di Rita Simonitto
Molti fili, spesso trascurati o che si perdono col tempo, collegano la poesia ad un contesto (amicale, professionale, sociale, storico). Questi testi di Rita Simonitto si collocano proprio in uno di essi ben preciso: quello costruito dal convergere di vari artisti e poeti in una Mostra di Ceramica, intitolata “Fra-m-menti” ( ne avevo dato notizia qui). Il reading si è svolto venerdì 3 giugno 2016 alle ore 20.30 nella Chiesetta di S. Orsola del Castello di Conegliano. Non possiamo riascoltare la voce di Cristina Battistella, che ha recitato le poesie, né l’accompagnamento al vibrafono di Luciano Vitale ma da questo scritto abbiamo un’idea di com’è stato pensato dall’autrice il suo intervento poetico in quella situazione. [E. A.]
La struttura particolare di questo reading è stata pensata in conformità alla idea-guida dell’Esposizione stessa, un progetto che ha posto il concetto di interattività come momento centrale: non più lo spettatore ‘passivo’ che accoglie il messaggio ‘oracolare’ dell’arte presentata, ma un soggetto che ne prende parte a vario titolo, sia lasciandosi assorbire dall’esperienza e sia potendola interrogare.
Perciò l’articolazione del Reading non contemplerà la lettura recitata di generiche poesie ma queste, pur trattando di aspetti generali dell’esperienza, si accosteranno – al pari delle poesie esposte nei punti nodali del percorso -, a quei passaggi che ci portano da un pensiero frammentato ad un pensiero condiviso, così come gli artisti ceramisti hanno illustrato con il loro lavoro.
Accanto alla recitazione ci sarà inoltre, da parte dell’autrice, l’esplicitazione narrativa del senso che, volta per volta, può aver fatto da stimolo al componimento o l’ha accompagnato.
Tutto questo al fine di creare l’esperienza di un contesto allargato dove l’espressione poetica (dalla scrittura, alla recitazione, alla narrazione) diventi più fruibile e metabolizzabile nella mente di chi partecipa, potendo usufruire contemporaneamente dei vari livelli in cui si articola lo stesso momento esperienziale.
Se la creta è la materia prima, pronta alla trasformazione attraverso le mani e seguendo gli stimoli creativi dell’artista, nella formulazione della poesia abbiamo un pensiero ancora in via di prendere forma e che, attraverso la deposizione sulla carta seguendo determinate regole, cerca la sua espressione.
Ma l’operazione non termina lì. C’è bisogno di un ulteriore momento, quello della riflessione che, unito al confronto con gli altri, può dire se il rapporto idea-realizzazione ha avuto il suo degno compimento.
Il pensiero che si cerca di rappresentare in questo ciclo di otto poesie scandite in quattro tavole da due componimenti l’una, come da allegato alla brochure, riguarda il rapporto con una realtà che sfugge alla pienezza della nostra comprensione. Questa difficoltà contrassegna i nostri investimenti emotivi-affettivi con gli altri oltreché con noi stessi. Legami e separazioni rappresentano dei nodi imprescindibili nel nostro vivere quotidiano. E ciò vale fino all’ultimo capitolo, fino al Capolinea.
** Le prime due poesie (“Mantelli” e “Verità”) hanno a che vedere con il tormentato rapporto tra la realtà percepita e le sue forme legate ai desideri, ai sogni, ai bisogni.
Ma c’è anche la realtà artistica, una via aperta alla creatività per poter uscire dagli aspetti claustrofobici in cui ci costringono le illusioni e le ideologie (“Ulisse verso Itaca” del quadro di De Chirico).
Eppure abbiamo bisogno di illusioni e di ideologie. L’importante è riconoscerle e sapersi rapportare con esse.
Anche la ricerca della Verità o del Senso possono rivelarsi delle ideologie se perseguono l’unico scopo di sollevarci dalla nostra impotenza. In questo caso diventano un investimento fallimentare.
Mantelli
Hai visto? Ecco si fa alba.
