(recensione)
(finale)
di Franco Nova
“Quarto potere” (“Citizen Kane”) di Orson Welles è uno dei tre film da me preferiti, assieme a “La corazzata Potemkin” (il capolavoro di Eisenstein, gustosamente definito da Villaggio-Fantozzi “una cagata pazzesca”) e “La grande illusione” di Renoir. Certamente, giudico appena staccati di un’incollatura altre decine e decine di capolavori (del muto come del sonoro, in bianco e nero e a colori), che non elenco per l’impossibilità di ricordarli tutti; nemmeno la metà e ancora meno di così.
Parlerò qui appunto di “Quarto potere”, film assolutamente gigantesco del 1941 interpretato dallo stesso regista (grandissimo pure nella recitazione) e da una folta schiera di altri più che ottimi attori, fra i quali ricordo: Joseph Cotten, Everett Sloane, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Ray Collins, George Coulouris. Tutti inghiottiti dalla “Notte Eterna” e che pochi lettori, temo, ricorderanno ancora.
Come al solito, in youtube non si trova quasi nulla di questo giustamente famoso classico. E tanto meno il film intero. Ho recuperato una recensione non male, almeno secondo la mia opinione. L’ho riportata soprattutto perché illustra alcuni aspetti tecnici che non saprei nemmeno ripetere dopo averli ascoltati attentamente. Non sono un intenditore in grado di espormi in simili disquisizioni. Capisco che vi è “dietro” quest’opera la lezione dell’espressionismo tedesco, mi rendo certamente conto della sua enorme potenza espressiva, ma mi soffermo esclusivamente sul suo significato generale o su quello di determinate scene.
Prendiamo, ad es., la sequenza in cui la bibliotecaria accompagna il giornalista, incaricato di indagare sulla vita di Kane, in un’amplissima stanza e gli porta tutto l’incartamento riguardante le notizie relative al magnate. L’immagine è scarna ma desta una forte impressione. Tuttavia, essa soprattutto evidenzia l’irrealizzabilità del compito, che schiaccia chi vi si accinge. Impossibile sceverare un’intera esistenza nel suo effettivo svolgersi, pur tramite una gran massa di documenti da consultare in un tot di tempo ben stabilito. L’epilogo, il giornalista che ringrazia e se ne va, sottolinea come tutta la lettura, di alcune ore, abbia appena scalfito il senso di quella vita.
Poi il giornalista si reca a trovare, via via, le persone che più erano state vicine a Kane e, progressivamente, capiamo quanto illusorio fosse il tentativo di riuscire a inquadrare la complessità, contraddittorietà, perfino incoerenza, della sua personalità. E non perché costui sia un mentitore; anzi è nell’insieme sincero nel suo percorso destinato al successo e alla grandiosità solitaria del Castello che si è costruito. E’ proprio il vivere – implicante complicate relazioni con altri intrise di amicizia e malevolenza, di colpi bassi e adorazioni fin troppo prive di dubbi – a impedire che di quest’individuo si sappia chi realmente sia. Nemmeno lui riesce a capirsi. Del resto, nessuno apprende se stesso poiché siamo tutti presi dall’agire, dal provare sentimenti contrastanti, dal calcolare razionalmente i risultati di certe azioni, dal perseguire dati obiettivi che spesso mutano di posizione (spazio-temporale) e inducono contraddittorie convinzioni; ecc. ecc.
