di Donato Salzarulo
- – Daniele Palmieri si è recentemente laureato in filosofia all’Università Statale di Milano. È un giovane di 22 anni ed ha un blog personale. Si chiama “nero d’inchiostro”. Dentro si possono trovare poesie, racconti, recensioni di libri, riassunti. Daniele è filosofo e scrittore. Ha già pubblicato due raccolte di racconti, un romanzo e una breve silloge poetica. Nel mese di marzo di quest’anno è uscito il suo primo saggio filosofico. Altri ne ha in preparazione. Giovane prolifico, operoso. Se penso che alla sua età avevo scritto poche decine di pagine, non posso non ammirarlo. «Bravo!…», mi dico, «Farà sicuramente strada…»
Daniele abita a cento metri dalla mia casa. L’avrò incrociato molte volte. Ma non ricordo di aver mai parlato con lui. Chissà perché. Forse sono un po’ orso o forse perché è imbarazzante per un giovane parlare con uno della mia età. Può darsi che i miei capelli argentei creino barriere.
Comunque, il papà di Daniele, che è della generazione delle mie figlie, è un signore gentilissimo. Qualche giorno fa, incontrandolo casualmente, mi ha fermato per dirmi che voleva regalarmi l’ultimo libro scritto dal figliolo. «Grazie!…» gli ho risposto, «Lo leggerò volentieri…».
Una manciata di minuti e mi ritrovo con un volumetto di una settantina di pagine fra le mani.
Lo giro e rigiro come faccio sempre. «Gradevole…», penso tra me e me. Ha in copertina un paesaggio d’alta montagna di una stampa giapponese. Sul sentiero, in primo piano, un monaco dai lunghi capelli, col viso ovale e la barbetta a pizzo. Guarda avanti e sembra che stia per imboccare un ponte. Ha in mano un ramo sottile, privo di foglie. Forse gli fa da bastone. Poco dietro lo segue un domestico dalla faccia rotonda. Porta sulle spalle uno zaino.
L’originale – leggo in ultima di copertina – si trova al Kyushu National Museum e l’autore è Kanō Masanobu. Non ne so nulla. M’incuriosisco e clicco sul motore di ricerca. Scopro che la tecnica è inchiostro di china su carta arricchita di colori, che la scena rappresenta dei nobili eremiti, mentre si stanno riposando, in un paesaggio di neve, che l’autore, nato nel 1434 e morto nel 1530, fu il fondatore della scuola che porta il suo nome e che rappresenta una delle maggiori correnti della pittura giapponese. Scopro, inoltre, che durante questo periodo della storia di quel Paese – periodo dei Muromachi – i temi di questa pittura erano molto diffusi perché c’era una vera e propria adorazione per i personaggi che, in fuga dal mondo, vivevano da eremiti. Il distacco dalle cose terrene è, infatti, uno dei valori del buddismo zen.
Mi sembra che la veste grafica del libretto di Palmieri, oltre che indicare un gusto, sia perfettamente in tema col titolo: «La tranquillità interiore. Breve introduzione filosofica alla felicità.» (Eretica Edizioni, 2016).
Ma io cosa c’entro con tutto questo? La tranquillità interiore non è mai stato il mio obiettivo né la mia condizione d’animo prevalente. Ho avuto l’argento vivo fin da bambino. Quando avevo 11 mesi, mia zia Francesca scriveva a mio padre che ero un “inpecillo”, una parola dialettale che non vuol dire “imbecille”, ma incorreggibile, frenetico, agitato, in perenne movimento, così curioso da metter le mani dappertutto (anche sul ferro caldo e, quindi, scottarsi stupidamente). Direi che sono un inquieto, un’anima in fermento. E va bene così. La tranquillità non è il mio forte. Neanche la felicità appartiene molto al mio vocabolario. Piacere sì, gioia, letizia…Ma felicità è una parola che davvero uso pochissimo. Allora?…
- – So che un dono istituisce un legame fra chi riceve e chi offre. Nel caso specifico, mi è stato donato un libro perché lo legga, lo giudichi e lo apprezzi. Libero, per quanto possibile, da condizionamenti. Immagino che un giovane filosofo di 22 anni abbia bisogno di giudizi sinceri e non di prese in giro.
Dunque, sulla veste esteriore, mi sono espresso. Quanto al titolo, esso rivela di per sé l’orizzonte intellettuale entro cui la breve trattazione si colloca. Un illustre precedente si trova nel Plutarco del «De tranquillitate animi», espressamente citato a pag. 43. C’è pure Seneca che scrive «Ad Serenum de tranquillitate animi». Poi, immergendomi nelle pagine, incontro Aristotele con la sua «Etica nicomachea», la sua «Metafisica» e «La Politica», Epitteto col suo «Manuale» – importante fonte d’ispirazione di Palmieri: dallo stoico greco, infatti, assume la distinzione fondamentale dei beni che dipendono o meno da noi e, sulla base di questo criterio, organizza e distribuisce in capitoli i contenuti del libretto – Platone (definito a pag. 18 «il più grande filosofo di tutti tempi» e di cui si cita «Alcibiade I», «La Repubblica», «Fedro», ), Socrate con la sua arte maieutica, i «Pensieri» di Marco Aurelio, le «Enneadi» di Plotino, Agostino d’Ippona e, soprattutto, il manuale di «Storia della filosofia greca e romana» di Giovanni Reale delle cui pagine l’autore mi sembra molto debitore. La lettura cristianeggiante dei filosofi e delle opere antiche è operazione esegetica non esauritasi con la Scolastica, ma costantemente aggiornata ai vari contesti e periodi storici.
