DIALOGANDO CON IL TONTO ( 5)
di Giulio Toffoli
“Cosa fai questa sera? – mi sento chiedere dalla solita voce insinuante del Tonto – Vuoi forse uscire a fare quattro chiacchiere davanti a una birretta … Il tempo non è malvagio e potrebbe essere un modo diverso per passare un’ora fra la gente al fresco …”.
“Ma come … – controbatto – Non fai anche tu parte del popolo che risponde al richiamo e la sera la passa davanti alla televisione a vedere le gare delle Olimpiadi? Anche in questo caso manchi all’appello?”
“Sono allibito. – mi dice mentre mi guarda trasecolato tanto che quasi sembra gli cada la mascella – Tu che da sempre contesti ogni cosa, che non sei mai contento poi ti pieghi a questi richiami? Non pensavo che facessi parte dell’infinita platea del popolo incatenato alla poltrona dall’industria dello spettacolo che anno dopo anno allarga sempre più i suoi tentacoli stringendo masse sempre più ampie in una infinita ragnatela di ignoranza”.
Cerco di difendermi. Sentirmi dare dell’ignorate da lui non è fra le cose che trovo più apprezzabili e allora contrattacco: “Non è che quello che non ti piace è per necessità negativo e sintomo di ignoranza? Trovami un motivo ragionevole perché non perda il mio tempo davanti alla televisione, come dici tu, e non solo accetto la tua idea di uscire ma ti pago una pinta di birra …”
“La prima motivazione potrebbe essere semplicemente la crescente quantità dei cosiddetti eventi legati a discipline sportive che vengono messi in campo da questa società dello spettacolo. Non so se hai notato che anno dopo anno le grandi manifestazioni sportive sono diventate sempre più invasive creando una vera e propria “seconda realtà” caratterizzata da un susseguirsi senza soluzione di continuità di eventi che hanno il fine di calamitare l’attenzione del “popolo tifoso”. Prova a seguirmi nella trafila. Finiti i campionati locali delle più varie specialità o gli eventi della stagione invernale, si passa a competizioni che mettono a confronto le diverse equipe o i diversi atleti a livello continentale e poi non mancano le occasioni in cui si misurano a livello intercontinentale e mondiale. Insomma un calendario senza fine. Si potrebbe passare la vita davanti allo schermo incatenati da un infinito susseguirsi di eventi sportivi. Quest’anno poi si è giunti a una specie di parossismo con i campionati europei di calcio che, concluse le competizioni a livello nazionale, hanno occupato la scena per quasi un mese per essere subito dopo seguiti dalle Olimpiadi e poi come certo sai ci saranno le para-Olimpiadi, che di quadriennio in quadriennio sono state sempre più montate diventando una manifestazione che vorrebbe avere una sua autonoma ragion d’essere, e infine, dopo la ripresa dei campionati locali, non mancheranno le Olimpiadi invernali e chissà quante altre occasioni per calamitare l’attenzione del “popolo bue”, diventato nel tempo una massa infinita di ogni condizione e colore …”
“Non mi piace questa tua definizione del “popolo bue” ma devo pur ammettere che il mondo dello “sport” è cresciuto negli ultimi decenni a dismisura. Questo non basta per riconoscere che tu abbia ragione. Distrarsi fino a prova contraria non è peccato …”.
“Allora passiamo alla seconda motivazione. Quando nel 1896 vennero organizzate nuovamente le Olimpiadi l’idea che le sorreggeva era che gli atleti fossero, nei limiti del possibile, dei dilettanti mantenendo una qualche distinzione fra coloro che facevano parte della nascente industria del divertimento, perciò soggetti di uno spettacolo con le sue regole sottoposte alle leggi del profitto, e coloro che invece, mettendo in gioco le proprie capacità, cercavano di confrontarsi con discipline sportive che avevano la finalità di verificare le qualità e anche i limiti delle facoltà fisiche e psichiche dell’uomo. Di qui l’appello allo spirito dilettantistico che aveva caratterizzato, almeno a parole, le prime Olimpiadi dell’età moderna. Lo so, mi dirai che sotto c’era il primato occidentale e bianco e un facile idealismo visto che coloro che partecipavano era per la più parte dei privilegiati che potevano grazie alla loro condizione sociale o a munifici mecenati permettersi di prepararsi alle gare essendo liberi dalle catene del bisogno. Però ricordo come fosse oggi un’immagine che mi è rimasta impressa nella memoria. Ero seduto davanti a una televisione in bianco e nero, uno di quei grandi scatoloni che rappresentavano l’eccellenza della tecnologia del secondo dopo guerra, e vedevo un atleta di colore che correva tutto solo lungo i Fori Imperiali a Roma. Era la Maratona delle Olimpiadi del 1960 e quest’individuo di pelle nera, che nessuno conosceva e su cui nessuno aveva puntato una lira se non il suo paese inviandolo a Roma, aveva distanziato tutti gli atleti più blasonati ma soprattutto correva letteralmente senza scarpe. Non aveva sponsor, non aveva una preparazione atletica, non aveva in pratica nulla né nessuno se non la sua abitudine di correre così come faceva nella sua terra. Ecco, quell’immagine dell’arrivo solitario di Abebe Bikila ha costituito per me in qualche modo un simbolo, il segno del confine fra uno sport che conservava inopinatamente qualche cosa di avventuroso, letteralmente dilettantistico e la successiva industria dello sport come si è articolata nei fatti dalle Olimpiadi di Tokio del 1964 in poi. Mi dirai che anche questa mia visione ha a sua volta un che di idealistico e che già allora, sia pure allo stato nascente, l’industria dello sport faceva sentire la sua presenza. Posso concedertelo.
Mi aggiungerai, ma non mi fa né caldo né freddo, che anche nell’antichità si era venuto creando in età ellenistica un sistema che favoriva la partecipazione alle Olimpiadi di atleti che nei fatti erano dei professionisti e perfino che assumevano delle sostanze, delle quali non si sa per altro nulla, che si dice ne esaltassero le qualità fisiche.
Il problema è che oggi l’idea che questi atleti siano dei professionisti è cosa del tutto ovvia, come altrettanto accettata, sia pure fra un mare di dinieghi ufficiali, quella che assumano sostanze più o meno atte ad esaltare le loro potenzialità fisiche. Al massimo quello del doping è diventato argomento di una specie di conflittualità politica fra le nazioni, in un triste teatrino in cui si lanciano accuse un poco a destra e a manca. Mentre si levano voci, non mancano mai coloro che sono più realisti del re, che chiedono il superamento dell’intero sistema e l’accettazione del doping come elemento costitutivo della nuova realtà dello spettacolo cosiddetto sportivo.
Non solo, lo avrai letto di certo sui giornali, sono emerse in questi giorni rivelazioni sulle cifre che ricevono gli atleti quando vincono una medaglia. Si tratta di premi offerti dalle varie federazioni, a cui ovviamente si deve poi aggiungere ogni altra forma di sponsorizzazione, che variano grandemente da stato a stato e in alcuni casi assumono la dimensione di un vero e proprio scandalo, se mi concedi che si possa usare ancora questa parola. Certo nulla se confrontato con le cifre stratosferiche che ci vengono date come ovvie per i passaggi dei diversi calciatori da una squadra all’altra ma pur sempre qualche cosa di stratosferico se confrontato con la realtà di un mondo dove la gente continua a morire di fame”.
“Va bene – gli dico – questa è già una motivazione più pesante e potrei offrirti una mezza birra … Questo argomento è certo più convincente ma non mi basta ancora per dire che hai ragione. Infinite sono le ingiustizie e le diseguaglianze che gridano vendetta a Dio e ogni giorno pesano sulla nostra coscienza e questa non è fra le più gravi …”.
“Allora per concludere passiamo alla terza e ultima motivazione. Come ti dicevo il 1960 rappresenta forse un passaggio storico, ma anche in questo caso non metterei la mano sul fuoco. Certo è che da quella data in poi la gestione delle Olimpiadi è diventata una faccenda sempre più onerosa. Dati inoppugnabili dimostrano che almeno dal 2000 in poi i costi sono lievitati in modo impressionante. Rispetto alla stime che vengono fatte quando si procede alla assegnazione della competizione si può parlare di una esplosione dei costi che ne hanno visto gonfiarsi la cifra almeno fino al raddoppio se non alla triplicazione.
Nel caso di Atene 2004 si è passati, ad esempio, dai previsti 5,4 a 10,8 miliardi $. Un aggravio finanziario spaventoso che nel caso di Londra 2012 è cresciuto dai poco credibili 3,6 agli stimati 36,8 miliardi di $.
Ma se non bastasse ci sono almeno due ulteriori aspetti che vanno tenuti in considerazione. Spesso, anzi spessissimo le singole gare, durante i quindici giorni della manifestazione olimpica, vanno quasi deserte e il ritorno di profitti per la partecipazione di spettatori e di turisti è più che aleatorio. Poi le strutture che vengono costruite sono nella quasi totalità dei casi sovradimensionate rispetto alle normali esigenze di una singola realtà sportiva nazionale sicché le cittadelle degli atleti e poi le stesse strutture destinate alle gare diventano delle specie di necropoli, abbandonate a se stesse e destinate lentamente a decadere trasformandosi in ruderi senza vita. Simbolo dello spreco più insensato. Un vero e proprio insulto alla povertà!
La mia sarà anche una forzatura ma mi chiedo e ti chiedo: quegli 11 miliardi spesi nel 2004 da una classe politica di corrotti hanno fatto bene alla economia greca o hanno costituito una concausa di quella crisi devastante che ha segnato l’involuzione dal 2008 in poi dell’intera società greca?
Pensando ai giochi di Rio di quest’anno mi viene da chiedermi se, alla resa dei conti, non ci troveremo di fronte a un caso analogo. Se vuoi ti aggiungo che mi viene quasi il sospetto che queste immense manifestazioni possano costituire davvero un incredibile tranello politico-economico. Un tragico paradosso. Le classi dirigenti dei paesi che puntano ad ospitare queste manifestazioni e ad esaltare lo spirito nazionalistico locale si trovano poi schiacciate dal costo della loro stessa insensata ambizione. Insomma quello che non riesce a fare l’FMI, il Fondo Monetario Internazionale, con le sue ricette liberiste sembra riuscire a realizzarlo il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale”.
“Va bene – gli dico, pendendo atto che ancora una volta mi ha messo alle strette – hai vinto. Tu intanto pensa a quale è la birreria dove una pinta costa di meno … Mica voglio farmi derubare da te. Già mi hai tolto la voglia di vedere le ultime gare e il mio spirito olimpico ha ammainato la bandiera. Non farla ammainare anche sul mio portafoglio …”.
Vada per la birretta; anche se bisogna riconoscere che non mancano gesti umani e sportivi anche tra gli atleti, oggi iper allenati da robot.
Peace and love, niente più guerre: sport come memoria di antiche rivalità. Spero accada presto: quando inizierà la triste era del dopo Usain Bolt e, per rimediare, s’inventeranno i 100 metri in discesa, il salto in lungo verso il basso e l’ hockey sul petrolio… sì, lo faranno.
Io le vedo …non sempre . Se volete invito tutti compreso il tonto a bere una birra a casa mia.
non ci staranno proprio tutti tutti…la mia casa è piccola ma la birra è buona.
Per il tonto.. bhe…per il tonto c’è anche un piccolo giardino.
si accettano battimani.
Poi il giorno dopo apriremo i quotidiani….guerre, morti, imbrogli, fame ,profughi, mafia,omicidi, corruzione, religione, potere….
I sensi di colpa ci tortureranno.
Facciamo qualcosa. ditemi.
Il Tonto ringrazia davvero.
Non sarà facile per questa Olimpiade ma per la prossima di Tokyo… una birra sarà gradita.
D’altronde come negare la presenza di qualche gesto davvero di generosità… e anche il diritto di divertirsi.
Ma si anche il Tonto segue di tanto in tanto le gare… e il resto che vada come sempre
…purtroppo il sempre non è mai uguale….
come le olimpiadi , del resto-
Che dice l’invasione di manifestazioni sportive in tv, ai non-partecipanti? che il corpo (del lavoratore) giovane e allenato vale più della mente allenata alla ragionevolezza; che la fortuna di essere lungo forte agile potente largo pesante alto basso… insomma che le doti fisiche con cui si nasce -per sorte- valgano più dell’impegno allo studio (16 ore al giorno scriveva Gramsci), della riflessione, del tempo lungo, della attesa, ecc; che si diventi atleti per affiliazione a squadre, con estenuanti allenamenti, con obbedienza perinde ac cadaver agli allenatori, ai patron; che i vecchi pirati imprenditori del mercato miliardario dello sport siano i padroni delle vite di giovani che si fanno un c… così.
Insomma la struttura produttiva dello sport produce una ideologia funzionalissima all’obbedienza sociale, alla promozione per affiliazione, al consenso generalizzato, alla divisione tra pochi eccellenti nei doni fisici e gli esseri di normale prestanza.
So bene che gli atleti lavorano moltissimo su di sé e affrontano sacrifici e privazioni, ma anche questo offre un messaggio ideologico: come si può sperare di ottenere privilegi sociali (che so, un lavoro, uno stipendio?) se non ci si sottopone a imposizioni mostruose e credendo in sé… al limite della sanità mentale (spesso perduta)?
Ancora: che senso ha mettere in piedi tutto il baraccone delle olimpiadi per superare record in millimetri e in decimi di secondo? E’ quello l’ideale del corpo normale da proporre a tutti?
«Se vuoi ti aggiungo che mi viene quasi il sospetto che queste immense manifestazioni possano costituire davvero un incredibile tranello politico-economico. Un tragico paradosso. Le classi dirigenti dei paesi che puntano ad ospitare queste manifestazioni e ad esaltare lo spirito nazionalistico locale si trovano poi schiacciate dal costo della loro stessa insensata ambizione. Insomma quello che non riesce a fare l’FMI, il Fondo Monetario Internazionale, con le sue ricette liberiste sembra riuscire a realizzarlo il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale”».
Qui c’è il nucleo politico di questo dialogo con il Tonto che mi pare del tutto eluso dai commenti.
Altro che birrette in « un piccolo giardino», melensi ormai « Peace and love» e « gesti umani e sportivi» e «sensi di colpa»! Guardate subito ( non «il giorno dopo») cosa sta succedendo in Siria (e ad Aleppo soprattutto) e le vostre birre vi andranno ( spero) di traverso. «Facciamo qualcosa. Ditemi»? Sì, innanzitutto sforziamoci di essere seri.
Ok, se l’importante è essere seri allora aboliamo natale, compleanni, anniversari di matrimonio; poco zucchero, passeggiate a piedi, passiamoci vestiti usati, dentiere… con un occhio guardiamo alla Siria, l’altro a quel che combinano i governanti d’agosto.
La questione è posta in modo semi serio… e il tema è sulle olimpiadi, mi pare. Oltre tutto, da filo pentastellato, convengo con la Raggi che ha subito messo le mani avanti sull’argomento. Vogliamo parlarne? A me sembra fuor di dubbio che le Olimpiadi vadano inserite nel panorama dello spettacolo che, sì, smuove denaro – anche se lascerei da parte l’efficacia di questi nazionalismi che in parte sono mitigati del senso stesso della manifestazione – ma non è denaro su cui si giocano i destini delle popolazioni…
hai ragione Mayoor:
“la questione è posta in modo semiserio” oppure no
si sta nel presente che offre eppure si soffre
si soffre come bestie più o meno cacciate scacciate mangiate identificate (negli altri)
o come bestie incarnate
più o meno dominanti in dialettica
su altre bestie grimpanti
sulla mia tana eclettica
si sta cara Emilia domani
come oggi si viene alle mani
per sciocchezzuole e si rinuncia
a sospirare i conflitti
e si gode diritti confliggenti in supremi
traguardi di qualità
io sto qua circondata
dall’olimpiade grattuggiata
che mi divora le sere le notti e lo scambio
col prossimo in casa il marito
lo venderei
leggerezza invocate allegrezza
fate bene la mente la sera
gioia della vivace appartenenza dipendenza
alle vite in gara che compiace
C’è verità nella scrittura? Mai, tranne che nella poesia. Ma la poesia è un volo in salita – non previsto nelle Olimpiadi – teso a raggiungerla. Più spesso non ci riusciamo; non fosse così scriveremmo poesie molto più brevi. Qui, cara Cristiana, sei stata a filo sui 400 metri: il top tra le specialità nella corsa. Dico questo perché, al di là dell’esito, quel che mi preme dire è che lo sport, se portato in palcoscenico, per certi aspetti è uno spettacolo disgustoso. Di fatto, però, è anche una pratica quotidiana: quella di cimentarsi continuamente con delle sfide; convincere il figlio ad andarci piano con le canne, riuscire ad acquistare una cosa che ci serve a un buon prezzo, liberarsi della suocera… quindi fino ad oggi ho sbagliato a pensare che le Olimpiadi potessero essere un surrogato della guerra, quindi un simbolo di pace. Non è così: rappresentano la battaglia quotidiana per vivere meglio, per sentirci felici e realizzati. Ognuno con il suo podio. Visione terribile, vero? Sì, se ne facciamo ideologia. Altrimenti si tratta di avvitare bene una mensola.
Ennio,
ti assicuro che non ho niente contro la serietà . Penso anche che un certo divertimento faccia parte della serietà.
Sono certa però che tu pensi che io faccia parte di quell’abominevole mondo della superficialità, peccato, per me naturalmente.
@ Cristiana e Mayoor:
Vorrei cambiare tutto
anche l’oggi
del domani
a volte spero vendetta.
Spesso
dà fastidio anche il sole
sulle disgrazie
ma c’è.
« Ok, se l’importante è essere seri allora aboliamo natale, compleanni, anniversari di matrimonio; poco zucchero, passeggiate a piedi, passiamoci vestiti usati, dentiere… con un occhio guardiamo alla Siria, l’altro a quel che combinano i governanti d’agosto».
Mayoor, no, l’importante non è essere seri in questo modo piagnone. Preferisco la serietà sospettosa del Tonto, il quale ha ancora il sano timore che « queste immense manifestazioni [le Olimpiadi] possano costituire davvero un incredibile tranello politico-economico»; e, sì, la serietà impotente di quelli che anche d’agosto tengono d’occhio la Siria e i governanti.
Emilia, non m’importa se non hai «niente contro la serietà» e consideri che « un certo divertimento» (quale?) «faccia parte della serietà»(quale?), ma ho l’impressione che ti lasci troppo tentare dalle birrette, i giardinetti, le colpette e le poesiette.