Nella scena iniziale come alla fine compare l’immagine del Castello e, in primo piano, il cancello con la scritta “no trespassing” (non oltrepassare, vietato l’accesso). Se non ricordo male, nella recensione la s’interpreta quale definitiva sottolineatura di quanto sia preclusa agli altri una non effimera conoscenza di un qualsiasi essere umano. Non si è in grado di oltrepassare determinati limiti nell’approfondire i caratteri di una personalità, perfino della più semplice; figuriamoci quella di “citizen Kane”. Eppure, non credo che quella scritta si limiti a porre l’accento su tale aspetto. Sullo sfondo vi è la cupa, scura (perché notturna), presenza del “mausoleo” fattosi edificare dal protagonista, presenza tesa secondo me a segnalare qualcos’altro di ancora più rilevante. La potenza e ricchezza di un individuo sono intrise di solitudine e distanza dagli altri; con la giovialità e il dialogo intenso e amichevole, con l’apertura a reali incontri e vicinanze, non si giunge ai risultati voluti e acquisiti da Kane. Non vi è alcuna prospettiva di oltrepassare il recinto che il potente, perfino quasi inconsapevolmente, dispone attorno a sé, separandosi così dai possibili stretti interlocutori. Resta solo la (magra) consolazione, quando gli va bene, d’avere seguaci, ammiratori, fedeli credenti nelle sue virtù, in realtà inesistenti. Nessuno oltrepassa il cancello che divide gli altri dall’uomo che è o si pensa “superiore”.
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Veniamo all’idea più geniale del film, al suo significato più profondo e “ultimo”. Nel momento di morire, proprio mentre entra nella stanza l’infermiera che lo assiste di notte, Kane lascia cadere una pallina di vetro cui dedicava l’ultima stretta – una pallina di quelle al cui interno è visibile la leggera caduta di fiocchi di neve – e pronuncia il fatidico “rosebud” (mi rifiuto anch’io, come il recensore, alla traduzione italiana con rosabella). L’infermiera ode quel termine, lo riferisce e da qui, dall’intento di scoprirne il significato, si sviluppa in fondo tutta la vicenda filmica in una serie di flashback legati all’inchiesta del giornalista incaricato di approfondire e portare a conoscenza del pubblico la reale personalità del magnate deceduto. Si crede che appurando chi è o che cos’è “rosebud”, si riuscirà a metterla a nudo almeno in buona parte.
Nessuno fra i conoscenti e amici di Kane aiuta a chiarire il mistero, che si svela invece allo spettatore del film poiché una delle scene finali mostra come vengano buttati nel fuoco molti degli innumerevoli oggetti da lui raccolti durante la vita; quasi mai ordinati, semmai affastellati in grandi mucchi. Ed ecco apparire una slitta, di quando Kane era bambino, sul cui fianco è incisa la scritta rosebud. Essa brucia per tutti quelli che stanno rovistando nella vita del magnate, ma non prima di essere vista da chi assiste alla proiezione. Ed è qui che il discorso si complica.
Inserisco una scena del film, del tutto cruciale per il suo “messaggio”:
E’ in inglese; grosso modo ricordo quel che vi si dice ma ammetto che, se non avessi visto il film in italiano, non capirei gran che dell’intera discussione. Credo però che il suo senso si colga per sommi capi. Il ragazzo ha una madre estremamente determinata mentre il padre è un debole, che alla fine si adegua ai voleri della moglie. Questa desidera che suo figlio diventi qualcuno e, avendo ricevuto un’eredità, ne cede la gestione ad una società guidata dall’uomo che sarà sempre in contrasto con Kane. Il ragazzo dovrà abbandonare la sua residenza di montagna, quasi isolata, e andare in un Collegio dove lo istruiranno a diventare qualcuno di molto diverso (e soprattutto lontano dal “cattivo esempio” paterno). La madre firma il contratto (e con parole secche rivolte al marito che tenta all’inizio una debolissima resistenza) e poi chiama il figlio che sta dedicandosi ai suoi giochi con la slitta.