Di altri mantelli si coprono le cose
che la vita notturna
presentò diverse
il bacio che ti diedi e le promesse
la speranza testarda
o Ulisse che nel quadro che nel quadro
che nel quadro rema verso Itaca .
Allora non temere, non temere.
Ancora investirà del sacro odore
di brine e di rugiade
l’equivoco del giorno.
Anche se straniero dentro un cerchio
aspiri ad altro cerchio
solo che più ampio
ma non come il cane
che confonde catena
col suo essere cane.
Verità
A volte numinosamente vieni
di orpelli spoglia così mi spingi
tremebondo viandante che tiene
il non volersi vedere alla catena
come il solo dolore che gli è rimasto.
O se squaderna il sole dorsali di colline
e avviluppa tralci a pampinose edere
tu al dito lungo come ingiurioso
pirata della strada mi fai vedere l’inganno
irriverente, come solo la verità può essere.
Se nelle precedenti poesie viene preso in considerazione il rapporto tra realtà, verità e senso, un rapporto difficile, spesse volte doloroso che ci fa sentire impotenti e soli, anche il rapporto con gli altri non è esente da conflitti.
Abbiamo bisogno degli altri, nostri compagni di viaggio, ma anch’essi investiti di desideri e di fantasmi, come vedremo nelle due poesie successive, “Angoscia diurna” e Angoscia notturna”.
** Con “Angoscia diurna” e “Angoscia notturna” entriamo nel campo della intimità e quindi nel pieno del conflitto emotivo e della sofferenza implicata nel rapporto con gli altri: i legami e le separazioni.
Uso il termine conflitto non nel senso di belligeranza ma di dolorosa scoperta che l’altro è un altro da noi; con il quale vorremmo sia essere tutt’uno e, nello stesso tempo, vorremmo avere la nostra identità. Unità e separazione rappresentano le oscillazioni che guidano il nostro desiderio. Questo è un aspetto inquietante. Ne avevamo parlato la volta scorsa rispetto al gruppo di teste poste all’ingresso: siamo fatti della stessa pasta ma diversi l’uno dall’altro.
Angoscia diurna
Restituiscimi, tu puoi, le lunghe note
o la curva che aprì improvvisa sui destini
non solo miei e tuoi ma incolorò il mondo
coi pastelli, filtrati i suoni, contrastato
il tempo che imprime e vìola i sostegni
e gli archi, le tenerezze delle sponde
ti prego qui ridammele così come
si specchiarono sul fiume, il nostro
ti ricordi, e poi ci fu una guerra
ma che non ricordo quale, forse
un mondo alla rovescia, un segnale
male interpretato, disfatte voci,
morì qualcuno, non mi dicesti niente
fammi appoggiare alla finestra, forse
non è che sono io che sto morendo
adesso?
Dimmi.
Angoscia notturna
Un pugno di terra, vuoi? disse la luna
e scavalcò la zolla, ragnatele di gelo
come di diadema lampi, poi fu il buio.
Quanto è fonda la notte se non batte il cuore
che me ne faccio, indurite le mani,
dei tuoi doni luna, un viandante saluta da lontano
solo per un attimo, solo per un attimo
ho sperato con me condividesse
le ossa rotte del silenzio dove ammutoliscono
gli scriccioli nelle tenere piume.
Solo adesso so che la morte è passata di qui
e al momento si è liquefatta nello stagno.
Le dinamiche affettive con l’altro non possono lasciare fuori campo i legami e le separazioni. La nostra storia personale e le nostre fantasie più o meno illusorie sono la pasta con la quale affrontiamo il mondo sorprendente dell’altro. L’altro che ci è anche ‘straniero’ come noi possiamo esserlo per lui.
Vediamo come ciò viene rappresentato nelle due poesie seguenti, “Resistenze” e “Senza patria”.
** In questi due frammenti poetici (“Resistenze” e “Senza Patria”) entriamo più nello specifico. Dove la stessa articolazione della parola incontra i suoi limiti, perde la sua presa comunicativa.
Le angosce legate alle separazioni sono squassanti e alterano anche il linguaggio, soprattutto quando vengono a mancare i punti di riferimento perché c’è stato un investimento totale sull’altro e le restituzioni diventano problematiche.