Cristiana, anche tu con le rimette e i giochi allitterativi e ombelicali?
Amici, amiche, trovo «insostenibile [la] leggerezza [del vostro] essere» . Mi pare una pesante finzione. Specie in vecchiaia. Qui mi stoppo e vi auguro buona notte.
P.s.
https://youtu.be/cERWMGHjMzs
Provato da questo agosto.
@ Ennio
Il divertimento è soggettivo, come la noia .
….ma la mia birretta è davvero buona …perché non dirlo? E pure il giardinetto…
Le colpette le lascio a te e le poesiette ….non sono poesie lo riconosco, ma qualche volta vengono così fra amici…
Per quanto riguarda la serietà…dai Ennio, prendiamoci sul serio!
Un bacione.
Scopri di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione.
(Platone)
😛
Il Tonto si chiede quale sia il confine tra la nostra libertà e l’essere pesantemente eterodiretti. Siamo costruiti dal mercato e dalle relazioni con gli altri ma queste relazioni dovrebbero avere un fondamento più solido del nostro essere figli del capitale. O sbaglia… Lo aiutate a sbrogliare questa matassa?
Tonto vorrebbe tastare il polso alla “nostra” – di noialtri – persona. Ma Tonto dovrebbe sapere che anche la sua personalità è stata costruita, istante dopo istante, dalle relazioni: perché la personalità non è l’essere, il quale non ha altre fondamenta che l’esser-ci (eccetera). Sono due cose ben distinte.
Tonto è piuttosto polemico; vive nel dubbio, forse perché la sua personalità ha qualche problema con la fiducia. Del resto chi non ne ha? Se tornassimo a considerare il capitale come gruzzolo ( di ricchezza, di proprietà, ecc) allora basterebbe fare due conti, e la risposta sarebbe semplice: con il capitale Noialtri c’entriamo come sulle polente del dopoguerra il profumo dell’aringa.
Piuttosto chiederei a Tonto: cosa lo induce a credere che la contemporaneità, il nostro tempo, sia scandito solamente dai ritmi del capitale? Non è anche per Tonto, questa sua, una forma di alienazione? Mi può spiegare, il Tonto, che c’entriamo Noialtri con l’accanirsi tra di loro delle superpotenze, costantemente in lotta per affermare il loro predominio? Perché mai dovremmo aspettarci da queste superP. una qualche forma di spettacolo intelligente e costruttiva? forse che gli ebrei, nei campi di concentramento, s’aspettavano un fiocco di burro sul brodo di patate?
Oggi i partigiani sono vegetariani (qui e là con cellule vegane), salutisti, anti-smodatamente consumisti, ecologisti; scienziati e artisti, uomini donne e animali uniti per costruire un’altra società. Un’altra, non la stessa rimessa a nuovo come tentano di fare le sinistre di oggi; si sforzano di capire come fare diversamente perché coscienti che il dialogo-confronto, o scontro, con il capitale si è rivelato perdente, se non una perdita di tempo. Ovviamente serve capire come funzionano le cose e perché, ma bisognerebbe anche dare una pulita ai vetri del nostro domani, se vogliamo andarci.
Toffoli propone una specie di sillogismo (ipotetico? mi scuso per trattare la logica in modo così grossolano e da incompetente, ma spero che comunque la sostanza della mia argomentazione emerga)
1 “siamo costruiti dal mercato e dalle relazioni con gli altri
2 concretamente “siamo figli del capitale”
3 “queste relazioni –che non sono solo del capitale- dovrebbero (o potrebbero?) avere un fondamento più solido”
Comprendo l’invito dell’Autore di “Olimpiadi? Ma è il caso…” (anche se la forma/dialogo non identifica realmente due posizioni diverse, in uno sviluppo dell’argomentazione sostanzialmente unitario) a collegare l’esperienza di noi che leggiamo e commentiamo a una situazione contraddittoria: “il Tonto si chiede quale sia il confine tra la nostra libertà e l’essere pesantemente eterodiretti”.
Contraddizione tra: a) la libertà di godere dello spettacolo; b) il condizionamento ideologico (“siamo eterodiretti”) dell’allestimento delle Olimpiadi e delle trasmissioni in TV..
Ma chi ha commentato ha già dato la sua risposta. Alcuni entrando appunto in relazione con lo sforzo e lo spirito di competizione e di collaborazione tra gli atleti: una relazione di piacere reciproco con gli atleti e tra gli spettatori, i.e.:“siamo costruiti dalle relazioni con gli altri”.Questa è Emilia.
Altri (spero che ce ne siano), come me, rifiutando di condividere il sentimento -la relazione- tra gli atleti e gli spettatori, in una prospettiva monacale di piaceri *altri*.
Di certo, la possibilità di convivere tra chi segue e chi sprezza le Olimpiadi in Tv (nel mio *ombelico*, Ennio: tra me che le fuggo e mio marito che se le segue a volume per me troppo alto) indica che convivono i “costruiti dal mercato e dalle relazioni con gli altri”, che con tutta evidenza non sono categorie che coincidono tra loro.
E’ così: siamo figli del capitale ma per fortuna anche di qualcun altro (di due o tre milioni di anni di homo et foemina sapientes, di storia e esperienza, di natura animale e spirito, ecc, ecc. Il Capitale non ci avrà!!!)
p.s.: ora leggo Mayoor, non ho potuto tenerne conto
ma mioddio, se le gare mi interessano e mi divertono fin da quando ero bambina, ora devo rivedere tutto passato e presente? sarei eterodirettea, schiava del capitalismo. noooo non è così. è molto molto più semplice. sicuramente con il tonto potrei parlare per chiarirgli alcune idee …ma sicuramente me lo impedirà. per fortuna mia e per grazia sua.
APPUNTO 1 PER IL TONTO
Caro Tonto.
vista la piega presa dai commenti a questo post, secondo me ti sbagli a cercare qui qualcuno che ti aiuti a sbrogliare la tua matassa.
Non ce l’ho con amici e amiche che qui commentano. È che, come si dice, la pensano all’inverso da te, da me. E volentieri, naturalmente, con ironia e leggerezza, svincolano.
Mayoor ha una sua inattaccabile riserva di filosofia “poetico-metafisica” e vi attinge, sicuro, senza tentennamenti, abilissimo nello schivare e sorvolare, serafico. Quando dice: « la personalità non è l’essere, il quale non ha altre fondamenta che l’esser-ci», non ci senti un po’ di Heidegger? Io, sì e mi chiedo come posso intendermi con lui. Perché in fondo sostiene che la “personalità” è poca cosa e che, anche se viene fuori arrangiata o amputata o zoppa a causa dei condizionamenti storici, poco c’è da preoccuparsi, tanto c’è l’«essere», intatto e non scalfito, dalla batoste distribuite dalla storia che vi scorre sopra come su un sasso acqua di fiume.
Mi chiedo come posso intendermi con lui, quando propone di «considerare il capitale come gruzzolo ( di ricchezza, di proprietà, ecc.), cioè in sostanza una “cosa” (come la polenta), malgrado su Poliscritture siano apparsi scritti di La Grassa e commenti ( me ne ricordo qualcuno di Salzarulo), in cui si diceva a chiare lettere che, no, il capitale è *un rapporto sociale* e non una cosa; affermazione di Marx forse un po’ oscura a prima vista ma che è la base elementare per un qualsiasi ragionamento sensato su questo concetto, troppo spesso usato a vanvera.
Ti chiedi poi dove va a parare il suo discorso quando ti obietta: «cosa […] induce a credere che la contemporaneità, il nostro tempo, sia scandito solamente dai ritmi del capitale?» o quando lascia intendere che chi vede la società contemporanea come capitalista soffre con tutta probabilità di « una forma di alienazione»? O quando vuole che gli si spieghi « che c’entriamo Noialtri con l’accanirsi tra di loro delle superpotenze, costantemente in lotta per affermare il loro predominio»? (Insinuando, tra l’altro, che tu o io inviteremmo a studiare le strategie delle superpotenze perché ci aspetteremmo « un fiocco di burro sul brodo di patate»).
Va a parare, secondo me, in una visione retoricamente “poetica” in cui i “nuovi partigiani” sarebbero « vegetariani (qui e là con cellule vegane), salutisti, anti-smodatamente consumisti, ecologisti; scienziati e artisti, uomini donne, che, assieme agli «animali» si stanno unendo «per costruire un’altra società», infischiandosene del capitale, cui tu ti richiami ancora addirittura per spiegare una cosa così semplice e divertente come le Olimpiadi. Ma com’è, «il capitale si è rivelato perdente, se non una perdita di tempo» ed io e te ci attardiamo a parlarne incapaci di scorgere il Nuovo Mondo in arrivo! Siamo noi ad avere i paraocchi e a non capire «come funzionano le cose». Eppure basta «dare una pulita ai vetri del nostro domani, se vogliamo andarci». Su, affrettiamoci!
Un caro saluto
Samizdat
[SEGUE]
– Sì, è Heidegger. Davo per scontato che lo si capisse, altrimenti non avrei scritto qell'”eccetera”. Heidegger è per me solo una soluzione a portata di mano, quando si vuole fare cenno all’essere; in realtà ero interessato a voler definire “la personalità” che Tonto-Toffoli ha subdolamente posto in termini geografici: quanto dentro o fuori si stia dall’area capitalistica. Quindi tentavo di evitare il tranello di cedere a questo schema di vedute ( farei lo stesso se mi trovassi a discutere di Dio con un cattolico). E lo dico senza che in me venga meno la stima e simpatia che provo per Giulio.
Non esiste personalità alcuna che non sia costruita dagli eventi, anche quella analitica di ogni singolo comunista. Ed è tendenzioso scrivere, come fai tu Ennio, che questi eventi sono “storici”; sarebbe come dire che se non sopporti l’ascensore è perché un certo Elisha Otis l’ha inventato, o per qualche altra stramba ragione. Dire “storici” è porre il proprio centro di ricerca e interesse come unico degno di nota, quando invece dovrebbe essere posto in un corollario di idee e ragioni più vasto di così. La “storia” non esiste, se mai è esistita; la storia è interpretazione a posteriori di un evento, quindi se mai esiste o è esistito l’evento. Trovo necessario separarmi da questo schema mentale interpretativo, perché altrimenti dovrei dire che a scuola i ragazzi studiano altro che la storia delle bastonate. E ditemi voi che insegnamento è, che visione del mondo ne esce, ma soprattutto a quale visione del mondo i ragazzi vengono addestrati. Così non ne verremo mai fuori, così non cambierà mai nulla perché siamo condannati a pensare da vinti o da vincitori.
Peccato che tu, Ennio, non abbia apprezzato il “gruzzolo”. Nel mio piccolo sto cercando parole nuove ma ci riproverò. Per gruzzolo intendevo la visione economicistica dell’esistenza: fai due conti e vedi subito come stai messo. Che c’è di tanto complicato? Ma già, il capitale è un “rapporto sociale” opposto ad un altro che lo deve subire, non è un cumulo di profitto, una follìa del benessere.
– quel “brodo di patate” è la realtà. Non esiste alcun fiocco di burro sul piatto dei prigionieri, se non nelle loro fantasie. Perché travisi la mie parole, scrivo male o tu leggi troppo in fretta?
“I nuovi partigiani”… ripeto, finché non vi sforzerete di trovare parole nuove non sarete che poeti a metà. Apprezzate almeno i miei tentativi, non vi rendete conto di quanto sia difficile accostarsi alla “verità” con esperienza diretta se ci lasciamo parlare da altri? Ah no, se la verità è illuministica e sottoposta a dialettica non va toccata. Chi cazzo sei tu al confronto della storia ( nb. questa storia di legnate)? E poi io non ho messo virgolette su “animali” dicendo donne uomini e. Le hai messe tu distruggendo il nesso semantico, tutt’altro che ironico, contenuto in quella frase; che si oppone alla centralità, non operaia ma nemmeno umana, per come la intendo io che evidentemente, pur riconoscendo lo stato sociale delle cose, rifiuto di credere che l’uomo la faccia sempre da padrone (comunque la pensi). Si sottintende un’altra mentalità, la mia, che può sembrare ingenua o superficiale solo se confrontata usando coordinate parzialmente collettive, del tutto instabili anche se coriacee.
Il nuovo mondo è sempre esistito. Sì, avete i paraocchi.
Faccio tesoro del pensiero marxista ma offre un’esperienza limitata. Non saprei come dirlo diversamente.
Marx ha posto filosoficamente l’aut aut della rivoluzione violenta. Senza questa, se la validità del pensiero non decade è perché ha ragione d’essere. Di questo sono cosciente, altrimenti non sarei qui a parlarne.
Le Olimpiadi diventano semplici e divertenti in base all’acconciatura del discorso.
APPUNTO 2 PER IL TONTO
Caro Tonto,
quando leggo il commento di Cristiana (Fischer) mi viene in mente quel po’ che ho letto di Adorno e soprattutto un suo pensierino (aforisma) che all’incirca diceva «non c’è vera vita nella falsa». E mi viene da chiedere – spostandomi dalla tontaggine alla filosofia – ma che tipo di «libertà di godere» è quella dei milioni di spettatori che in questi giorni in Brasile o alle TV di tutto il mondo seguono lo spettacolo delle Olimpiadi? Che « relazione di piacere reciproco con gli atleti e tra gli spettatori» è quella che si vede esibita per ore e ore alla TV, mentre subito dopo la stessa TV accenna in due o tre minuti, con qualche immagine “spiacevole”, ai bombardamenti in Siria e forse nello Yemen? E qua il discorso dovrebbe procedere, che so, con commenti che portino altri fatti e ragionamenti sui fatti e domande di ogni tipo.
Col cavolo!
Se almeno Cristiana (Fischer) sostiene ancora e almeno che, sì,« siamo figli del capitale ma per fortuna anche di qualcun altro (di due o tre milioni di anni di homo et foemina sapientes, di storia e esperienza, di natura animale e spirito, ecc, ecc. » e spinge il discorso, com’è sua convinzione (rispettabile e però anch’essa criticabile e da approfondire), in una direzione che – riassumo con parole mie e rozze – mette il femminismo al posto del defunto socialismo/comunismo, quando ti rispunta – candida nella sua furbizia popolana – la
Emilia (Banfi) con il suo « ma mioddio, se le gare mi interessano e mi divertono fin da quando ero bambina, ora devo rivedere tutto passato e presente? sarei eterodiretta, schiava del capitalismo. noooo non è così. è molto molto più semplice », a te – dico nel tuo cervello di Tonto ancora non del tutto intontito e abbrutito o nella tua animella, che ancora ti resta anche se invecchiata e pesta – cosa succede?
In questo caso il problema di capire qualcosa di più delle Olimpiadi o del capitalismo è annullato in partenza. È come se trovassi una che è ancora testardamente convinta che il sole gira attorno alla terra e ignora Galileo. E che anzi, convinta di non essere «etero diretta», di essere libera, ti vede come un marziano e ha la pretesa, sì, di poterti chiarire lei « alcune idee »…
E se poi rileggi l’ultimo commento di Mayoor appena pubblicato?
Insomma, tu che ne dici? Io in una bella «tempesta del dubbio» mazziniana mi troverei ancora a mio agio, ma qui comincia a girarmi la testa e a mancarmi l’aria. Tiremm’ nanzi, va!
Ciao
Samizdat
Bene,
allora anche il cellulare (un bisogno che ci hanno creato) chi non lo possiede ? la pubblicità del Tonno Rio Mare o Mareblu chi non l’ha mai vista chi non li ha mai mangiati ? il tifo per la squadra di calcio del cuore o quella di pallacanestro o pallavolo ecc. chi non l’ha mai fatto?
Una gara canora, un concorso di poesia o di letteratura anch’essi spesso alimentano settori sui quali ci sarebbe molto da dire in fatto di corruzione, eppure tantissimi partecipano. La televisione a questo punto spegniamola o buttiamola e forse anche la radio, non compriamo giornali che raccontano ciò che a loro è possibile raccontare. Oppure scendiamo in piazza a protestare , questo sì, tanti intellettuali l’hanno fatto e ancora lo fanno a costo della vita.
Ma si sa….si tiene famiglia .
Mi sento sempre più marziano, altro che marxista. Dovrei rendermi conto del fatto che diamo per scontato che le parole abbiano un solo significato, quando invece non è così. Chissà come arriva nella testa degli altri la parola “personalità” – che per me è assente nel neonato, quindi non è naturale, ma si forma per reazione agli stimoli dell’ambiente, mentre per altri potrebbe essere intesa come individualità (tasto freccia) individualismo, che è tutt’altra cosa. Lo stesso accade a me se qualcuno mi parla di “capitalismo”, parola che io associo al “nemico di classe”, diciamo pure così, quando invece è un semplice termine descrittivo di uno stato di cose nell’ordinamento e lo sviluppo della società. In questo caso sarei io ad essere rimasto indietro, fermo alle scelte emotive che mi spinsero a credere nella necessità di una rivoluzione.
Sto saltando qualche passaggio? Ditemelo, perché avendo, si spera, ancora qualche anno da vivere, non vorrei ridurmi definitivamente all’autismo del pensiero poetico.
Con te giocherei sempre ma, quando abbasso lo sguardo
cala sul palmo l’ombra della sera. Che tutto incenerisce.
L’elmo di questa casa subito si riempie di oscuri presagi.
Si ha percezione e diffidenza verso tutti i metalli. Ci si può
anche sentir soffocare. Si diventa fiere in cattività.
Oppure scolari di bridge e mansuete ammiraglie: qualcuno
tra i tanti Crusoe capitati sull’isola; che poi fecero propria.
Ma questa sera vale d’avvertimento al gioco: c’è sempre
un bosco scuro da attraversare e ti guarda, dall’attaccapanni.
– E’ con questo animo che pure mi sento acceso. Come
pensassi di vivere in un’abbondanza.
Oggi particolarmente: camminando nel vicolo si aprì
uno scenario mozzafiato; non c’era nuvola che non fosse
più che perfetta. Le case mi venivano incontro di buon umore.
Questo volevo dirti quando mi sono voltato
a guardarti sorridendo.
… ma certo! avrei dovuto scrivere l’ombra della Siria, non della sera.
😉
Mayoor, è bellissima.
La discussione ha preso toni gravi ma non troppo seri.
