di Ennio Abate
Sezione VIII di «RELIQUARIO DI GIOVENTÙ. Poeterie (1958 – 1963)» con una nota dell’autore da vecchio.
SOGNO E CALMA
Bambine in fila
seminano noccioline.
Altri più indietro
le ammaccano.
Qualcuno le raccoglierà
domani.
NEL PARCO DI PORTA VENEZIA
Sotto gli alberi
è rimasta l’umidità
di antiche leggende.
A pisciarci da soli
di notte
non si fa che aumentarla.
LA DONNA IN LUTTO
Menta ficcata nel naso
camminavo assieme a zie
senza i profumi di città.
Una era in lutto
e per quel ramo di nocciolo
che avevo rubato
rimproverava:
Che ti serve un bastone?
Ah, se arriva il padrone!
Ma il vecchio che s’accostò
cercava soltanto la sua falce
e mi sorrise.
PENSIONE DI VIA PONTACCIO
Nella notte
tonache qua e là
di sbieco o a quinte
tremano nel vento.
E tremano
le cose che sono cose
i tronchi
i colonnati
la gente
che traversa la via.
Al mattino
la luce tutto ridecide.
RIMORSI
Mi sfiorassero ancora
l’anatra colorata
con pastello d’infanzia
e le anguille nella pentola
tranquille
e in rimorso
la coda del gatto impiccato!
Ma io sto inseguendo
farfalle di sole
in bilico sulle rotaie.
IN PENSIONE
Perché non discendi?
Fin dove sei vero e dove trampolo?
Fin dove mantello e dove affanno?
Ti spogli e vedi i suoi abiti
divenire acqua di fiume
dove nascondi lacrime.
Hai guardato alle stelle
mentre donne ignote si accasciavano
lavandosi le ali sciupate
e una perdeva le labbra
pregando per te!
I primi pesci già ti solleticano.
Il delfino si morde la coda
e traccia la sua canzone.
Le alghe chiudono gli occhi
alla tua seria sorellina
(un seno sì, l’altro no)
e ragazze coraggiose
sgusciano i loro
senza toccarli.
“BEVITRICE D’ASSENZIO” DI TOULOUSE-LAUTREC
Pensatrice a gomiti stretti
arrotoli la benda d’alcool e veleni
e mai più scorderai
quando t’accompagnavi
alla falena stanca e al vento in blu.
Adesso hai intrecciato le dita
e la pendola assennata
in dodici singhiozzi t’ha avvertita
di quanta ruggine è sul tempo.
Dai l’ultimo morso di passione
alla tua albicocca e nascondila
in labirintici mai svelati sorrisi.
NOTA DELL’AUTORE DA VECCHIO
(per un’eventuale edizione in cartaceo)
Delle poeterie, scritte tra il 1958 e il 1963 (dai 17 ai 22 anni) tra Salerno e Milano, ho scelto quelle che mi paiono avere un qualche valore non puramente privato. Le ho suddivise in 8 sezioni tematiche (Campagna, Religio, Madre, Esplorazioni, Ragazze, Morte, Spleen, Visioni) e aggiunto in un’Appendice tre poesie (Vicoleggio, La ragazza dei preti, Mio padre) già pubblicate in Salernitudine, che però hanno una parentela stretta con queste e ne rappresentano uno svolgimento più corposo.
Nelle tante riletture che ho fatto di questi frammenti nel corso di vari decenni, apportandovi solo piccoli ritocchi e cercando di cogliervi un senso unitario, ho dovuto districarmi sia da preoccupazioni di ordine politico che dall’influsso inibitorio di vari superego letterari. In effetti, riconosco senza esitazioni che il loro tessuto linguistico è convulso, allusivo, scarno e a volte perfino monco. Ci sono gli echi – datati – delle letture d’allora: qua e là i lirici greci, Pavese e Baudelaire o, nella sezione Visioni, Lorca. Tuttavia ho sempre resistito all’impulso di cestinarli. Non solo per documentare (a me stesso) il risultato – bello o brutto – di quel periodo di apprendistato solitario e autodidatta. Ma perché questi frammenti, come punte d’un iceberg, mi hanno incoraggiato ad esplorare il “sommerso”, la vicenda complessiva – (esito a dire la storia) – da cui provengono e che sto tentando di ricomporre nel “narratorio” a cui lavoro. Essi rappresentano poi il primo mio tentativo di rendermi conto dello scombussolamento seguito a due strappi dolorosi, colti qui in modi immediati ed esistenziali come perdita di luoghi, tempi e persone amate ma indagati più tardi anche nella loro dimensione storica.
Il primo strappo per me avvenne nell’immediato secondo dopoguerra (1945-’48) col passaggio da uno spicchio limitato di mondo, campagnolo e povero ( Casalbarone di Baronissi) ad un altro spicchio di mondo, altrettanto ma altrimenti limitato, quello di una città meridionale e provinciale – la Salerno degli anni ’40-’50 del Novecento – segnata dallo stile di vita di un ceto piccolo borghese che si riconobbe in pieno nel cattolicesimo popolare post-fascista della Democrazia Cristiana. Il secondo fu voluto dal giovane stesso che ero con l’abbandono “folle” agli occhi di molti, nel 1962, di Salerno (della famiglia d’origine, degli amici, degli studi) per un trasferimento solitario e alla ventura nella Milano ancora in pieno boom economico.
La violenza materiale e psichica che caratterizzò questi due strappi spiega forse perché questi testi siano rimasti solo dei frammenti. Nel montaggio che ne ho ora dato tre elementi emergono netti:
– le residue tracce di un morente paganesimo contadino, percepite nella condizione afasica, sognante, stupefatta e fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia, perse poi di vista per il passaggio in città (Salerno) e ritrovate, ma sempre più deboli, in alcuni brevi “ritorni al paese”;
– il marchio ambiguo, perdurante, retrivo e protettivo allo stesso tempo, di quelle popolari, castigatissime gioie dell’educazione cattolica, come le ho chiamato altrove con sarcasmo e distacco da adulto, provate in una intensa e suadente vita comunitaria parrocchiale o nella scuola dei signori (il liceo classico);
– l’oscillazione, dinanzi alla realtà metropolitana di Milano (ragazze, strade, folla, ma anche lavoro impiegatizio), tra un atteggiamento da flaneur giovanilmente vorace e magari impacciato e quello di uno che s’era fatto (e veniva vissuto) straniero o migrante predone; ritrovandosi, non senza rimorsi, in un attrito allora inspiegabile (suo verso gli altri e degli altri verso di lui) più duro e “meno umano” di quello provato in precedenza.
Devo a Michele Ranchetti, a cui tardivamente, nel 2003, feci leggere questi versi a lungo tenuti nel cassetto, un giudizio ben centrato: « ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi, maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro, forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla testa».
Sì, il tralcio abbandonato è il Sud (Salerno e l’educazione cattolica), il vino (le poeterie) ha i pregi e i limiti di una coltivazione bruscamente interrotta. E perciò credo di aver fatto bene a definire questi versi «poeterie», cioè prime prove, quasi ‘vanterie poetiche’, di un giovane isolato e incerto apprendista (della vita ancor prima che della poesia). Anche il titolo reliquario di gioventù mi pare tuttora adeguato: indica il legame che ho mantenuto con quelle prime esperienze emotive e conoscitive e con questa loro resa in versi. In più oggi riconosco, senza autocompiacimento e come correttivo al sessantottesco rifiuto della poesia – il debito verso l’apprendista poeta che fui, fragile e provincialmente contorto nell’accostare quel «mestiere di vivere», di cui – primo tra le sue letture per passione – gli aveva parlato in quegli anni Cesare Pavese. E questo dovrebbe spiegare anche la ragione della loro ripubblicazione* posteriore a raccolte più organiche (Salernitudine, Immigratorio) dove ho presentato in forma più matura gli stessi temi.
*Una versione precedente è in un'autoedizione, Samizdat Colognom», n. 5 (sett. 2002- sett. 2003).
