione la crescita della popolazione mondiale (i 7 miliardi che saremmo diventati nel 2014) con le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del nostro pianeta. Obiettivo: individuare i parametri di sostenibilità per alcuni fondamentali processi del sistema pianeta. Questi riguardavano: cambiamenti climatici, perdita della biodiversità, ciclo dell’azoto e del fosforo, buco dell’ozono nella stratosfera, uso globale dell’acqua dolce e utilizzo della superficie terrestre.
In questo studio si proponeva, ad esempio, che tutta l’umanità utilizzasse al massimo il 15% della superficie terrestre oppure che annualmente consumasse al massimo 4.000 chilometri cubi d’acqua (1 chilometro cubo corrisponde a 1.000 miliardi di litri), comprendendo sia quella per uso domestico (15%) che quella per attività agricole (60%) e industriali (25%). Ma con tre miliardi di persone in arrivo nei prossimi decenni, ciò significa compiere enormi sforzi infrastrutturali, ambientali e inventarsi chissà quali tecnologie. Altro che OGM e crescita delle rese agricole dei terreni. Sono soltanto delle pezze.
Una ricostruzione fotografica del nostro pianeta di notte, come è visto dai satelliti, svelerebbe quanto già dovremmo sapere: che le zone più illuminate della Terra si concentrano chiaramente sulla costa orientale degli Stati Uniti, in Europa e in Giappone. Vi sono poi grandi aree completamente buie e altre immerse in una luce fioca.
«Dove c’è energia c’è industria, trasporti e infrastrutture, forme di welfare avanzato, alimentazione, istruzione e sanità per i cittadini. E di conseguenza, un’aspettativa di vita molto più lunga. […] E, a pensarci bene, non deve stupire, perché sono quelli dove è più semplice avere un frigorifero che conserva i cibi, acqua ed elettrodomestici per l’igiene, un’alimentazione completa, ospedali e apparecchiature diagnostiche di alto livello, ecc.
La situazione odierna vede il pianeta Terra con circa 7 miliardi di abitanti, il 20% dei quali ha a disposizione approssimativamente l’80% delle risorse energetiche e idriche. Lo squilibrio globale è fortissimo. […] Sia la termodinamica sia il buon senso ci dicono che questa situazione non può durare.» (ROBERTO CINGOLANI, «Il mondo è piccolo come un’arancia», il Saggiatore, 2014, pag. 81-82).
A questo punto, il fisico e direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia, consapevole che non possa esistere vero progresso senza un ripensamento del rapporto scienza ed etica e del modo di produrre e consumare, accenna ai vari contributi che settori di ricerca come robotica e nanotecnologia possono dare nella direzione di un nuovo tipo di sviluppo.
L’idea di fondo è di apprendere da Madre Natura, di imitarla e di avvicinarsi sempre più alle soluzioni che essa utilizza. Così, un giorno, i tanti oggetti usati quotidianamente come lampade, forni a microonde, computer, ecc. dovranno essere alimentati non più da batterie o da prese di corrente elettrica, ma da energia prodotta per fotosintesi oppure per scissione degli zuccheri proprio come accade ai sistemi viventi.
La nostra è una società energivora. Internet ha un costo energetico superiore alla carta. La “società dell’informazione” non consente di metabolizzare le informazioni perché dimentica che il cervello ha i suoi tempi e la sua plasticità. Informazioni propagate velocemente e non metabolizzate uccidono la riflessione e il metodo scientifico, procurando danni sociali enormi. Questo è il lato oscuro di certe tecnologie sociali, che non imitano Madre Natura o che non sono bioispirate.
Il nostro compito è di fare da apripista a quelli che verranno dopo di noi.
La speranza è che l’umanità, che spende 4 miliardi e 900 milioni di dollari al giorno in guerre, impari a spenderli per risolvere i problemi che nascono dal suo insediamento su questo pianeta, diventato piccolo come un’arancia.
4. – Dibattito. Quattro domande e quattro risposte
a) Quei 4 miliardi e 900 milioni spesi ogni giorno per le guerre, non servono forse a guadagnarne altrettanti?…Certo, il numero che ho dato rappresenta il costo delle guerre dal punto di vista termodinamico. Dal punto di vista economico, le guerre sono un affare.
b) Spese militari: spendono forse solo i Paesi ricchi?… Non spendono anche i poveri?..Sicuro, spendono anche i poveri. [Per arricchire maggiormente i ricchi, aggiungerei io].
c) Negli anni Settanta si è discusso tanto di “allarme demografico”. Poi è diventato un tabù. Come mai?…Perché ci si sta illudendo sulla riduzione del tasso d’incremento annuale della popolazione.
d) Per fronteggiare la crescita demografica, manderemo macchine a scavare su Marte…È fantascienza?…No. Sfruttare i satelliti per reperire materie prime è all’interno di vari progetti di ricerca. Sarà come quando si scoprì l’America. Modello far-west.
Marzo-aprile 2016
Grazie Donato,io continuo a leggere queste interessanti inchieste. Grazie per la profondità in una realtà sempre più liquida e superficiale
Grazie anche ad Ennio vi seguo da tempo
Cari saluti
Grazie a te, Angela, che hai la pazienza di leggerci. I problemi affrontati in questo post, oltre che interessanti, delineano in qualche modo un futuro che dovranno affrontare i nostri figli e nipoti. Noi insieme a loro, finche le nostre pupille, echeggiando un verso della Simonitto, non diventeranno vuote.