Non è serio “spingere il discorso” fino a riassumermi così “Cristiana… spinge il discorso, com’è sua convinzione (rispettabile e però anch’essa criticabile e da approfondire), in una direzione che – riassumo con parole mie e rozze – mette il femminismo al posto del defunto socialismo/comunismo”. Dove io non ho nominato il femminismo, non vi ho alluso, non lo ho surrettiziamente introdotto sotto altre spoglie. Ma probabilmente il femminismo è uno stigma che mi segna per sempre, nascosto ma operativo a prescindere, quindi viene sempre buono, (invece non è buona la scusa delle “parole mie e rozze”, excusatio non petita accusatio manifesta).
Non è serio neppure che Toffoli faccia una richiesta “lo aiutate a sbrogliare questa matassa?”, riceva delle risposte, e poi… latiti.
Non è serio descrivere una persona come “candida nella sua furbizia popolana”, non farebbe piacere a nessuno sentirselo dire, no? E’ una valutazione critica dei suoi argomenti o una valutazione sprezzante, del tipo “ha una mentalità piccolo-borghese” di una volta?
(Non è serio neppure non riprendere il mio commento del 19/8 alle 10.03, molto “marxista” nella critica all’ideologia olimpiesca, sottolineando invece rimette e ombelichi di un altro intervento.)
Ma veniamo al cuore dell’argomentazione: Toffoli parla di *confine* tra la nostra libertà e l’essere eterodiretti; distingue poi tra l’essere costruiti dal mercato e costruiti dalle relazioni; ipotizza poi che le relazioni possano avere un fondamento più solido dell’essere figli del capitale.
Toffoli sa che si legge volentieri l’epopea di Gilgamesh o Platone, sa che vengono capiti e apprezzati, anche se allora non c’era il capitalismo -e quindi non avremmo in comune la stessa falsa coscienza-, e sa anche che il capitalismo di oggi non ci rende sordi e ciechi a manifestazioni del pensiero umano, pure condizionate storicamente e socialmente, ma in forme diverse.
Insomma, come avevo già sottolineato (il 20/8 alle 18,48) i costruiti dal mercato e i costruiti dalle relazioni per Toffoli non coincidono interamente.
Quindi prendevo atto del diffusissimo piacere di condividere le gare sportive, per ragioni di immedesimazione, di adrenalina, di partecipazione, che io non condivido affatto, per cui per me sta visibilmente in primo piano l’ideologia olimpiesca più che il piacere di condivisione. Ci sono però tutte e due le cose, basta guardare il prossimo.
Sarà allora questo prossimo tutto avvelenato «non c’è vera vita nella falsa» tanto che il suo *piacere*, una cosa che sta vicinissima al corpo, alla biologia, al sistema nervoso e al sistema endocrino, sarà allora quel piacere da valutare solo fuga dagli altri problemi, evasione da riflessioni politiche, sarà solo un piacere “intontito e abbrutito”?
Ma questo è Savonarola, non Marx.
La trattazione di Ennio risponde al problema di Toffoli (se le relazioni dovrebbero avere un fondamento più solido del nostro essere figli del capitale) così: “il problema di capire qualcosa di più delle Olimpiadi o del capitalismo è annullato in partenza. È come se trovassi una che è ancora testardamente convinta che il sole gira attorno alla terra e ignora Galileo”, cioè le relazioni *dovrebbero* avere il fondamento ecc, ma la pretesa di non essere eterodiretta (Emilia) la spiaccica in realtà tutta sul capitale. Lei e tutti quelli come lei. (Fra l’altro oggi è molto più complicato dire quale corpo gira intorno a quale altro.)
Come ragionamento è una petizione di principio: per non essere solo figli del capitale bisogna librarsi in una condizione di u-topia e di u-cronia, bisogna sollevarsi per i capelli come il Barone di Munchausen, bisogna stazionare in una situazione che non esiste: non nel Capitalismo, attraverso la Critica, ma neanche nel mondo nuovo se non l’abbiamo fatto nascere.
Allora siamo *tutti* finti, non solo i figli del capitale che almeno da qualche parte -non umana!-stanno, ma anche quelli critici che non stanno da nessuna parte, eppure sono vivi, come tutti.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa/ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Ho l’impressione che il problema sia mal posto (non a caso la ‘dia-triba’, anziché il ‘dia-logo’, vanno avanti senza soluzione di continuità) per due ordini di motivi.
1) Una impostazione (anche se non manifestamente dichiarata) che adombra posizioni del tipo o/o. – – Se si mostra interesse alle Olimpiadi si rischia, come contrappasso, di lasciar cadere qualche cosa di importante: * Guardate subito ( non «il giorno dopo») cosa sta succedendo in Siria (e ad Aleppo soprattutto)* (Ennio, 19.08 h. 11.04).
– Olimpiadi come ‘giochi-tranello’ per distogliere l’interesse da altri giochi tra potenti. Così come subodora il Tonto, il quale * ha ancora il sano timore che « queste immense manifestazioni [le Olimpiadi] possano costituire davvero un incredibile tranello politico-economico»; e, sì, la serietà impotente di quelli che anche d’agosto tengono d’occhio la Siria e i governanti.* (Ennio 19.08 h. 23.15)
– L’ipotesi che *Insomma quello che non riesce a fare l’FMI, il Fondo Monetario Internazionale, con le sue ricette liberiste sembra riuscire a realizzarlo il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale”» Qui c’è il nucleo politico di questo dialogo con il Tonto* (Ennio 16.08 h. 11.04)
Ma di questa ipotesi che certezze abbiamo per supportarla oppure no? O, addirittura, da immaginarla come nucleo politico di discussione. Ne possiamo discutere come ‘tecnici preparati’ oppure ci limitiamo a costruire scenari in cui dobbiamo accettare che ognuno ci metta del suo?
Siamo proprio sicuri che i potenti abbiano bisogno dei giochi olimpici per portare avanti i loro progetti? Di esempi di distrazioni di massa ne abbiamo avuti a iosa!
E di nuovo ripiombiamo nel famigerato o/o: le cose stanno così oppure no?
Ennio 21.08 h. 9.32, scrive: *ma che tipo di «libertà di godere» è quella dei milioni di spettatori che in questi giorni in Brasile o alle TV di tutto il mondo seguono lo spettacolo delle Olimpiadi? Che « relazione di piacere reciproco con gli atleti e tra gli spettatori» è quella che si vede esibita per ore e ore alla TV, mentre subito dopo la stessa TV accenna in due o tre minuti, con qualche immagine “spiacevole”, ai bombardamenti in Siria e forse nello Yemen?*
Il fatto è che la mente non è a comparti stagni (o/o): questa struttura gliela diamo noi nel nostro processo di sviluppo mentale nell’intento di fare ordine nel caos delle informazioni che ci bombardano letteralmente da ogni parte. Ma, il più delle volte, quell’ordine, diventa una cassetta di sicurezza chiusa in un caveau e pertanto poco utilizzabile.
Se mi piace lo sport, e ciò vale per qualsiasi altra forma di godimento, ciò non esclude che non possa anche rattristarmi e sentirmi spinto a cercare di comprendere (o, almeno, riflettere sugli) accadimenti in M.O., rifuggendo però, da sentimentalismi vari, così come (ritornando allo sport) si rifugge da quelle ‘identificazioni’ con l’eroe vittorioso che ha superato enormi difficoltà esponendosi a pesanti sacrifici ma che, come scrive Cristiana (19.08 h. 10.33) * So bene che gli atleti lavorano moltissimo su di sé e affrontano sacrifici e privazioni, ma anche questo offre un messaggio ideologico: come si può sperare di ottenere privilegi sociali (che so, un lavoro, uno stipendio?) se non ci si sottopone a imposizioni mostruose e credendo in sé… al limite della sanità mentale (spesso perduta)?*
Quindi, come dire che è solo la ‘forma capitale’ a condizionare il nostro essere, siamo figli di questo sistema, o non anche che siamo molto suscettibili alle fiabe, al nostro bisogno di fiabe, di eroi che vincono prove ‘disumane’, come vedevamo in un post precedente?.
E qui veniamo al secondo punto.
2) La posizione problematica viene introdotta con la domanda di G. Toffoli (20.08 h. 12.52) e cioè: *Il Tonto si chiede quale sia il confine tra la nostra libertà e l’essere pesantemente eterodiretti. Siamo costruiti dal mercato e dalle relazioni con gli altri ma queste relazioni dovrebbero avere un fondamento più solido del nostro essere figli del capitale*.
A questa problematicità si possono affiancare quella di Mayoor e quella di Ennio con le loro contraddizioni.
Mayoor 21.08 h. 01.46: *Faccio tesoro del pensiero marxista ma offre un’esperienza limitata. Non saprei come dirlo diversamente.
Marx ha posto filosoficamente l’aut aut della rivoluzione violenta*
Ennio 21.08 h. 9.32: * In questo caso il problema di capire qualcosa di più delle Olimpiadi o del capitalismo è annullato in partenza. È come se trovassi una che è ancora testardamente convinta che il sole gira attorno alla terra e ignora Galileo. E che anzi, convinta di non essere «etero diretta», di essere libera, ti vede come un marziano e ha la pretesa, sì, di poterti chiarire lei « alcune idee »*
Innanzitutto, la libertà è l’esito di un elaborato ‘interno’, in quanto da dentro si origina il nostro metterci in relazione con un ‘fuori’ contrassegnato da mutevoli rapporti sociali. Ci possono costringere a fare qualche cosa ma non possono costringere la nostra mente ad essere d’accordo: è il concetto del ‘Sisifo felice’. Non si tratta pertanto di una ‘pacifica’ coesistenza con la nostra interiorità, ma di una sottesa conflittualità in quanto non sempre ciò che ci appare è quello che è. Oltretutto i rapporti sociali mutano, sono mutati, anche se la tendenza a trovare nel cambiamento il denominatore comune (ovvero quell’antitetico polare di sfruttatori e sfruttati) rischia di essere più un inceppo che un aiuto. E’ come se dicessi “tutti gli uomini sono mortali”. Embè?
Giustamente Mayor sottolinea che il pensiero di Marx si fondava sulle esperienze del suo tempo.
Il fatto è che da scienziato (e non da filosofo) faceva delle sue proiezioni. Rivelatesi errate.
Ma poi Mayoor prendendo per buono il lato filosofico, *l’aut aut della rivoluzione violenta*, lo butta lì, come un assioma e, quindi, in quanto tale, rigettabile.
Meglio, allora, * Peace and love, niente più guerre:*. Il fatto è che non siamo più ai tempi di Marx né di Lenin e dobbiamo assumerci noi l’onere di osservare ciò che ci circonda, senza paraocchi ideologici, possibilmente. Ma sull’osservazione e ciò che essa rappresenta, si apre una voragine di problemi. E attiene alla domanda di Ennio *capire di più delle Olimpiadi o del capitalismo?*.
Il punto che presenta Ennio, quindi, è di altra natura, ed è più complesso, vale a dire il rapporto tra le nostre percezioni e la realtà ‘scientificamente mostrata’.
Emilia non ignora Galileo ma, come ognuno di noi, percepisce che il Sole nasce ad oriente e tramonta ad occidente. Dà credito ai suoi sensi i quali, pur rappresentando un buon test sul nostro esser-ci (non heideggeriano!) non sono del tutto affidabili. Però è quello di cui disponiamo ed è ciò che viene messo in gioco nelle relazioni. Quante cose ci vengono ‘mostrate’ o ‘ascoltiamo’ su Aleppo: dobbiamo credere ai nostri sensi oppure dobbiamo dubitare? E il dubbio, quando è ‘sano’ e non paralizzante è pur tuttavia una brutta bestia.
Invece, ciò che ‘vediamo’ e ‘ascoltiamo’ nella rappresentazione delle Olimpiadi è vero, perché è vero anche il nostro desiderio che sia così. Non vogliamo dubbi!
Allora che facciamo?
Prendiamo quello che possiamo ritenere che sia utile a formulare un pensiero non semplificato, o/o. Così come, del pensiero di Tolomeo, non è che buttiamo via tutto (era pur riuscito a calcolare con i mezzi del tempo, la lunghezza dell’anno e le eclissi di Sole e di Luna!).
E’ la ‘convinzione’ strenua delle nostre idee – che trasformiamo in ideologia – ad essere il nostro più grande nemico, perché le inaridisce, toglie la linfa vitale del confronto.
La libertà nessuno te la può dare, essa va conquistata, come scriveva Dante nel primo canto del Purgatorio: “Libertà va cercando, ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”.
E dove per “vita rifiuta” si può intendere anche, oggi, chi rifiuta certe convenzioni sociali ma non perché sono ‘capitalistiche’ ma perché sono sterili, non portano a nulla.
R.S.
“E’ la ‘convinzione’ strenua delle nostre idee – che trasformiamo in ideologia – ad essere il nostro più grande nemico, perché le inaridisce, toglie la linfa vitale del confronto.
La libertà nessuno te la può dare, essa va conquistata, come scriveva Dante nel primo canto del Purgatorio: “Libertà va cercando, ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”.
E dove per “vita rifiuta” si può intendere anche, oggi, chi rifiuta certe convenzioni sociali ma non perché sono ‘capitalistiche’ ma perché sono sterili, non portano a nulla”
Parole sante (perché appropriate): l’equivoco è nel linguaggio reso scontato perché “ideologico”. In questo caso le parole “inaridisce” e “sterili” vanno più a segno di “capitalismo”; la qual parola, perché carica di stragi e sofferenze, vanifica ogni altra considerazione.
@ Ennio (Abate)
ti auguro una buona giornata.
Il sole ora illumina anche la Basilica di Santa Croce a Firenze dove è sepolto Galilei.
La mia animella anche se“invecchiata e pesta” (quant’è vero!) è pronta a cercare di capire e a scontrarsi; la tua che sa già tutto insegna.
*Nota di E. A.
Su sua richiesta ho pubblicato io come amministratore questo commento che Emilia non riusciva a inserire.
APPUNTO 3 PER IL TONTO
Caro Tonto,
qui i segni della Tempesta che cala anche su Poliscritture s’intensificano! Ma tu – per non parlare degli altri redattori – dove sei? Perché latiti? Comunque, nel frattempo, al buio, ogni tanto mi vengono delle piccole illuminazioni. Ad esempio, oggi, mi sono ricordato di avere in una delle cartelle del PC alcuni scritti di Michele Ranchetti e mi sono detto: non è che tra i morti trovo qualcuno che mi aiuti a sbrogliare la matassa del Tonto meglio dei vivi che sono costretto a frequentare? E – toh! –, tanto per tirare il fiato, ti copio qui sotto questo. Leggilo tra una gara e l’altra delle Olimpiadi, che sicuramente stai guardando. Mi pare che faccia capire quanto alcuni dei nuvoloni incombenti adesso sulle nostre teste di legno ancora paramarxiste/parafortiniane vengano da lontano. Poi, di riserva ho il solito Fortini d’annata e magari il Finelli, che ho già fatto assaggiare alla esigente Fischer. Ma più avanti.
Ciao
Samizdat
Il manifesto-13 APRILE 2000
• Nuovi mistici all’assalto del sublime
di MICHELE RANCHETTI
Si va diffondendo in Italia, forse anche altrove, probabilmente in Francia, ma con diverso carattere, una irresistibile fortuna del misticismo. La si avverte soprattutto nelle conferenze, sempre più frequenti, su casi isolati di spiritualità, femminile in particolare, nel diffondersi delle collane di testi di autori minori, di qualunque secolo e di qualunque nazionalità e lingua, purché “spirituali”, da parte di editori improvvisati per l’occasione e ora anche da parte di editori per l’addietro estranei, se non ostili, alle testimonianze dello spirito. Filosofi e letterati fanno a gara per riconoscersi nelle effusioni delle anime sofferenti, studiosi di filosofia del diritto, già interessati ai dibattiti su Carl Schmitt nell’ambito della teologia politica, si dedicano ora a esaminare la “colpa” e gli “aneliti” dovunque essi figurino. Recentemente, io stesso ho ricevuto circolari editoriali in cui mi si avverte che finalmente anche un editore come la Mondadori ha avviato una serie di pubblicazioni di questo tipo, dopo aver edito le Sacre Scritture in veste economica, con le prefazioni di Gad Lerner e di Susanna Tamaro – rispettivamente dediti all’antico e al nuovo testamento.
In fila per due verso la spiritualità. Forse l’irresistibile esempio del vecchio pontefice che chiede perdono ha ispirato i nuovi letterati e filosofi a porsi in fila per due per accedere alle ragioni di questo perdono universale, esplorando le fonti di una sensibilità religiosa e morale di cui sino a oggi non avevano ritenuto di doversi occupare, non sentendo alcun bisogno di spiritualità. Il diffondersi di questa nuova ondata religiosa ha qualcosa di irritante e di insopportabile, tanto più che essa produce, parallelamente, una vaga forma di ricatto, un sopracciglio di superiorità, in coloro che ne sono esponenti verso coloro che non vi partecipano, come se quest’ultimi si trovassero in una sorte minore. Qualcosa di simile si era già prodotto per i primi sessant’anni del secolo, sino al Concilio Vaticano II. Allora erano i cattolici a praticare questa supponenza, forti del loro diritto di verità e del potere che da essa derivava, e forti anche del riferimento a una istituzione millenaria, a un magistero, a un preciso e solido corpus dottrinale. Ma ora, questi nuovi seguaci dello spirito non dispongono di alcuna dottrina precisa, che anzi aborrono, né di un qualsiasi referente istituzionale. Anzi, un’eventuale interrogazione al riguardo, li vedrebbe insorgere inorriditi da tanta volgarità. Essi vivono altrove, si cibano di lacrime.
Nei circoli culturali, spesso nelle vecchie sedi del partito comunista, talvolta all’insegna ancora di Gramsci, i nuovi mistici si radunano ad ascoltare conferenze e a partecipare a dibattiti su Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein, sui mistici tedeschi, sulle eretiche sante, sulla differenza fra animo e anima, sugli archetipi junghiani, sulla colpa e la coscienza infelice, sul corpo interiore, sulla poesia. Ne escono rinvigoriti, nella persuasione che la loro sofferenza “appartiene” a un genere diffuso, ossia che i loro vaghi aneliti sono nel “giusto” della storia.
Editori di antica tradizione laica, come Einaudi, pubblicano volumetti di testi scritturistici, preceduti da introduzioni di scrittori d’oggi che ne dovrebbero favorire la lettura, come se l’avallo di Sebastiano Vassalli o di David Grossmann rendesse più gradevole e significativo il testo dell’Esodo o la Lettera ai Romani di S. Paolo, in una ambigua ipotesi di “aggiornamento” che, dato anche il carattere “agile” dei libretti e la veste grafica, li fa assomigliare piuttosto a guide turistiche nella Scrittura, una sorta di turismo religioso o di crociera nel Sacro, a prezzi modici. Lo stesso editore, poi, ha recentemente pubblicato un volume di Poesie di Dio a cura del priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, che scrive di religione e di mistica sulla Stampa di Torino. E’ sperabile che Dio se ne sia compiaciuto.