…il tempo scorre e non scorre, come per queste poesie che Ennio ha tirato fuori dal cassetto, tutto resta sempre attuale in qualche modo. Lo ringrazio…Le poesie scritte da fanciullo sono belle per la loro semplicità, quasi francescana, per la descrizione di gesti calmi e visioni della natura vicine alle fiabe contadine(Sogno e calma, Donna in lutto) e di giochi crudeli e innocenti dell’infanzia: “ma io sto inseguendo/ farfalle di sole/ in bilico sulle rotaie”(Rimorsi)…Si respira un sapore di antico, di sacro, legato ad una età, personale e storica, di maggiori speranze, sebbene appena uscita dalla guerra…In altre poesie affiorano le visioni giovanili di uno studente-contadino immigrato nella grande città, ma ancora immerso nell’acquario di provenienza…Nella poesia “in pensione”, forse scritta rievocando un momento di dormiveglia in un letto ancora poco familiare, il giovane poeta insegue visioni e squarci di sogni: di donne sciolte tra le lacrime nel fiume, prime esperienze amorose, ma anche di presenze familiari in pena, di pesci invitanti nel loro vortice…molto suggestiva…L’ultima poesia “Bevitrice d’assenzio” dal dipinto di T.L., scritta in giovinezza, è depositaria di una malinconia senza tempo…Così bella la donna e tuttavia chiusa in un dolore indicibile, che solo l’assenzio può smorzare e trasformare in un illusorio piacere…Ma allora il poeta esce dal suo ruolo e desidera parlare alla donna per invitarla a gustare l’ultimo frutto …Un incoraggiamento del giovane di allora al vecchio di oggi perché la vita sia vissuta e apprezzata sino in fondo?
“Le poesie scritte da fanciullo”…
Preciso: scritte tra i 17 e 22 anni.
Direi che la tecnica del”frammento” ( pochi versi completi in sé, che insieme concorrono a formare l’ologramma di un solo significato o di una sola immagine, per quanto articolati possano essere) presenta innumerevoli vantaggi, tra cui quello che a me pare il più importante: la continua interruzione fa decadere l’idea della poesia come discorso lineare; spezzettando il senso (o l’immagine), anziché indebolirsi, il verso si potenzia perché diviene somma di due versi. Si dirà che l’Ermetismo, particolarmente Ungaretti, aveva fornito già ampia testimonianza, oppure che il frammento, in poesia, è sempre esistito. Può essere; quel che so è che obbliga a cambi repentini del pensiero-immagine. Anche l’attenzione del lettore ne verrebbe risvegliata.
E’ il caso di queste tue poesie – tu stesso hai parlato di “frammenti” – che a me sembrano scritte perfettamente in questo stile. Che mi sento di definire moderno. Quindi se le hai scritte già così in gioventù, non posso che farti doppi complimenti: uno per la precisione della tecnica con cui sono stati scritti, due per le immagini che riconosco appartengono alla tua poetica, almeno per come l’ho intesa fin qui leggendoti.
Scusami se per adesso non entro nel merito di queste tue – belle – poesie, tenevo a dire qualcosa sulla tecnica del “frammento” e tu me ne hai dato l’occasione. Ovviamente è solo una tecnica, una diversa organizzazione del verso che,forse, è più in sintonia con la velocità d’apprendimento del pensatore contemporaneo. Eh sì.
Tra l’altro, a dispetto del senso cercato o perseguito che primeggia nella scala dei valori di Ennio, trovo che sia poeta molto sperimentale. Lo dimostrano anche i suoi recenti esperimenti con italiano e dialetto. Poeta fine, impegnato su molti fronti.
BEVITRICE D’ASSENZIO
sembra scritta oggi.
Pare che il tempo non sia passato, Abate si sente, nella sua succinta maniera ieri come oggi. I sentimenti si fanno immagini, non strappano malinconie ma certezze, lo sguardo è quello di un poetapittore. Segmenti, linee, percorrono un incalzare di momenti di intensa vitalità. L’età conta.
Per quanto poco si possa capire di lei da queste poesie, credo che debba pubblicare la raccolta intera, avendo cura come ha fatto, di precisare che si tratta di un percorso da seguire per comprendere meglio la sua formazione culturale.
Credo che se qualcuno leggesse solamente il suo libro di poesie” la polys che non c’è ” si perderebbe una buona parte della conoscenza di un autore e della sua formazione poetica, e quindi la invito a concretizzare la sua intenzione di far conoscere ai lettori il suo percorso formativo prima ancora che avesse inizio la sua vita ” pubblica ” di lotta e di impegno politico e culturale.
A me piacciono molto questi brevi cenni letterari che lei ha nella sua scrittura di quel tempo , partendo dall’influsso di Pavese nella poesia ” nel parco di porta Venezia “, al rimando forse inconscio della poetica di Fellini che ho intravisto nella ” pensione di via Pontaccio “, alla passione per la pittura che ho trovato riprendendo in esame il quadro di Toulouse Lautrec , ma mi lasci dire che il finale di ” Rimorsi” è decisamente incantevole per il suo tocco veramente alto, perché- magari anche in età adulta- come ormai ha raggiunto forse talvolta rimpiangerà quelle farfalle che inseguiva allora sulle rotaie.
Non so se troverà il coraggio di esporre al pubblico i suoi lavori letterari giovanili, specie quando si è raggiunta una posizione culturale e pubblica come quella che lei ha, però, non se ne vergogni perché il coraggio di un poeta è quello di donarsi ai lettori, con tutte le sue debolezze, i proprio ripensamenti, le sofferenze , i sogni.
Grazie per averlo fatto.
Ennio propone ai lettori del blog e di FB queste sue *poeterie*, cioè “prime prove, quasi vanterie poetiche”, che ha voluto conservare e che decide di inserire nel narratorio a cui lavora.
Le chiama frammenti, per un “tessuto linguistico [è] convulso, allusivo, scarno e a volte perfino monco” e li dispone in un *reliquiario di gioventù* (questo è il titolo) quasi una cornice che le tiene insieme accostate.
In queste poeterie trovo tratti comuni ad altre poesie di Ennio che ho letto, e alle opere figurative, che ho visto però solo sullo schermo del pc, nel movimento espressivo e nel rapporto relazionale. Alcune poesie sono costruite in due tempi, si pone una situazione in un primo momento, nel secondo momento della poesia si svela che c’è un altro senso, non necessariamente perspicuo. Si cammina, in vie, campi, parco, si va, bambine in fila, poi cambia -o si svela- il senso di quell’andare: “qualcuno le raccoglierà/domani”, “al mattino/la luce tutto ridecide”.
Dove la presenza dell’autore è ferma, Nel parco di Porta Venezia, la nebbia rende ombre incerte, notte, umidità. L’atto di profanazione accentua una estraneità reciproca, in un “attrito allora inspiegabile”, durezze che si ritroveranno nella Polis che non c’è.
Nella prefazione di M. Ranchetti a Salernitudine mi colpisce questa descrizione della personalità di Ennio “riconosce[re] la natura difficile e paurosa di se stesso bambino, senza alcuna pietà … carattere spietato esclude dal ricordo narrativo ogni idillio e ogni nostalgia … da dove abbia origine la sua paura e quel rigore morale che a volte riconosce in se stesso. Ed ha provato a rivolgersi alla poesia, che è una forma più consapevole della prosa e certo della letteratura e della critica”. Forse da questo rivolgersi alla poesia viene la mossa, affettiva, di considerare queste poesie giovanili un reliquiario di gioventù, in cui ha accostato le “prime esperienze emotive e conoscitive” alla loro “resa in versi”.
C’è vivezza visiva, scene in cui si muovono persone, e raffigurazioni o simboli delle stesse: “tonache qua e là/di sbieco o a quinte/tremano”, falce e sorriso, tronchi e colonne che traversano, fantasticati animali “le anguille nella pentola”. Colori, figure imprendibili: “I primi pesci già ti solleticano./Il delfino si morde la coda/e traccia la sua canzone”, movimenti di sguincio, diagonali, verticali, avvolgenti, scompaiono e compaiono.
Poche pretese del bel verso: come nelle poesie successive il verso è spesso elemento isolato e compiuto, passaggio per il senso dell’intero componimento.
Le donne: la zia in nero, bambine, sorellina. Donne coraggiose ma ignote e lontane, sgusciano i seni ma senza toccarli: seni immaginari, irreali. La Bevitrice di assenzio è indovinata, spiata, attraverso lo sguardo di un altro, Toulouse-Lautrec. In Donne seni petrosi “rubò a corpi che forse poteva abbracciare. Corpi. Non prede da mordere in fuga”.
Ma Ennio definisce queste poesie anche *punte d’un iceberg* che lo hanno incoraggiato “ad esplorare il ‘sommerso’ la vicenda complessiva – (esito a dire la storia) –da cui provengono”. Chiamandole punte di un iceberg, credo chieda a chi legge anche riscontri, o sguardi diversi, su fratture e composizioni di una storia più ampia, che è sua, ma non solo sua. In effetti l’opera poetica successiva (che però non conosco interamente!) è riflessione critica, meditata e insieme morale e politica, su persone e percorsi.
Ed è distanza da una emotività incandescente, espressa e poi incatenata alla pagina, allontanata da sè:
Cheste ccose riche e pateme.
Sempe l’aggia fatte cchiù crure
pecché je, ra giovane, vulev’esse crure.