In modo asciutto, che non annulla la sensazione dell’affetto da essa nutrito, gli annuncia il termine della sua infanzia; egli dovrà allontanarsi da lei e seguire “quell’uomo”, che tenta anche di rendersi simpatico al fanciullo. Niente da fare, si osservi lo sguardo duro e nemico di quest’ultimo contro l’intruso nella sua vita spensierata, arrivato proprio mentre giocava nella neve, nell’ambiente in cui è nato e cresciuto fino allora. Egli chiede alla madre se lo seguirà; la risposta è negativa e il suo odio verso quell’uomo cresce. Così gli si avventa contro e lo respinge, proprio usando la sua slitta. Alla fine viene neutralizzato, la slitta gli sfugge di mano e il suo destino si compie. L’ultima immagine è quella slitta da sola ferma nella neve, ormai abbandonata anche se sarà evidentemente poi recuperata e messa tra gli oggetti che Kane conserva e che verranno bruciati.
L’interpretazione più semplice dell’ultima parola – “rosebud” – pronunciata dal magnate nel supremo momento del trapasso è che egli ricordi quel momento cruciale della sua vita, in cui ha dovuto abbandonare la spensieratezza dell’adolescente e si è compiuta la rottura verso la sua futura, ma solitaria, grandezza. Il recensore prende il fatto come ulteriore dimostrazione che una parola non può servire a spiegare la vita di un uomo, il suo reale destino. Vero, ma limitato. Una persona a me molto cara, durante l’ultimo dolorosissimo attacco al cuore che lo portò alla morte in pochi minuti, invocava con quel che gli restava di fiato sua madre, a quanto mi si disse. Quel grido strozzato non illustra la vita dell’uomo, ma non è certo senza significato; ci rivela quale legame (molto comune fra gli umani) fosse principalmente impresso nella memoria del morente. E anche per Kane, la slitta gli ricorda proprio la madre e il momento supremo della separazione definitiva da lei. L’ultimo pensiero, prima dell’addio alla vita, fu per la neve di quel giorno fatale e per la slitta con cui giocava e poi si difendeva dal destino, arrivato (sotto forma di un individuo) per separarlo dalla persona a cui lo legava l’affetto di gran lunga più importante nutrito durante tutta la sua esistenza.
In definitiva, un solo ricordo non spiega la vita, ma ci fa conoscere il sentimento più profondo e costante che alberga in Kane e che irrompe imperioso quand’è alla fine. Evidentemente, chi era alla ricerca di notizie del tutto superficiali, e magari segrete, sulla sua esistenza d’uomo spesso presente nelle cronache dei giornali e notiziari, bramava soltanto scoprire qualche retroscena piccante. Ed è allora evidente che “rosebud”, anche se si fosse appreso che cos’era, non avrebbe spiegato alcunché; avrebbe anzi deluso al massimo grado i chiacchieroni interessati al pettegolezzo e alla notizia da cinegiornale. La parolina ci rivela tuttavia che la spinta emotiva in lui dominante non era l’arraffare potere e denaro, come poteva sembrare ad una superficiale considerazione delle sue motivazioni; questo scopo fu in definitiva realizzato, forse non coscientemente, per non deludere la madre, da lui separatasi pur di evitargli una misera sorte simile a quella dell’imbelle padre.
Tale pensiero penetra la sua mente – o forse soltanto galleggia in una sorta di nebbia – nel momento in cui la sua vita di compie, si perfeziona con l’ultimo atto. Qualcosa di non consapevole per lui è però raffigurato, simboleggiato, in quella slitta; ed è più importante ancora del sentimento che lo pervade nell’attimo finale della sua esistenza cosciente. Guardate bene la scena del ragazzo che respinge con violenza l’uomo venuto a prelevarlo, spingendogli la slitta contro la pancia e facendolo cadere a terra. Non vuole andare con lui; e lo strumento dei suoi giochi ancora infantili gli serve per fargli male e allontanarlo. Quello strumento finisce sperduto nella neve; evidentemente è stato recuperato, ma quale oggetto da collezione poiché Kane adulto è un collezionista quasi maniacale.
