di Canio Mancuso
Scienza degli addii
La luce dell’inverno
che nell’androne
cancella i nostri passi
annebbia la moviola
e non chiede elemosine
di carezze e abbandoni.
Cerchiamo riparo nella sua occhiata
scambiamo frasi che rintoccano
a vuoto: a domani a presto a mai.
Se avesse il senso della realtà, pensi.
Se avesse i denti un po’ meno larghi, penso.
È facile nella foschia confondere
l’aldilà con il nostro primo incontro,
il ricordo si sbriciola
senza un lamento.
Ciò che a volte siamo stati,
ciò che a volte abbiamo amato
ci chiama indietro e si allontana
senza fare rumore. Per questo
rigiro nella tasca
rotta della memoria
le parole dimenticabili
che dicevamo allora.
Fiammiferi
Mio padre fabbricava
navi di fiammiferi
navi con troppe vele
e con troppi cannoni
belle perché non erano
metafora di niente.
Stava seduto a terra
con il broncio sospeso
sul docile cantiere
della sua arte sghemba
massacrando fiammiferi
che asciugava e incollava
a uno scheletro d’aria.
Come era contento
di soffiare il respiro
negli ossi di una nave
priva di oceani da immaginare.
Nidi
Mio padre distratto dalle rondini
smarrisce le carte del congedo.
Conosce la morte degli animali
così esatta e disinvolta
ma ha dimenticato la sua
sul comodino coi documenti.
Mio padre chiedeva una canzone allegra
e ha avuto un silenzio imperfetto:
ero io nascosto in una stanza
tra gli a capo sonnolenti dei libri.
Voleva un figlio dallo sguardo aperto
un figlio maschio che dormisse poco
e ne ha avuto uno che rimane sveglio
per godersi il riposo degli inconcludenti.
Sulla gigantografia del santo
che azzittiva la vallata
le rondini costruivano i nidi.
Mio padre seduto su una panchina
me li mostrò un pomeriggio
di settembre quei nidi
che io non avevo mai guardato.
Corso Garibaldi
Che gittata ha il domani
nei discorsi dei vecchi:
la politica, le armi
i destini del mondo
com’è bello fottere
e non comandare.
I vecchi camminano
con le mani sulla schiena
per tenerle lontane
dallo sfiato del sesso
e poi li senti dire
di una bella che passa:
Ciunna [1] maledetta…
nel cuore ancora il fischio
dei sensi contromano.
[1] In dialetto sanseverese, sesso femminile, vagina.
La vetrina del fotografo
Non dovete aggiungere altro
credo di conoscerli
quei segreti così terreni
esposti alla luce dei volti
le occhiate fuori dalla cornice
i desideri in formalina
nel nascondiglio bianco
di una fotografia.
Il sì è un chissà ora che siete spose
e aspettate il battesimo di sangue
e sperma della prima notte
o avete nostalgia di altre notti
gli incontri che non dite al confessore
e che vi lasciano quasi un sorriso
sotto vetro nel primo piano più riuscito.
Febbraio
Quando la pazzia ti sfiorò la spalla
stavi pregando, fiato e ventre e linfa
in ascolto, il corpo nudo a mollo
nell’avemaria. Un dottore parlò
di crisi mistica, lui che non era
un dottore della chiesa. Una piccola
estasi fatta in casa, durò
mezza stagione ma ti lasciò un pegno.
Pregavi ancora sotto le lenzuola
e sorridevi sbirciando dal cuscino
l’inverno in silenzio sulla soglia.
Le accademie, le chiese
Le accademie, le chiese, i luoghi sacri
mi danno lo stesso sgomento.
Vedo gli occhi degli studenti
aggrappati ai vetri delle bacheche,
le sentenze degli esami
martoriate dai respiri, le nuvole
gonfie di zelo, la forfora posata
sulla spalla di chi si impegna
e studia e risponde sì a tutto.
Il labbro rancido del professore
che ripete sempre la stessa lezione
sa leggere solo i necrologi.