Insomma, “il religioso” va.
Dove vada, questo “religioso”, e quale mai strategia regga e indirizzi questa apparente rinascita di spiritualità non è facile capire. E’ però necessario chiederselo, in un momento politico in cui la propaganda elettorale di un Berlusconi si definisce ispirata ai valori cristiani e alla loro difesa contro la bestia comunista, ancora non doma. La tentazione di istituire un parallelo, se non un’alleanza, fra i due fenomeni è difficile da vincere. Infatti, le forme che viene assumendo questa ondata mistica sono per solito connesse e compatibili con il rifiuto delle strutture politiche e religiose tradizionali, i partiti e le chiese, e mostrano più di una simpatia per le forme vaghe e pericolose del “superamento” del visibile e del concreto.
Spesso, inoltre, molto spesso, le più accese rivendicazioni del mistico si accompagnano con il favore elargito alle manifestazioni della destra più nera, istituendo quasi un rapporto preferenziale con esse, nei confronti delle incertezze della difficile democrazia, quasi ci fosse più verità religiosa nella aberranza squadristica che nelle assisi parlamentari, maggiore sacralità nella pena di morte che nelle remore della amministrazione di una “immaginaria” giustizia penale, incapace davvero di punire.
Inoltre, questa rinascita trova il suo terreno di coltura nella parallela diffusione a tutti i livelli, editoriali e universitari, di una filosofia “specialistica”, che ha il suo fulcro nel rifiuto del pensiero forte e nella conseguente simpatia per quei filosofi e pensatori che si rivolgono all’esame dei particolari o alla ricerca dei diversi possibili significati di un termine – “anima” ad esempio – nelle diverse culture, tracciando itinerari immaginari, senza tempo, piccole cosmologie di un universo mentale, nell’ipotesi, non detta, che è finito il tempo del conoscere, e che ora si tratta di “delibare” il sapere.
Brevi ricettari del sapere
Esteti, per lo più, questi nuovi filosofi hanno nel nulla il loro grande tema che mai li tradisce e mai li tradirà, poiché le sue potenzialità sono davvero infinite. La conseguenza, sul piano operativo, è la produzione di manuali e manualetti di “introduzione a”, “esposizione del”, memori, forse inconsapevoli, di un sciagurata serie di alcuni decenni fa, intitolata “Cosa ha veramente detto”, o “Ciò che è vivo e ciò che è morto”: dove ciò che è morto è il testo del pensatore, al quale, grazie a queste facilitazioni di lettura non si accede mai. Pena la fatica e la morte. O il pensiero di chi legge, presupposto inesistente e comunque non necessario. E’ un perenne rinvio a una fonte e l’istituzione di un facile cammino che ha il compito precipuo di non far giungere al traguardo.
Questi libretti sono dei piccoli “fai da te”, brevi ricettari del sapere, istruzioni per l’uso di Kant o di Hegel, o, più ambiziosamente, di tutta la filosofia analitica o la scuola di Francoforte, in appena duecento leggibili paginette. Il lettore ne esce illeso, liberato, grazie all’istruttore, dalla necessità di confrontarsi direttamente con un pensiero difficile che – leggendo è venuto persuadendosene – non lo riguarda affatto. Sono cose loro, i problemi di Adorno, Horkheimer, Kracauer e tutti gli altri. Il solo Benjamin, forse, ha ancora qualcosa da dire, malgrado il ricettario, e proprio per le ragioni sbagliate, per la raffinatezza del suo itinerario mentale senza scopo apparente, per i suoi particolari che si moltiplicano all’infinito, per la citazione che diventa testo, per il suo girovagare fra letteratura e messianismo.
Purtroppo, Benjamin “si presta” a un uso distorto da parte del pensiero friabile e ha provocato innumerevoli flâneurs nostrani che, incuranti del segno tragico della sua esistenza, percorrono nel suo nome itinerari accademici forse redditizi. Infatti, vi è una pericolosa coincidenza fra nuovi mistici, autori di manualetti e incarichi universitari: soprattutto ora che la riforma della scuola, promossa da Berlinguer, sembra assicurare orizzonti di gloria a questa cultura del mediocre sublime.
Effimere ideologie di mercato
Ma perché tutto questo? A quale mai necessità storica corrisponde? Vi è forse una strategia occulta, un grande vecchio dello sputtanamento universale? E’ forse l’Europa a esigere che i membri delle diverse nazioni rinuncino alla loro cultura nazionale asserendo alle dogane ideologiche di non aver nulla da dichiarare per uniformarsi nel bric-à-brac di un esperanto innocuo, così come gli emigranti in America dovettero sacrificare le differenze conflittuali delle confessioni di fede per partecipare a una democrazia intellettuale e politica nel Nuovo Mondo, o i seguaci ebrei di Freud dovettero rinunciare al loro inconscio tedesco per accedere alle tecniche terapeutiche americane? Oppure non è affatto necessario rinunciare a alcunché, perché è invalsa la persuasione generale, non detta, che i grandi sistemi filosofici, così come le grandi religioni storiche, almeno in Occidente, sono confluiti e si sono compiuti, distruggendosi, nelle catastrofi della seconda guerra mondiale, loro necessaria conseguenza? E si deve forse a questa persuasione non dichiarata se i vari direttori editoriali, capaci e incapaci, i vari professori universitari, onesti o corrotti, non fanno nulla per arginare la diffusione di prodotti di consumo a breve termine? Ed è forse questa ragione di mercato, come già il sonno dell’altra ragione produceva mostri, a produrre mistici?
Il Torquemada di turno.
Articolo molto datato, che si limita a giudizi e dà di gomito a chi la pensa allo stesso modo. Già uno che esordisce scrivendo “In fila per due verso la spiritualità” dimostra di non capire nulla di spiritualità; perché non gli interessa, ma allora perché ne parla? Anche armandomi di pazienza non capisco la sua tesi ( se c’è).
ma no, Mayoor: in astratto hai ragione, in concreto siamo – credo, forse, temo – nell’elitismo “sinistro” del tempo
se leggi le sue poesie vai a fondo della sua spiritualità
chissà perché doveva ritenere invece che agli altri questa mancasse
“Il Torquemada di turno” per Ranchetti è un’offesa gratuita.
Mi limito a questo per ora.
In questo articolo Ranchetti si limita a una critica priva di una propria tesi. Questo è altrettanto gratuito.
Uno schizzo di irritazione?, intanto scriveva:
“Per ogni dove e per ogni quando
itinera salutis, signa abscondita,
verbum in itinere, verbum nominis,
ascendite ad unius domini nomen.”
(M. Ranchetti, Poesie ultime e prime, Quodlibet, 2008.)
Possibile pensasse che valeva solo per sé?
Ho ricevuto del Tonto le seguenti righe che vi giro.
Buona lettura.
Carissimi tutti
Ieri, messo al tappeto dalla visione di alcuni minuti dei tempi supplementari della finale di calcio fra Brasile e Germania (ma ha senso alle olimpiadi una disciplina che di sportivo non ha più nulla come il calcio?) ho riletto, almeno in parte vista la ricchezza di proposte che sono giunte, ciò che avete scritto.
Cerco di rispondere ben sapendo di non poter essere esaustivo … sia per la vastità delle tematiche che sono state messe in campo sia per la mia naturale povertà dei mezzi. Vi aggiungo che all’inizio il nomignolo che ora usiamo, io e il mio amico T., per presentare le nostre impressioni sull’ideologico quotidiano che ci schiaccia, mi dava abbastanza fastidio. Poi ho letto uno breve e folgoranti aforisma del saggio Mo Ti che mi ha spinto a accettare il ruolo che mi è stato assegnato da fato. La frase diceva più o meno: “Mi metto dalla parte del Ton(r)to, in mancanza di altro posto in cui stare”.
Ed è proprio la verità. Di fronte a una realtà che spesso mi appare davvero sempre più enigmatica essere il Tonto è semplicemente la posizione che mi risulta più famigliare. In questo senso ha torto l’amica che mi ha scritto: “potrei parlare per chiarirgli alcune idee … ma sicuramente me lo impedirà … per fortuna mia e per grazia sua”. No, non solo non impedisco a nessuno che mi vengano chiarite le idee, correggendomi e controbattendo, ma visto che le idee le ho oggettivamente confuse e non me ne faccio un vanto ma neppure mi adombro è proprio quello che vi chiedo.
Ed ora cerco di rileggere alcune cose che mi avete scritto.
Carissimi io credo davvero che l’importante sia essere seri ma di una nuova serietà che sappia liberarsi dalla scurrilità quotidiana, da quella miseria che ci rende pigri e ci riduce a servi della società di cui dovremmo essere nella sostanza i soggetti. Insomma negli ultimi decenni il passaggio da sovrani a sudditi si è sempre più accentuato, non solo nelle grandi cose ma anche nei più piccoli gesti. In questo senso, ancor più in un realtà come la nostra che non ha mai conosciuto alcuna rivoluzione culturale ed è sempre passibile di controriforme, l’ironia è un’arma che credo vada coltivata con amore. Forse avrò torto ma vedo in tutta una serie di manifestazioni della quotidianità giornalistica/pubblicistica ma più in generale nella cultura del politically correct dei segnali di una pericolosa involuzione. Dalle “rotondette” del tiro con l’arco alla falsa questione del “burkini” (sul quale vedere su La poesia e lo spirito, l’intervento di Monica Mazzitelli, La libertà è un’altra cosa del 19 agosto) fino alla legge veniente sul negazionismo storico è un susseguirsi di pericolosi segnali, si respira un’aria di ipocrita seriosità che fa spavento.
In questo senso l’affermazione di Mayoor “se l’importante è essere seri allora aboliamo natale, compleanni, anniversari …” merita di essere presa in considerazione. Non solo per l’aver messo assieme eventi di diverso valore, uno “religioso” e altri individuali, ma per aver posto il problema della condizione dell’individuo all’interno di una griglia di eventi e di valori che vengono in parte definiti dal suo essere bipede-nudo e in parte dal suo essere socialmente connotato.
In questo senso la domanda che mi frullava per la testa quando parlavamo delle olimpiadi era se fosse possibile tentare di delineare le caratteristiche dell’uomo inedito che si troverà sempre più ad affrontare le incognite “dell’età planetaria” in una situazione condizionata come quella segnata dalla società dello spettacolo sportivo massificante quale lo abbiamo vissuto in questo periodo. O se ci si debba rassegnare a sottostare alla servitù del mercato.
Questo perché credo abbia proprio ragione Mayor quando afferma che lo “sport è spesso uno spettacolo disgustoso”, la serata di ieri lo ha in buona parte dimostrato, ma non mi trova d’accordo quando aggiunge che in fondo altro non è se non una espressione della “battaglia quotidiana della vita”. Mi sembra di veder emergere qui un elemento di darwinismo sociale-positivista, che forse risponde alla realtà di fatto, ma che è distante anni luce dall’idea di una pur minima libertà umana e corrisponde a una concezione della vita fondata sul vincolo servile del principio di prestazione. Che ci sia è una realtà, che sia accettabile è altro paio di maniche.
E’ più o meno quando la discussione era a questo punto che sono intervenuto per la seconda volta, cosa che mi capita raramente, ponendo un problema che, mi sono reso conto quasi subito, correva il rischio di far allargare oltremisura il nostro dibattito e spostarlo su altri orizzonti. Ma non ho voluto tornare sui miei passi. In effetti Mayoor ha ben inteso che dietro il mio quesito sulla libertà dell’individuo e l’eterodirezione della sua esistenza si poneva qualche cosa che travalicava davvero il ridotto ambito del problema della gestione del proprio tempo libero.
Ma sia chiaro nulla vi era di polemico quanto piuttosto un vero e profondo dubbio di fronte alle capacità operative di ciascuno di noi e sul rapporto che possiamo avere con quella realtà che abbiamo contribuito ad edificare, una megamacchina sociale che sempre più ci sottomette ai suoi input rendendoci nei fatti oggetti dei suoi disegni.
Quello che si è costituito è davvero un universo caratterizzato da una crescente marginalità dell’individuo che come si perde nell’immenso catino dello stadio di calcio di Rio più in generale si perde nello schermo della televisione mondiale in un processo di generale alienazione della sua capacità di elaborare un libero giudizio. Le strutture categoriali con le quali ragioniamo, l’agenda del nostro vivere quotidiano, sociale e politico vengono scandite, lo credo fermamente, dal capitale e dal mercato. Noi ci troviamo ad essere, senza quasi averne coscienza, più o meno delle pedine del suo gioco.
Eppure tutto farebbe credere che vi siano altri scenari possibili. Le nostre conoscenze scientifiche sono cresciute a dismisura, la nostra capacità di comprendere la stessa logica cinica dei poteri dovrebbe essersi immensamente rafforzata, la nostra capacità di liberarci dall’atavico timore della penuria dovrebbe, una volta per tutte, essere stata superata. Eppure viviamo in una condizione di precarietà che fa pensare alla vita precaria dei contadini neolitici alle prese con le prime semine e con i timori di una natura che in qualsiasi momento poteva presentarsi come “matrigna”.
Insomma siamo noi stessi che generiamo quelle “grandi potenze” che operano in nostro nome, che sono prodotto del nostro lavoro, che vivono del nostro vivere sociale e che poi agiscono alle “nostre spalle” usandoci come birilli nelle loro logiche di potere del tutto sganciato dalle regole che astrattamente dovrebbero essere alla base di quel consenso senza il quale non avrebbero neppure la legittimità di esistere.
Proprio gli ultimi mesi sono stati una incredibile vetrina di questa realtà schizofrenica e criminale. Basti proprio pensare ai casi del buon Tony, della guerra in Libia e poi di quella in Siria, dove l’unico elemento che sembra unificare tutte le azioni dei vari contendenti, negli ovattati uffici della politica come sul “terreno”, è una infinita ipocrisia e un criminale cinismo.
No, non credo che siano i vegetariani la nuova risposta alle contraddizioni che stiamo vivendo, vista la capacità oggettiva del capitale di riassorbirli all’interno del suo disegno se non di usarli come variante della sua logica sociale ed economica.
Penso invece che sia da porsi, proprio liberandosi dai “maestri” o per lo meno dal loro uso scolastico, di comprendere se la nostra realtà, quella di chi dialoga e ragiona, e in prospettiva più ampia poi anche quella degli altri, possa trovare un “qualche cosa di altro” su cui fondare il nostro agire, senza per questo dover avere paura di ragionare con concetti più astratti di quelli della concezione politico-materialista e senza per altro cadere nei tranelli della tradizionali metafisiche o dai giochetti retorici di Heidegger.
Insomma la domanda a cui dovreste aiutarmi a rispondere è più o meno: “preso atto che il nostro essere sociale è in gran parte determinato dal suo essere parte del modo di produzione in cui ci troviamo ad operare e delle logiche sociali che innesca, è possibile ipotizzare che vi sia una dimensione umana che supera quei bronzei confini e ci consenta di pensare a una scaturigine più profonda da cui gli uomini possano trovare la forza per scardinare le follie della macchina del capitale senza doversi assoggettare ad essa o partecipare a una redistribuzione sociale dei dividendi che essa concede sotto forma di “progresso” e che paghiamo nella forma più dura accettando di essere merce del processo produttivo?”
Insomma questo uomo inedito della nuova “età planetaria” che il capitale sta creando con la globalizzazione, noi volenti o nolenti, si trova già all’interno di un bozzolo che è segnato dal principio di prestazione e dalla logica del profitto o può trovare dentro di sé, nella sua socialità, nel suo io e nel suo essere-con-gli altri la forza per costruire una logica nuova e diversa?
Mayoor sembra rispondere a questi dubbi con un gesto nichilistico quello di chi nega l’esistenza della storia, concedendoci al massimo “se mai esiste o è esistito l’evento”, fornendoci così un quadro del nostro essere ancora più vicino a quello di una completa perdita di identità nel grande imbuto della manipolazione mediatica. D’altronde di fronte alle proteste di chi si chiede allora dove risieda la libertà sembra rispondere con un pessimistico: “La storia è solo storia di bastonate”.
Anche qui mi sembra si debba dissentire, non tanto per negare ciò che è evidente, ovvero che le bastonate ci sono state e sono state infinite ma che non sono state date solo da una parte, che il vento freddo dell’ovest ha dovuto fare i conti con il vento caldo dell’est e solo una profonda miopia ci può portare a perdere di vista questa realtà. Se la nostra individuale esperienza è segnata da bastonate forse è perché non ci ricordiamo quelle che abbiamo dato o meglio ripensiamo a quelle che avremmo dovuto dare meglio e che per ignavia, incapacità, immaturità o forse perché i tempi non erano maturi non sono state date a dovere.
In fondo quello che volevo da voi era semplicemente che mi aiutaste a trovare le “parole nuove” che ci liberino dal fardello della miseria di un quotidiano che ci sommerge fino a toglierci il respiro. Si tratta di individuare insieme una strategia culturale capace di superare la dittatura delle “scadenze che non si possono perdere”, delle “risposte che si devono dare” come vogliono lor signori di fronte alle immagini che ci sbattono in prima pagina, siano esse Bolt o il bambino siriano, di opporsi ai diktat a cui dobbiamo sottostare perché altrimenti tutto è destinato a finire in una apocalisse visto che come è dimostrato i “nostri politici” ci considerano ampiamente dei polli di allevamento incapaci di “ragionevole giudizio”.
Insomma vi chiederei se è pensabile trovare insieme una strategia per “mantenere il rifiuto”, anzi rafforzarlo trasformandolo in una voce rivolta oltre i limiti del nostro cenacolo e senza dover necessariamente ridurci a essere anacoreti o luddisti.
Aiutatemi a trovare la strada …
Un caro saluto
Il Tonto
NB
Se qualche passaggio non è adeguatamente articolato e se qualche citazione è stata “forzata” me ne scuso in anticipo.
cristiana fischer 21 agosto 2016 alle 19:57
( in riferimento a cristiana fischer 21 agosto 2016 alle 17:53 )
Credo di dover aggiungere qualcosa alla poesia postata di Ranchetti. E’ vero che i secondi due versi si riferiscono al cristianesimo, anzi al cattolicesimo, e non a una spiritualità generica e al misticismo implicati nell’articolo. Così come, nella Prefazione a “Non c’è più religione” (Garzanti, 2003) scriveva che, chiamato da alcuni amici accomunati dalla necessità di “fare qualcosa” e persuasi che di quel fare dovessero fare parte anche un atteggiamento etico e religioso, si trovava a dover riconoscere che “fra gli elementi della loro ricerca, i fondamenti della fede non figuravano affatto”. Di nessuna importanza per loro che Cristo fosse realmente esistito, “insignificante l’incarnazione”.