Ma si tratta anche di identità ferite che collassano quando vengono strappate via dalle loro origini.
Resistenze
Amore non più amato, so
che dovrei comunque ricordarti
portandoti con me né più né meno
come chi disse leggera ti sia la terra
e invece mi ingravidi ancora
per non so quali oscure parentele
come quei sintomi che segnano la vita
imbastardendo con frutti atrofizzati
l’opulento fico, ora una chioma espansa
a far ombra solo a se stessa, perché nessuno
schiude l’uscio dell’orto (ahi, la romanza!),
dove furono giurate le promesse, intristiti già noi
da quell’enigma che mai ci portò fuori
dalle pastoie ‘quanto mi amerai, per quanto’.
So che la freccia del tempo non dà ritorni
e tenni anch’io l’orgoglioso passo, genua mai piegate,
l’angelo dell’Eden che rimorchia colpe su colpe
irremovibile davanti alla porta.
La falsità della ragione anch’essa vuole sacrifici
perché il perdono non parla la sua lingua.
Senza patria
Fammi pure piangere, non ti dirò il perché.
No, non malinconia l’anima stringe nella morsa
ma sacchetti di plastica che trasbordano l’un l’altro
scarpe vecchie, vuoti barattoli di crauti e tralci
d’edere strappate a muri loro solidi sì e indifferenti.
Questo fanno i viaggiatori senza patria, confusi nel dolore,
figli di matrigne terre e di padri venduti al migliore offerente.
Ecco il perché. Ma adesso vattene.
Non mi va più di piangere.
Dalla ‘oscurità’ dell’altro a quella che è la grande oscurità, il mistero che tiene in relazione vita e morte, il passo è breve. Qui gli interrogativi si infittiscono, le inquietudini si fanno pressanti alla ricerca di soluzioni.
Lo scacco della nostra presunzione di onnipotenza è ciò con cui dobbiamo fare i conti.
Leggiamo dunque, “Preludi” e “Capolinea”.
** “Preludi” e “Capolinea” ci portano ad un altro conflitto doloroso, quello estremo, vita-morte.
Rimanere all’interno di contrapposizioni antitetiche, di un pensiero che funziona per ‘contrari’, anziché pensare in termini di relazione, presuppone soltanto alternanze e non trasformazioni.
Il movimento che si crea è solo apparente.
Ci viene più facile impostarci su modalità del tipo “o/o”, Vedevamo la volta scorsa la tendenza a parlare in termini quasi oppositivi di aperto-chiuso, alto-basso e, aggiungerei, gruppo-individuo. Ma anche materia- pensiero, corpo-mente.
Mentre pensare in termini di relazione, e quindi di funzioni anziché di polarizzazioni, è più complesso e problematico anche perché implica tempo e fatica.
Se siamo troppo presi dall’idea di sconfiggere la nostra impotenza, dimentichiamo che c’è un intreccio costante tra le cose che perdiamo e quelle che acquisiamo. Un intreccio oscillante, ma vitale. C’è, sì, un capolinea, ma da lì possono partire nuovi viaggi.
Preludi
So che ti incontrerò da qualche parte
ma il dove, o quando, o come farò
a riconoscerti mi è oscuro. Né ho capito
ancora che cosa di me ti attiri.
Così apro cassetti, cerco le ferite del cuore,
lettere vecchie dove più che le lacrime
fu la memoria a cancellar parole.
Cartoline a seppia di paesi antichi
testimone solo il campanile,
biglietti ferroviari, viaggi ora sbiaditi,
figlie senza matrici di bollettini
scaduti in ogni senso.
No, non è per questa decadenza che mi giri
intorno. Così mi tasto il polso dove l’altro cuore
scarseggia in decisioni e ritmo, dà indicazioni errate
ai passi che il mio corpo compie quando
va in cerca di farfalle lungo greti spinosi.
Ma no, so bene che non cerchi le note morte
ma è la vita che cerchi, perché per esserci tu
hai bisogno di lei.