Lo stesso dolore, la rosa
sfatta nel fonte battesimale
il papillon tremante
sulla gola bianca dei bambini
in fila per la comunione
coi sessi che origliano
la fumata bianca, anche lei,
delle buone azioni rese al cielo.
La stessa ferita, l’uomo
che piange un’invocazione
col suo barboncino in bocca alla luce
della Cappella delle reliquie.
Caritas
Il prete ha parole buone
per il ladro e per la puttana.
A lui regala l’argenteria
a lei fa luce nello scantinato.
Getta un fiore secco nel focolare,
saluta, si gratta il sedere, va via.
Imitazione di Linda Darnell
L’amen della ragazza
inginocchiata davanti all’altare
cade dal polpastrello,
scivola tra i bottoni.
La ragazza né brutta né bella
parla alla Madonna e ai santi
e parlando ascolta il suo sangue
che bisbiglia non so cosa
nelle calze a rete.
Valle dell’Hinnom …
la morte pigra che non fa ponti / e indossa sempre le stesse mutande. Teofilo Sinedeo
Siamo d’accordo: morire è necessario
non voglio essere frainteso,
ma la cantilena sciatta
che i morti sanno a memoria
è paccottiglia da robivecchi
non riesco più ad ascoltarla
con la curiosità di una volta.
Mai che si muoia a sproposito
mai che succeda senza un disciplinato
rapporto tra causa e effetto.
E poi il ciclo naturale irrevocabile
il cerchio che scade il tempo che si chiude
– cambierebbe qualcosa usare i verbi giusti? –
e noi che fingiamo di sorprenderci
davanti a una scomparsa
come davanti a un giochetto di prestigio.
Scomparire scomparsa scomparso:
certe parole scivolano sulle labbra
e predispongono meglio all’evento:
almeno sai che lo ha organizzato un altro.
Lo scomparso, si sa, è un po’ meno morto
del deceduto, scomparire
un morire incompleto che evoca
luoghi abitabili con l’opzione
incorporata del ritorno.
Tuttavia si deve fare in fretta
qui c’è appena il tempo per tradire
l’idea il credo la moglie l’azienda
per affilare il tatto se precipitiamo
con i denti le lingue negli orecchi
la cispa la carie il moccio lo smegma
la foia a nanna tra le cosce arrese
i sonni scaldati al tepore dei seni
i fiumi le piene le bottiglie i cocci
dei poeti le glorie fiacche dell’autunno
i figli del seme e del riflusso
i respiri clorosi delle corsie
le gengive viola delle zie in amore
i nomi gridati in caserma e a scuola
le mani cariche di ciliegie
il verme Charlot che ci assaggia la suola
e ancora qualcosa che non ricordo.
Insomma accomodarsi nella morte
contrattempo che pare inevitabile
con i suoi paradossi scontati la sua
iconografia ingenua e le banalità
da psicodramma: l’uscita di scena
la mossa il colpo a effetto
e il corredo di commenti a margine:
era innamorato della vita
aveva tanto da dire da fare
che voglia aveva di rompere i coglioni
aveva progettato una strage:
si è limitato a farne il disegno.
Cose che casualmente
addomesticano la nostra piccola
fine mentre le cresciamo dentro.
Litania
Se esisti, resta in silenzio. (Qui spero che non mi risponda un tuono.) Un asceta
Ci ho messo tanto a liberarmi di te
che arrivo al punto di cercarti
senza volerlo.
Ho il sospetto infantile
che tu stia lì a spiarmi
nelle ore santificate dal sonno
nella veglia bagnata della patta
che ascolti i miei pensieri notturni
fermati tra le natiche
per paura che il vicino li senta.
Fingo di ignorarti anche se
mi parli con voce di ragazza
e ogni tanto, quando so
di avere torto, quando voglio
avere torto, bestemmio
per litigare con la tua assenza.
La minaccia
Lo vedevamo passare sul corso,
l’espressione indaffarata
nelle cose, nei volti da evitare.
Poiché non dava retta a niente
e sembrava che niente lo interessasse,
lo credevamo un intellettuale
(un pensiero ragazzo
da quegli ingenui che eravamo).