L’articolo sul Manifesto mette in scena una reale contrapposizione tra una fede precisa, la sua, e lo spiritualismo culturale e generico per lui sorprendente e di poco valore.
Ho fatto anch’io letture di quel genere, anzi continuo a farne. E non sono “credente”. Però l’impegno religioso, anche di Ranchetti, mi sollecita, mi impegna a interrogare il nostro patrimonio culturale, e mentale, che nella religione ha fondamento.
Per questo ho trovato ingiusto l’atteggiamento di quell’articolo, espressione di un malumore, che fissa una separazione tra la vera fede, riservata a chi scrive tanto che neppure ne accenna, e i superficiali e faciloni che si abbeverano di bevande scipite se non adulterate.
La separazione tra i possessori di verità e quelli che si accontentano di cascami, non mi piace in nessun contesto.(Sicuramente per la mia pochezza.)
A Giulio Toffoli e a tutti
Le Olimpiadi stanotte terminano:
Sono stati momenti, per me, molto piacevoli e anche divertenti (non sempre).
Con il racconto di Giulio Toffoli , ora sono molto di più.
Grazie.
APPUNTO 4 PER IL TONTO
Caro Tonto,
come faccio a far capire all’Emilia ( Banfi) che proprio perché «figli e figlie del capitale» desideriamo e compriamo i cellulari, compriamo quasi sempre Tonno Rio Mare, guardiamo alla TV le Olimpiadi, eccetera, ma che i rapporti sociali capitalistici che ci inducono a fare tutte queste scelte “libere” e “normali” in modo “spontaneo”, “naturale”, come se lo decidessimo (una “libertà” comunque limitata in misura del nostro reddito o stipendio o pensione e del giro di relazioni a cui abbiamo accesso) non cambiano affatto, se io o cento o mille o diecimila decidessimo di spegnere la TV e non comprare i giornali? E che , una volta scendevano in piazza anche quelli che tenevano famiglia, mentre oggi sia chi la tiene e sia chi non la tiene non scende in piazza, perché non solo non ci sono le condizioni per farlo, le manifestazioni di piazza risultano inefficaci (Cfr. polemica del Tonto sulle manifestazioni sindacali per le pensioni: https://www.poliscritture.it/2016/05/14/il-tonto-e-il-pensionato/) e manca uno straccio di progetto politico e quindi siamo quasi alla canna del gas, altro che “liberi”?
Proprio non lo so e quasi dispero sulla possibilità di non lasciar cadere il dialogo tra tonti/e e filosofi. Ah, se ci si mettesse a studiare invece di cadere sempre dal pero! Ad esempio, Adorno, che certe cose le ha capite ben prima di noi e dette fin troppo (pessimisticamente) bene. Non voglio perdere la pazienza, ma neppure scivolare nella chiacchiera da bar o da FB. Perché sarà anche giusto rimproverare i filosofi quando sprezzano i tonti (e le tonte), ma è anche giusto far notare ai tonti e alle tonte che certi concetti per capire il mondo e le Olimpiadi non li trovano parlando col salumiere o la manicure. Perciò, viene bene ancora Gramsci col suo: studiate, studiate! E, adesso che le Olimpiadi sono terminate, direi di leggere almeno questo articolo:http://www.sinistrainrete.info/filosofia/7767-sandro-dell-orco-attualita-di-adorno.html
E già che ci sono chiedo pure come faccio a far capire alla Cristiana (Fischer),dopo tutte le mail che ci siamo scritti, che io non considero il suo femminismo «uno stigma», ma come ho scritto, una « sua convinzione (rispettabile e però anch’essa criticabile e da approfondire)».
Ciao
Samizdat
Samizdat senti un po’,
non cercare di farmi capire perché io sono molto convinta che tutti siamo eterodiretti compreso i filosofi. Noi tonti, vedi abbiamo bisogno di gente che come te non si arrende mai e cerca sempre di far capire…ma bisogna farlo con molto tatto perché sai, ci sono anche i finti tonti che sono pericolosissimi. Anche fra i filosofi si nascondono i fintitonti .
Quelli che sul piedistallo parlano, s’incazzano , ma quando scendono hanno subito pronta una comoda poltrona, una famosa casa editrice che pubblica i “loro”scritti.
Sono d’accordo che studiando e riflettendo si può arrivare a molte ed intelligenti soluzioni. Sono però convinta che la protesta di piazza abbia ancora il massimo valore anche se ammetto che i tempi non ci mettono in condizione di farlo.
La storia si ripete …(retorica)-
I più grandi rivoltosi della storia sono stati i contadini, i minatori ( Zolà) che tempo per studiare certo non ne avevano. Mettiamo anche loro fra i tonti?
Vorrei a volte non angosciarmi, quando vedo i tg che mandano immagini di guerre e di terrorismo, l’angoscia paralizza e spesso ti fa voltare il capo da un’altra parte, ma dentro resta un senso di grande insoddisfazione e di terrore anche se tutto il mondo grida di non lasciarsi prendere dalla paura.
Il capitalismo ha fatto i suoi grandi danni, e per poter lavorare , lì devi andare a cozzare.
Vorrei capire di più Samizdat, ma proprio perché forse sono una tonta eterodiretta …accidenti suona il cellulare proprio adesso, è mio figlio che mi chiama dal mare.
scusate l’accento sulla a di Zola…m’è scappato
p.s.: Le olimpiadi non mi hanno fatto sentire eterodiretta o sì? Ma …ora le idee si confondono ma pazienza…
la pallanuoto però…è stato un bello spettacolo!
@ Toffoli
Per quanto mi sforzi, non riesco a vedere morte. Ciò è sicuramente dovuto a positivismo cristiano; a quel Dio che, anche se morto, ha lasciato luce permanente nelle cose. Vivo in un deserto di luce, deserto che è scomparsa di sistemi e meccanicismi. Compresa Equitalia.
Da quando la ricchezza ha ceduto al meccanismo che la produce – una gettoniera mossa da ingranaggi umani – non vedo rivoluzione possibile, se non all’interno della macchina stessa. Il vegetarianesimo, come altri pensieri di questa fatta, non può mandare il capitalismo in tilt perché anch’esso produce denaro. In questo caso il programma non registra anomalie; in realtà il V. produce critica al consumismo e, di conseguenza, alla politica (anticamera della sala macchine). Se il marxismo producesse denaro, la macchina non manderebbe segnali di pericolo. Non può fare altrettanto col pensiero Wu Wei perché ha tempi infiniti; infatti le macchine, così come non hanno passato, mancano di futuro. Penso sia il loro limite: senza capire come possa essere successo potrebbero ritrovarsi a frullare ottimi spinaci. La battaglia progressista si svolge nel presente. Da qui la mia scelta di vivere un presente alternativo, di approfondirne la conoscenza (anche introspettiva) e, come posso, di condividere. Che poi è quel che si fa in tutti i “cenacoli” dove, però, a mio parere permangono forme obsolete di pensiero unico e dominante, non dinamico. Il tempo, presente e capitalista come Internet, può essere determinante e risolutivo. A cominciare dalle molte incertezze della democrazia.
APPUNTO 5 PER IL TONTO
Caro Tonto,
sono un pirla. Negli ultimi tempi, passeggiando per il parco vicino casa, mi tornavano spesso in mente i versi di Dante : « “O frati,” dissi, “che per cento milia / perigli siete giunti a l’occidente,/a questa tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi ch’è del rimanente /non vogliate negar l’esperïenza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente» (Inferno, Canto XXVI) e pensavo quasi di poterli applicare a noi intellettuali spaesati ma ancora abbarbicati a questa zattera nella tempesta che è Poliscritture. E ruminavo: non saranno stati «cento milia» i «perigli» che abbiamo attraversato, ma nell’occidente comunque ci siamo; e, essendo anzianotti, abbiamo anche noi da decidere non più cosa fare da grandi, ma come spendere al meglio il «rimanente» della nostra « tanto picciola vigilia/ d’i nostri sensi»; e, se ci manca la voglia di fare « l’esperïenza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente», almeno abbiamo quella di capire questo mondo con troppa gente e in subbuglio. Macché! Gli Ulissi oggi latitano. I marinai sonnecchiano o preferiscono guardarsi le Olimpiadi o seguire ben altre vie di conoscenza e di Poesia. Devo dire, però, che un colpo me l’hai dato anche tu con l’ultimo commento. Perché? Te lo dico senza il tatto a cui m’invita l’Emilia (Banfi). Tu hai posto, partendo da un caso concreto – le Olimpiadi –, un problema fondamentale: ci dobbiamo inchinare a questa realtà o, impossibilitati a mutarla (e non so per quanto tempo o addirittura per sempre), dobbiamo fare almeno qualcosa per salvaguardare la possibilità – alcune volte affacciatasi – di mutarla, migliorarla, ridurne la sofferenza che ci procura. Bene, ma adesso mi devi spiegare come fai ad essere così diplomatico e signorile verso posizioni come quelle di Mayoor che, malgrado l’amicizia e la stima che a lui mi legano, a me indignano. Come fai, cioè, adammorbidire, a sfumare le sue posizioni («Mi sembra di veder emergere qui un elemento di darwinismo sociale-positivista»; e vedi che il tema era affiorato anche nei commenti all’intervista di Ravelli a La Grassa)? Non è che Mayoor «sembra rispondere a questi dubbi con un gesto nichilistico quello di chi nega l’esistenza della storia». Dice proprio che «la storia è solo storia di bastonate», che è meglio lasciarla perdere, che «il vento caldo dell’est» è un refolo che ormai non muove una foglia. E «nei tranelli della tradizionali metafisiche o dai giochetti retorici di Heidegger» non è caduto per distrazione, ma ci sguazza volentieri e, in buona compagnia, se ne alimenta. (Se hai la pazienza di andare a leggere cosa scrivono altri suoi interlocutori su “L’Ombra delle Parole”, dove Mayoor è ospite apprezzato e assiduo). E liquida il testo “datato” di Ranchetti, che denuncia il disastro culturale e pseudo-religioso avviatosi quando tanti intellettuali del ’68 (Mayoor compreso) imboccarono la strada dei “fratelli amorevoli» (Cfr. Fortini), dandogli del Torquemada e liquidandolo con una riga di commento! Ora, come si fa a contrastare la «scurrilità quotidiana» o quest’aria di «ipocrita seriosità che fa spavento»? Con le sparate paradossali di Mayoor e il suo giocherellare poetico-nicciano? Insomma a me va bene l’invito al dubbio o all’analisi della complessità (di Mayoor e di Rita Simonitto), ma esso deve frenare o rimandare una doverosa e corretta polemica anche fra noi di Poliscritture? La difficoltà di pensare e di fare, oggi bloccata, non si supera, abolendo ogni tipo di aut aut di fronte a certi tipi di ricerca. (E, a scanso d’equivoci, aggiungo che non ritengo la mia posizione di ricerca superiore a quella di Mayoor, ma che la mia e la sua non possono essere equivalenti, non si possano praticare o perseguire assieme. Temo perciò che, senza chiarirsi fino in fondo, le risposte alla domanda che tu hai posto non verrà mai né si troveranno « le “parole nuove” che ci liberino dal fardello della miseria di un quotidiano che ci sommerge fino a toglierci il respiro». E, per dirtela tutta, mi vado convincendo amaramente che sarebbe ora di smetterla di aspettarsi dagli altri le risposte alle domande che noi ci poniamo. Tentiamo di rispondervi da soli o con altri che su questo blog non si affacciano. Andiamoli a cercare, se ce ne sono. Certo concordo sulla necessità di costruire« una strategia per “mantenere il rifiuto”, anzi rafforzarlo trasformandolo in una voce rivolta oltre i limiti del nostro cenacolo e senza dover necessariamente ridurci a essere anacoreti o luddisti», ma bisogna pur vedere con chi la possiamo davvero costruire. Insomma, io direi: stop al finto dialogo e ai salamelecchi (e al “tatto”) e più “diatriba” (cioè contrapposizione chiara di posizioni opposte e configgenti). Tu che ne pensi?
Ciao
Samizdat
Caro Ennio
solo per chiarire, altrimenti si va nella baraonda ideologica: sì, prima di dormire alterno due pagine di Essere e tempo a letture di poesia. Lo faccio più per allenamento che per sete di conoscenza (per come scrive, Heidegger è perfetto). Perché? Perché so che l’ultimo pensiero, prima di dormire, è quello che solitamente ritroviamo al mattino. Quindi al mattino rivedo, correggo e scrivo assai meglio di quanto riesco a fare nel resto della giornata. Non m’importa della polemica su Heidegger nazista e/o filosofo, non faccio mie le sue idee. Avendo lavorato sul “Chi”, utilizzando tecniche Zen, non sono interessato all’esito filosofico della faccenda ma agli aspetti trasformativi che queste tecniche riescono a produrre.
Non dovrebbero trarre in inganno la fascinosa scrittura e lo stile ‘pamphlettistico’ dell’intervento di M. Ranchetti, che, di primo acchito, danno l’impressione di sostenere in modo elitario e pregiudiziale una posizione anti mistica (infatti ne ero stupita), ovvero presentando il misticismo come un rumoroso pot-pourri: * Filosofi e letterati fanno a gara per riconoscersi nelle effusioni delle anime sofferenti, studiosi di filosofia del diritto, già interessati ai dibattiti su Carl Schmitt nell’ambito della teologia politica, si dedicano ora a esaminare la “colpa” e gli “aneliti” dovunque essi figurino*, e che rischia, quindi, di confondere ciò che ha a che fare seriamente con la mistica (il mistero) e il religioso (ciò che tratta dei legami con il sacro), con ciò che ne è molto distante. Mentre l’intento dell’articolo era più quello di denunciare il tradimento avvenuto a fronte di una ipotesi originaria di lettura del mondo, abusando e svilendo una terminologia degna di ben altro rispetto.
Infatti, sia Cristiana (1) che Mayoor (2) sembrano esserci cascati.
Credo che, invece, a ogni studioso dia fastidio il travisamento intenzionale o la banalizzazione che viene fatta sui suoi oggetti di studio. E, ancor di più, se il tutto viene condito da proclami mistificatori, come Ranchetti coglie quando parla della scuola: *soprattutto ora che la riforma della scuola, promossa da Berlinguer, sembra assicurare orizzonti di gloria a questa cultura del mediocre sublime*.
Ritengo che gli ‘ismi’, nella misura in cui rappresentano perlopiù delle perversioni del messaggio di base – se non altro, perché lo ipostatizzano -, non permettano alcuna risposta trasformativa né ribelle e né rivoluzionaria, bensì una passiva e silenziosa acquiescenza (contrassegnata qua e là da moti di denuncia che poi rientrano), e che fanno pensare alla situazione descritta da Orwell in “1984”.
Sulle idee originarie vengono operati dei camuffamenti, delle distorsioni, complice anche il linguaggio la cui versatilità viene allora compressa, ridotta al minimo del significato, in modo da abolire tutto quello che può implicare il conflitto e quindi un pensiero.
Rimanendo nella citazione di Orwell, al pensiero si sostituisce il bi-pensiero: “la libertà è schiavitù”, “l’obbedienza è salvezza”, “è vero questo ma anche quello”, senza che si possa stabilire alcun criterio di verità. Ogni elemento di memoria critica viene sistematicamente cancellato (quanti di noi rimarranno infatti a testimoniare?) o destituito di validità, ad eccezione di quelle Memorie che sono funzionali a mantenere l’ideologia corrente. “E se i fatti smentiscono l’ideologia, tanto peggio per i fatti”.
Una forma ideologica che, oggi come oggi, non mi sento, sinceramente, di etichettare come generico ‘capitalismo’. Credo si tratti anche di altro.
Il fatto è che siamo molto sensibili alla pressione del gruppo per cui, inconsapevolmente, ci ritroviamo a ritenere normale tutto quanto ci vogliono far credere lo sia. Modifichiamo il nostro linguaggio se così ci viene imposto per rendere più asettiche le nostre espressioni: “operatore ecologico”, “colf” ecc.
L’uso di una neo-lingua (come descritto in “1984”) favorisce questo appiattimento in quanto ci esime dalla fatica e dallo sforzo riflessivo nella lettura consapevole della realtà, per quanto inconoscibile essa sia.
Pensiamo al termine coniato di recente: burkini. Questo termine, che non invita soltanto ad * uniformarsi nel bric-à-brac di un esperanto innocuo* (M. Ranchetti), in un colpo solo depaupera di significato e di storia e di conflitti, sia il termine di burka che quello di bikini. Tutto viene appiattito in un “burkini si, burkini no”, e passa in secondo ordine quanto di ‘libero’ ci sia nel corpo delle sinuose modelle islamiche che lo indossano a farne pubblicità, o quanto di ‘libero’ ci sia nelle donne occidentali che sfoggiano il bikini come forma di ‘appetibilità’, sottoponendosi agli stress della prova-costume.
Apparentemente sembra trattarsi dello stesso sfruttamento del corpo femminile ma non è lo stesso perché fa capo a due culture diverse e a storie diverse.
Tornando all’articolo e bypassando la amara presa in giro di questo nuovo tipo di ‘homo’, ciò che dà da pensare nella requisitoria di Ranchetti (che non è affatto ‘datata’ come scrive Mayoor, ma si presenta oggi in tutti i suoi esiti nefasti) è l’appropriazione di questa ‘corrente ideologica’ da parte di una ‘intellighenzia’ che viene così tratteggiata (e siamo nel 2000!): * Nei circoli culturali, spesso nelle vecchie sedi del partito comunista, talvolta all’insegna ancora di Gramsci, i nuovi mistici si radunano ad ascoltare conferenze e a partecipare a dibattiti su Simone Weil, Maria Zambrano, Edith Stein, sui mistici tedeschi, sulle eretiche sante, sulla differenza fra animo e anima, sugli archetipi junghiani, sulla colpa e la coscienza infelice, sul corpo interiore, sulla poesia*.