O ddoce e pateme e l’ammare songhe n’ata cosa:
stanne rint’a storia e na brutta guerre
ca facette luntane e mai me raccuntaje.
APPUNTO 1: «…IL TEMPO SCORRE E NON SCORRE […]TUTTO RESTA SEMPRE ATTUALE IN QUALCHE MODO»
Per Locatelli
Come nella fiaba o nel mito? Io ho parlato, più velocemente e terra terra, di «condizione afasica, sognante, stupefatta e fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia» e penso sia utile riportare degli appunti che avevo preso su questa materia rapportandomi a un vecchio libro di Giorgio Agamben, «Infanzia e storia» (Einaudi 1978), che mi aveva colpito:
[evocare l’accaduto al presente?..come se lo rivivesse e parlasse il bambino di allora? Impossibile. C’era l’impressione, la sensazione, non il linguaggio per lasciar traccia di esse. C’è uno scarto come tra il sognare e raccontare il sogno… puoi lavorare solo su tracce mnestiche… impossibile “rivivere”. Mi riallaccio a «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe» in «Infanzia e storia» di Agamben (Einaudi 1978), letto e riletto. Potrei dire che il bambino (che ero) viveva in un mondo di fiaba e, come i personaggi delle fiabe, viveva quelle immagini, che poi si sono impresse (chissà dove) nel serbatoio-memoria, come in un «incantesimo». Ecco le parole – una delle tante che sarebbero servite – di cui allora (da bambino) non ero fornito.
Agamben dice: «senza farne esperienza». Qualifica anche questo stato con un altro termine: «stregamento»: un processo che renderebbe muti, toglierebbe la parola (che prima si aveva? e si aveva perché ci si riferiva a qualcosa di più noto o familiare?) a chi riceve l’impatto dell’immagine.
Io direi che quelle immagini venivano accolte nella mente del bambino, di cui io mi occupo oggi da adulto, senza che egli le tramutasse in parole (o potesse fare in pieno e fino in fondo questa operazione, perché nessuno nel suo ambiente gli legittimava una tale operazione, lo sollecitava in questa direzione…); o le potesse raccontare. Il che presuppone sempre un qualcuno a cui dire, a cui rivolgersi, mentre questo qualcuno allora non c’era. O, pur presente fisicamente accanto al bambino, non s’accorgeva o non era in grado di rispondere a quel suo stato d’animo, magari interrogandolo, sollecitandolo appunto a dire. O presupporrebbe addirittura che il bambino (ma io-bambino ero nato nel 41 e quindi in piena guerra, etc) avesse già avuto accesso alla scrittura, (allo spazio a parte che sempre la scrittura – o magari alla musica, alla pittura, ecc, – costruisce); che cioè avesse già preso l’abitudine di scrivere qualcosa su quello che sentiva, vedeva, toccava, ecc.
Il presepe sarebbe stato per me bambino come il mondo delle fiabe? Guardavo le statuine dei pastori, delle pecore, del falegname, del pescatore come se fossero personaggi di una fiaba? E così pure la gente che vedevo muoversi per Via Sichelgaita [la strada dove abitavo a SA] da ragazzo? Che poi da adulto mi sia venuto in mente d’intitolare i ricordi che mi sono rimasti di questo luogo «Il presepe di Via Sichelgaita» dovrebbe giustificarsi con la distanza che si è creata oggi, nella memoria, tra me vivo e le figure – “primitive”, “elementari”, “rozze” – che da essa affiorano.
Eppure, a leggere più attentamente Agamben, mi accorgo che egli contrappone il mondo della fiaba a quello del presepe. È nel mondo della fiaba che prevale una natura fatata, stregata («tutto nella favola, è ambigua gesticolazione del diritto e della magia, che condanna o assolve, proibisce o permette, affata o disincanta, ovvero cupa statura enigmatica di decani e figure astrologiche», p. 132) e si potrebbe dire: come accade nel sogno.
Nel presepe, invece, «l’uomo è restituito all’univocità e alla trasparenza del suo gesto storico; e dunque «sarti e tagliaboschi, contadini e pastori, fruttivendoli e macellai, osti e cacciatori, acquaioli e caldarrostai» sono figure dell’«universo profano del mercato e della strada» (p. 132). Quindi, deduco che il legame fra le figure dei “pastori” e le figure della gente di Via Sichelgaita, che ho stabilito, era/è (relativamente) giustificato, possibile. E che semmai il presepe (la costruzione del presepe) mi “avviava” alla storia e al«realismo», visto che nel presepe «le creature» [termine agambiano, che io sostituirei con ‘figure’] sono colte nel loro gesto quotidiano», «nell’innocenza economica del quotidiano» (p.133).
Può interessarmi , nel delineare le caratteristiche del mio “presepe” di Via Sichelgaita, quest’affermazione di Agamben:
«ogni figura del presepe è un tutto a sé…[che tra l’altro rimanda a quanto Ranchetti diceva nella prefazione di «Salernitudine» ricordata da Cristiana Fischer: ««i personaggi non si mutano in caratteri: restano fissi in sé», aggiunta mia d’oggi] tutte le figure senza eccezione sono però saldate in un’unica compagine da quell’invisibile collante che è la partecipazione all’evento messianico della redenzione» (p134).
Interessante è anche questo spunto: il presepe contrappone al«monumentale di un mondo ormai inceppato e congelato» una «storia per così dire allo stato nascente, in cui tutto è schiappa e isolato grandello» (135)…Il mio “presepe di Via Sichelgaita” come inizio di una storia?
Agamben accenna pure alla crisi del presepe («sta ormai per uscire dal costume familiare e sembra aver cessato di parlare perfino a quell’infanzia che – come eterna guardiana di ciò che merita di sopravvivere – lo aveva custodito fino a noi insieme al gioco e alla fiaba» (135). E fa riferimento anche al fatto che viviamo in un’epoca in cui «la natura sta nuovamente per entrare nella fiaba […] mentre l’uomo stregato appunto da una storia che torna per lui ad assumere i tratti oscuri del destino, ammutolisce nell’incanto» (135-6) ( sarebbe a dire: della società dello spettacolo?)
P.s.
1. «giochi crudeli e innocenti dell’infanzia: “ma io sto inseguendo/ farfalle di sole/ in bilico sulle rotaie”(Rimorsi): no, i versi sono riferiti semmai al periodo della giovinezza alle prese con la realtà metropolitana (di Milano) e quindi alla dialettica stacco da SA per….
2. «un sapore di antico, di sacro, legato ad una età, personale e storica, di maggiori speranze, sebbene appena uscita dalla guerra». Così si vedrebbe il problema in termini troppo pasoliniani ( il meglio sarebbe già contenuto in quel passato, nostalgia, ecc.). No, non è così per me.
3. «uno studente-contadino immigrato nella grande città, ma ancora immerso nell’acquario di provenienza». Sì, questa è/era l’oscillazione, la dialettica irrisolta, il dramma che spingeva alle “visioni”. Che per me sono molto più inquiete/inquietanti e meno ottimistiche di come tu sembri vederle (anche se hai usato il punto interrogativo), quando scrivi: «Ma allora il poeta esce dal suo ruolo e desidera parlare alla donna per invitarla a gustare l’ultimo frutto …Un incoraggiamento del giovane di allora al vecchio di oggi perché la vita sia vissuta e apprezzata sino in fondo?»
APPUNTO 2: FRAMMENTI, POETICHE DEL FRAMMENTO
Per Mayoor
Il «decadere [del]l’idea della poesia come discorso lineare» non mi convince. Non riesco a capire come accada che «il verso si potenzi [a] perché diviene somma [?] di due versi».
Sì, forse «il frammento, in poesia, è sempre esistito», ma è la sua ideologizzazione, la tendenza a presentare la forma frammentaria come qualcosa da “recuperare” o su cui costruire una “nuova poetica” che non mi va. Che poi sia una tecnica «in sintonia con la velocità d’apprendimento del pensatore contemporaneo», potrebbe anche darsi. Ma perché pomparla tanto? È quasi come dire che la scrittura al PC rende di più di quella la biro o “velocizza” il pensiero. Può darsi, ma ha altri, diversi limiti; e non capisco perché dovrebbe essere tanto privilegiata. Insomma, resta la mia insoddisfazione. Mi viene in mente che anche i lirici greci erano “frammentari”. Mi chiedo però se per poetica o perché delle loro opere sono rimasti frammenti.
Sì, queste mie poeterie sono frammenti («punte d’un iceberg») ma, come ho detto, rimandano al “sommerso” («la vicenda complessiva – (esito a dire la storia) – da cui provengono»). È come se dicessi: sono stato costretto ad essere frammentario dalle circostanze, ma non era nelle mie intenzioni, non volevo questo, non me ne compiaccio, non ne faccio una poetica, quasi me ne rammarico; e sono stato costretto a raccogliere questi frammenti in un “reliquario”, che di un mondo raccoglie appunto qualche resto.