Palmieri mi pare che si muova all’interno di questo orizzonte. Come filosofo accoglie il cristianesimo e l’insegnamento di Gesù contenuto nei Vangeli, anche se sulla concezione del corpo, fonte di ogni peccato, prende le distanze da San Paolo:
«Non è eccessivo dire che San Paolo fu il vero uccisore di Cristo, non chi lo crocifisse. Nelle lettere paoline il grande insegnamento di Gesù viene snaturato, frainteso e modificato, più o meno consapevolmente. Purtroppo, fu proprio il paolinismo a diffondersi nel corso dei secoli, con la sua antropologia negativa, il suo maschilismo e il suo servilismo verso le forme di potere costituite.» (pag. 29).
Su questo tema spinoso del corpo preferisce distanziarsi da Cartesio, di cui pure accetta il “cogito, ergo sum”, e seguire filosofi come Spinoza e Nietzsche o psichiatri “bioenergetici” come Alexader Lowen.
Valutare positivamente l’insegnamento cristiano non significa chiudersi al suo interno. Palmieri, come già si capiva dal paesaggio posto in copertina, ritiene che si possa imparare molto anche da Budda e dal relativo pensiero filosofico-religioso, da combattenti giapponesi come Tokugawa Ieyasu, da samurai come Musashi, da filosofi cinesi come Lao Tze o da poeti e filosofi persiani come Farid al-Din ‘Attar.
Rischio d’eclettismo?…Cristalli di New Age?…Non so.
- – Non sono un esperto di filosofia greca e romana, né di cristianesimo. Meno che meno di buddismo zen o sufismo…La “tranquillità interiore” non è il mio ideale, come dicevo prima, e per me le cose importanti della vita sono due: la salute e l’amore. Il resto, inutile rumore.
Ciò non toglie che sono curioso e vorrei capire se, fra i tanti saperi che sicuramente mi saranno sfuggiti oppure ho inconsapevolmente ignorato, mi sono perso pure questo, un sapere che m’avrebbe incamminato sulla via della felicità. Beninteso, non voglio dire che io sia stato a digiuno di questo concetto. So che ha informato molte filosofie antiche e settecentesche. So che si trova persino nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776. Ma ne ho sempre diffidato. Meglio darsi da fare per ridurre il tasso di straordinaria o normale infelicità che sognare vite da beati, immortali e senza affanni. Cosa sarà mai questa chimera che chiamiamo felicità? E come si potrà mai raggiungere?…
Palmieri ha una risposta alla mia prima domanda. La leggo a pag. 13: «Defineremo la felicità come uno stato di perfetto equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità e, siccome essa è una condizione soggettiva, che interessa la nostra persona, chiameremo tale stato di assoluto equilibrio ‘tranquillità interiore’.»
Leggo e rileggo. Niente da fare. Questo “stato di perfetto equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità” non mi è mai capitato di viverlo. Allora non sono mai stato felice? Ci penso e ripenso. Certo, che sono stato felice. Quando mi sono innamorato, ad esempio. Oppure, quando ho partecipato ad alcuni convivi fra amici. O anche una mattina che, andando a comprare i giornali, riconobbi l’azzurro di un fiore di cicoria o, un’altra volta, che mio padre, passeggiando con me in Via Tintoretto, mi indicò un amareno. Sono stato felice quando ho scritto poesie che considero ben riuscite. Insomma, non potrei dire di non aver vissuto momenti di felicità e spero di viverne altri. Ma quella condizione di perfetto equilibrio proprio non la ricordo. Anzi, in certe situazioni (innamoramento, scrittura di poesie, ecc.) la condizione mi sembrava abbastanza squilibrata a favore dell’interiorità. Mi sentivo, infatti, preda di sogni ad occhi aperti, fantasticherie varie, andirivieni di pensieri, flussi spesso ossessivi, fantasmi mentali, giudizi proiettivi, ansie…Insomma, altro che tranquillità interiore!…Eppure, innamorandomi, ero felice. Stavo male, ma ero felice.
La mia impressione è che ci sia qualcosa che non va nella definizione. Forse andrebbero precisati i concetti di “interiorità” ed “esteriorità”. Parlando di “equilibrio”, Palmieri sembra immaginarle come “forze” che interagiscono tra loro. Sicuramente lo sono e interagiscono nel campo psichico di ognuno di noi. Ma l’interiorità è solo una forza? Non è anche uno spazio, una dimensione, un mondo? Cosa c’è dentro questa interiorità? Come è fatta? Da quali “figure” è abitata? A quali azioni della mente corrisponde?…
- – Assunta questa definizione, Palmieri ritiene giusto cominciare il breve viaggio verso la felicità «dal mondo dell’interiorità, da ciò che dipende dall’Io.» (pag. 17). È un mondo che ciascuno di noi possiede e che, a parere dell’autore, coincide con quello della ‘Psyché’ o anima.
«Questo concetto, ideato per la prima volta da Socrate e poi teorizzato e sviluppato da Platone, fu rivoluzionario; per la prima volta, l’uomo si accorse di avere una propria ‘psyché’, diversa per ciascuno di noi, l’unico elemento che ci distingue l’uno dall’altro.» (pag.20).
La ‘Psyché’ o anima è il “nostro nucleo”, la “nostra reale essenza” (pag.20). Seguendo il motto delfico (“Conosci te stesso”), ognuno di noi dovrebbe quotidianamente dar corso a questo viaggio conoscitivo dentro la propria interiorità.