Oppure: *Editori di antica tradizione laica, come Einaudi, pubblicano volumetti di testi scritturistici, preceduti da introduzioni di scrittori d’oggi che ne dovrebbero favorire la lettura, come se l’avallo di Sebastiano Vassalli o di David Grossmann rendesse più gradevole e significativo il testo dell’Esodo o la Lettera ai Romani di S. Paolo, in una ambigua ipotesi di “aggiornamento” che, dato anche il carattere “agile” dei libretti e la veste grafica, li fa assomigliare piuttosto a guide turistiche nella Scrittura, una sorta di turismo religioso o di crociera nel Sacro, a prezzi modici*
Queste denunce sono da brivido, eppure che cosa è cambiato da allora se non in peggio?
La parte destruens di M. Ranchetti (che, ovviamente, non si limita alla sottolineatura del *diffondersi di questa nuova ondata religiosa [che] ha qualcosa di irritante e di insopportabile, tanto più che essa produce, parallelamente, una vaga forma di ricatto, un sopracciglio di superiorità, in coloro che ne sono esponenti verso coloro che non vi partecipano, come se quest’ultimi si trovassero in una sorte minore*, ma implica ben altro), a che serve se non c’è una ipotesi che permetta di pensare?
C’è una intuizione, e cioè che * le forme che viene assumendo questa ondata mistica sono per solito connesse e compatibili con il rifiuto delle strutture politiche e religiose tradizionali, i partiti e le chiese, e mostrano più di una simpatia per le forme vaghe e pericolose del “superamento” del visibile e del concreto* […] *una filosofia “specialistica”, che ha il suo fulcro nel rifiuto del pensiero forte e nella conseguente simpatia per quei filosofi e pensatori che si rivolgono all’esame dei particolari o alla ricerca dei diversi possibili significati di un termine – “anima” ad esempio – nelle diverse culture, tracciando itinerari immaginari, senza tempo, piccole cosmologie di un universo mentale…*
Vale a dire che quella parte legata al ‘mistero’ di cui siamo, volenti o nolenti, intrinsecamente costituiti, e che il materialismo storico – quando fu utilizzato come dogma anziché come un valido modello di indagine scientifica – ha tentato di espungere, cacciato dalla porta si è ripresentato alla finestra, come nemesi, nella sua forma peggiore, nelle manifestazioni decadenti di essa spiritualità?
E che la stessa materializzazione spinta – intesa come rifiuto di ogni e qualsiasi debolezza nei confronti dello spirito – nel chiudersi nella sua rigidità ‘cosale’, non poteva dare spazio a quella ricchezza espressiva e, pertanto, non riconoscendola, la caricava di fraintendimenti.
E che, oggi, non essendoci più un pensiero ‘forte’ con cui configgere, non rimane altro che regredire?
Quale straordinaria e drammatica attualità riveste questa domanda che M. Ranchetti si pone: *E’ forse l’Europa a esigere che i membri delle diverse nazioni rinuncino alla loro cultura nazionale asserendo alle dogane ideologiche di non aver nulla da dichiarare per uniformarsi nel bric-à-brac di un esperanto innocuo, così come gli emigranti in America dovettero sacrificare le differenze conflittuali delle confessioni di fede per partecipare a una democrazia intellettuale e politica nel Nuovo Mondo, o i seguaci ebrei di Freud dovettero rinunciare al loro inconscio tedesco per accedere alle tecniche terapeutiche americane?*
Alla luce di questa domanda, come leggere oggi l’incontro a Ventotene tra Renzi, Merkel e Hollande? A quale rinuncia siamo chiamati, ancora? E in quale forma ideologica siamo ‘intortati’?
E la domanda successiva: *Ed è forse questa ragione di mercato, come già il sonno dell’altra ragione produceva mostri, a produrre mistici?* la modificherei così: è davvero solo una questione di mercato e non anche, dietro l’assoluzione del mercato che tutto a sé condiziona e riduce, un salvare le proprie coscienze?
Note:
(1) Cristiana 21.08 h. 2037: *Per questo ho trovato ingiusto l’atteggiamento di quell’articolo, espressione di un malumore, che fissa una separazione tra la vera fede, riservata a chi scrive tanto che neppure ne accenna, e i superficiali e faciloni che si abbeverano di bevande scipite se non adulterate.
La separazione tra i possessori di verità e quelli che si accontentano di cascami, non mi piace in nessun contesto.(Sicuramente per la mia pochezza.)*
(2) Mayoor 22.08 h. 17.56: *Articolo molto datato, che si limita a giudizi e dà di gomito a chi la pensa allo stesso modo. Già uno che esordisce scrivendo “In fila per due verso la spiritualità” dimostra di non capire nulla di spiritualità; perché non gli interessa, ma allora perché ne parla? Anche armandomi di pazienza non capisco la sua tesi ( se c’è)*.
R.S.
Michele Ranchetti manca alle mie letture, si sarà capito. Però davvero non so spiegarmi come – voi con lui, che per altro mi pare molto cattolico – non riusciate a separarvi dall’idea che ogni scelta sia dovuta a legge di mercato. Particolarmente quelle concernenti la spiritualità. Ma dove guardate sempre? dall’altra parte, dove di spiritualità non vi è nemmeno l’ombra? solo mercato, mercato, mercato… Ragionate come il vostro nemico ( di classe, va): a forza di scandagliarne le intenzioni finite col somigliargli. Ma almeno “quelli” ci guadagnano, e voi?
Scusate lo sfogo. Magari in un altro post, se vorrete, parleremo di spiritualità (non di mercato) in termini di fede e ragione, per voi; per me di scienza e amore.
A Simonitto
“… Mentre l’intento dell’articolo (di Ranchetti) era più quello di denunciare il tradimento avvenuto a fronte di una ipotesi originaria di lettura del mondo, abusando e svilendo una terminologia degna di ben altro rispetto. Infatti, sia Cristiana (1) che Mayoor (2) sembrano esserci cascati.”
Credo di capire cosa intendi, il fastidio di Ranchetti per il “travisamento e la banalizzazione dei suoi oggetti di studio”.
Ma che gli “oggetti di studio” siano contendibili, riclassificabili, da rimettere in questione, nonostante la profonda compenetrazione di chi li approccia con quella particolare esperienza soggettiva di chi li approfondisce, credo che non dovrebbe più stupire nessuno.
A questo mi riferivo parlando di elitismo, come se tradizioni millenarie, ormai codificate in tratti antropologici, non potessero essere sovvertite e riconfigurate.
Il sacro, il mistero (la morte!) non debbono – mi permetto di dirlo- essere assolutizzati in tradizioni e in corpi storici, anche se questo debba comportare l’orrore del satanismo e dei sacrifici.
Sarà compito storico e politico limitare e condizionare la visione socialmente e storicamente distruttiva di queste sette.
Che la tradizione a cui Ranchetti si riferiva, che lo coinvolgeva nell’esperienza individuale più radicale e profonda, sia però solo “una tradizione”, ecco, quello sottolineavo. Senza concessioni, da parte mia, a religiosità fai da te, o orwelliane.
@ Rita:
ho apprezzato molto il tuo commento.
Ora vorrei chiederti:
è ancora valida,secondo te, la teoria, che spinge a considerare la solita via di mezzo?
Quella che bisogna capire un po’ tutti(giustamente) , cercare di non sottometterci a chi ci vuole a tutti i costi imporre un pensiero e discuterne democraticamente?
Oggi con i tempi così veloci , mutano anche i comportamenti .
Le tragedie però. sembra siano sempre le stesse , con metodi magari diversi si fanno guerre e atrocità che lasciano l’animo a terra.
Che il divertimento (quello degli spettacoli, olimpiadi comprese) appartenga al capitalismo, sono d’accordo, ma penso anche che ognuno di noi abbia il diritto di divertirsi un po’ oltre che a pensare cosa fare per migliorare questo mondo così pieno di catastrofi.
Io per divertirmi faccio anche passeggiate , nuoto, vado al cinema , leggo.
Possiamo anche non chiamarli divertimento, chiamiamoli passioni, interessi….
io preferisco chiamarli divertimento…forse (come la definisce Ennio(Abate)) , per via della mia animella vecchia e pesta, ma non mi esimo certo dal cercare di capire cosa si potrebbe fare per cambiare le sorti della nostra terra e di chi ci abita.
Ciao e grazie !
Anche se aggiungo altra carne al fuoco di questo post, pubblico qui gli altri due “Appunti per il Tonto” che ho preparato in risposta ai commenti dei giorni scorsi. Cuochi e cuoche tengano d’occhio l’insieme. Ecco il 6°. [E. A.]
APPUNTO 6 PER IL TONTO
Caro Tonto,
devo ricordare che, nel criticare le posizioni di Mayoor (come ho fatto con quelle di Attilio Mangano o come farò con quelle di Gianmario Lucini nel saggio che sto preparando sul suo «Pensiero poetico e critica integrale dell’arte»), non intendo mettere in discussione l’amicizia, la stima e la simpatia che ho nei suoi confronti e che, se critico, sono ben disposto ad essere criticato? Ciò premesso, per punti veloci:
1.
Su Heidegger. Non posso né sono in grado di aprire un discorso approfondito, come pur sarebbe necessario. Il dibattito sulla sua figura e la sua opera è continuamente alimentato da saggi e studi. Cerco di seguirli come posso, ma inalterata (finora) è la mia diffidenza verso quanti ne fanno un maestro o vi cercano, come dice Mayoor, «una soluzione a portata di mano, quando si vuole fare cenno all’essere». Se ne può discutere. Altri più preparati di me in filosofia potranno avviare meglio una riflessione seria. Tengo solo a dire che il mio atteggiamento resta di critica non di dialogo (e non solo per la sua adesione al nazismo).
2.
Sulla storia e gli eventi storici. Non ho capito perché sarei «tendenzioso». Né capisco il senso della battuta (« sarebbe come dire che se non sopporti l’ascensore è perché un certo Elisha Otis l’ha inventato, o per qualche altra stramba ragione»). Ma poco importa. A me pare che studiare gli eventi, interpretarli con gli strumenti storici (necessariamente usabili a posteriori) non comorti necessariamente arrivare alle conclusioni di Mayoor/Nietzsche: « la “storia” non esiste, se mai è esistita». Si possono e si debbono discutere e valutare le varie interpretazioni (e il «corollario di idee e ragioni più vasto» ad esse sotteso), scegliere quella o quelle più argomentate e convincenti. Non è, cioè, saltando gli eventi e le loro interpretazioni che non si è condannati a «pensare [la storia] da vinti o da vincitori». (Tra l’altro, proprio Nietzsche e il darwinismo sociale “condannano” ad una visione della storia solo e sempre come conflitto insuperabile tra vinti e vincitori).
3. Poesia e “parole nuove”. A Mayoor sfugge la differenza tra inventare “parole nuove” sulla base di un istinto poetico o inconscio o desiderante e cercare “parole giuste” sulla base anche della conoscenza razionale della storia e del linguaggio sociale (e storico) in cui ci troviamo a pensare e a parlare per i più vari scopi. E sfugge (o sottovaluta) anche il compito del poeta e di altri (critici, lettori) di mettere a confronto il primo tipo di ricerca (più o meno “a-razionale” e più o meno innovativo) con il secondo). Non coglie poi quanto sia più complesso e arduo uscire da questi rapporti sociali (capitalistici) non a parole (come tentarono di fare Sanguineti e le neoavanguardie) ma nei fatti. Operazione che non è affidabile soltanto ai poeti. Non è che, definendo “gruzzolo” o «cumulo di profitto, una follìa del benessere» quello che Marx ci ha insegnato a chiamare ‘capitale’, ci si avvicina di più alla realtà del fenomeno o che la sua “nuova parola” sia in grado di afferrarlo o contrastarlo o spiegarlo più facilmente. Non c’è continuità automatica fra essere poeta (inteso chissà perché esclusivamente – e limitatamente a mio avviso – come cercatore di “parole nuove”) e capire – anche poetica-mente – cosa sono oggi questi maledetti rapporti capitalistici, che in fin dei conti hanno marginalizzato anche la funzione della Poesia. Pure i poeti – interi o «a metà» – hanno i loro «paraocchi». Ed è bene che a Mayoor resti il dubbio per i rischi di un certo «autismo del pensiero poetico».
Ciao
Samizdat
Anche se aggiungo altra carne al fuoco di questo post, pubblico qui gli altri due “Appunti per il Tonto” che ho preparato in risposta ai commenti dei giorni scorsi. Cuochi e cuoche tengano d’occhio l’insieme. Ecco il 7°. [E. A.]
APPUNTO 7 PER IL TONTO
Caro Tonto,
ma tu non pensi che a volte sia inevitabile o necessaria la «‘dia-triba’» (e l’aut aut) e altre volte il «‘dia-logo’» ( e l’et et)? Io, malgrado le continue reprimende della Rita (Simonitto), sì. E mi sforzo di capire quando ci vuole l’una e quando l’altro.
Olimpiadi. Ha scritto Rita: «Se si mostra interesse alle Olimpiadi si rischia, come contrappasso, di lasciar cadere qualche cosa di importante: * Guardate subito ( non «il giorno dopo») cosa sta succedendo in Siria (e ad Aleppo soprattutto)* (Ennio, 19.08 h. 11.04)». Eppure, a me in questo caso (e in altri) il «famigerato o/o» mi pare ovvio, utile. Per me quel che accade in Siria ( ma è accaduto prima in Irak, Afghanistan, Libia, cc.) è *politicamente più importante* di quel che accade alle Olimpiadi. E l’attenzione concentrata sulle Olimpiadi e sul “piacere” che il loro spettacolo procura distrae dall’evento * politicamente più importante*. Cosa non irrilevante. E m’immagino una cosa: concedessero in TV e sui mass media alla Siria (o alle precedenti guerre) lo spazio concesso alle Olimpiadi, cosa succederebbe? Verrebbero ribaltate le percezioni che ora abbiamo dei due fenomeni o no?
Certo non sono stato in Brasile, non conosco bene la situazione in Siria e le mie sono forse soltanto aspirazioni a capireche mi spingono a fare delle ipotesi (politiche), ma non vedo perché, siccome non abbiamo certezze per supportarle, non dovremmo farle. O perché sulle questioni oggi controverse (quasi tutte le questioni politiche lo sono) dovremmo rimanere freddamente agnostici. (La stessa obiezione, se non ricordo male, Rita me la fece in occasione dei bombardamenti su Gaza del 2014). Se, per pronunciarci (anche provvisoriamente, anche sbagliando) su tali faccende, dovremmo essere o diventare prima «‘tecnici preparati», saremmo costretti al silenzio. «Siamo proprio sicuri che i potenti abbiano bisogno dei giochi olimpici per portare avanti i loro progetti?». No, non lo siamo. Ma si ragiona, si procede per tentativi ed errori. Anche sull’affermazione che Rita presenta come certa ( «Il fatto è che la mente non è a comparti stagni (o/o)») potrei, facendo il sofistico, chiedere: è un‘ipotesi o una certezza. Lo scetticismo assoluto potrebbe demolire qualsiasi certezza (dalla più banale alla più ragionata) e ridurci alla paralisi. È vero che «questa struttura [dell’aut aut] gliela diamo noi nel nostro processo di sviluppo mentale nell’intento di fare ordine nel caos delle informazioni che ci bombardano letteralmente da ogni parte». Ma cosa dovremmo fare invece? Non ordinare nulla? Tenere tutto in sospensione? Che «il più delle volte, quell’ordine, divent[i] una cassetta di sicurezza chiusa in un caveau e pertanto poco utilizzabile» è un rischio da correre. «Eppure l’uomo non può indefinitamente rimanere sospeso nel rinvio delle immagini, nel flusso indefinito dei suoi segni; e deve riassumere, o almeno credere di riassumere, e in quella credenza, come in un anticipo di morte, placarsi un attimo» (Fortini, Libertà e necessità, in «Non solo oggi», pag 122, Editori Riuniti, Roma 1991).
Rifiutando di scavare (avevo suggerito nella logica dell’aut aut il testo su Adorno…) su quel *piacere* di vedere le Olimpiadi, si finisce per adottare l’altra struttura mentale, a mio parere più popolare, consolatoria e accomodante, dell’et et: «Se mi piace lo sport, e ciò vale per qualsiasi altra forma di godimento, ciò non esclude che non possa anche rattristarmi e sentirmi spinto a cercare di comprendere (o, almeno, riflettere sugli) accadimenti in M.O». Cosa che non mi capita di vedere spesso da parte di chi fa quest’obiezione. O che, se accade, si svolge proprio nei termini imposti dalla Tv, la quale passa “pluralisticamente” dalle ore di trasmissioni sulle Olimpiadi al breve cenno ipocrita sulla Siria. A me pare che nella logica dell’ et et manca quel che serve: imporsi di capire e riflettere sulle cose importanti, serie, come premessa ad atti politici possibili e altrettanto importanti e seri. Almeno lo schema dell’aut aut a questo allude. E non intendo perché l’invito a guardare e a riflettere sugli eventi in Siria equivalga – quasi in automatico – a un invito a cedere ai «sentimentalismi vari» o a credere alle immagini mostrate dalla TV. Scusate, ma non possiamo ragionare sulle varie notizie che abbiamo su Aleppo etc. e cercare di discernere le più documentate dalle menzogne? Dobbiamo soltanto insinuare il dubbio negli altri e in noi («Quante cose ci vengono ‘mostrate’ o ‘ascoltiamo’ su Aleppo») e fermarci là? O spostare il problema (per me un dovere…) del prendere una posizione (anche provvisoria, anche approssimativa) dal piano politico ad un piano puramente gnoseologico (« il rapporto tra le nostre percezioni e la realtà ‘scientificamente mostrata’»).
E ancora: l’essere “figli del capitale” non comporta forse il ritrovarsi in un certo immaginario da esso precostituito o inquinato o manipolato? L’immaginario che adesso ci ritroviamo lo produciamo forse ancora in proprio da fonti intatte e indipendentemente da quello? Il dubbio mi sorge quando leggo questa frase di Rita: «come dire che è solo la ‘forma capitale’ a condizionare il nostro essere, siamo figli di questo sistema, o non anche che siamo molto suscettibili alle fiabe, al nostro bisogno di fiabe, di eroi che vincono prove ‘disumane’, come vedevamo in un post precedente». Se penso a vecchi discorsi sul capitalismo che ha colonizzato anche l’inconscio o all’«inconscio politico» di cui parlò il dimenticato Jameson o alla distinzione tra bisogni “autentici” (io direi sorti in strutture sociali e culturali pre-industriali o “antiche” e bisogni indotti (dall’industria culturale), mi vengono molti dubbi sul concetto di libertà come «esito di un elaborato ‘interno’, in quanto da dentro si origina il nostro metterci in relazione con un ‘fuori’ contrassegnato da mutevoli rapporti sociali», per cui «ci possono costringere a fare qualche cosa ma non possono costringere la nostra mente ad essere d’accordo».