Non mi ritrovo neppure nella definizione di « poeta molto sperimentale». Gli scrittori sperimentali a me hanno sempre dato l’impressione di letterati (spesso formidabili ed eruditissimi) che curano gli aspetti linguistici di un testo fino alla perfezione e se ne stanno contenti come quelli che assaporano dei frutti senza più alcun interesse a capire da quali alberi provengano e questi dove hanno messo le loro radici (storiche). Io invece sono attirato proprio dall’esplorazione degli alberi e delle radici.
Bene, allora non è un cambio di registro, o semplicemente una scelta di stile (io non ho parlato di poetica). Rileggerò con più calma, magari attenuando la mia sorpresa.
Ho fatto riferimento ai poeti dello sperimentalismo anni ’60 e ’70, pur sapendo quanto tu sei legato a Fortini ( però non puoi dire che Sanguineti and company non sapevano quel che andavano dicendo). Intendevo semplicemente dire della tua tendenza a provare, inventare, sperimentare. Non lo fanno tutti, lo sai bene.
APPUNTO 3: POETA PITTORE?
Per Banfi
« lo sguardo è quello di un poeta pittore»
Avevo appena rifiutato questa sintesi troppo facile :« Per me e per ora scrittura e pittura rimangono inquietamente vicine; e forse è meglio che Tabea Nineo resti in fraterna o rissosa convivenza con Ennio Abate.» https://narratoriografico.wordpress.com/about/
Quasi mai queste cose vanno come si vorrebbe.
APPUNTO 4: CONTINUO (ET ET)/DISCONTINUO (AUT AUT)
Per Parabochi
Bel problema: che rapporto tra Reliquario e La pòlis che non c’è?
Che trascina con sé anche quello che si è affacciato in altra discussione: aut aut o et et?
Per farla breve, dico che il «mio percorso formativo» è materia del mio “narratorio”, che è, allo stato attuale, un ammasso di appunti (frammenti!) accumulato in tanti anni, sui quali mi sto scervellando. Al momento ho abbandonato una precedente e a prima vista quasi “progressista” partizione del “narratorio” (Salernitudine, Immigratorio, Samizdat), che alludeva a una sequenza quasi lineare, dal meno al più, del tipo ‘cattolicesimo meridionale’/ immigratorio purgatoriale/centralità della politica (sia pur “critica”, “dissidente”). E mi sono attestato su una più vasta e complessa a più partizioni (Barunisse, Salernitudine, MI, Colognom, Prof Samizdat,Scriptorium, Psicoscrittoio/esodo).
All’interno di ciascuna di queste partizioni e nei rapporti o interferenze possibili tra l’una e le altre devo risolvere proprio – e non lo posso fare a freddo con una decisione aprioristica, ma solo scrivendo e riscrivendo, limando, aggiungendo, sottraendo, correggendo, ecc. – i problemi di continuità (et et)/discontinuità (aut aut)che si pongono (o io mi pongo) tra i vari tempi e spazi e figure e sentimenti e idee che vado evocando.
Non avrebbe senso pubblicare allo stato in cui si trova il mio “narratorio” o parti di esso, perché i problemi che affronto mentre ci lavoro (a bocconi, con continue interruzioni tipiche di chi sta nella condizione del “ceto medio impoverito”) sono in buona parte irrisolti e a volte dei veri rompicapo per me. Ci tengo a risolverne almeno un po’. E, come detto, nell’unico modo che considero corretto e necessario: a forza di scrivere e riscrivere, di limare. di ripulire. Almeno finché campo ci tengo a pubblicare solo parti che ho ben meditato. Posso darne degli assaggi (come ho fatto su “Poliscritture FB”), farne dei riassunti semplificati, come ho fatto stavolta.
Questo non significa censura o autocensura o rifiuto di render conto di «debolezze,… ripensamenti, … sofferenze,.. sogni», ma piuttosto di non abusare della pazienza altrui e di fare tutto lo sforzo possibile per “donare” qualcosa, che abbia raggiunto una forma che *a me* appaia decente: non un cibo fast food né per palati raffinati, ma quello che mangerei volentieri pure io.
La questione poi di trovare « il coraggio di esporre al pubblico i [miei] lavori letterari giovanili» nel mio caso non si pone. Di giovanile nel cassetto, con mio dispiacere, sono rimasti solo questi frammenti del Reliquario (o altri pochi affini che ho scartato in questa ipotesi di pubblicazione). Le altre mie prime prove – alcuni racconti, vari disegni, una specie di zibaldone diaristico – sono andate perse nei vari “strappi”.
Infine, davvero non vedo quale sia questa mia tanto consolidata «posizione culturale e pubblica» che potrebbe indurmi prudentemente o per calcolo d’immagine a tenermi altri scritti nel cassetto. E’ il mercato (gli editori, grandi e piccoli) che non ci vuole, cari miei!
Caro Ennio, ma come si può “scrivere e riscrivere” l’et et? che, se, è già avvenuto.
Quello resta lì, l’aut aut è delle scelte, del parallelo accaduto, di come proseguire.
Il passato va salvato e abbandonato insieme.
Questo è un tema metafisico. La memoria è dannazione e libertà.
…vorrei riprendere il discorso dall’Appunto 1 di Ennio.Sì, certo già il titolo della raccolta:RELIQUARIO DI GIOVENTU’. Poeterie (1958-1963), sulla quale avevo posto poca attenzione, spiega la presa di distanza da quelle lontane tracce, quasi lembi di vestiti di protomartiri, ma anche una certa affettuosità nei loro confronti nel riportarli alla luce…e quindi il riconoscerne il valore non ancora scomparso, come sui tronchi degli alberi restano tracce di tutto il loro vissuto.
Mi ha anche colpito il riferimento all’esperienza del presepio, come l’unico “sogno reale” che il bambino Ennio si fosse davvero concesso, in linea con la sua esperienza vissuta prima a Baronissi, poi a Salerno. E’ certamente così: chi altri, se non Ennio, può dirlo? Invece non mi convince del tutto la netta distinzione tra presepio e fiaba che Agamben porta avanti, secondo me, riferendomi anche al brano di Ernest Bloch pubblicato di recente, queste costruzioni dello spirito, ma aggiungerei la ballata, la canzone e il romanzo popolare, colgono dei momenti diversi della stessa realtà: la serena armonia che emana da una comunità di persone semplici, ancora a contatto con la terra, davanti al “miracolo” della natività nel presepe proletario, la ricchezza dei poveri; le difficoltà della gente povera nella quotidianità, ma con il coraggio, la forza e l’astuzia di chi sa affrontare prove durissime, dove l’intervento magico può rappresentare solo una nota di speranza nella fiaba; le vicende drammatiche di persone diseredate, ma possono essere anche principesse, mestamente cantate nelle romanze…
Certo ho semplificato un po’ troppo e mi restano aperte molte domande: molto complesso il discorso su questi frammenti (poesie) del passato, che Ennio ha come rinchiuso in bacheche, da cui però proviene una luce misteriosa…come ci siamo mossi noi in altre epoche, come fossimo altri…eppure no
APPUNTO 5: RANCHETTI, LA STORIA E LA SUA PREFAZIONE A «SALERNITUDINE»
Per Fischer
«Chiamandole punte di un iceberg, credo chieda a chi legge anche riscontri, o sguardi diversi, su fratture e composizioni di una storia più ampia, che è sua, ma non solo sua»
Esatto. E mi è parso appropriato richiamare da parte tua la prefazione di Michele Ranchetti a «Salernitudine», che sono andato a rileggermi, trovandoci cose più dure ( e profonde) della mia durezza.
Di sicuro nascevano da una sua meditazione (inconfrontabile con la mia) su memoria e storia. E vorrei qui ricordare sia il suo lavoro di traduttore e studioso delle opere di Freud (Cfr. i suoi «Scritti diversi» 1999- 2001 in 4 volumi, Edizioni di storia e letteratura) e sia un suo lavoro di risistemazione e commento, condotto assieme a Gianfranco Bonola, «Sul concetto di storia» di Walter Benjamin, Einaudi 1997.