Se facciamo fatica a riconoscere la nostra ‘psyché’ per il pesante condizionamento sociale subìto sin dalla nascita, il suggerimento dell’autore è di affidarsi al dubbio metodico cartesiano:
«Soltanto dubitando e vagliando ogni informazione con la nostra ragione scioglieremo i vincoli impostici dal mondo esterno, vuoi con l’educazione, con le tradizioni, con l’insegnamento. E dubitare è essenziale in un’epoca in cui a regnare imperante è un arido conformismo, propugnato quotidianamente dai mezzi d’informazione e dalle mode, il quale ci rende schiavi dell’apparenza rinchiudendo la nostra personale ‘psyché’ dietro una subdola cupola di vetro, ancora più infida delle sbarre di una prigione poiché invisibile.» (pag. 22-23).
Dando per scontato che tutto ciò sia filologicamente corretto, che l’interiorità (concetto prevalentemente agostiniano) coincida con ‘psyché’ come viene usata da Socrate (‘anima’ non necessariamente immortale, intesa come coscienza e ragione nel farsi delle pratiche morali e dell’interazione dialettica dei soggetti) e successivamente da Platone (anima razionale e, recuperando il repertorio orfico-pitagorico, di origine divina, immortale, destinata alla metempsicosi, ecc.), ecco, di seguito, le mie osservazioni:
- a) Il mondo dell’interiorità dipende dall’Io?…Neanche per sogno. L’Io ne è soltanto una funzione. Lo spazio dell’interiorità mi pare che dipenda più di tutto dal corpo e dai suoi neuroni. È vero che Palmieri è sostenitore di una «stretta correlazione tra parola e azione, tra pensiero e materia, tra ‘psyché’ e ‘sôma’, tra mente e corpo» (pag.28) e scrive giudizi condivisibili contro gli svalutatori del corpo, ma come potrebbe originarsi l’interiorità senza i neuroni?
«Sin dalla nascita, ciascuno di noi possiede una propria indole, il nucleo, il nostro vero ‘io’.
Crescendo e vivendo, intorno a questo ‘io’ si accumulano una serie di esperienze dovute al contesto sociale, all’educazione, agli eventi. Esse ci formano e ci condizionano; alcune le assimiliamo consapevolmente e vanno ad incrementare quello che è il nostro reale e personale nucleo, la vera ‘psyché’. Altre le assimiliamo per consuetudine, senza riflettere e, purtroppo, sono esse che più ci condizionano e che si trovano alla luce del Sole, sotto gli occhi di tutti.
Man mano che dal nucleo ci si allontana verso la superficie, si perde la nostra vera essenza, coperta dagli strati esterni» (pag.21)
Non so se ognuno di noi alla nascita possieda una propria indole (quando mia zia diceva che ero “inpecillo”, avevo già 11 mesi), sicuramente possiede un corredo genetico e un corpo con un encefalo e un sistema nervoso che lo mettono nelle condizioni di poter cominciare a parlare entro un anno e mezzo. Prima di parlare, impara a riconoscersi allo specchio, e quanto all’attribuirsi un’anima deve diventare un po’ più grandicello.
Che abbia un’anima già nel grembo materno è pensiero prevalentemente religioso. La filosofia dovrebbe provare ad affrancarsi dalla religione e confrontarsi soprattutto coi risultati delle scienze (biologia, neuroscienze, psicologia cognitiva ed evolutiva). In ogni caso, questo entificare l’Io, l’Anima, lo Spirito, la Mente, ecc., è una forma naturale di auto-inganno idealistico:
«L’interiorità della persona è stata da secoli – e lo è anche spontaneamente nel bambino – reificata in un’anima, o in uno “spirito”, oppure in una “mente” sostanzializzata: o se vogliamo in un “sé” globale e oggettivo. In altre parole, il mondo interiore della soggettività viene “naturalmente” sentito come uno spazio reale, e l’io soggettivo come una “entità”.» (Giovanni Jervis, «Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia.», Bollati Boringhieri, 2011, pag. XIV).
Ciò detto e pur correlati, corpo e interiorità (soggettività) vanno tenuti distinti. Ignoro fino a che punto «la mente plasmi il corpo e il corpo plasmi la mente» (pag. 20), come sostiene Palmieri. Non mi risulta che le malattie siano tutte psicosomatiche. E se uno ha la sfortuna di vivere in zone paludose o vicino a una centrale nucleare, c’è poco da pensare che possa plasmare il proprio corpo con la sua interiorità. Il corpo è un sistema vivente in interazione con l’ambiente. È probabile che questo lo plasmi più dell’interiorità.
- b) Forse non troviamo un’anima nello spazio dell’interiorità (o della soggettività), sicuramente però troveremo la coscienza e l’autocoscienza, il flusso di pensieri consci e di quelli inconsci, i desideri confessati e non, i sogni ad occhi aperti e quelli notturni, gli istinti e le pulsioni, i ricordi volontari e quelli involontari, i giudizi espressi e quelli taciuti, la volontà di fare o di contemplare, il tribunale di ciò che è bene e ciò che è male, la percezione della bellezza e della bruttezza, le bugie dette a fin di bene e quelle per ingannare il prossimo, i pensieri, le emozioni, le credenze, i pregiudizi, gli autoinganni, ecc. ecc. Insomma, uno spazio abbastanza ricco, complesso e piuttosto intricato. Difficile da conoscere, specialmente se non si presta la necessaria attenzione alle tante trappole che esso ci tende (come, ad esempio, quello dell’autoinganno idealistico).
Conosci te stesso?…Palmieri ha ragione: «Il primo passo, apparentemente il più semplice, è in realtà il più complesso.» (pag. 18). Peccato che, seguendo Epitteto o differenziandosene in qualche punto (cfr. pag. 12), ponga conoscenza di sé, interiorità, meditazione, scrittura, corpo, solitudine, attività fisica e tempo fra i beni che dipendono da noi. In parte sì, entro certi limiti. Ma come scrivevo in un verso una trentina d’anni fa: «Tu che conosci me, che non conosco.»
