di Franco Nova
Era uscito senza portarsi l’ombrello e aveva cominciato a piovigginare, poco ma con insistenza e regolarità; e così scelse di camminare rasente il muro delle case in modo da essere parzialmente coperto dal loro tetto sporgente, tanto più che nemmeno si era messo in testa la sua coppola. Erano in molti ad aver dimenticato l’ombrello; quando si trattava di donne, era ben lieto di cedere loro il passo e di scostarsi dal muro, bagnandosi un po’, in specie i capelli, cosa che in effetti gli dava un certo fastidio. Con gli uomini era più restio, ma alla fine lasciava il lato coperto pure a loro. Si fermò davanti alla vetrina dell’armaiolo e guardò un bel fucile a ripetizione che vi era esposto. Ritenne imprudente quel negoziante poiché qualche malintenzionato avrebbe potuto abbastanza facilmente infrangere il vetro ed impossessarsi dell’arma; ben presto, però, si rese conto che era finta, pur se fabbricata senza dubbio a regola d’arte, e tuttavia inutilizzabile per sparare.
Aveva già camminato per almeno un quarto d’ora e si accorse che doveva essere un po’ stanco; continuava a slittare sul marciapiede e di sicuro non era perché questo fosse bagnato. Eppure si sentiva “in palla”, le gambe non avvertivano segni di irrigidimento muscolare. Qual era allora il motivo per cui perdeva il passo e strusciava per terra i piedi, pur senza mai rischiare di cadere? Accadeva per un decimetro o due di strada, poi camminava nuovamente per qualche metro e incappava nuovamente in quella specie di pattinata. Guardò a terra e, pur se era abbastanza buio, si rese ben conto che il marciapiede era appena umido e non vi era alcuna patina di fango o altro materiale sdrucciolevole. Non riusciva quindi a capire il problema.
Si accorse a un certo punto che qua e là traluceva qualcosa di assai debole fosforescenza e si concentrò allora su quelle tracce semiluminose. Le osservò per alcuni minuti, ne era molto attratto pur senza afferrarne il motivo. Poi, improvvisamente, con sua enorme sorpresa e senza capirne bene il perché, gli si svelò l’arcano. Era tuttavia incredibile, per un momento cacciò quel pensiero perché assolutamente assurdo; non poteva mica ammettere che stava perdendo la ragione, giacché soltanto ad un folle poteva baluginare una simile causa del fenomeno. Eppure, non c’era nulla da fare: non era affatto matto e la spiegazione era proprio quella. Nemmeno si trattava di pura immaginazione, bensì di una reale presenza: quel materiale che brillava debolmente a sprazzi era costituito in tutta evidenza da pensieri, caduti da chissà dove, perduti da chissà chi, probabilmente da qualcuno che lo precedeva di qualche po’. Guardò davanti a sé, vi erano delle persone che andavano nel suo stesso senso; eppure non stavano perdendo alcunché, ne era del tutto sicuro.
E altrettanto improvvisamente, proprio come prima, gli si rese evidente la provenienza di quei pensieri. Recalcitrava all’idea, ma era inutile rifiutarsi di accettare l’inevitabile: erano suoi, erano fuggiti dal suo cervello. Fuggiti, proprio così, non si trattava di una perdita come nel caso di rivoli d’acqua che fuoriescono da un recipiente bucato. Si vergognavano di lui? E perché? In tutta la sua vita aveva tenuto un comportamento sufficientemente retto, era stimato e considerato uomo mite e ragionevole; eppure i pensieri scappavano a fiotti, se ne rendeva ben conto. Il più incredibile non voleva però ancora ammetterlo; aveva ormai capito perfettamente che quei pensieri erano suoi, eppure non li conosceva, non sapeva che cosa realmente pensassero, quale fosse il loro oggetto e la motivazione che li aveva fatti nascere. Ancor meno poteva quindi afferrare il motivo della loro decisione di separarsi dall’organo che li aveva prodotti.
Si trovava di fronte ad un enorme punto interrogativo, salvo il fatto che quel materiale scivoloso e luminescente era stato partorito dalla sua mente. Difficile rendersi conto della certezza che i pensieri fossero i suoi; com’era possibile che ne fosse così assolutamente sicuro e tuttavia non avesse la più pallida idea del loro contenuto, su che cosa stessero anzi ancora ragionando? Anche su questo non nutriva il minimo dubbio: quei pensieri non avevano esaurito l’argomento intorno al quale si arrovellavano, e di sicuro non da poco tempo. I bagliori emanati a intermittenza provavano che essi erano in atto di svolgimento, ed anche per questo erano così viscidi non riuscendo a giungere a un’appropriata conclusione.