Proprio nell’introduzione a questo volume einaudiano rileggo ora questi passi ( per me di grande attualità e di stimolo per il lavoro del mio “narratorio”; e sottolineo alcuni punti…):
«Questo confronto [con la storia] risultava necessario e urgente, proprio perché la storia […] pareva ora precipitare priva di una ragione ordinatrice e di un significato. Le tesi [di Benjamin] sono anche una difesa teoretica contro questa storia senza significato apparente. […] Nelle tesi, tuttavia, non tutto è difesa dall’oppressore, in esse Benjamin ha lasciato presenti altri *temi, non così direttamente connessi con l’urgenza della situazione storica, ma relativi ad altri momenti della sua vita e della sua ricerca, senza tuttavia perdere di vista il confronto con la storia.*[…] Riproporre oggi la lettura delle tesi di Benjamin insieme con i materiali da cui derivano ha un significato preciso. Significa riproporre la lettura di un *documento d’interrogazione radicale* in un momento in cui ogni domanda sul significato della storia sembra annullata e respinta con la fine delle grandi ideologie [Nota mia: e ho appena polemizzato su questo con Mayoor qui: https://www.poliscritture.it/2016/08/18/olimpiadi-ma-e-il-caso/%5D. Lo scritto di Benjamin precede questa fine: esso si pone sulla soglia di una interrogazione assoluta che sarà travolta dalla guerra e dagli stermini in essa. Così, come rileva l’amico più intelligente di Benjamin, Adorno, interrogarsi sulla storia dopo Auschwitz non può più voler dire provare la validità di categorie interpretative, e meno che meno di quella hegeliana di una fine della storia intesa come suo perfetto compimento. Occorre invece ripensare da capo a partire da una *idea di storia svincolata da qualsiasi prospettiva di compimento*.[…] A distanza di ben più di mezzo secolo e in tempi in cui l’accelerazione dei mutamenti storici sembra produrre *una deriva incapace di ogni interrogazione su qualsiasi ragione presieda la vita dei singoli*, abbiamo creduto che le tesi di Benjamin suggerissero ancora intatta *la necessità di una presa di coscienza che dia un senso all’accadere e al precipitare degli eventi e sappia riconoscere quel segno che, come per Benjamin, può indicare la presenza di un significato*. Esse inoltre, e di qui il loro fascino, al contrario di altri testi analoghi non si pongono in una prospettiva in qualche modo sapienziale, non riflettono la competenza di una tradizione religiosa capace di affrontare il mirabile come il tremendo, secondo una superiore intelligenza del sacro e dei suoi disegni, né riflettono un uso consolidato e rassicurante degli strumenti dell’analisi marxistica».
Resta una mia perplessità sulle conclusioni della introduzione firmata da Bonola e Ranchetti che è questa:
«È quindi decisivo che nell’autentico concetto di storia che Benjamin vien elaborando con le tesi possa affiorare la trama di quell’altro, più profondo livello di comprensione della storia, ovvero, in altri termini che nel modello di storia del materialismo storico, che egli si propone di trasformare, possa manifestarsi l’elemento messianico. La chiave di volta di questo rapporto tra storia e messianismo è ancora la figura dell’angelo. Poiché entrambi, tanto l’angelo quanto il materialismo storico si rapportano al messianismo sia pur in modo diverso. L’angelo nella sua visione trascendente vede ovunque nella storia il negativo e la necessità della redenzione, cui egli, semplice angelo, non può provvedere ( e anzi si trova perfino nell’impossibilità di arrestarsi). Il materialismo storico invece è in grado di agire, di trasformare la condizione del mondo perché, opera d’uomo, è provvisto di una, sia pur debole, forza messianica e può compiere azioni messianiche. Ma se non perverrà alla chiara avvertenza della portata globalmente (e quindi telogicamente) soterica dela propria azione, sarà privo dei discernimento dei tempi e quindi della tempestività necessaria all’efficacia del suo intervento».
La mia incertezza affiora nelle discussioni “teoriche” qui su Poliscritture e la sento io stesso quando tento di bilanciare o mantenere aperto un confronto (forse impossibile) tra le spinte epigoniche della “corrente fredda” della storia del marxismo (un nome: La Grassa) con quelle della “corrente calda” (Bloch, Fortini). Ma è comunque un’incertezza che sta dentro i dilemmi della storia e, dunque, la riconosce. Al momento – ed è questo pensiero che mi guida anche nel lavoro del “narratorio”, dove tale dilemma me lo ritrovo ad ogni passo, come ho detto – punto ancora alla possibilità di «salvare un profilo di sensatezza globale degli eventi» che ho vissuto, di resistere al “frammentismo” e non mi rassegno alla «riduzione della storia al risibile, perché nell’esiguità delle sue proporzioni rispetto all’universo, essa non pare capace di albergare senso alcuno» (sempre dall’introduzione di Bonola e Ranchetti).
Rileggendo, invece, su stimolo di Cristiana, la prefazione di Ranchetti alla mia «Salernitudine» mi pare di poter dire che, se egli scrisse: «i pezzi dell’esperienza non si sono ricomposti in una figura, anzi si sono frantumati in immagini senz’ombra, dure e incomprensibili, staccate dal resto che non ha forma né confini», vuol dire che vide più frammenti che “storia” (sensata) anche in «Salernitudine» e non solo nel Reliquario.
Anche altre due sue osservazioni:
– « il paese…non diviene un luogo immaginario in cui si è fissata la prima giovinezza e da cui si è fuggiti per diventare adulti e consapevoli: è rimasto un paese reale e vivo, ed è la sua natura tragica a non piegarsi alla rievocazione»;
– «i personaggi non si mutano in caratteri: restano fissi in sé come se il presepe del sordo della prima prosa li avesse accolti nella sua cartapesta. Il poeta li visita senza entrare nel loro tempo… non li compone in uno scenario diverso, uno scenario adulto»
sembrano segnalarmi una sua convinzione (non esplicitata) che il mio ricorso alla poesia non era bastato a prendere la giusta distanza (da adulto) da quel passato, che esso ancora risucchiava nella sua “cartapesta” i personaggi, rendendoli appunto solo di cartapesta. Come se Ennio adulto non fosse in grado di rievocare, ma liberandosene, la «natura tragica» di quel tempo e di quelle figure.
Non so dire oggi se avesse ragione o meno e non so neppure se ci sto riuscendo di più ora col “narratorio”, dove la prosa domina.
Questo altro passo invece: «interrogazione sulla propria origine e sul senso di una educazione religiosa che, pur avendo duramente condizionato la sua esistenza, non sembra trovare alcun riscontro nella vita degli uomini. Il percorso a ritroso non ha riconosciuto nessuna coerenza» mi riporta al problema dell’aut aut: se quella educazione religiosa non ha riscontro oggi né in me adulto né nei mie contemporanei d’oggi, a che scopo indugiarvi, narrarla, “scrivere e riscrivere”, come mi fa notare anche Cristiana? E se «chi aveva voluto diventare testimone, anche di se stesso è diventato un estraneo [io ho usato il termine «straniero»] che non capisce la propria lingua ( le due lingue del testo ne sono un segno»?
P.s.
1. «L’atto di profanazione accentua una estraneità reciproca, in un “attrito allora inspiegabile”». Preciso che mi riferisco alla mia giovanile inconsapevolezza dei rapporti sociali capitalistici.
2. «come si può “scrivere e riscrivere” l’et et?».
Non intendo bene l’obiezione. A me pare chiaro che, lavorando al “narratorio”, devo saper riconoscere dove, « tra i vari tempi e spazi e figure e sentimenti e idee che vado evocando», c’è continuità (et et) col presente (o con uno dei segmenti di tempo che ho nominato: barunisse, salernitudine, ecc.) e dove, invece, c’è discontinuità (aut aut).
Faccio un esempio: in alcuni vecchi appunti del “narratorio” ho sostenuto una analogia tra la mia esperienza nell’ Azione Cattolica anni 40-50 a SA e esperienza in Avanguardia Operaia negli anni 70 a MI. Più recentemente, rileggendo, mi pare di doverla rimettere in discussione, perché vedo forti attriti tra tempi diversi, consapevolezze diverse, contesti diversi. Ecco, a me pare che solo scrivendo e riscrivendo, potrò decidermi in un senso o nell’altro. Sì, «il passato va salvato e abbandonato insieme, ma mica è facile condurre in porto l’operazione (e non sono così convinto che c’entri la metafisica, ammesso che io e Cristiana usiamo questa parola nel medesimo senso).
Ecco, io credo, ma qui è la mia esperienza di vita (così radicalmente diversa dalla tua: il mio femminismo-rottura con una tradizione millenaria di patriarcato; tuo il costante ritentare un collegamento tra vita personale-e-storica, e storia generale (cito: “devo saper riconoscere dove, « tra i vari tempi e spazi e figure e sentimenti e idee che vado evocando», c’è continuità (et et) col presente … e dove, invece, c’è discontinuità (aut aut)”) è la mia esperienza di vita che mi dà, nei confronti del passato, questo atteggiamento: è un insieme globale, che non ha continuità con la me di ora -ma di sempre- se non in questo insieme/contesto globale. Quindi inutile privilegiare delle tracce, delle linee che arrivino fino a qui da me. E’ un tutto, che mi ha fatto come sono ora, ma in cui la traccia che posso seguire, e seguo, è quella della mia vita personale, dei miei rapporti, delle mie acquisizioni, delle mie valutazioni, ecc ecc. (E tu chiamalo, se vuoi, ombelico!)