Senza relazione con l’altro/a non c’è interiorità. Probabilmente su questo mi darebbero ragione sia Socrate che Platone. Un’anima disgiunta dal mondo o senza mondo non so proprio cosa possa essere.
- – L’interiorità, idealisticamente fatta sostanza, dovrebbe raggiungere lo stato di perfetto equilibrio con l’esteriorità. Pure mettendo il naso in questo concetto vengono fuori situazioni tutt’altro che scontate.
Fuori di me ci sono, innanzi tutto, gli altri: vicini e lontani, parenti ed amici, conosciuti o sconosciuti. Gli altri da cui, in parte, dipendo e che potrebbero, avvertitamente o inavvertitamente, far saltare il mio bisogno o la mia ricerca di felicità o “tranquillità interiore”.
Gli altri non sono soltanto i genitori o la tribù parentale: sono quelli che mi alimentano, mi fanno arrivare la luce, il gas e l’acqua in casa, portano via i rifiuti che produco, costruiscono cucine, sedie, tavoli, letti su cui adagio le mie membra e librerie su cui sistemo i miei libri, e poi anche biciclette, automobili, treni, aerei per spostarmi…
Il rapporto intessuto con molti di questi altri è, per lo più, mercantile. Nel senso, che vado in un supermercato e compro, ad esempio, ciò che serve per alimentarmi. È vero che pago. Ma per farlo devo avere del denaro. E, se pur avendolo, questo qualcuno una mattina si svegliasse e decidesse di non infornare più pane, di non mungere più mucche, di non arare più terreni, ecc. ecc.? La mia tranquillità non verrebbe abbastanza scossa? Fossi Epitteto probabilmente non farei una piega. Costretto per molti anni a condurre una vita da schiavo, alle ristrettezze avrei fatto il callo. Neanche gli eremiti rappresentati nel paesaggio di Kanō Masanobu si scuoterebbero più di tanto. Quanto a me, condurre una vita da schiavo o da eremita non mi affascina. Condivido l’esigenza di improntarla ad una maggiore sobrietà. È sommamente riprovevole, infatti, che gente come noi (20% della popolazione mondiale) consumi l’80% dell’energia del pianeta. È giusto che ci sia più uguaglianza. A me basta una vita decente.
Tra parentesi, credo che abbia ragione Palmieri, quando fa notare che, negli ultimi anni, si sono moltiplicati gli scritti sulla ricerca della felicità; e ciò può essere «sintomatico di una società infelice, nonostante l’abbondanza di beni materiali di cui siamo circondati.» (pag.7). Vero. Nei «Manoscritti economico-filosofici del 1844» Marx scriveva che «l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica.» (Einaudi, 2004, pag. 17)
Ciò che, comunque, voglio dire è che le trattazioni sulla felicità, brevi o lunghe che siano, non possono disinteressarsi del modo di produrre degli uomini, dei lavori che svolgono o non svolgono, della possibilità di vedere o meno realizzato “il pieno sviluppo della persona umana” (per dirlo con una formula). Ci può essere felicità senza questo pieno sviluppo? È chiaro che ognuno deve pensare al pieno sviluppo di sé. Può pensarlo senza gli altri e l’esistenza delle necessarie condizioni economico-sociali?…
“Esteriorità” non significa soltanto rapporto con gli altri. Tra gli altri ci sono anche cani, gatti, merli, passeri, elefanti, topinambur, magnolie, papaveri, tigli, montagne, nuvole, mare, cielo, sole, stelle…In breve, i tre famosi regni: minerale, vegetale e animale; quelli che, con un’altra astrazione vertiginosa, entifichiamo con Natura, come se poi noi non ne facessimo parte. La Natura non sempre è benigna. Le capita spesso di essere matrigna e siamo costretti a difenderci con le armi che abbiamo: cultura, scienza, tecnologia. Se non ci difendiamo, niente “tranquillità interiore”.
- – L’autore conclude il suo breve saggio con queste parole:
«In un’epoca in cui i termini ‘virtù’ e ‘felicità’ utilizzati dalle antiche trattazioni di politica ed etica sono stati sostituiti da ‘economia’ e ‘ricchezza’, è necessario lavorare innanzi tutto su noi stessi, per riprendere consapevolezza del vero ‘io’ nascosto e oppresso da effimere preoccupazioni.» (pag. 74)
Opposizione facile, troppo facile. E se oggi la felicità possibile avesse molto a che vedere con il denaro?…Schedine settimanali, lotterie, macchinette da gioco, trasmissioni televisive (come “affari tuoi”) ci fanno capire quali desideri agitano milioni di persone. Tanti sarebbero felici se vincessero delle somme notevoli di denaro per garantirsi sicurezza economica, aiutare i parenti più prossimi, fare la “bella vita”, girare il mondo…Ognuno inseguendo la propria immagine di felicità.
Altri, oltre al denaro, sognano onori, fama e riconoscimenti. C’è chi si accontenta di poco: del riconoscimento sul lavoro, della stima dei colleghi, della benevolenza dei propri simili. E c’è chi vorrebbe l’applauso continuo, il pieno d’amore.
L’aspirazione comune alla felicità ha contenuti molto differenti, a seconda della situazione esistenziale, sociale e culturale delle persone. Questo Palmieri lo sa. Infatti, la sua definizione di felicità come “tranquillità interiore” dà per scontato che sia una condizione soggettiva.