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Veramente un bel problema. Meglio distrarsi un po’. Si diresse al bar della Lussuria, dove si riunivano i suoi conoscenti più superficiali, e da definirsi perfino sciocchi, sempre tutti presi da discorsi intorno alle belle ragazze, che prima di cena si mostravano a passeggio in quel paesotto ancora fermo alle abitudini di altri tempi. Quei maschietti, salvo che a chiacchiere, non combinavano in effetti nulla che avesse un qualsiasi rapporto con la sessualità effettivamente praticata; sbirciavano le fanciulle e poi ne parlavano per ore, con questo appagando ogni loro desiderio. Entrò nel bar, fu subito salutato dagli “amici” e coinvolto nelle loro inutili esercitazioni verbali intorno al soggetto preferito. Cercò comunque di sviare il pensiero – quello a lui ben noto nelle sue reali articolazioni – partecipando, solo svogliatamente, a discorsi di cui quella sera avrebbe fatto volentieri a meno. Ogni tanto volgeva l’occhio al pavimento; in effetti, i suoi pensieri ignoti non erano entrati con lui. Comprese allora che dovevano essere più seri della media dei suoi soliti; forse, chissà, magari dotati di una qualche profondità che non era la sua propria nel normale ruminare durante la giornata. Alla fine s’annoiò e uscì dal bar dopo aver bevuto un ultimo bicchiere, salutando gli amici e lasciandoli a berciare e ridere di nulla.
Aveva smesso di gocciare e i marciapiedi si stavano asciugando. Questa volta camminò per almeno mezzora, e anche più, prima che nuovamente ricominciassero a farsi vivi quei pensieri, con i soliti barbagli di debole luce da lui ormai ben conosciuti. Si rassegnò e li osservò. Quando scivolava su di essi, si fermava un attimo e pesticciava con i piedi nella speranza di riuscire a cogliere, in cotesto modo, qualche loro contenuto. No, non serviva a nulla. Incrociò una donna sulla mezza età, piuttosto robusta e sul rotondo. Quando fu al suo fianco, sdrucciolò e lei, sì, rischiò di cadere. Si fermarono entrambi l’uno appresso all’altra, e la donna guardò a terra con sommessa imprecazione: “eppure non c’è alcun motivo di slittare, il marciapiedi è perfino ruvido”. Subitamente egli si rivolse alla donna: “allora anche lei ha avvertito qualcosa su cui le sembrava quasi di pattinare?”. La donna lo guardò appena perché la sua attenzione continuava ad essere rivolta a terra: “Certamente, eppure non vi è nulla che giustifichi il fatto”.
Comunque non si fermò e riprese assai frettolosamente il cammino quasi avesse timore di essere da lui trattenuta per intavolare un’inutile chiacchierata. Egli dovette fermarsi perché in effetti, adesso, non riusciva a tenere il benché minimo equilibrio. Il marciapiedi era ormai asciutto, per null’affatto liscio e tuttavia era praticamente impossibile proseguire senza cadere; così dovette per forza appoggiarsi al muro di una casa e lì sostare. Guardò nuovamente a terra, si concentrò e cercò di afferrare che cosa quegli impertinenti stessero ruminando. Non aveva più alcuna speranza di essere un po’ sottosopra per chissà quali motivi, di avere se non proprio sognato, certamente eccitato soverchiamente la sua fantasia. Non poteva essere così perché quella donna, del tutto reale, si era trovata in difficoltà, anche se lei non aveva notato proprio nulla sul marciapiede; dal che dedusse che i pensieri si rendevano visibili solo al loro proprietario.
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Sopraggiunse velocemente lungo la sua stessa direzione di marcia un altro passante, pur esso pressato da qualche urgenza. Appena gli fu accanto, inciampò e, malgrado alcuni tentativi disperati di tenersi in piedi, finì a gambe levate lanciando un sommesso grido. Sapeva il pericolo che correva, abbandonando l’appoggio al muro, eppure si sentì in dovere di correre in aiuto del malcapitato. Si tenne invece perfettamente in equilibrio, nessuna sensazione spiacevole come in precedenza; senza molta difficoltà lo aiutò a rialzarsi.