La slitta, lo strumento usato nel rifiuto, viene posta in primo piano solitaria e abbandonata nell’ultima immagine di quella scena cruciale. Secondo me, il regista vuole farci capire che il carattere del fanciullo, già potenzialmente pronto a ciò che poi diventerà, è andato (non consapevolmente) oltre la ripulsa e la ribellione insorte per il triste evento della separazione dalla madre. Non c’è volontà né strumento in grado di opporsi ad un destino segnato dalla sua superiore capacità di emergere e dominare rispetto a tutti quelli che poi lo attornieranno nella vita, quelli visitati dal giornalista. Dal loro interrogatorio, per quanta simpatia o antipatia possiamo provare per simili personaggi, ci rendiamo ben conto del loro essere soltanto di contorno, delle comparse nella vita d’un grande, condannato da questa sua superiorità alla solitudine e ad essere colto, alla fine, da un ultimo momento di nostalgia che lo riconduce alla madre e al dolore della divisione da lei.
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Cerchiamo allora di concludere. La nostra vita, almeno per quanto ne sappiamo, è la vicenda più complicata che si svolga nell’intero Universo. Si potrà discorrerne all’infinito, ma non c’è modo alcuno di spiegare in tutti i suoi risvolti la personalità di un qualsiasi essere umano; e mai si giungerà ad elencare tutti gli eventi che attraversano l’esistenza di ognuno di noi. Ed infatti al giornalista, e a chi lo ha incaricato di condurre l’inchiesta su Kane, non interessa un bel nulla conoscere come costui ha realmente vissuto; l’unico desiderio è di carpire qualche suo segreto, magari eccitante, oltre a quello ormai scoperto da tempo e che ha già fatto scandalo.
“Rosebud” rivela semplicemente, allo spettatore del film, il sentimento prevalente nel protagonista, il centro del suo interesse più vitale, che è la madre. Ci fa inoltre comprendere come questo sentimento – e l’oggetto da lui usato per respingere l’intruso, venuto a separarlo dalla persona amata – non potesse impedire l’affermazione della sua intelligenza e della forte personalità. Va ancora ribadito che la slitta isolata, abbandonata, apparente simbolo della sconfitta del ragazzo, assume in realtà un significato opposto. Il suo sguardo d’odio, di rivolta, di promessa d’un antagonismo irriducibile verso chi viene a prelevarlo contro la sua volontà, pone in risalto un’energia incomprimibile ormai pronta ad esplodere. Di conseguenza, quella slitta scivolata e immobile nel freddo mucchio di neve ci comunica una diversa verità: la fanciullezza è finita e la vita del ragazzo compie una svolta e si avvia verso il suo destino di potenza e solitudine.
Sapere chi o che cos’era “rosebud” non serve quindi a nulla se si pretende che ci illumini in merito a Kane e alla sua vita. Quella parola ci consente soltanto di sapere qual è stato il suo ultimo pensiero, svelandoci così il suo più vitale interesse. Come probabilmente accade ad ogni essere umano nel momento supremo della fine, quanto egli dice (se ci riesce, cioè poche volte) assume duplice valenza. Da una parte, c’è la manifestazione esplicita e cosciente di un sentimento, il più prepotente da lui nutrito da sempre. Dall’altra, viene in evidenza ciò di cui lo stesso individuo nemmeno ha precisa consapevolezza: il suo carattere, la tempra della sua personalità, a quale destino è stato consegnato durante la sua esistenza (logicamente nelle sue linee generali, non certo nei particolari affidati alla casualità del vivere).