- – Come valutare, allora, questo libretto?…
Al di là del condividere o meno la definizione proposta di felicità, credo che sia interessante la strada indicata per raggiungerla. È il gesto di Socrate. Anche ai suoi tempi c’era chi preferiva onori, fama e ricchezza. Lui scelse la virtù e la cura dell’anima. Una strada per niente asfaltata e tutt’altro che facile. Palmieri ribadisce questo nesso antico tra felicità e virtù. Non solo. Ribadisce anche il nesso tra felicità e tempo.
Sul primo nesso dubito fortemente che le virtù dei moderni (e dei post-moderni) coincidano pari pari con quelle degli antichi; sul secondo, la relazione felicità-tempo si concretizza in un progetto di messa in forma e stilizzazione della propria vita. Palmieri non intende accontentarsi dei momenti di felicità. Vorrebbe che durassero, vorrebbe rendersi la vita tranquilla e beata fino alla morte. Filosofare come scelta di vita. Quindi conoscersi, meditare, scrivere, prendersi cura della propria anima e del proprio corpo, saper restare soli, passeggiare o andare in bicicletta, non perdere tempo, incanalare e mitigare la forza delle emozioni, sviluppare una benevola indifferenza nei confronti del mondo, curarsi della correttezza del respiro, dedicarsi al “pregiato balsamo” dell’arte, accettare il perpetuo mutare della vita e dell’universo, vivere il cambiamento, conservare lo stupore dei bambini, contemplare l’immensità di tutte le cose, prepararsi alla morte…
Perle di saggezza. Azioni per un progetto di vita centrato sull’amore per la sapienza. Legittimo e non so quanto condivisibile da altri giovani.
All’età di Palmieri pensavo che la filosofia dovesse occuparsi della totalità e che fosse, come sostiene Hegel, il proprio tempo appreso col pensiero. Pensavo pure che fosse dialettica, negazione, conflitto. Battaglia teorica per espugnare le cittadelle dei concetti che paralizzano i bisogni di libertà e di liberazione degli esseri umani. Qualcosa evidentemente è cambiato nelle funzioni e finalità di questa disciplina.
Nell’introduzione Palmieri scrive: «Essendo stato scritto ben due estati fa, è un testo che, per certi versi, percepisco ancora come acerbo rispetto a una maturazione che ancora è in corso.» (pag. 8).
Saggezza acerba.
Ho speranza, allora, che il giovane autore conservi e superi i modelli di felicità degli antichi. Troppo destinati a nicchie sociali ed ecologiche abbondantemente mutate.
Nel perpetuo divenire del tutto pure la felicità è cambiata e può esibire una sua storia sociale.
La mia idea è semplice: per trovarla oggi, meglio non cercarla più.
Aprile 2016
Hic sunt leones
Felicità – tavoletta d’argilla,
creta che canta dal fondo degli argini,
un qualcosa mi dovevi portare,
come un cieco tu hai abdicato.
E mi portavo dietro la vita come una cerniera,
come una soglia che non sapevo oltrepassare.
Non avevo la gola pronta al canto del gallo,
non sapevo come uscire dal rimorso, e dalla notte.
Mi hai stupito come un aurora recidiva
che a Leuco oppone un ritegno implume,
perché il volo di una scrittura sia più d’un calco
sulla tradita pietra che la storia non sa amare.
E pure mi dovevi un esangue frangere di suoni
che ai gridi e ai pensieri incisi con la selce,
e agli sguardi, e a un futuro ignoto e disatteso
un aiuto dagli occhi e dalle mani un grecoro – reclamava!
antonio sagredo
Roma, 3 febbraio 2011
(primi alborei)
@ Sagredo
“un aiuto dagli occhi e dalle mani un grecoro – reclamava!”
Cos’è un ‘grecoro’?
Sul dizionario non trovo il termine.
Una greca decorativa? Molto Greca. Bella scelta comunque.
Ennio, ma è facile: è un mio neologismo (come tantissimi) : grecoro è coro greco,
poi che due volte “co” è troppo, allora grecoro! – ma il giovanissimo filosofo è capace di commentare i versi, poi che dico della felicità… ma “le felicità si soomigliano, soltanto le infelicità sono diverse” (Tolstoj).
@ Sagredo
Non ho pensato ad un neologismo. Comunque se ‘grecoro’ può essere: greco+ oro; greco+coro; greco+decoro… disambiguare fa sempre bene. Specie quando si tratta di giungere alla cosiddetta Felicità.
…trovo che Donato Salzarulo abbia espresso bene il dissenso verso una ricerca della felicità come valore assoluto, un concetto già di per sè effimero e soggettivo e una pretesa egoistica in tempi, come il nostro, di guerre, inquinamento ambientale e migrazione di popoli, a cui se mai preme la necessità della sopravvivenza. Tuttavia frammenti di felicità possono esistere e brevi momenti di “vie en rose”, soprattutto nella giovinezza e resta comunque a qualsiasi età un desiderio di spazi di serenità (salute e amore, come dice Donato) per poter continuare a vivere una vita dai ritmi spesso disumani…sempre pensando che sarebbe un diritto di tutti . La poesia di Antonio Sagredo sembra mettere in relazione la felicità con la fedeltà e il suo contrario con il tradimento, anche di noi stessi e oggi appare un fenomeno alla grande: è solo un’interpretazione…
La vita è cambiamento incessante per definizione, non esiste un punto d’equilibrio permanente. Secondo me per poter trattare appropriatamente certi temi bisogna prima aver attraversato la vita con tutte le sue sfide.
Inoltre tutti questi filosofi e mistici citati hanno condotto la loro solipsistica ricerca della felicità incuranti dell’infelicità dei più, accettando società divise in caste e perfino la schiavitù.
Ho notato come Antonio Sagredo ha rivolto una sorta di richiesta al giovanissimo filosofo Palmieri Daniele, e cioè di commentare i uoi versi, che dicono della felicità.