Poi ho anche una grande passione per il passato, studio -o forse solo leggo- molte fasi, esperienze, testimonianze. Ma il filo, la successione, e quindi la tua speranza (“scrivere e riscrivere”) di poter scegliere nella congerie accumulata il chiaro sentiero su cui -in fondo- ti saresti messo e che intenderesti ricostruire, ecco, questo filo per me è impossibile, ma credo che sia impossibile, come dire, ontologicamente, per ciascuno.
E’ il tema che Ranchetti pone, mi pare, nelle citazioni che hai fatto. Non conosco l’intero testo.
Metafisica, poi, ma già lo ho detto altre volte, significa che occorre ricorrere a criteri che il presente, preso per sé, non fornisce. Sarà metafisica il simbolico, l’immaginario, l’antropologia culturale… la religione perchè no?, metafisica solo perchè va oltre la fisicità della nostra esistenza temporale. (Altrimenti nemmeno la Merkel possiamo valutare: occorre legarla al ruolo geostrategico della Germania e alla sua -della Germania- storia. Lei stessa si muove in questa prospettiva!).
Il legame nel tempo, quindi. Oggi sono temi filosofici -presentismo e eternalismo, tra fisica e logica modale- molto interessanti. Che possono essere bene letti prescindendo dalla continuità, dalla ricostruzione.
E’ vero che si potrebbe riassumere la mia posizione in un “ricominciare”. Non dal nulla, me nemmeno in una linea.
Più di così non saprei dire.
Risolto l’aspetto formale, per il quale mi sono già complimentato, voglio dire di queste sette poesie, per come le ho accolte e capite:
mi dicono del passaggio, da bambino ad adulto, anzi da bambino a vecchio perché in questo caso l’adulto è colui che vede, scrive e poi considera. Sono quindi poesie di intensa ricerca introspettiva. Se è vero che il bambino-in-noi non scompare ma resta, per alcuni mostruosamente, nel nostro inconscio; e lì agisce, spesso influenzando i comportamenti dell’adulto, portandolo a manifestare la sua parte irrazionale, perennemente in conflitto con quella sorta di “giudice interiore” che altri non è se non la somma delle figure genitoriali ( a cui s’aggiungono insegnanti, scuola, ambiente e società) che hanno plasmato la nostra personalità – doveri, responsabilità, forse anche per il nostro bene ma generando colpe e quant’altro – non resta che prendere atto che quel bambino è la parte di noi che andrebbe liberata, oltre che per necessità esistenziale, anche per fare giustizia, o mettere ordine, dentro noi stessi. Così facendo, il bambino diventa nostro alleato. Il bambino nell’adulto, è la nostra intramontata parte istintuale, quindi anche la parte creativa. Il suo gioco, quello del bambino, se ama scrivere è poesia.
Siamo in presenza di questioni che attengono alla psicanalisi, cosa che tu hai già sperimentato in altri lavori dove, in bilico tra ragione e sentimento, hai sempre cercato di mettere luce ( ho presente anche le trascrizioni di sogni, non solo letterarie, che pubblicasti sul blog) arrivando bene a mostrare il groviglio ma, forse, senza dipanarlo.
Non è mai tardi per queste cose, negli anni che ho trascorso sottoponendomi a terapie intensive ( anni ’80/90) ho visto piangere come bambini persone ben più anziane di te.
Ma già la prima poesia, “sogno e calma”, mi dà a intendere che serve consapevolezza: chi gioca e sporca e chi deve pulire e rimediare –anche se con “calma”; cioè con amore e pazienza, amore ed esperienza? Risposta non c’è, la poesia resta aperta ed è bella anche per questo.
Ho poi molto apprezzato le metafore, che trovo di altissima qualità. Ti confesso che non ne ricordo altre tue di questo livello, ma credo sia dovuto agli aspetti “ragionanti” che spesso finirono col prevalere, almeno per me lettore. Ma andrò a rileggere: il lettore di due anni fa non è lo stesso di oggi. In questi anni abbiamo fatto molta strada insieme e te ne sono grato.
APPUNTO 6: RELIQUIE
Per Locatelli
Sì, ‘reliquario’ è termine che riguarda la religione e l’ho usato proprio perché riconosco di essere stato soprattutto nell’infanzia (e cioè nel periodo di legame più totale e assorbente e complicato con mia madre) religioso, che intendo *innanzitutto* come legato a lei; e solo tramite lei spinto, incoraggiato, sedotto/indotto a pratiche religiose parrocchiali altrettanto totali, assorbenti e dalle conseguenze complicate:
Carbonelle in soffitta ne abbiamo. Domani mattina la gallinella ti preparerà l’uovo e la contadina busserà per portarci il latte. Nella cassa ci sono coperte e lenzuola ricamate; cappotti e maglie di lana stanno nell’armadio. Vieni che ti leggo una preghiera.
Sempre domani metterò il profumo di colonia, il velo in testa e, sì, sulle spalle la pelliccia della volpe nera. In chiesa troveremo i garofani, tanti bianchi e rossi, sull’altare. Ascolteremo musica d’organo e canti gregoriani. T’incanterà – vedrai – il mosaico azzurrino con san Giovanni Battista, le onde, le palme e i cervi incuriositi; ma quando scenderemo nella cripta scura, non t’impaurire.
Soltanto candele e tremiti di vecchie. Qualche pianto udrai. Non fiatare, osserva: estasi rugosa delle mie nonne in rosario, bisbiglii dai confessionali di cieche marie. Non rabbrividire. La mia anima s’apparterà un momento. Aspettala. Primaverile e calda tornerà all’uscita. Sui gradini e sotto il colonnato la folla domenicale. Ti calmerà. Immergiti. Brusio e richiami. Leggera solarità degli abiti. Saluti distinguibili e cari di volti familiari. Intontimenti d’incenso. Sorrisetti e sberleffi. Languori pezzenti e stracci sotto i veli. Invidie evangelizzate e rimorsi.
Il Sacro Cuore lassù, trafitto da spade e raggi di luce. ci perdonerà. Tu, angelo come adesso, resterai. Io sull’inginocchiatoio, la tua ombra sarò. Risarcisci le nostre sofferenze, scendi in questa miseria, non negarci.
(da Salernitudine)
Con un passaggio morbido ( et et!) dalla madre naturale alla Madre spirituale Chiesa. Rappresentata però ancora una volta da una concreta, femminile, carnale, operante attivamente in una comunità di gente in carne ed ossa, maestra delle elementari, che guidò me e i miei coetanei d’allora della parrocchia nell’assimilazione di quelle * gioie dell’educazione cattolica*:
Raccogliendoci casa per casa. Incitandoci a memorizzare il catechismo in vista della finale gara diocesana. Allenandoci, ma battendoci magistralmente a ping-pong. Suddividendoci in gruppi gareggianti per numeri di fioretti fatti in settimana e servizi da chierichetti alle messe mattutine, funzioni e processioni. Addestrandoci a incollare su tabelloni di masonite strisce di carta lucida variopinta seguendo il disegno a matita di cornici barocche copiate da un libro d’arte. Preparandoci a recitare commediole o drammi edificanti su S. Tarcisio martire. Accompagnandoci a giocare all’aria aperta in mezzo ai cespugli e ai rovi della collina del Castello normanno, dopo esser passati in fila vociante sotto il carcere (dalle finestre qualche richiamo o urlo o bestemmia). Oppure a pallavolo in un campetto incastrato fra una caserma dell’esercito e una della polizia. Carpendo suadente confidenze dalle nostre anime in confusa germinazione. Stuzzicando problemucci d’ansia anche con strofinamenti, inavvertiti ma per noi conturbanti, al suo consistente seno. Non bella, zitella forse per amori delusi o sofferta e meditata decisione. Convivente nell’appartamento della sorella maritata e con prole. Oggetto di chiacchiere maliziose da parte dei più sagaci in faccende di sesso parrocchiale per la sua diuturna presenza in sacrestia e i conciliaboli col parroco. Matriarcalmente azionò e incattolichì varie generazioni di noi: figli del popolo post-fascio, ragazzini e giovincelli e *maschietti* (in teoria) tenuti drasticamente separati dalle *femminucce*. Contaminò figli di dottori, di appuntati, di marescialli e di capitani con figli di muratori, negozianti e (rari) operai. E curò, meticolosa, che alcuni di loro, eletti ai suoi occhi per una precoce e sbocciante *vocazione*, passassero dal suo spirituale maternage e da quei casuali e giocosi strofinamenti alle sue tette al patronato (sempre spirituale) ma anche ai palpeggiamenti e carezze furtive ma chiacchierate durante le confessioni del direttore spirituale di turno in parrocchia don M in sostegno a don Q. Al tutto aggiungere altri intensi eserciziari quotidiani come chierichetti addetti a *servir messa* tutte le mattine alle sette, con appendice di una corsa alla vicina pasticceria per ritirare la brioche prenotata per la colazione che don Q. faceva subito dopo la funzione in sacrestia, chiacchierando col sindaco Buonocore. Ma anche alcuni campeggi estivi ad Acerno e Pescopennataro, le adunanze e vari ritiri spirituali (uno a Montecorvino Rovella). E questo in vista di un ingresso, auspicato e elogiatissimo (così pareva) dalla comunità parrocchiale tutta, nel vicino Seminario Arcivescovile, a neppure cento metri dalla parrocchia di San Domenico, dei migliori, gli eletti. Quasi a dimostrare quanto facile potesse essere il passaggio dalla sua matriarcale e parrocchiale seduzione al pieno godimento delle gioie del sacerdozio cattolico.