Ed è sintomatico che Kane sia doppiamente sincero, per quanto in piena contraddizione. Lo è all’inizio della sua carriera, quando sembra quasi idealista e perfino favorevole ai più deboli e diseredati, ai lavoratori. Lo è quando stila il manifesto programmatico per il suo giornale, che immagina diverso e in contrasto con tutti gli altri poiché è una promessa di verità e non inganno; un manifesto che il suo più grande amico, il quale poi si allontanerà appunto da lui deluso, prende per oro colato, conservandolo infine quasi come una reliquia. Quest’amico, buono e piuttosto limitato, non capisce che il potente, proprio quando si avvia al successo e alla scalata della notorietà e ricchezza, deve cambiare registro e dinamica, pena la sconfitta e l’oblio. Kane, dunque, è altrettanto sincero quando muta ritmo e direzione di marcia rispetto all’inizio del suo cammino verso l’alto. Il suo percorso assomiglia a quello del politico, del politico di spessore. Tuttavia commette un errore, di superbia e di non accettazione di una sconfitta ormai inevitabile. Basta un solo errore e si gioca buona parte del suo successo, pur rimanendo ricco e noto al pubblico, ma non più come prima.
Per terminare, un grande film e una grande lezione di comportamento umano e di psicologia del successo. Oltre alla qualità filmica, pressoché unanimemente valutata al massimo e non superato livello.
APPUNTO 1. INDIZI
« Veniamo all’idea più geniale del film, al suo significato più profondo e “ultimo”. Nel momento di morire, proprio mentre entra nella stanza l’infermiera che lo assiste di notte, Kane lascia cadere una pallina di vetro cui dedicava l’ultima stretta – una pallina di quelle al cui interno è visibile la leggera caduta di fiocchi di neve – e pronuncia il fatidico “rosebud” (mi rifiuto anch’io, come il recensore, alla traduzione italiana con rosabella). L’infermiera ode quel termine, lo riferisce e da qui, dall’intento di scoprirne il significato, si sviluppa in fondo tutta la vicenda filmica in una serie di flashback legati all’inchiesta del giornalista incaricato di approfondire e portare a conoscenza del pubblico la reale personalità del magnate deceduto. Si crede che appurando chi è o che cos’è “rosebud”, si riuscirà a metterla a nudo almeno in buona parte».
Nella recensione Nova fa prevalere lo scetticismo verso la possibilità di capire almeno di più di Kane. Eppure se il giornalista è sbrigativo e orientato più verso il pettegolezzo che può attirare un ampio pubblico di lettori non lo è Orson Welles che un frammento della verità “profonda” di Kane nel suo film la dice. Io penso che uno storico (serio) o un biografo (serio) farebbe meglio. E comunque mi è venuto in mente proprio lo storico Carlo Ginzburg e il suo «paradigma indiziario».
Qui sotto una breve scheda che delucida la questione:
http://www.associazionetolba.org/socialspread/images/materialeinformativo/Losi/spie_note_pag.pdf
CARLO GINZBURG Spie. Radici di un paradigma indiziario
Dio è nel particolare. G. FLAUBERT e A. WARBURG
Un oggetto che parla della perdita, della distruzione, della sparizione di oggetti. Non parla di sé. Parla di altri. Includerà anche loro? J.JOHNS
http://www.giuseppefiori.com/index.aspx?dove=scuolagiallo6
Secondo Ginzburg il procedimento che Sherlock Holmes ed il suo autore portano a compiuta e consapevole descrizione è un paradigma indiziario che ha remote origini, presumibilmente risalente ai millenni in cui l’auomo è stato cacciatore ed
«ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate, odori stagnanti»41.
Di tale modello epistemologico si trova eco proprio in quella famosa fiaba orientale, diffusa tra i tartari, i chirghisi, gli ebrei, che è comparsa in occidente attraverso la raccolta di Sercambi e, successivamente, attraverso quella di Cristoforo Armeno (Peregrinaggio di tre giovani figlioli di re Serendippo, Venezia, 1557), versione questa che nel Settecento fu tradotta (e plagiata) in opere delle maggiori lingue europee. Voltaire la riprese nel suo Zadig42, personaggio capace di descrivere il cavallo del re e la cagnetta della regina senza averli mai visti, interpretando le tracce da loro lasciate.
Da Zadig, attraverso Dupin, si giunge a Holmes, che ha avuto come ulteriore modello, quel professor Bell, medico e praticante di serendipity durante le sue lezioni.