Inoltre il signor Salzarulo Donato esclama, riferendosi al Palmieri:
«Bravo… Farà sicuramente strada…»…, che non significa assolutamente nulla, poi che di una banalità sconcertante; frase che si può riferire a un cavallo da corsa molto bravo a correre, oppure a una qualiasi creatura animata, o inanimata come un oggetto scagliato nell’inondabile cosmo. E poi in quale direzione e come e quando, ecc. …? – “strada” come dire un domanni occupare un posto accademico che tanti eccellenti filosofi rifiutarono. il futuro è colmodi bivi, trivi, quadrivi, ecc. – Sarebbe stato meglio non dire così. La sig.ora Locatelli elogia Sagredo e coglie più o meno il centro, e mi va bene. Consiglierei la lettura di “Cervelli” di Gottfried Benn, che di felicità s’intendeva assai
Gentile Signora Manfredini, è probabile che il mio augurio («Bravo…Farà sicuramente strada») sia un po’ generico e banale. Come lei scrive, forse «Sarebbe stato meglio non dire così». Non è comunque, rivolto a un cavallo da corsa, né a una qualsiasi creatura animata o inanimata. Se il giovane Palmieri, come filosofo, “farà strada”, riuscirà a farla, probabilmente, anche perché capirà presto che «il futuro è colmo di bivi, trivi, quadrivi, ecc.». Qualcuno di queste difficoltà, credo di avergliele indicate io stesso nella recensione.
HIC SUNT LEONES
“Hic sunt leones”. Un lettore, di fronte a un titolo simile, è avvertito. Se andrà avanti, si inoltrerà in zone (poetiche) sconosciute, in lande inesplorate, territori psichici non ancora conquistati dai cartografi dei versi. L’unica cosa nota è che ci sono i leoni, i re della foresta, un animale che Dante aveva già evocato come simbolo della superbia consapevole. Il lettore reso saggio dai geografi antichi dovrebbe abbandonare la rotta e tornare indietro. Ma i moderni dialogano con gli antichi per superarli e io non temo di inoltrarmi nell’oscurità di questi versi superbi.
Felicità – tavoletta d’argilla,
creta che canta dal fondo degli argini,
un qualcosa mi dovevi portare,
come un cieco tu hai abdicato.
Nella prima strofa di quattro versi (i primi tre endecasillabi, il secondo sdrucciolo, e l’ultimo decasillabo), il protagonista è un Io poetante (sottinteso) che, dopo aver personificato la Felicità, la invoca con un tono familiare, dandole del tu. Invocazione che è anche delusione, disincanto. La Felicità, secondo quest’Io, doveva portargli “un qualcosa” (che cosa?…) e, invece, “come un cieco” ha “abdicato”. Un verbo e una similitudine. La felicità che rinuncia al suo potere sovrano “come un cieco” (un essere privo della vista, ma anche acritico, privo della luce della ragione…). Ma che senso ha questa similitudine? Dove vuole andare a parare quest’Io? Cosa domanda alla felicità? “Un qualcosa”!…Ma quale cosa?…Facciamo un passo indietro. Torniamo al primo verso. Cos’è la felicità per quest’Io?… “Felicità – tavoletta d’argilla”. Il trattino apre un falso inciso (infatti, non si chiude da nessuna parte). Però capiamo che “tavoletta d’argilla” è apposizione di felicità. Traduco: quando evoca la felicità, quest’Io poetante, pensa a un supporto su cui scrivere, “alla creta che canta dal fondo degli argini”; ovviamente la “tavoletta d’argilla” se ci scrivi sopra una canzone (poesia) diventa “la creta che canta”…e già “dal fondo degli argini”, per l’io poetante, questa creta è disponibile a diventare tale. Purtroppo non succede e la felicità-poesia rinuncia al suo potere conoscitivo e non porta all’Io quel qualcosa che “doveva” portargli. Quel qualcosa che poi è “un qualcosa” indeterminato che neanche l’Io sa. I versi girano a vuoto. Hic sunt leones.
E mi portavo dietro la vita come una cerniera,
come una soglia che non sapevo oltrepassare.
Non avevo la gola pronta al canto del gallo,
non sapevo come uscire dal rimorso, e dalla notte.
La seconda strofa è una dichiarazione di fallimento conoscitivo dell’Io: “non sapevo…non sapevo”. Dopo che la felicità-poesia ha rinunciato ad esercitare la sua sovranità, la condizione vitale dell’Io è caratterizzata dall’incapacità di “uscire”, di “oltrepassare”, di avere “la gola pronta al canto”. Vive nel rimorso e nella notte (buio, cecità). Da notare i tempi verbali: nella prima strofa la “Felicità – tavoletta d’argilla, / creta che canta dal fondo degli argini”; nella seconda il tempo è all’imperfetto. Bisogna prestare attenzione alla caratteristica di questo tempo verbale. Esso mostra l’azione in un punto del suo svolgimento (dopo che la felicità ha abdicato, portavo la vita, non sapevo, ecc.), ma non ci informa sulla sua conclusione. Il che vuol dire che il lettore (ma l’Io stesso) ha una conoscenza imperfetta di quel suo portare la vita, di quel suo non sapere oltrepassare, del suo non avere la gola pronta al canto, di quel suo non sapere uscire dal rimorso e dalla notte…Imperfetta. Hic sunt leones. Ma poi perché quest’Io preferisce la gola pronta al “canto del gallo” e non della gallina?…Perché prima che il gallo canti mi tradirai tre volte?…L’Io non aveva la capacità di tradire la vita, di oltrepassarla, di uscirne per consegnarsi alla felicità della tavoletta d’argilla?…E perché questo fallimento? Perché questo restare nel “rimorso” e nella “notte”?…
Mi hai stupito come un aurora recidiva
che a Leuco oppone un ritegno implume,
perché il volo di una scrittura sia più d’un calco
sulla tradita pietra che la storia non sa amare.