Capolinea
Perielio impercorribile sulle ali di Icaro
non rimane che l’ora ruffiana
che sfiorella date una via l’altra
petali di margherite sfinite
interrogate m’ami non m’ami:
bucce di mai svelate verità
intristiscono il nudo capolino
impiastricciato lo stelo
da giravolte ormai inutili
rinsecchite le dita.
Ed eccoci qui al capo-linea.
Al monito professorale preferisco l’esperienza diretta di queste poesie; che sento perfettamente inserite in una manifestazione artistica sulla ceramica perché ne raccontano la rottura, di oggetti amati che cadono in frantumi. Tra il rumore dei cocci s’avverte il dispiacere, ed è tutt’uno con la preziosa chincaglieria. Poesia classicissima che porta a trovar la ragione; scritta con qualche cambio di registro nel linguaggio, ma appena percettibile (molto meno di quanto faceva notare Ennio tempo fa). D’altra parte non si può essere sempre lapidari, né con sé né verso gli altri. Inoltre va considerato che proprio quel cambio di registro, forse, a Rita Simonitto serve per creare squilibri da montagne russe. Si può discutere se sia questo il modo migliore oppure trincerarsi nel classicismo assoluto. E’ come se Rita-poeta, prediligesse l’attimo del risveglio nella realtà: principio forse maschile se confrontato con l’onirico. Sta di fatto che è dualismo, alchimia. Montagne russe. Si stabilisce qui un vero “genere” di poesia che se fossi un critico non esiterei a definire meglio, altrimenti che classicissimo. Complimenti Rita, ben ritrovata.
Rita sei bravissima!
cuore tanto, ricordi, avvenimenti..
.tutti nel grande e meraviglioso se pur faticoso viaggio della vita. la tua, la nostra.
Uno stile perfetto che insegna.
con grande emozione ti saluto e mi auguro di ritrovarti
presto su questo blog.
Del Reading del 3 giugno presso il Castello di Conegliano, chiesetta di S. Orsola, ho l’opuscolo con i testi delle otto poesie qui riportate. Le ho lette pochi giorni fa non sapendo che la struttura del reading fosse collegata all’esperienza di alcuni artisti ceramisti: “la rottura, di oggetti amati che cadono in frantumi. Tra il rumore dei cocci s’avverte il dispiacere,” scrive Mayor. E non avevo ancora letto il commento/raccordo di Ennio Abate.
Tecnica poetica adeguata – mi son subito detto- stile, forma, linguaggio sanno adattarsi, sono appropriati al contenuto. Un modo di scrivere interiorizzato dove confluiscono osservazioni acute, profonde, la capacità di dedurre motivi e riflessioni, il saper guardare le cose, la realtà percepita e le sue svariate forme.
Però ho avuto la sensazione che anche nel porre la domanda:
“non è che sono io che sto morendo
adesso?
Dimmi.”
il poeta sapesse già dare la risposta. La ricerca di dover individuare e/o dare soluzioni appare più pressante del canto stesso, la base ragionativa tende a prevalere, (cosa che taluni addebitano pure alla mia poesia, anche quando si entra nel campo dell’intimità come fa la brava Rita Simonitto in Angosce diurne e notturne.)
Ubaldo de Robertis
…poesie di grande lirismo che tracciano una sorta di percorso circolare dell’avventura umana di ritorno ad Itaca, passando attraverso quante sono le passioni più travolgenti, le speranze, le illusioni, le convinzioni, i ripiegamenti, le disperazioni…Un’avventura vissuta con se stessi e con gli altri, i compagni di viaggio, ad alternare momenti di intesa, legami profondi, e separazioni dolorose…Mi resta molto forte il monito prolungato in una ripetizione spasmodica e come sussurrato da una caverna: ” la speranza testarda/ o Ulisse che nel quadro che nel quadro/ che nel quadro rema verso Itaca…Allora non temere, non temere” (“Mantelli”), così da resistere al naufragio di ogni aspirazione…Ma al “Capolinea”, giunti al perielio forse ci mancheranno le forze, come ad Icaro…
L’intenzione didattica e l’arco tematico sono così espliciti nel testo che è forse improprio separare le poesie e cercare solo in esse echi mentali e richiami.