(Da “narratorio”)
Com’è facile da intuire l’”affettuosità” nel riportare alla luce « quelle lontane tracce, quasi lembi di vestiti di protomartiri» (ma con qualche ironia maliziosa si potrebbe intendere che eravamo noi bambini i martiri di questo incattolicamento “naturale” e inevitabile!) è innegabile ma ambigua; e molto problematico «riconoscerne il valore non ancora scomparso». Che, come ho detto, porrebbe «il problema in termini troppo pasoliniani ( il meglio sarebbe già contenuto in quel passato, nostalgia, ecc.)». Non riesco ad accettarlo, perché se non ho esitazione ad ammettere che di ‘reliquie’ della mia esperienza religiosa si tratti, da rispettare e riconoscere (e non da negare o nascondere o disprezzare), mai mi sentirei di proporle come un valore ad altri.
E qui si riaffaccia la questione posta da Cristiana: sì,«il passato va salvato e abbandonato insieme», ma mica è facile condurre in porto l’operazione. Cosa salvi? Cosa abbandoni? In nome di cosa (già acquisito o posto come scopo) salvi e abbandoni?
Attorno al ’68-’69 mi parve chiaro che cosa dovevo abbandonare e infatti avevo pensato il mio “narratorio” in senso progressista: « (Salernitudine, Immigratorio, Samizdat), che alludeva a una sequenza quasi lineare, dal meno al più, del tipo ‘cattolicesimo meridionale’/ immigratorio purgatoriale/centralità della politica (sia pur “critica”, “dissidente”)».
Ma poi? E ora?
Non so se riuscirò a leggere il libro di Albinati, La scuola cattolica, ma sarei curioso di vedere se si è posto questi problemi e come n’è uscito.
Sulla distinzione tra fiaba e presepe di Agamben. Io l’ho trovata utile perché mi ha confermato qualcosa a cui forse già miravo: « il presepe (la costruzione del presepe) mi “avviava” alla storia e al«realismo»». I motivi del tuo rifiuto della netta distinzione non è detto che non siano validi. Andrebbero chiariti di più.
Ancora a proposito di et et e di aut aut: scrivendo ieri del *ricominciare* (come il giorno ricomincia ogni volta col sole) propongo una riflessione su questa *posizione del presente*. Che è scelta, posizione progressiva. Per agire (pensare) occorrono criteri, prospettive, che eccedono il presente, occorrono configurazioni più ricche della semplice continuità, che infatti non si dà: non si dà continuità lineare dove c’è scalarità, ipertesto.
Il futuro implica il dominio, mentale, proprio del possibile; attraverso una ramatura, ricca, e di gerarchismo approssimato, in cui la vitalità globale e singola si dispone quasi in modo vegetale, in quasi parallelo (ipertesto) e per eccesso.
Comprendere il futuro è più necessario che collegarsi al passato, *metafisica* sarà in quanto dimensione proiettiva. Probabilmente anche il passato sarà allora opportuno riviverlo in questo modo, come arco compresente di possibili, come la historia ormai di fatto si fa, focalizzata su episodi visti nella loro complessità e poi in esito dipendente da variabili.
Riprendo quindi la tua problematicità, espressa con due tue citazioni: “come se Ennio adulto non fosse in grado di rievocare, ma liberandosene, la ‘natura tragica’ di quel tempo e di quelle figure. Non so dire oggi se [Ranchetti] avesse ragione o meno e non so neppure se ci sto riuscendo di più ora col ‘narratorio’, dove la prosa domina”
e poi: “…mi riporta al problema dell’aut aut: se quella educazione religiosa non ha riscontro oggi né in me adulto né nei miei contemporanei d’oggi, a che scopo indugiarvi, narrarla, ‘scrivere e riscrivere’…? E se ‘chi aveva voluto diventare testimone, anche di se stesso è diventato un estraneo … che non capisce la propria lingua ( le due lingue del testo ne sono un segno)'”?
Vorrei ricordare che concludevo la mia lettura delle tue poeticherie aprendo alla opposizione, nelle opere successive, tra lettura di persone e azioni in chiave etica e politica, e emotività incandescente da fissare e congelare nella pagina. Uguale l’opposizione tra la crudezza che racconti del padre, -perché io, da giovane, così volevo essere- crudezza fantasticata; e il dolce e l’amaro, che sono un’altra cosa, stanno nella storia e in una brutta guerra e di quello il padre non ha mai raccontato.
Ho usato le due terzine come chiave per intendere il *tuo* parlare (scrivere): una crudezza (ad esempio La Polis che non c’è) copre il dolce e l’amaro (di una guerra che tutti ci coinvolge), che forse è quello che ti sforzi di raggiungere scrivendo e riscrivendo.
La mia opinione, prendila per quello che è, è che il dolce e l’amaro sono diversi e insieme, ma, separati, o non esistono, o uno soffoca l’altro.
(Mi pare che anche Mayoor, stamane, in fondo si riferisca a questo.)
APPUNTO 7: DIVERSITA’ DI ESPERIENZE E METAFISCA
Per Fischer
Vediamo se intendo bene quale sarebbe (per te) la nostra diversità. Mi pare questa: la tua esperienza di vita ti avrebbe insegnato che quel che conta è l’aut aut (femminismo contro patriarcato), la mia invece mi avrebbe insegnato l’importanza dell’et et («collegamento tra vita personale-e-storica, e storia generale»).
Se non traviso, devo dire che non è così (per me). O non capisco. Non capisco – e lo dico senza polemica – il senso di questa frase: «la mia esperienza di vita [che] mi dà, nei confronti del passato, questo atteggiamento: è un insieme globale, che non ha continuità con la me di ora -ma di sempre- se non in questo insieme/contesto globale».
Non mi pare poi che in questo «insieme globale», che tu respingi (e che io chiamerei semplicemente *storia*), tu non privilegi «delle tracce, delle linee che arrivino fino a qui da [te]»: nella tua vita personale, nei tuoi rapporti, ecc. sono entrati (= hai più o meno scelto) certi stimoli ( di vario tipo) e non altri, provenienti da quel passato, che hai studiato, amato, ecc. Proprio com’è successo all’incirca a me.
Né capisco perché il «chiaro sentiero», il «filo» (sensato) « sia impossibile, come dire, ontologicamente, per ciascuno». Altri prima di noi in qualche modo l’hanno *costruito* o *ricostruito* appunto scrivendo e riscrivendo (penso a Marx, Proust a Joyce, ecc.). E anche per noi vedo enormi e crescenti difficoltà ma non una “impossibilità ontologica” addirittura. Che significherebbe impossibilità di *storia* (personale e generale). Ed è proprio quello che Ranchetti e Bonola contrastavano nella loro prefazione a Benjamin:
« A distanza di ben più di mezzo secolo e in tempi in cui l’accelerazione dei mutamenti storici sembra produrre *una deriva incapace di ogni interrogazione su qualsiasi ragione presieda la vita dei singoli*, abbiamo creduto che le tesi di Benjamin suggerissero ancora intatta *la necessità di una presa di coscienza che dia un senso all’accadere e al precipitare degli eventi e sappia riconoscere quel segno che, come per Benjamin, può indicare la presenza di un significato*».
P.s.