Il protagonista della terza strofa rimane l’Io che ritorna ai tempi verbali della prima. La felicità ha abdicato (passato prossimo) e ha meravigliato l’Io “come un’aurora recidiva” (un’alba che ritorna), “che a Leuco oppone un ritegno implume”. Leuco è descritto da Omero nell’Iliade come un fedele seguace di Ulisse. Perche mai viene evocato da quest’Io? Si intende instaurare un parallelismo?…Leuco viene ucciso da Antifo e “l’aurora recidiva” gli “oppone un ritegno implume”. Che significa? Non si fa più vedere e lo fa in modo ritroso, pudico?…Si tira in ballo Leuco per parlare di storia?…Gli ultimi due versi hanno il dono della semplicità e della quasi chiarezza: “perché il volo di una scrittura sia più d’un calco / sulla tradita pietra che la storia non sa amare”. Il “volo di una scrittura” è una bella metafora…Ma dove voliamo con questi versi?
E pure mi dovevi un esangue frangere di suoni
che ai gridi e ai pensieri incisi con la selce,
e agli sguardi, e a un futuro ignoto e disatteso
un aiuto dagli occhi e dalle mani un grecoro – reclamava!
Nell’ultima strofa l’Io poetante finalmente confessa cos’era quel “qualcosa” che la felicità “doveva” portargli nei primi quattro versi: “un esangue frangere dei suoni”. Ma è esattamente ciò che la felicità-poesia gli ha dato. Forse, a questo punto, il grecoro (coro greco, come ha chiarito l’autore), fa bene a reclamare gridi e pensieri, sguardi, un futuro ignoto e disatteso (non sempre, non sempre: la morte di ognuno di noi, ad esempio, è un futuro certamente non disatteso), un aiuto dagli occhi e dalle mani. È tutto ciò che manca in questa poesia. Puro oggetto verbale. Un esangue frangere dei suoni. Hic sunt leones. L’abbiamo capito.
Cosa avrebbe da imparare un giovane filosofo da questa poesia?…
Ciao a tutti, sono Daniele, l’autore del testo. Intanto colgo l’occasione per ringraziarvi del dibattito che è scaturito intorno al testo e, soprattutto, per ringraziare Donato per la pubblicazione dell’articolo.
Per quanto riguarda il contenuto della recensione, ci tenevo a precisare alcune mie posizioni che nel testo, per il suo carattere divulgativo, vengono trattate in maniera breve e semplice.
Per prima cosa, Reale è stato sicuramente uno dei miei punti di appoggio, ho letto e apprezzato la sua Storia della filosofia greca e romana, tuttavia, dal punto di visto filosofico, le mie posizioni divergono molto dalla sua concezione “cristianeggiante” della filosofia antica e, in generale, dalla esegesi cristiana dei testi classici. Non mi inserisco in questa tradizione, mi sento più vicino al panteismo stoico e spinoziano. Ci sono, certo, alcuni punti di contatto con la tradizione cristiana; utilizzando una metafora che proprio sant’Agostino usa parlando dei testi “pagani”, come gli ebrei, fuggiti dall’Egitto, sottrassero ai loro oppressori l’oro e l’argento, allo stesso modo saccheggio dalle diverse tradizioni filosofiche quello che ritengo più “di valore”, e per questo vi sono molti rimandi non solo a Reale e alla morale cristiana, nel cui contesto però non mi pongo.
Per quanto riguarda la spinosa questione dell’interiorità e dell’anima, anche in questo punto mi discosto molto dalla tradizione cristiana. L’attività neuronale è il retroterra necessario ad ogni esperienza interiore, e ritengo che sia anche uno dei campi d’indagine più interessanti (infatti la mia area di interesse di studio sono proprio le scienze cognitive e le neuroscienze). Quando parlo di “psyché” o “interiorità” non mi riferisco a un’anima separata dal corpo, bensì all’insieme di “stati mentali” ed “esperienze interiori” (pensieri, emozioni, ricordi etc.) che, presi nel complesso, formano un “io” omogeneo, la coscienza o, appunto, la psyché, riutilizzando il termine della tradizione antica. Il mio discorso rimane ancorato limitatamente a questo piano, quello sul quale possiamo intervenire consapevolmente – fermo restando che, alla base di esso, vi siano dei meccanismi biologici e neuronali e non un’anima composta da una sostanza immateriale alla Cartesio.
Tale “nucleo”, come lo definisco, si forma fin dalla nascita, non perché, quando nasciamo, veniamo dotati di un’anima immateriale, ma perché, già dalla nascita, possediamo un “seme” (dato, appunto, dalle basi neuronali) che con il tempo germoglia e fiorisce. Una crescita possibile grazie al rapporto dialettico tra”propensioni interiori” e “ambiente socio-culturale”. Lungi da me, tuttavia, sposare la concezione religiosa che già nel grembo materno siamo dotati di questo tipo di individualità, posizione che non condivido assolutamente (anzi). Quella della formazione della coscienza è una questione molto complessa che, inevitabilmente, ho dovuto semplificare in un saggio divulgativo per rendere più lineare il discorso, ma effettivamente per come l’ho impostata poteva dare adito a questo genere di fraintendimenti.