Lo sfottevamo nascosti
ché un po’ ne avevamo paura.
Di lui non sapevamo niente
se non che passava come la nuvola
nera che inghiotte l’acquazzone
troppo pigra per pioverci addosso
la sua fragile sfida.
Fantasia di Bigio Graus
Sono al “McGregor” con A.
che non vedevo da più di vent’anni.
Nel frattempo si è fatto scrittore.
Vive in città, non ricordo quale,
e in paese viene di rado ma
ogni volta volentierissimo.
L’affabilità è quella di sempre;
ne approfitto per parlargli di me.
Tutto quello che so
lo può sapere chiunque
ma non è una provvista
sufficiente per tanti inverni
di allegra insipienza.
Come ha detto quel tale
ne so meno di prima,
e l’impunità della mia pigrizia,
del mio sguardo ignorante sul panorama,
mi è ogni giorno più insopportabile.
Essere uno scrittore, a writer, un écrivain…
io che quando sento la parola cultura
accarezzo il telecomando.
Di fronte a ciò che non comprendo
annuisco con competenza.
Del professore di filosofia
ricordo appena il rutto
uscito indenne dall’eterno ritorno
il giorno che aveva problemi di stomaco.
Le lezioni che ho messo a frutto,
quelle che ho dimenticato,
dimmelo tu: c’è qualche differenza?
Se non ho imparato a fare il nodo
alla cravatta non è stato un caso
e il non indossarla mai
non potrà giustificarmi.
Non so perché te lo racconto
né perché metto in fila i pensieri
come se nessuno mi ascoltasse.
Forse è solo un riverbero
della memoria, delle poesie
lette sul cacaturo
mandate a mente, stipate nel fondo
di un baule bruciato e poi rimpianto.
Mi chiedi se ho qualcosa da dire.
Ho smesso di scrivere a quindici anni,
proprio quando tu hai cominciato.
Non so se ti invidio, fammici pensare,
forse riesco a tirare il bandolo
di una morale. Questa costa poco,
potrebbe piacerti: l’invidia
è una puttana dura da domare,
ma solo se pretendiamo di farlo.
Se non mi sono spiegato, mi rispiego.
Quando cammini per le vie del paese
e chiedi la sigaretta a un passante,
sembra che qui tutto esista e si animi
soltanto per riconoscerti. Esagero?
Esagero. Di sicuro
non manca mai il poeta
molto locale che ti annusa la giacca
e ti chiede una prefazione
alla silloge che non riesce a pubblicare.
Gliela prometti in una stretta di mano
(ti negherai con stile ineccepibile
all’ultimo momento a causa di un intoppo
nella procedura, una malattia,
una morte imprevista, la tua, la sua).
Il direttore de “Lo Scaracchio”,
che ti ammira da quando eri all’asilo,
ti farebbe un ricamo coi denti, si vanta
dei sette romanzi che scrisse d’estate
durante una vacanza a Silvi Marina.
Ti incarognisci, gli giri intorno
con una muleta di fumo,
lo chiami Proust.
Il cretino ti ringrazia.
Se mi offri un bicchiere di grappa
sorridi della mia pochezza
di intellettuale da asporto.
Sorrido anch’io, ma tu non sai
che quel sorriso
vorrei ridartelo gonfio di chiodi
perché ti esploda sulla faccia.
Intanto beviamo come due amici
parlando di cose fondamentali:
– Azzo se trinchi.
– So fare di meglio. Se me ne offri
un altro lo vedi.
E ridiamo insieme
la risata guasta delle mammane.
È così: ti invidio, ti odio,
odio te e il tuo nome che fa la ruota
all’ombra di un elzeviro
sulla letteratura kirghisa,
detesto le tue ideuzze
messe in bella, la faglia che ti incide
la fronte per farne uscire
le parole giuste, le parole adatte,
quell’ossessione ipocrita da parata.
Non pensare male di me,
vorrei solo vederti annegare
nella calce della tua firma,
che morissi come un monumento
all’esibizionista dimenticato
il destino del nullivendolo
che trucca monologhi davanti allo specchio.