Nel personaggio di Holmes, secondo Ginzburg, si ricompongono il paradigma indiziario conservato a livello mitico-letterario e il modello epistemologico sopravvissuto quasi solo all’interno della scienza medica, nella semeiotica medica, per essere più precisi.
Holmes esamina tutte le informazioni, anche le più insignificanti, alla luce della sua vasta ed enciclopedica conoscenza del crimine e dei risultati della ricerca scientifica applicata ai fatti criminosi.
Formula ipotesi, magari in base ad abduzioni, e le controlla. Conduce esperimenti ed indagini per ridurre il numero delle ipotesi plausibili, ed arriva, in genere senza che il lettore ne sia avvertito, all’ipotesi giusta. Dall’ipotesi trae deduzioni spesso sconcertanti, che vengono ulteriormente verificate (non sempre, a dire il vero). Alla fine l’ipotesi emerge con una probabilità vicina alla certezza43.
Il metodo è certamente razionale, a prescindere dal favoreggiamento dell’autore, e almeno nella sua prima e più importante fase, presenta rapporti inequivoci non solo con la semeiotica medica, ma, come ha ben notato Ginzburg, col sistema col quale Giovanni Morelli rivoluzionò la storia dell’arte ed, in particolare, il metodo d’attribuzione dei quadri di dubbia paternità.
Morelli aveva pubblicato, tra il 1874 e il 1876 una serie di articoli, in tedesco, sulla pittura italiana. Non bisognava cercar di distinguere le copie dagli originali facendo riferimento ai caratteri più appariscenti, il sorriso di Leonardo o lo sguardo verso l’alto del Perugino, ma ai particolari minori, trascurabili, meno influenzabili dalla scuola di appartenenza, più personali, propri dell’autore. I lobi delle orecchie, le unghie, i riccioli, la forma delle dita o dei piedi, le aureole. Particolari dove l’autore non si controllava ed era quindi più se stesso, particolari che, naturalmente i copisti trascuravano.
L’analogia tra i metodi di Bell, Holmes, Morelli, Freud si caratterizza suggestivamente, evidenziando come sia Bell che Doyle che Morelli, oltre naturalmente a Freud, erano laureati in medicina. Ciò appare molto più rilevante di eventuali effettive reciproche influenze.
Il modello epistemologico indiziario, schiacciato dagli altri modelli di conoscenza, era stato conservato e perfezionato proprio in campo medico, nonostante le perenni polemiche sull’incertezza del sapere in medicina.
Pur in presenza del (preminente) paradigma scientifico, imperniato sulla fisica galileiana, discipline come la storiografia, la filologia, oltre alla medicina, sono rimaste caratterizzate per una metodologia in gran parte indiziaria, che non rientra nei criteri di scientificità desumibili dal paradigma galileiano, per lo stesso peso che vi ricopre la congettura, l’abduzione e per il raggiungimento di risultati che hanno un ineliminabile margine di alcatorietà.
Risultati, comunque, vengono raggiunti, dove l’applicazione di altri metodi è impossibile. Risultati come quelli di Holmes.
Non si tratta solo di serendipità. Come in Poe, anche in Conan Doyle, diversi sono i percorsi del raziocinio, poiché diversi sono i modelli epistemologici che la scienza presentava all’attenzione degli scrittori dell’epoca.
Note
41. C. Ginzburg, Spie, radici di un paradigma indiziario, ne II segno dei tre, cit., 106. Cfr. anche la rubrica «Le Tracce raccontano», su «Airone», v. in particolare L. Boitani, I resti del pasto, in «Airone», settembre 1986, 144.