Infine, per quanto riguarda il discorso più generico sulla felicità, credo si debbano distinguere i singoli momenti di gioia (i singoli momenti felici) dalla felicità in sé; credo che la questione possa essere ridotta alla domanda: ciò che rende una vita “felice” è un insieme eterogeneo di singoli momenti felici o una propensione spirituale perpetua tale da rendere, ogni singolo momento, felice – fino a gioire della semplice gioia di vivere? Questi credo siano i due diversi approcci e io, fedele alla tradizione antica, cerco di perseguire il secondo. Una condizione non certo facile da raggiungere, che richiede esercizio, e forse irraggiungibile, ma alla fine è lo sforzo a dare gran parte della soddisfazione.
Cito in ultima istanza un passaggio della recensione:
“La mia impressione è che ci sia qualcosa che non va nella definizione. Forse andrebbero precisati i concetti di “interiorità” ed “esteriorità”. Parlando di “equilibrio”, Palmieri sembra immaginarle come “forze” che interagiscono tra loro. Sicuramente lo sono e interagiscono nel campo psichico di ognuno di noi. Ma l’interiorità è solo una forza? Non è anche uno spazio, una dimensione, un mondo? Cosa c’è dentro questa interiorità? Come è fatta? Da quali “figure” è abitata? A quali azioni della mente corrisponde?”
Proprio a questi quesiti cercherà di rispondere uno saggio filosofico che sto scrivendo!
Per quanto riguarda l’esclamazione a fare strada, la banalità non sta nell’affermazione ma nella propensione con cui una persona coglie tale augurio. Dal canto mio, il “fare strada” non coincide con la conquista di una cattedra universitaria per trincerarmi all’interno del mondo accademico, tutt’altro. Quello che spero (e cerco) di fare è di riportare la filosofia nel contesto quotidiano, come facevano i filosofi antichi, nella speranza che essa possa fornire gli strumenti per migliorare la propria vita. E’ vero che molti pensatori “misticheggianti” si ritirarono dal mondo, lasciando gli altri a loro stessi, ma è altrettanto vero che vi furono scuole filosofiche (orientali e occidentali) per le quali la via di perfezionamento di sé stessi deve necessariamente passare per la scoperta dell’altro, altrimenti la propria ricerca sfocia nell’egoismo. Lo stesso stoicismo ebbe un ruolo concreto fondamentale nella diffusione dell’ideale di “umanità”, vedesi certi passi illuminanti delle Lettere a Lucilio di Seneca, in cui il filosofo esorta a trattare gli schiavi non come bestie inferiori ma come nostri pari, che condividono il nostro stesso sangue e la nostra stessa condizione.
Ringrazio ancora tutti voi e spero di essere riuscito a chiarire alcuni punti lasciati in sospeso.
Daniele
Ah, dimenticavo di aggiungere che non reputo assolutamente la felicità come un valore assoluto. Proprio nell’incipit del testo specifico che la felicità è il viaggio che ciascuno di noi compie attraverso l’esistenza; un viaggio che può essere percorso seguendo centinaia di vie diverse e che quella che io propongo non vuole essere l’unica via, ma soltanto uno dei tanti sentieri possibili.
«ciò che rende una vita “felice” è un insieme eterogeneo di singoli momenti felici o una propensione spirituale perpetua tale da rendere, ogni singolo momento, felice – fino a gioire della semplice gioia di vivere? Questi credo siano i due diversi approcci e io, fedele alla tradizione antica, cerco di perseguire il secondo. Una condizione non certo facile da raggiungere, che richiede esercizio, e forse irraggiungibile, ma alla fine è lo sforzo a dare gran parte della soddisfazione […]la felicità è il viaggio che ciascuno di noi compie attraverso l’esistenza; un viaggio che può essere percorso seguendo centinaia di vie diverse e che quella che io propongo non vuole essere l’unica via, ma soltanto uno dei tanti sentieri possibili» (Palmieri).
Messo così il problema, stabilire se una vita (individuale o di una collettività) sia felice o meno risulta quasi indecidibile. Siamo quasi al giochino del chi vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Chi li stabilisce i *momenti felici*? L’individuo? Lo Stato? La Chiesa? La Scienza? Se poi quest’arabe fenice della felicità coincidesse con « una propensione spirituale perpetua», la sua ricerca (ma mi chiedo: è proprio necessaria?) si fa ancora più fumosa. La propensione spirituale può vivere stabilmente nell’immaginario del singolo o di una collettività, indipendentemente dalla realtà circostante. Anche in situazioni terribili, anche se cadono attorno le bombe. Ma, in questi casi, più che di propensione alla felicità sembrerebbe giusto parlare di apatia, di cancellazione delirante del reale per una sorta di estrema autodifesa.
La stessa vaghezza trovo nell’affermazione che raggiungere la felicità «richiede esercizio». Ma quali sono in concreto questi esercizi o viaggi da fare per conquistarla? Sono accessibili a tutti/e? Se poi mi si dice che « alla fine è lo sforzo a dare gran parte della soddisfazione» o che esistono «centinaia di vie diverse» senza specificarle e valutarne in concreto gli impedimenti, mi sento preso per i fondelli. Specie se penso alle tante felicità sbandierate (dall’amore, alla pace, al progresso, al sol dell’avvenire). Non è che mi si voglia somministrare il solito palliativo, stavolta in linguaggio filosofico?
La felicità è l’orgasmo dell’animo.
Non va cercata, non troppo pensata, non è logica, non è gioia nè serenità.
E’ leggerezza del sé, e quando arriva , non potremo decidere noi per quanto tempo resterà-
Se l’attenderemo e la penseremo prima del suo arrivo e dopo il suo arrivo, ci accorgeremmo che potrebbe trasformarsi in infelicità.
Ho l’impressione che i grandi pensatori non siano mai felici.