«Tra i più orridi particolari delle esecuzioni in massa della guerra tedesca ho letto che nelle camere a gas, calando questo dalle aperture, prima a livello del suolo poi poco a poco espanso ad occupare tutto lo spazio, le vittime lottavano ferocemente tra loro fino alIa morte e, aperte quelle camere, le si trovavano per metà vuote e per l’altra metà colme fino al soffitto di cadaveri nudi:
in basso, sepolti sotto gli altri, e straziati dalla lotta, i più deboli, bimbi, vecchi e donne; al sommo del mucchio, i più forti. C’è da scorgere qui la congiunzione di due azioni feroci: l’eccidio, compiuto per mano d’uomini, costringe le vittime all’agonia nella lotta e nello strazio, nell’ansia e nella ernpietà reciproca. Nessuna immagine più precisa di questa, degli effetti dell’oppressione, che distrugge persino il senso e l’ultima dgnità d’essere vittime».
(Fortini, Libertà e necessità, in «Non solo oggi», pag 126, Editori Riuniti, Roma 1991).
Insomma, non condivido la tendenza a cancellare l’aut aut. Non credo affatto che usare (oculatamente) tale schema mentale sia pensiero “semplificato”. E fosse pure scaduto o diventato «un inceppo» quello altro schema aut aut «antitetico polare di sfruttatori e sfruttati» mi chiedo oggi *cosa* lo abbia sostituito. E perciò resisto all’invito, ormai divenuto dominante anche in mezzo a “noi” (quanto problematico questo noi!), per cui, siccome « non siamo più ai tempi di Marx né di Lenin […] dobbiamo assumerci noi l’onere di osservare ciò che ci circonda, senza paraocchi ideologici, possibilmente». E ribatto semplicemente: quali i paraocchi di chi invita a non avere paraocchi? E, invece della “parole nuove” di cui va a caccia Mayoor, a me piacciono ancora queste “vecchie” (1950-1953) di Fortini:
«Non riusciranno a toglierci dal cuore la certezza che qualcosa può mutare nella sorte degli uomini e dell’uomo. Sappiamo, perché l’abbiamo veduta e sperimentata entro noi stessi, la forza delle contingenze; ma abbiamo anche visto con questi occhi uomini senza speranza, col peso delle loro fatalità psicologiche, fisiche, sociali, con i loro muscoli gracili e l’ignoranza e la paura come un germe nel sangue, e la schiavitù adorata fino ad ieri, nondimeno far fronte e durare e ricominciare sempre, libertà scaturita dal più profondo della necessità. Certo,
tutto quello sforzo, quando era coronato dal successo, non faceva che domare, modificare le contingenze, crearne altre che somigliano alle prime. Ma ormai tutta la storica disputa sul progresso assoluto e sul progresso relativo può rimaner sospesa, come rimase sospesa quella del servo abitrio e sulla predestinazione. Che importa? Anche se non avessimo altro argomento, questo ci resterebbe, perentorio: la volontà d’esser diversi. E quando diciamo «degli uomini, dell’uomo», intendiamo parlare di uomini, di un uomo, concreti, reali, storici, non dell’uomo-persona, o degli «uomini» dei neo-umanisti. Sappiamo, perché l’abbiamo veduto, perché nella nostra vita l’abbiamo sperimentato, che le condizioni per l’apparizione del valore (le condizioni per la «grazia») sono anzitutto in una certa situazione, in un primo moto di protesta o di rivolta o disperanza verso qualcosa di particolare. E per questo il tener viva la coscienza della negazione, della contestazione, della insoddisfazione e della rivolta nelle classi oppresse dalla economia e dalla cultura del privilegio seguita a parerei compito altrettanto prezioso quanto quello di predisporre le tecniche della loro liberazione; queste possono fallire, mentre quella coscienza è il solo bene che non può esser loro tolto e il pegno di ogni bene futuro. Combattendo realmente per la giustizia, la libertà viene per soprammercato».
(Fortini, Libertà e necessità, in «Non solo oggi», pag 130, Editori Riuniti, Roma 1991).
Ciao
Samizdat
Nella vita si rischia sempre di lasciar cadere qualcosa di molto importante per un altro qualcosa che al momento ci interessa. Siamo esseri umani e purtroppo i nostri bisogni (per poter vivere o sopravvivere) sono spesso e fortunatamente diversi a seconda dei momenti che viviamo- Non possiamo certo sentirci in colpa se con nostro figlio o nipotino siamo andati insieme al Luna Park, abbiamo riso, mentre altri bambini (terribile) muoiono sotto i bombardamenti. Per poter affrontare i problemi dobbiamo avere anche momenti di gioia. Ognuno si trova i propri. Se così non fosse sarebbe davvero la catastrofe, la fine dell’umanità.
Anche chi ora soffre spera sempre di ritornare alla gioia e qualcuno la cerca anche mentre sta vivendo tempi orribili.
Trovo anche che sia una questione di dignità. Sentirsi persone attraverso i sentimenti, soprattutto quando si pensa di aver perso quasi tutto.
Ho amici veterocomunisti che quando parlo di sentimenti mi guardano come fossi un marziano, ma amano , piangono ,ridono tanto quanto me .
Stanotte ho sentito distintamente il terremoto perchè ero sveglia, a pensare precisamente alla discussione che si sta intrecciando in questo post, che, mi sembra, arriva alle fondamenta delle posizioni differenti tra me, Ennio, Mayoor, e altri.
Non mi sarà facile fare un discorso chiaro e completo. Per provarci partirò dall’articolo di Sandro Dell’Orco (SDO) cui Ennio ha rimandato, che riguarda l’oblio in cui è caduto il pensiero di Adorno dopo gli anni 70, ma che soprattutto cerca di delineare il pensiero di Adorno.
Ecco, seguendo il ragionare di SDO, mi sono inizialmente sorpresa che Ennio rimandasse a quella lettura. Una tale esaltazione della libera soggettività e dell’io razionale in Adorno mi pareva contrastare con le convinzioni di Ennio sulla non indipendenza del soggetto.
Cito alcune frasi in cui SDO espone la posizione di Adorno “ogni persona normale può immediatamente scoprirsi come un’autonoma coscienza e volontà, cioè come un Io, come un soggetto” e anche “Di tutto posso dubitare tranne che io sia ‘un centro’ autonomo di coscienza e volontà”. Per concludere: “L’Io è dunque il nerbo, o comunque uno dei punti irrinunciabili del discorso adorniano.”
Però, spiega SDO, per Adorno ognuno di noi è due, è ragione e natura, e la parte soggiogata dal sistema capitalistico, costruito dagli uomini come fosse la natura stessa, è la parte naturale animata dal bisogno e dalla paura, contro la parte razionale della libertà. (Ci sono dettagliati passaggi che mostrano il modo di produzione capitalistico come crescita illimitata della produzione in base a rapporti tra singoli tipo homo homini lupus, fino a che il dominio stesso del capitale viene introiettato come necessario e naturale. Non li riassumerò, rimando invece alla lettura dell’articolo).
Ma questo dualismo, ragione natura, libertà necessità, mi sono chiesta, non è quello riassunto in anima e corpo, proprio della religione?
Così come è proprio della religione il volontarismo che ne deriva. Infatti il problema “non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto”, e a livello planetario l’industria culturale “ripropone incessantemente agli stanchi sudditi, durante le ore libere, il medesimo animalesco mondo che si sono appena lasciati dietro le spalle”. Tuttavia Adorno “preferisce ‘segnare il passo’ ed illuminare, fino agli ultimi istanti della sua vita, gli ambiti di esperienza ‘non egoistici’, sottratti al ‘rapporto di scambio’ (quali l’arte, la letteratura, la filosofia), che possano contribuire a formare individui in grado di far sperare in un futuro migliore.”
Dualismo interiore, e dualismo tra noi esseri umani; impegno a raggiungere le vette della ragione rispetto al soggiacere alla natura e al modo di produzione diventato esso stesso natura brutale e cieca. Ma questa è la gnosi.
Che affida alla volontà di liberarsi, e in seconda battuta di conoscere la strada da compiere.
Il cristianesimo, il cattolicesimo specificamente, ha elaborato di giocarsi la salvezza insieme a tutta l’umanità, non tra pochi eletti. (Romano Guardini e Romana Guarnieri rappresentano questo cattolicesimo popolare, dei santi, dei riti, delle processioni e dei miracoli.) Adorno infatti è stato abbandonato da quei marxismi che hanno voluto incarnarsi nella storia, nella concretezza politica, statale, internazionalista o rivoluzionaria.
Che c’entra questo con la nostra discussione politica? E’ evidente: tutta la discussione verte sulla separazione o no di una frazione umana nei confronti di una maggioranza di sfruttati e però, e perciò, anche ottenebrati e impigriti.
O invece ci si può volere in sostanziale comunanza con gli altri, che sono più o meno avvertiti della loro condizione, ma non sono nemici, e neppure da sferzare educando. (Naturalmente i nemici esistono e vanno identificati.)
Passo a commentare due passi del Fortini postato oggi 24 agosto, ore 12.13, da Ennio.
Rispetto all’esempio riferito da Fortini sulle creature che si arrampicavano l’una sull’altra nelle camere a gas, schiacciando i deboli per non respirare -subito- i gas mortali, a me viene in mente padre Kolbe, che si è offerto a sostituire un padre di famiglia condannato a morte.
Quanto alla “volontà di esser diversi”, ”tener viva la coscienza della negazione, della contestazione, della insoddisfazione e della rivolta nelle classi oppresse dalla economia e dalla cultura del privilegio seguita a parermi compito altrettanto prezioso quanto quello di predisporre le tecniche della loro liberazione”, bene: tenere viva sempre l’analisi e l’illustrazione delle tecniche di ottundimento e sopraffazione, ma, anche qui, distinguere tra i nemici e tutti gli altri, che nemici non sono ma alleati.
Allora posso dire ora quale è la mia posizione.
Ennio a Rita (24 agosto 12.13) rivendica l’aut aut: spostare l’attenzione dalle Olimpiadi alla Siria -con un atto di volontà- consentirebbe quella conoscenza che produrrebbe azione politica. Io credo che l’azione politica debba sortire fuori dalla analisi di quello che siamo, noi stiamo meglio che in Siria, oggi, ma anche abbiamo venduto all’Arabia Saudita poco tempo fa le armi per i *ribelli moderati* che proseguono da anni la guerra. In sostanza stiamo al mondo legati alla Siria dal lavoro per parte di noi e dallo schieramento internazionale del nostro governo. Stiamo al mondo molto meglio che in Siria, e non è solo il fatto di starci meglio (per esempio noi guardiamo le Olimpiadi, i siriani vedono altro…) che non ci fa pensare alla Siria.
Lo sforzo di critica deve riguardare noi, non dobbiamo mai distogliere lo sguardo da noi. Il problema non sta nel fatto che non guardiamo abbastanza la Siria invece delle Olimpiadi, ma nel fatto che non guardiamo Renzi che va a Riyad.
La logica dell’ et et per Ennio è pigrizia, fa accontentare di una generica indignazione o generica compassione “a me pare che nella logica dell’et et manca quel che serve: *imporsi* (sottolineo io) di capire e riflettere sulle cose importanti, serie, come premessa ad atti politici possibili e altrettanto importanti e seri”.
Io continuo a opporre a questa *critica dell’et-et* la necessità di una critica scarnificante di sé, dei propri privilegi e paure, come unico ponte reale verso… la Siria. Anch’io sarei sull’imporsi, ma su di sé, imporsi l’autoanalisi della propria condizione reale non lo sforzo di passare ad altro senza avere lavorato in primis su di sé.
Da qui possono derivare anche conseguenze paradossali e spiacevoli, pensare: per fortuna che vendiamo armi così si lavora, meglio sostenere il decreto del governo che invia consiglieri in Libia senza passare dal parlamento, per stare nel teatro bellico e difendere i nostri interessi, ecc…
Ma è questo che dobbiamo voler sapere, così vedremo anche le bombe che cadono nei teatri del mondo.
@ Mayoor
Mayoor, 24.08 h. 9.05
*Michele Ranchetti manca alle mie letture, si sarà capito. Però davvero non so spiegarmi come – voi con lui, che per altro mi pare molto cattolico – non riusciate a separarvi dall’idea che ogni scelta sia dovuta a legge di mercato*. ….. . Ma dove guardate sempre? dall’altra parte, dove di spiritualità non vi è nemmeno l’ombra? solo mercato, mercato, mercato…*
Mi sembra di aver scritto nel mio post precedente, a proposito di ‘mercato’ in questi termini:
“E la domanda successiva: *Ed è forse questa ragione di mercato, come già il sonno dell’altra ragione produceva mostri, a produrre mistici?* la modificherei così: è davvero solo una questione di mercato e non anche, dietro l’assoluzione del mercato che tutto a sé condiziona e riduce, un salvare le proprie coscienze?”
E’ troppo comodo pensare che c’è sempre qualche cosa di esterno che ci condiziona, che siamo ‘figli del capitalismo’ e quindi ci portiamo addosso questo marchio che determina le nostre scelte.
E, più sopra, parlavo di Ranchetti (che nemmeno io ho ‘praticato’) ma, per quel poco che so, non in quanto cattolico ma come uno studioso serio, e quindi ‘umile’ e anche incazzato (ma non come Papa Francesco) di fronte ai giochi di prestigio e di modifica di senso che intercorrono nel passaggio tra la scrittura ‘originaria’ e la sua ‘predicazione’. E dove i Pontefici (i pontifex, quelli che fanno da ponte fra la teoria e la sua divulgazione), ovvero gli Intellettuali, si fanno i ‘ponti’ per conto loro, tradendo l’originario da cui sono partiti. E tutto ciò tranquillamente, senza nemmeno farsi carico dell’onere della ‘uccisione del padre’, di psicoanalitica memoria, ma abolendo il padre tout court (ovvero la sua funzione, sia chiaro) con un ‘colpo di parola’ sotto la definizione di ‘genitore 2’.
@ Emy
Emilia, 24.08 h. 7.45
a) *è ancora valida,secondo te, la teoria, che spinge a considerare la solita via di mezzo?
Quella che bisogna capire un po’ tutti(giustamente) , cercare di non sottometterci a chi ci vuole a tutti i costi imporre un pensiero e discuterne democraticamente?*
….
b) *Che il divertimento (quello degli spettacoli, olimpiadi comprese) appartenga al capitalismo, sono d’accordo, ma penso anche che ognuno di noi abbia il diritto di divertirsi un po’ oltre che a pensare cosa fare per migliorare questo mondo così pieno di catastrofi*
a) Il ‘luogo comune’ (che è ben diverso dal ‘senso comune’che è più complesso) è un pericoloso tranello perché sotto la veste di uno slogan sufficientemente significativo mette d’accordo le persone, tenendole tutte insieme sotto la stessa cupola, ovviamente, senza alcun bisogno di un ulteriore pensiero.
Ma che cosa vuol dire “capire un po’ tutti?”
Innanzitutto, che cosa vuol dire “capire?”. Come ‘so’ di aver capito? E, dopo aver ‘capito’, che cosa faccio?
Che cosa vuol dire “un po’ tutti?” Significa che alcuni vengono lasciati fuori? E perché?
Che cosa vuol dire “cercare di non sottometterci a chi ci vuole a tutti i costi imporre un pensiero”? Significa credere che questa sottomissione avvenga attraverso una ‘imposizione’, palese e forzata come era usa fare la Chiesa con gli eretici? Significa credere che siamo liberi di disporre del nostro pensiero, basta solo che ci sentiamo a posto con la nostra coscienza? Ma come è fatta la nostra coscienza?
Che cosa vuol dire “discuterne democraticamente”? La ‘democrazia’ aveva un senso quando è nata, perché si appoggiava ad una realtà che la supportava. Oggi non ci sono fatti che la supportino, e quindi è una parola vuota che serve solo a riempirsi la bocca (di amaro fiele, secondo me).
b) Come ho detto nel mio intervento precedente, porre il problema nei termini o/o (o le Olimpiadi o il pensare ai drammi che ci massacrano) non ci porta da nessuna parte. D’altronde non serve scomodare il capitalismo se pensiamo alla locuzione “panem et circenses”, che ha una datazione molto antica!
E, poi, perché si deve ‘reclamare il diritto’ a divertirsi? Significa che c’è qualche cosa che osta al piacere? O che prima bisogna soffrire? (prima il dovere e poi il piacere?).
@ Ennio
Ennio, 23.08 h. 23,41
*Tu [Tonto] hai posto, partendo da un caso concreto – le Olimpiadi –, un problema fondamentale: ci dobbiamo inchinare a questa realtà o, impossibilitati a mutarla (e non so per quanto tempo o addirittura per sempre), dobbiamo fare almeno qualcosa per salvaguardare la possibilità – alcune volte affacciatasi – di mutarla, migliorarla, ridurne la sofferenza che ci procura. Bene, ma adesso mi devi spiegare come fai ad essere così diplomatico e signorile verso posizioni come quelle di Mayoor che, malgrado l’amicizia e la stima che a lui mi legano, a me indignano*.
Sinceramente, non capisco questa introduzione moralistica dell’indignazione, visto che nel commento più sotto (Ennio, 24.08 h.08.59) si scrive che * Si possono e si debbono discutere e valutare le varie interpretazioni (e il «corollario di idee e ragioni più vasto» ad esse sotteso), scegliere quella o quelle più argomentate e convincenti.* e che * Pure i poeti – interi o «a metà» – hanno i loro «paraocchi».*
Chi sceglie *quella più argomentata e convincente* sarebbe dunque nel pieno diritto di farlo: allora perché ‘indegno’?
Sarebbe indegno chi predica bene e razzola male, come coloro che accusano delle peggiori infamie i cosiddetti intellettuali semi-colti e poi li frequentano senza nemmeno una base di amicizia o stima che giustifichi (o sostenga in parte) quella ambiguità. Lì, sì, ci starebbe l’indignazione. E di brutto!
Ennio, Sempre 23.08 h. 23.41
*E, a scanso d’equivoci, aggiungo che non ritengo la mia posizione di ricerca superiore a quella di Mayoor, ma che la mia e la sua non possono essere equivalenti, non si possano praticare o perseguire assieme*.