Bisogna invece verificare l’appropriatezza del linguaggio poetico a quell’etica relazionale che è il programma del testo “lo scacco della nostra presunzione di onnipotenza è ciò con cui dobbiamo fare i conti.”
Ecco, allora, i pochi orpelli descrittivi, spesso conclusi in abbassamento di stile, lo *stile umile* (i cambi di registro di linguaggio di cui scrive Mayoor): …”e avviluppa tralci a pampinose edere/tu al dito lungo come ingiurioso/pirata della strada mi fai vedere l’inganno” e, altro esempio, salvando un notissimo ritmo con lo scarto del senso: da “amor che a nullo amato” a “amore non più amato”.
Ecco la sobrietà emotiva del linguaggio, nel breve rivolgersi all’altro (“Hai visto?- Restituiscimi, tu puoi – Ti prego – Dimmi”), nelle ripetizioni/sottolineature, nel tagliar corto con sé quanto a concedersi immaginazioni e ristagni: “Verità. A volte numinosamente vieni/di orpelli spoglia così mi spingi/tremebondo viandante che tiene/il non volersi vedere alla catena/come il solo dolore che gli è rimasto.”
Evitando anche il coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore/lettore, messo invece crudamente davanti al nesso vita e morte “solo adesso so che la morte è passata di qui”. Un intento educativo è il filo che lega il tutto, uscire dagli “aspetti claustrofobici in cui ci costringono le illusioni e le ideologie”, ne abbiamo bisogno ma “l’importante è riconoscerle e sapersi rapportare con esse.”
Eppure, per quanto riguarda le poesie, quel progetto non basta. Una poesia è un testo autocentrato quanto a senso, e c’è, riguardo alle poesie, anche un’altra dimensione, non basta il capo-linea: cercare la promessa.
“Quanto è fonda la notte se non batte il cuore/che me ne faccio, indurite le mani,/dei tuoi doni luna”.
Se il testo intero, poesie e collegamenti, si occupa di scongiurare che ci si faccia intrappolare bloccati in una falsa vita di aspettative e immaginazione, la poesia avverte anche la concretezza dell’altra dimensione, non prepara solo all’eterno reinizio dopo il capo-linea, ma individua i segni reali del prossimo tratto, è il percorso che conta.
“Restituiscimi, tu puoi, le lunghe note
o la curva che aprì improvvisa sui destini
non solo miei e tuoi ma incolorò il mondo
coi pastelli, filtrati i suoni, contrastato
il tempo che imprime e vìola i sostegni
e gli archi, le tenerezze delle sponde”.
Per prima cosa ringrazio tutti per le sensibili e mirate osservazioni.
In effetti desideravo condividere all’interno di Poliscritture non soltanto le poesie, ma anche dei pensieri sul progetto in cui esse erano inserite: la possibilità di interagire maggiormente con lo spettatore tentando di invertire la tendenza al mordi e fuggi così tipico delle iniziative culturali.
Senza dubbio, come commenta Cristiana, * L’intenzione didattica e l’arco tematico sono così espliciti nel testo che è forse improprio separare le poesie e cercare solo in esse echi mentali e richiami*.
Ma nello stesso tempo, anche al di fuori da quel contesto, la domanda che mi si pone è sempre la stessa: quale funzione possa avere la poesia, fermo restando l’assunto, sempre di Cristiana, che *Una poesia è un testo autocentrato quanto a senso*.
Perché centrale per me è l’esperienza dell’*avventura umana* (Annamaria) che stimola e chiede una riflessione emotiva e consapevole.
Forse per questo il mio stile tende ad essere ‘dialogico’, c’è sempre un ‘tu’ (che sia esso lettore o interlocutore nel testo poetico) con il quale interagire. Mi rendo conto che a volte questo impedisce la fluidità della composizione (non a caso rende meglio se recitata) però *La base ragionativa tende a prevalere*, come commenta Ubaldo de Robertis o, per fare un’altra citazione rispetto alla poesia, ‘si tratta sempre di un sogno fatto in presenza della ragione’.
R.S.