Costui ringraziò vivamente e guardò attentamente a terra: “Qui non vedo alcuna asperità, eppure sono sicuro di aver sbattuto contro un ostacolo, tipo una piastrella sconnessa e sopraelevata o qualcosa del genere; non capisco proprio cosa sia accaduto”. Il “nostro” rimase vivamente sorpreso; “Non ha avuto alcuna sensazione di scivolare?”; “Assolutamente no, ho invece incespicato e non vedo però nulla che lo giustifichi”, rispose l’altro. Sempre più meravigliato, egli passò più volte ora un piede ora l’altro sul marciapiede; in effetti, non era più viscido e anche quei bagliori, che evidentemente aveva visto lui solo, erano spariti. Avvertiva una certa stanchezza e noia per questa prolungata esperienza assai spiacevole; e a causa di pensieri ignoti. Prima si slittava, adesso sembrava avvenisse il contrario, pur se finora non gli era mai capitato questo secondo inconveniente. Per fortuna – ma forse non era soltanto un fatto casuale, ormai non nutriva più sicurezza alcuna, tutto sembrava programmato in anticipo – avanzava uno spazzino con il suo carretto in cui ficcava i rifiuti.
Convinse il passante che era caduto, e che era ancora fermo lì con lui, a raccontare la sua esperienza al nuovo sopravvenuto, chiedendogli di raccogliere da terra quel rifiuto ingombrante. Il cosiddetto operatore ecologico guardò in basso e non vide nulla, per cui assunse un’aria sorpresa e interrogativa; che cosa volevano da lui? Gli fu ripetuta la richiesta e si rassegnò a spazzare laddove gli era stato indicato. Sorpresa! La sua scopa si arrestò quasi subito senza che si comprendesse da cosa fosse impedita nel suo scorrere sul marciapiede. L’uomo restò di sasso, riguardò a terra e, nulla riscontrando, ripeté il suo gesto. Dopo un breve movimento, la scopa venne nuovamente bloccata. Egli sapeva di che cosa si trattava, anche se era stupito che da viscosi i suoi pensieri fossero divenuti un rigido ostacolo. Fossero stati appiccicosi, l’avrebbe capito; non erano affatto tali, bensì proprio duri e la scopa vi sbatteva contro. Tuttavia, erano divenuti invisibili anche a lui e questo lo lasciava decisamente attonito. Mosse il suo piede in quel punto e sbatté contro qualcosa di ben saldo e inamovibile che gli procurò un po’ di dolore all’urto.
Lo spazzino intanto si era ripreso dalla meraviglia; borbottò qualche bestemmia e s’incaponì. Grattò con estrema virulenza il marciapiede, utilizzando questa volta il badile invece che la scopa. Alla fine, si avvertì un rumore come di fango incrostato che si va sgretolando; e così, alla fine, il badile passò senza più sforzo sul marciapiede liberato da ogni materiale che vi si era appiccicato. Materiale in cui, pur non più rilevandolo, lui riconosceva comunque i suoi pensieri, compattatisi e costituenti un blocco solido per motivi inspiegabili. Lo spazzino era assai irritato e chiese che tipo di rifiuti quei due avessero gettato a terra. Era convinto d’essere stato fatto oggetto di uno scherzo per null’affatto di buon gusto, a suo modo di giudicare l’accaduto. Essi, imbarazzati, fecero di tutto per convincerlo della loro buona fede. Egli ben sapeva che cos’erano i presunti rifiuti, ma non poteva certamente dirlo; si rendeva conto che sarebbe stato preso per matto.
Nel frattempo, molte persone erano passate, ma nessuna fu particolarmente curiosa e si fermò per più di un attimo. Alla fine, lo spazzino alzò le spalle, inveì ancora contro di loro e si allontanò riprendendo il suo usuale lavoro. Gli altri due rimasero a parlare; il passante che era inciampato non sembrava aver fretta di proseguire perché era molto sorpreso e disorientato da quanto accaduto. Discussero almeno un quarto d’ora, e il suo interlocutore formulò varie ipotesi, alle quali lui rispose sempre con un “forse, chissà, potrebbe essere anche così”. Alla fine, ammettendo l’impossibilità di spiegare quello strano fenomeno, il passante salutò e proseguì il suo cammino.
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Egli rimase solo. Si guardò attorno. Lo spazzino aveva grattato per terra e liberato infine il marciapiede dei suoi pensieri divenuti dura materia impiastricciata al suolo. Tuttavia, non aveva fatto alcun altro movimento per toglierli di mezzo, li aveva solo sbriciolati con il badile. Non vedeva assolutamente nulla; forse era rimasto qualche loro frammento o magari semplice polvere, era impossibile saperlo. Si sentiva svuotato e non proprio di buon umore. Si fermò ancora qualche minuto e si guardò attorno; tutto era sparito, poteva ormai tornare a casa poiché era veramente scosso e stanco di quella stranissima serata. Mosse i primi passi con circospezione per saggiare se il terreno fosse per caso ritornato sdrucciolevole. No, quello strano fenomeno aveva veramente cessato o almeno sospeso le sue manifestazioni; eppure non era stato un sogno, l’esperienza dei due passanti e del lavoratore di scopa e badile faceva testo.