Meno male che non sono equivalenti, così come non lo sono quelle con gli altri collaboratori, sempre nel senso dell’etimo, sennò dove sta il confronto!
Qual è allora il problema? Si presenterà quando ci sarà davvero una situazione critica e “lì si parrà la tua nobilitade!”. Però, prima di quel momento, si possono percorrere dei tratti assieme e gli aut-aut ci servono più come indicatori di dubbio (impedendoci di confondere desiderio con realtà e quindi di prendere cantonate), che come operatori per delle scelte.
Ennio, ancora 23.08 h. 23.41
*Insomma, io direi: stop al finto dialogo e ai salamelecchi (e al “tatto”) e più “diatriba” (cioè contrapposizione chiara di posizioni opposte e configgenti)*.
Visto dall’esterno, ho sempre percepito la presenza di un nucleo serio, interessato veramente al dialogo il quale, come spesse volte accade, rischia di perdersi nelle derive degli equivoci ma, credo sia anche ‘fisiologico’ oltre che facilitato da una realtà sfuggente e confusa.
Salamelecchi e tatto non sono la stessa cosa e, certamente, lo stile comunicativo odierno favorisce più i primi, accentuandone gli stupori e gli entusiasmi, che il secondo che implica maggiore attenzione – e più tempo – per capire che cosa si può dire e che cosa no.
A me, personalmente, l’idea di partire per una *contrapposizione chiara di posizioni opposte e configgenti* da un lato mi spaventa (bisognerebbe davvero avere un armamentario sia intellettivo che documentale adeguato), e dall’altro mi fa sorridere, perchè mi vedrei più nel ruolo di Sancho Panza.
p.s. ho letto solo velocemente gli ultimi commenti di Cristiana, Ennio e di Emilia per cui in questo post non ho tenuto conto di loro osservazioni.
R.S.
Grazie per il chiarimento che mi riguarda, ero alle “derive degli equivoci”.
Mi permetto solo una nota al tuo commento in risposta a Ennio:
oltre a salamelecchi e tatto… esiste anche Emilia ahah! 🙂 🙂 🙂
ah! io mi vedrei nel ruolo dei mulini a vento (un po’ facile, lo ammetto).
… aggiungo che ti ringrazio per la lezione sul metodo: nell’averci pensiero.
@ Rita
Per “capire ” un po’ tutti volevo intendere l’essere comprensivi e a volte anche tolleranti.
Con quel “un po’ tutti” volevo intendere il trovare una via di comprensione anche per chi forse non si aspetta comprensione ma vuole solo scontro.
Per tutto il resto la tua risposta come sempre mi ha soddisfatta al punto che come sempre ti ringrazio per aver letto la mia richiesta, il mio dubbio le mie difficoltà-.
Per quanto riguarda la coscienza ….come avrai capito, la mia non è mai tranquilla.
@ Mayoor
Toglimi dalla lista dei ben educati. La verità è che i macigni mi fanno ancora paura soprattutto quando sono sul dirupo.
Niente salamelecchi le tue poesie sono piene di passione e di coraggio e mi piacciono tantissimo.
Scherzavo, l’avrai capito. E’ che tu fai complimenti a tutti, solo che sei sincera. Questa è la pregevole anomalia.
no, non a tutti. per gli altri mi astengo.
… mi spiace, non capisco mai bene dove ficco i miei commenti, volevo metterlo alla fine degli altri, comunque…
Per i gentili amici
Ho scritto queste righe il 22 e poi credevo di averle messe al loro giusto posto ma dimostrando la povertà delle competenze non so dove sia finito … Fra l’altro molte ulteriori cose sono state dette ma ve le invio così come nacquero qualche giorno fa …
Mi scuso fra l’altro perché qualcuno dei gentili amici ha fatto notare che sono intervenuto poco e tardi e ciò non è corretto né cortese in un dialogo. Devo ammettere che i tempi di internet non sono i miei, sono lento sia a ragionare sia a scrivere … il pensiero ha bisogno dei suoi tempi che non sono il just in time del villaggio globale.
Per Mayoor
Credo di non aver mai parlato, né lo ha fatto il Tonto, di “morte” quanto piuttosto di un nuovo linguaggio adeguato a quell’uomo inedito che è destinato ad affrontare la nascente età planetaria. Forse il concetto andrebbe chiarito ma certo abbiamo parlato di vita e non di morte.
Ovviamente quello di ragionare intorno a un domani che non si presenta certo radioso è un itinerario che fa fatica a coniugarsi con le vecchie teologie e le vecchie metafisiche con tutto il loro fardello di miserie concettuali e di povertà concrete. Il discorso potrebbe essere infinito ma ho l’impressione che davvero valga per i “credenti” quello che un critico ha detto d recente parlando dello scoiattolo zannuto Scratt alla disperata ricerca di mettere in salvo la sua ghianda e artefice inconsapevole di una infinita serie di disastri, ovvero che si tratta di un modello concettuale che ripete all’infinito se stesso e destinato ad annoiare gli “adulti” ma che fa la felicità dei “bambini”, i quali, si sa, adorano vedere ripetere più volte lo stesso meccanismo narrativo.
Insomma faccio fatica a capire cosa possa essere il “positivismo cristiano”, forse conosco l’apocalittismo, il rigorismo, il causismo, il ritualismo dottrinario catechistico e infinite altre forme ma faccio fatica a comprendere un positivismo. Similmente mi risulta difficile comprendere come un evento di 2000 anni fa, come nessun altro terreno di infinite diatribe, possa , attraverso la presunta morte di un palestinese marginale di nome Gesù, la cui breve avventura terrena è diventata parte di infinite e diverse narrazioni fino a che una di esse è stata trasformata in “istrumentum regni”, gettare oggi una luce permanente sulle cose”.
Ovviamente massimo rispetto per chi “vive in un deserto di luce” ma nel contempo come non sentire il bisogno di chiarire che tale scelta è terreno individuale che difficilmente può costituire una pietra di paragone su cui poter costruire un dialogo sulla realtà che non sia una sterile ripetizione di formule logore.
Quelle formule che incredibilmente ma non tanto, dalla fin degli anni ’80 del secolo scorso, sono andate diffondendosi nel milieu intellettuale e accademico e poi in formula più semplice e fideistica nell’universo della gente comune dando vita a quella deriva che è stata analizzata, a mio avviso con acume, da Ranchetti e che ha come esito il rifiuto della razionalità e l’emergere di forme sempre più virulente di fideismo irrazionalistico e di fondamentalismo.
E’ chiaro, ma questo riguarda un terreno di discussione molto più ampio, che chi ha scelto di assumere un punto di vista positivista o in ogni caso positivo non può vedere nella realtà che ci si dispiega di fronte a noi “una rivoluzione possibile se non all’interno della macchina stessa”. Anzi la macchina non accetta di essere rivoluzionata semmai rinnovata tramite un progresso che ha molto del darwinismo e che certo esteriormente sembra molto modificare, ma all’interno opera secondo il principio che la natura non facit saltus; e perciò nulla muta veramente.
Sempre che le sue contraddizioni interne non la portino sulla via di una più generale crisi ma questo è ancora un altro paio di maniche.
In questo senso i dubbi che esprimevamo nei confronti del vegetarianesimo e delle sue varianti più radicali riguardano proprio il loro essere una critica nei confronti del consumismo in quanto ipotizzavamo facessero parte di un abile meccanismo per inventare altri target di mercato nella continua e multiforme necessità del capitale di modificare costantemente la sua natura, fornendo nuovi e diversi volti di sé appetibili a pubblici sempre nuovi.
Da questo punto di vista le macchine, quelle concrete e operative ma anche quella sociale più complessiva, nell’era del capitale mediatico, non hanno bisogno di un passato o di un futuro in quanto esse stesse del tutto funzionali alla creazione di rapporti sociali di dominio e ad operare in un eterno presente. Si tratta di macchine che favoriscono il reiterarsi di rapporti di prestazione, di reificazione e di alienazione che hanno la finalità di consentire la riproduzione sempre uguale e infinitamente diversa del meccanismo della produzione del profitto.
In questo contesto ciascuno ha la possibilità di fare le sue scelte. Quella di dedicarsi a un processo conoscitivo e introspettivo ha una sua indiscutibile dignità, anche se corre il rischio di trasformarsi in un itinerario irrazionalistico che vede nell’intuizione, individuale ed ineffabile nella sua unicità, l’apice di ogni conoscenza. Ad essa non possiamo che contrapporre, come Hegel al secondo Schelling (ma si prenda il parallelo cum grano salis), alla intuizione irrazionalistica la ragione.
Ovviamente ogni “cenacolo” ha dei limiti, non ultimo la capacità di ognuno di noi di tollerare l’altro e prestare attenzione alle sue affermazioni. Ben sapendo che possono permanere, e forse è inevitabile che permangano, elementi di freno e conservazione di forme di pensiero consolidate.
Prendendo spunto dalle tue ultime parole sarebbe già bello forse, tanto per darci una meta a breve scadenza, di ragionare fra noi su cosa intendiamo per “battaglia progressista” probabilmente ne uscirebbero cose originali.
Vale
Mi rifacevo – e scusa se la mia preparazione storico filosofica presenta molte lacune – con l’erroneo “pensiero positivista cattolico”, ad alcune affermazioni di Galimberti, circa la morte di Dio contrapposta al pensiero cristiano che prevedeva una vita dopo la morte, infondendo così una certa coscienza d’immortalità. Idee che furono di Nietzsche, se non vado errato.
Quanto a “non riesco a vedere morte”: nasce di sana pianta dal mio commento, e non per riprendere un argomento da te sollevato. Ho la brutta abitudine di saltare i dettagli. E spiace che la mia interpretazione, forse perché troppo succinta e non sostenuta da valide testimonianze, non abbia provocato in te altro che disappunto. In poche parole, ma non credo di aver detto chissà che, il sistema ha finito col prevalere sul denaro. La macchina sull’umano-disumano. Questo Marx l’aveva previsto? Immagino di sì. E non solo lui, recentemente anche Philip Dick. (Non fa ridere)
Quindi: tu sostieni che il Capitale si rinnova costantemente, io invece sostengo che non sa rinnovarsi, affatto; lo conferma la logica dei suoi comportamenti, che appare da tempo prevedibile (anche se grossolanamente tenuta occulta). Dunque, cos’è il capitalismo? Un sistema che trascende i capitalisti stessi; sistema dotato di muscolatura informatica ( tutte le somme possibili moltiplicando 2 + 2 fa 4, all’infinito). Sistema dotato di tentacoli, con tanti omini che si muovono all’unisono (però, e questo in parte lo spiega, tenendosi in vita lussuosamente). Ce la stiamo prendendo con una macchina, non con un essere pensante.
Wu Wei, azione senza azione. Ma, intendiamoci, azione. Purché, nelle modalità proprie del meccanismo. Esempi non ne mancano anche nella storia post-sessantottina (meglio non ricordare); erano metà carne e metà pesce, come si dice, quando invece bisognerebbe stare in forza su una parte soltanto: quella della Costituzione ad esempio, o se volete quella dei ricchi. Però, poi, il meccanismo non deve impazzire alle periferie.
Sicuro di non essere riuscito a farmi capire
ti abbraccio
Carissimo
Nessun disappunto, evidentemente non si può essere sempre in sintonia, al massimo una diversa concezione del significato delle parole e del loro peso. Io tendo a prenderle molto seriamente.
Lasciamo da parte il problema della positività del cristianesimo e delle sue infinite ambiguità su cui si muove troppo a suo agio una infinita metafisica dedita da due millenni a dimostrare l’indimostrabile.
Lasciamo da parte anche il fatto che qualche volta saltare i dettagli può essere periglioso e passiamo più o meno al tema del capitalismo. Tu dici che: “il sistema ha finito col prevalere sul denaro”. Io devo però farti notare che non esiste contraddizione fra sistema e denaro essendo entrambe tendenzialmente senza un con/fine e il denaro non è che un mediatore universale … se non erro un maestro lo aveva paragonato alla merda proprio per la sua inestinguibilità. Aggiungi poi che “la macchina ha finito di prevalere sull’umano”. Affermazione che era presente in Marx e in gran parte della fantascienza, quella seria. Ma di qui alla successiva tua affermazione che il capitale “non sa rinnovarsi affatto” ne passa davvero un mare. Proprio qui non siamo d’accordo perché il capitale, che trascende evidentemente il destino del singolo detentore di capitale, ha mostrato di sapersi rinnovare e modificare oltre ogni umana previsione.
Altro discorso è invece quello che cerca di analizzare le forme di base del sistema, insomma le leggi profonde che lo governano, e qui invece si può convenire che esse sono ben stabili e sono quelle che Marx ha cercato di determinare nel volume primo del Capitale e poi nei successivi, rimasti incompiuti e che avrebbe dovuto essere compito della teoria critica continuare a illuminare. Che ciò si sia verificato o no è problema aperto. Ma certo non si può convenire con la tua successiva affermazione: “Ce la stiamo prendendo con una macchina, non con un essere pensante”. Essa è discutibile perché nega la soggettività dei diversi individui che fanno il capitale nella sua complessità e i loro diversi disegni, non solo sembra non intendere che la forza di questa macchina è nella sua irrazionalità ma insieme e se vuoi paradossalmente anche nella sua capacità di individuare strategie di mercato che almeno fino ad oggi hanno funzionato. Rispondano esse a un disegno razionale o no è tema che il capitale non considera. Ciò che gli interessa è produrre, vendere e fare profitti e a questo livello ragiona eccome. Ragiona bene o ragiona male è altro paio di maniche. Se si tratta di una razionalità in gran parte distruttiva più che produttiva non è tema che interessa al capitale. Ciò che lo interessa è che la macchina funzioni e nel complesso sia abbastanza forte per affrontare le prossime crisi.
Anche la follia (del capitale) ha una sua razionalità strumentale ben discernibile!
Nel precedente intervento non mi ero inoltrato nel terreno del Wu Wei per il troppo rispetto che ho per la filosofia orientale e per non correre il rischio di dare interpretazioni di comodo di una fin troppo raffinata metafisica. Né, mi scuserai le tue ultime righe mi aiutano molto a capire … se non la rituale contumelia sul sessantotto ante/E/post, che pure ci potrebbe stare se non fosse a sua volta rituale.
In ogni caso attenzione quando si usano quelle strumentazioni dal non cadere nell’abisso del fatalismo …
Un caro saluto
Giulio
Wu Wei, secondo me, avrebbe il pregio di sostituire alla visione ottimistica occidentale – per la quale il tempo seguirebbe l’ordine passato, presente e futuro, dove passato è errore, presente rimedio e futuro soluzione di tutti i mali ( vi è dentro anche Marx) – ma il pensiero Wu Wei considera al proprio centro l’equilibrio della natura, quindi se non altro ha uno scopo; scopo che all’economia del mercato manca. Inoltre presenta una interessante visione del tempo, che trascende la storia (passato, presente e futuro), per consegnarlo al presente che così acquisterebbe valore in sé in quanto evidenzia meglio le discrepanze dovute a disequilibrio di ciò che andrebbe meglio definito come naturale (che oltrepassa l’etico). Non è fatalismo impegnarsi per scelte razionali che siano in armonia con l’esistenza; solo andrebbe approfondita la conoscenza delle necessità, o quantomeno andrebbe aggiornata.
Un comportamento rivoluzionario di vecchio non stampo non dovrebbe limitarsi a ripetere che solo il 10% della popolazione mondiale detiene il possesso del 90% della ricchezza: dovrebbe fare nomi e cognomi e poi perseguirli. Semplice, ma perché non si fa? Perché la macchina capitalistica non è ancora obsoleta: produce mercato, quindi denaro, quindi vivacchia… né più né meno di come un tempo si viveva sotto il potere dell’aristocrazia ( e parliamo di secoli), di ere. Oggi ha ancora senso concentrarsi su classi sociali contrapposte? Per qualcuno sì, ma il numero è talmente esiguo… i contadini sono imprenditori, gli operai sono stati riassorbiti nella mentalità della contrattazione… la macchina è globalizzante. Servono nuovi scopi, scopi che non hanno a che vedere con il denaro, il profitto, l’economia. Io mi concentrerei sulla definizione dello scopo, non sulla contrapposizione. Quella dovrebbe essere solo una conseguenza, che si potrebbe persino pensare di evitare. L’auto programmazione della macchina capitalistica non sa arrivare a tanto. Quindi, per cominciare, servirebbe una classe politica meno subalterna ma davvero pensante. Tutta da costruire.
…a fronte di “…una realtà sfuggente e confusa” (Rita Simonitto) facciamo fatica, secondo me, a raggiungere una forma di lucidità di pensiero e, soprattutto, di sentire. Abbiamo sì a disposizione la ragione, l’osservazione, le esperienze, la lettura e lo studio (per tutti?), tuttavia i condizionamenti sono così potenti e ormai di lunga durata da ridurci in una sorta di trappola che ci rende quasi impotenti…Sono riusciti ad espugnare la roccaforte delle nostre menti, isolandoci per giunta, frammentandoci…Da lì cerchiamo di partire, ma dobbiamo ammettere le difficoltà…Mi ricordo di una una lettura sugli esperimenti svolti da Pavlov sui cani, ridotti alla pazzia in seguito a messaggi ibridi…Beh, noi abbiamo qualche strumento di difesa in più, ma non possiamo rilassarci. I giochi olimpici tra gli atleti di diversi eserciti nell’antica Grecia promuovevano l’interruzione dei conflitti, oggi, nel villaggio globale in cui viviamo, non fanno cessare il rumore delle armi, ben più micidiali…Ma noi li colleghiamo ai nostri ricordi d’infanzia, al piacere di vedere e sentire corpi esibirsi nei loro slanci vitali, i colori patinati di piscine e palestre e ci sembra di tradire una parte di noi, negandoci lo spettacolo…Peccato che lo scopo originario dei giochi sia tradito e le immagini di corpi di bambini, come statue impolverate, continuino a sfilare davanti alla mente…
Chiedo scusa a Toffoli, ma non ho altro sistema o mezzo per avere notizie di Francesco , Francesco Di Stefano. Se comunque sta bene e leggesse o qualcuno avessi contatti almeno via cavo, può lasciare scritto e almeno leggo da qui. E’ da ieri che purtroppo lo/li penso, fortemente senza parole, atterrita con la pena nel cuore, a lui e a tutti lì. Quelle terre, quelle persone, dei posti della mia infanzia, di tanta bellezza, di un’ Italia già americana ma molto molto più amatriciana.