Se per ‘metafisica’ intendi «ricorrere a criteri che il presente, preso per sé, non fornisce», potrei concordare. A patto che si precisi quale metafisica uno sceglie o persegue: perché « oltre la fisicità della nostra esistenza temporale» va lo scienziato, il religioso, l’artista, il teologo, il letterato, l’antropologo, il politoco, ecc. In senso largo tutti quelli che parlano, pensano, fanno, sono “metafisici”, ma poi ce ne sono di vario tipo e perseguono vari (e spesso contrapposti) scopi. E bisogna scegliere (aut aut!) in questo calderone di presentisti, eterna listi fisici, logici ecc, credo. Quanto al “ricominciare”, non capisco cosa tu intenda dicendo che lo si deve fare « non dal nulla, ma nemmeno in una linea». Esemplificando, forse capirei.
P.s.
Questo appunto è stato scritto senza aver letto l’ultimo commento (31 agosto 2016 alle 11:04) di C. Fischer
Sì, ero stata troppo rapida nella risposta di ieri sera, ma credo con gli ultimi due interventi di avere chiarito bene quello che sostengo.
p.s. “il passato va salvato e abbandonato insieme”: forse con un doppio senso di *insieme*, contemporaneamente ma anche nel suo complesso. Il passato è tutto con me, in ogni momento e tutto quanto, sono io; la stessa io che lo valuta, che lo “stacca” da sè con tenerezza rimorso orgoglio disprezzo indifferenza. Non ho bisogno della pagina, lo faccio comunque e forse incessantemente.
Sulla pagina, poi, e nel presente, posso ricostruire nuove singole configurazioni, quel passato che pure aveva allora quel senso, quella di oggi lo usa, e in questo lo risignifica. In sintesi è mio, mi appartiene, e me ne devo giovare nel modo migliore, non mi cattura, è un mio strumento, come le mani, la salute, la testa.
APPUNTO 8: IL BAMBINO “NOSTRO ALLEATO”? SI, MA, PERO’…
Per Mayoor
« quel bambino è la parte di noi che andrebbe liberata, oltre che per necessità esistenziale, anche per fare giustizia, o mettere ordine, dentro noi stessi. Così facendo, il bambino diventa nostro alleato. Il bambino nell’adulto, è la nostra intramontata parte istintuale, quindi anche la parte creativa. Il suo gioco, quello del bambino, se ama scrivere è poesia».
Sì sono questioni che la psicanalisi indaga e rielabora di continuo in modi scolastici (spesso peggio dei cattolici e dei veteromarxisti) o in modi originali e sensati, che per pigrizia o altro solo chi la riduce a operazione da “strizzacervelli” evita di indagare. Perché vanno indagati. Non tutto è lecito o buono perché lo dicono gli psicanalisti. (Ho appena letto e commentato sarcasticamente (ah, quel ditino all’in su!) questa intervista a Romano Madera, postata su FB da Pierfrancesco De Iulio: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=126429&typeb=0&qual-e-il-tuo-mito-). E sulla “liberazione del bambino” o della “bambina” (facile a dirsi, difficile a farsi) tu sai che in quegli anni Settanta ecc. sono stati fatti molti gravi sbagli. Ne riparleremo ancora.
…leggendo queste pagine di “Salernitudine”, Ennio, ora credo di capire meglio… da una parte la fascinosità delle figure femminili e dell’ambiente di provenienza, dove certo le cripte funerarie, il sacro cuore trafitto, i veli e i ceri costituivano l’aspetto umbratile, ma mescolato al piacere dei corpi da ammirare, da sfiorare, da scoprire, alle partite con il pallone, alle gare di catechismo dove era in gioco la stima dei coetanei, ma soprattutto della famosa maestra…Tutto poteva apparire così disinteressato, un’educazione integrale, filtrata dalla religione che agiva solo per il bene dei giovani…Ma poi, crescendo, che ti scopri? si legge tra le righe: la connivenza tra poteri, lo scopo ultimo di selezionare “maschietti” per il seminario locale, l’essere stato manipolato, insieme a tanti altri, in tutti i modi…Si capisce ora meglio la necessità dello “strappo”, dell’allontanamento senza mezze misure da tutto e da tutti, per spezzare i condizionamenti, per affermare convinzioni di trasparenza e scelta di classe di appartenenza…Quindi la motivazione dello strappo è stata la fedeltà ad alcuni valori, il ritorno ad essi. Ma in questi casi, credo, sia inevitabile che intervenga anche una dose di tradimento…Era proprio tutto da buttare? Sembra di no: le reliquie sono l’et et da aggiungere al proprio essere presente: queste poesie…la costruzione del presepe, ed altro ancora, come l’essere stati bambini e le figure genitoriali nella loro essenza e percorso umano… La durezza dello strappo era pure inevitabile, ma il “Narratorio” recupera tante cose…adesso credo di capire anche perché hai parlato di punte dell’iceberg…sì, sono uscita anch’io da quel sottobosco, molto in ritardo in consapevolezza, ma penso come me molti altri…appunto un iceberg, ma non c’era solo ghiaccio..Perciò ti ringrazio
Casualmente leggo oggi un brevissimo saggio di Carlo Sini, 5 pagine in tutto, che riguardano anche l’intrinseca operazione che fa Ennio col “narratorio”, e la mia pretesa sul “ricominciare”, e potrebbe far avanzare la discussione.
Cito un paio di frasi e segnalo dove si può leggere il testo.
“… significa che lo stare del vivente in una storia, come di fatto vi sta, non può mai confinarsi in qualcosa di empiricamente definito; il vivente è infatti destinato a muoversi sempre di nuovo, ad andare sempre «al di là» indietro e avanti, cioè reinterpretandosi al passato e riconfigurandosi al futuro […] stare al limite significa frequentare una storia vivente, una storia non già confinata in fatti empirici, ma una storia mentre si svolge e si reinterpreta di continuo all’indietro e in avanti, nella sua origine e nel suo destino.
Questo significa che dietro ogni parola non stanno semplici e supposte cose,
ma tutta una storia di pratiche di vita, di espressione, di passione e conoscenza. È questa storia che dobbiamo cercare di rianimare in generale di fronte al nostro sguardo interiore”.
riviste.unimi.it/index.php/noema/article/download/1911/2164
Ho il PC a riparare e scrivo dal cellulare. Leggero’ appena posso il testo di Sini, ma lo stralcio non mi pare riferibile al mio “narratorio”
Al di là della lunga scia di dibattito che accompagna il testo poetico di Ennio e rimanendo invece al testo stesso, ho avuto l’impressione che queste “Visioni” rappresentino piuttosto lampi di visionarietà in cui vari aspetti di realtà cercano di incastrarsi tra di loro nella ricerca di una unitarietà di senso (un po’ come l’immagine di apertura di questo post, nel disegno di Tabea Nineo, che si presta a varie chiavi interpretative).
Come accade con il caleidoscopio quando lo giri fra le mani: frammenti di composizioni ti si delineano davanti agli occhi e poi scompaiono rapide per far posto ad altre.
Sono lampi, fasci di luce che illuminano scene non solo d’antan (*Menta ficcata nel naso*, *Nella notte/tonache qua e là/di sbieco o a quinte/tremano nel vento*), ma anche quelle favolistiche dei bambini Pollicini (*Bambine in fila/seminano noccioline./Altri più indietro/le ammaccano*) o delle proprietà rabdomantiche [del futuro poeta?] legate al ramo di nocciolo (*…per quel ramo di nocciolo/che avevo rubato*). O pittoriche in “Bevitrice di assenzio”, dove il colore delle parole – *la benda d’alcool*, il *vento in blu* o l’albicocca ormai avvizzita (*Dai l’ultimo morso di passione/alla tua albicocca e nascondila/in labirintici mai svelati sorrisi*) – fa da contrappunto al quadro di Touluose-Lautrec.
Sono microstorie ‘in potenza’, qui sta la loro bellezza. Vale a dire che sono aperte alle domande che ogni lettore può rivolgere loro. Per rimanere in una metafora suggerita dal testo, sono come i seni liberi delle * ragazze coraggiose [che]/sgusciano i loro/senza toccarli.*
Per questo trovo un po’ restrittiva la tendenza di Ennio a ‘strizzarle’ dentro ‘cassetti di fatti’, quasi a dar loro una giustificazione ‘storica’ (1), una legittimazione sotto le vesti di una specie di paternità ‘esterna’, come se facesse fatica a riconoscere e accettare la sua propria, di paternità.
(1) So che esiste la Storia, ma conta molto anche l’uso che ne facciamo.
R.S.
…colpisce anche me questo disegno di Tabea Nineo scelto per introdurre le poesie. La capigliatura-copricapo sembra una nuvola bianca, vaporosa e e dai contorni rotondeggianti, nuvola che scurisce e si addensa sulla fronte del personaggio, precipitando sul volto come scuro e obliquo acquazzone, i peli ispidi e scuri…Come il cielo mutevole in ogni tempo…Poi “al mattino/ la luce tutto ridecide”(Pensione di via Pontaccio)