Rientrò a casa, si preparò una robusta tisana di camomilla e altre erbe rilassanti e si sdraiò sul divano perché gli ripugnava di andare a letto. Non era proprio il caso di dormirci sopra, doveva riflettere su quell’avvenimento così incredibile; non poteva essere privo di un qualche significato. Si sforzava, si sforzava, ma non cavava il classico ragno dal buco; quanto accadutogli quella sera era proprio incomprensibile. Nel mentre così rimuginava, avvertì un nuovo strano sentimento che si andava lentamente insinuando in lui, una sorta di rimorso unito a pena per i pensieri che erano fuggiti e lo avevano rincorso quella sera per strada, assumendo caratteri e consistenza diversi. Cominciò a credere che essi volessero essere riconosciuti e magari coccolati; e lui non ne era stato capace. Per questo alla fine si erano induriti e resi invisibili; erano rimasti delusi dal suo comportamento. Aveva perfino tentato di sfuggire loro entrando nel bar. Essi avevano fatto in modo da bloccare due passanti, sperando che lui li presentasse loro come suoi, e invece se ne era vergognato e aveva fatto finta d’essere ignaro e sorpreso di quello strano fenomeno. Il rimorso s’accentuò e pronunziò due parole di scusa quasi fossero lì presenti.
Si concentrò su questo suo sopraggiunto stato d’animo e, ancora una volta, si produsse uno strappo improvviso senza che ne capisse minimamente il perché: fu certo che i pensieri, in realtà, non cercavano il suo riconoscimento e affetto. Si rese conto – ma perché così senza alcuna ragione plausibile? – che quei pensieri non li conosceva per il semplice motivo che non avevano alcun contenuto, non pensavano proprio nulla. Si erano presentati solo per metterlo in difficoltà, per antipatia e animosità nei suoi confronti. Non doveva provare nessun rimorso, anzi sentimenti di netta inimicizia e ostilità. Avrebbe voluto che ritornassero ancora a farsi vedere; scivolosità o meno, questa volta li avrebbe pestati con tutte le sue forze e si sarebbe sfogato in mille insulti. Vili, infami, pensieri; non pensavano nulla, con ogni probabilità volevano soltanto farlo uscire di senno. E lui aveva badato loro, aveva perso un’intera serata, facendosi così stupidamente turlupinare.
Si sentiva però sollevato da quella scoperta, era arrivata al momento opportuno, poteva andare a letto e la notte, in fondo, era appena iniziata, aveva molte ore davanti a sé per schiacciare un bel sonnellino. Tutta la serata aveva perso con quei fetenti e poi, d’un subito, l’enigma si era risolto e svelato nella sua banalità: era loro intenzione farlo stare male, creargli problemi e indurlo a presentarli a coloro che si erano fermati. Cosicché, invece che a casa, avrebbe potuto essere in viaggio verso qualche reparto psichiatrico. Lo avevano sottovalutato. E’ vero: si era fatto ingannare un po’ troppo a lungo, ma non aveva compiuto il passo che poteva perderlo. Costante e decisa la sua finzione di non capire cosa stesse accadendo. Per questo i perfidi erano alla fine divenuti invisibili pure a lui e avevano assunto quella consistenza indurita. Molto soddisfatto e pienamente disteso e calmo, attese il sonno che stava arrivando a grandi passi. Ormai incombeva su di lui e….. al diavolo quei maledetti!
…un racconto davvero inquietante questo di Franco Nova, anche se non è la prima volta che i suoi personaggi vedono staccarsi una parte di sè e vivere una vita propria…In questo caso sono i pensieri (persecutori?) che fuggono dal cervello, sfuggendo così alla ragione…Il paesaggio intorno si fa surreale, improbabile: la pioggia, il buio di una strana serata, il camminare senza meta di un uomo che vede concretizzarsi, ma in una forma impalpabile, i suoi pensieri sulla pavimentazione, prima scivolosi, poi da inciampo, tutt’altro che innocui per sè e per gli altri…La deviazione nella sfera del piacere non aiuta, distrae soltanto…Un vigoroso spazzino riesce a polverizzare con il badile le invisibili incrostrazioni, ma si potrebbero riformare…Ritiratosi a casa, il personaggio vede una soluzione o tregua da quegli ingombri pensieri dapprima sforzandosi di accettarli, cullandoli addirittura e proponendosi di presentandoli senza vergogna agli altri, ma poi teme per la sua salute mentale e li vede come diabolici nemici da cacciare…Non è che forse il tormentato personaggio ha saltato un passaggio, cioè lo sforzo di conoscenza, la ricerca delle cause?…Sembra un chirurgo che opera a cervello aperto, il suo stesso, ma a cui tremano le mani…