Oltretutto sei poco più di un giornalista.
Che dici, beviamo un altro goccio?
L’indomani mi sorprende a dormire
sordo ai patemi delle stoviglie.
Mio figlio fa il suo mestiere:
poppa piange inverte l’ordine
dei gesti varia la tonalità.
Lo guardo e lo immagino adulto
senza più indizi di bambineria,
nessuna indulgenza per il mio orecchio
pensieroso nella farina d’ossa
che sarò diventato.
Lo guardo guardarmi severo e pietoso
e ne ho già paura.
Quando sogno di scrivere un romanzo
o un editoriale per il “Corriere”
sento uno strillo famelico, africano
che ha voglia di tormentare la vita
e me che non so annodare un nodo,
che avvampo per una fantasia
in secca, la mammella floscia
della cagna accucciata.
Complimenti.
Versi molto misurati, pieni, mai ridondanti; e che non si perdono in sperimentazioni fuori luogo o che cadono nell’ovvio.
Davvero un lavoro maturo, secondo me.
Sono emozionata. Una poesia intelligente,seria,piena di vissuto . Grande!
Vorrei acquistare il libro. dove?
…Canio Mancuso penso (?) che sia un poeta giovane e scrive poesie davvero belle, quindi l’età anagrafica non c’entra sempre…Trovo interessante sia il linguaggio deciso e sciolto, sia lo sguardo sghembo, laterale sul mondo, con cui smonta luoghi comuni, buoni e falsi sentimenti, tabù…Sono corposi tutti i suoi ritratti umani, vitali, senza sdolcinature, persino se colti nel sonno della morte. Forse fa eccezione quello del padre, paziente e contemplativo, però come caricato di una forza propulsiva segreta (Fiammiferi)…In alcune composizioni il tono diventa canzonatorio e ironico e la narrazione (Fantasia di Bigio Graus) vicina ai “poeti maledetti”…
complimenti, uno spirito distruttivo, sarcastico, iconoclasta.
quanto serve per fare poesia che sia vicina alla vita .
questa ” Fantasia di Bigio Graus ” è eccellente.
ma l’autore non è un giovanissimo alle prime armi, proprio no, altrimenti come farebbe a ricordare la frase di Goring sulla cultura e, molto intelligentemente, accostarla al desiderio di mettere mano al telecomando ?
bravo
Vi ringrazio tutti. Di cuore. No, in effetti giovanissimo non sono.
Canio (dicono)
Gentile Emilia, il volumetto è ordinabile in libreria e su internet.
A tutti: sono contento già che ne abbiate letta la selezione qui pubblicata. Avete migliorato la mia giornata (non scherzo).
Grazie Canio,
provvederò, vorrei leggere anche altro.
Agli entusiasmi non so mai dire di no-
Grazie a te.
Avevo scritto a Ennio A. di Caio Mancuso sulla possibilità di pubblicare alcuni suoi testi, ma l’Ennio mi risponde che giungevo troppo tardi! Questo mi ha fatto molto piacere. Ora non mi resta che tentare con altri blog, poi che la Poesia non conosce recinti e deve essere diffusa superando tutte le staccionate.
Grazie, Antonio.
Non nascondo, anzi approfitto di questo blog – per quanto detto nel mio precedente intervento (Poesia senza staccionate e altro) e senza vergogna alcuna, per comunicare (farmi auto-pubblicità è divertente!) che su “l’Isola dei poeti” (blog di Mario M. Fabriele) sono stati pubblicati i miei “Canti del Bardo /necchia”. Sollecito le poetesse da me tanto stimate: Cristiana Fischer, Annamaria Locatelli e Emilia Banfi e altre che or ora non ricordo il nome, a dichiarare la loro critica (comunque essa sia) su questi canti. Del resto fra poco tempo su questo blog saranno pubblicate le mie ultime fatiche [si fa per dire, poi che mi diverto ancora e la Musaccia (dispregiativo di Musa) ancora mi visita specie di notte per essere da me….]