42. Voltaire, Zadig, Milano, Emme edizioni, 1975, 19.
43.Il segno dei Tre, cit., 41. C’è un autore italiano, la cui opera non a caso mostra connessioni con la psicanalisi, che per tutto il suo più noto romanzo ha lasciato tracce evidenti, spie, a ben vedere, non equivoche, ma affogate nel contesto narrativo di un personaggio che parla in prima persona e si abbandona ai suoi ricordi sollecitando l’identificazione del lettore. Nonostante il perfetto omicidio per omissione che contiene, questo romanzo non è un poliziesco, per l’inesistenza della detection e della proposizione di un problema intellettuale su un delitto. Pure il lettore deve fruire del testo per ricostruire, non solo il personaggio ma la realtà degli avvenimenti, di cui il narratore, si scopre alla fine essere un testimone inattendibile, contro ogni sospetto, nonostante, sportivamente ed astutamente, con un guizzo degno della Christie, Italo Svevo abbia fatto avvertire i lettori dall’inutile proemio a firma del dottor S., lo psicanalista. Un lettore di quelli creati da Edgar Allan Poe, riteniamo leggerebbe La coscienza di Zeno in maniera diversa dagli altri.
anche nella teoria della società (non mi avventuro in quelle naturali, ma non credo che tutto sia così diverso) il metodo indiziario è fondamentale. La discussione sarebbe troppo lunga. In definitiva, in “Tarzan vs Robinson” (che parla anche d’altro, anzi soprattutto d’altro) il metodo più usato è questo.
C’è ben poco da aggiungere a questa esaustiva analisi di Franco Nova sul film “Quarto Potere”.
Da un lato, sottolineo la lezione di metodo nell’intendere la conoscenza: *impossibile sceverare un’intera esistenza nel suo effettivo svolgersi, pur tramite una gran massa di documenti da consultare* (F. Nova).
Nello stesso tempo, dal film, possiamo capire come i ‘nomi’ siano degli indicatori attraverso i quali delimitiamo fasci di esperienza, nella vita personale così come nella storia collettiva. Il nome “Rosebud”, su cui tutti si affannano per carpire di quale segreto sia portatore, non ha a che vedere con una persona o una ‘cosa’, un oggetto (lo slittino che porta quella scritta), bensì riguarda un processo. In questo caso, un processo di sviluppo il cui percorso fu bruscamente interrotto dal trauma della separazione, il ‘bocciolo stroncato sul nascere’.
Di questa particolare rottura noi vediamo gli esiti. Il film ci accompagna nel doppio percorso, l’uno che va alla ricerca del significato (nel nome sta la cosa), mentre l’altro va nella direzione di dare un senso a certe scelte. Ovviamente relazioni di tipo indiziario e non certo di ‘causa-effetto’. Una di queste, la difficoltà del cittadino Kane a stabilire rapporti affettivi solidi e sinceri.
I legami d’amore si congelarono e al loro posto si stabilirono le idealizzazioni di se stesso in primis e della sua funzione onnipotente verso il mondo poi. L’afflato verso i deboli – con cui una parte di Kane si identificava, mentre un’altra parte si proponeva come il loro salvatore – non poteva che lasciare il campo alle delusioni, mantenendogli però l’ostinazione a procedere per la via intrapresa, senza guardarsi indietro e seguendo un’idea di giustizia fatta a sua misura.
Il potere del denaro, il potere ‘della’ e ‘sulla’ notizia, venne a supplire alla mancanza affettiva, rifiutò gli affetti così come si era sentito rifiutare da essi.
Qualcuno disse (non ricordo chi) che non possiamo imputare le atrocità del regime nazista al fatto che Hitler ebbe un’infanzia infelice o gli venne rifiutata la tetta materna. Il fatto è che ogni sistema sociale, sia per portare avanti il suo potere e sia per sopravvivere attraverso metodiche di sopraffazione, ha bisogno di queste persone ‘scisse’, ambigue. Le quali presentano la loro parte seduttiva e trascinatrice nei confronti degli altri, mentre poi non guardano in faccia nessuno perché c’è solo il proprio principio da salvaguardare. “Non puoi farmi questo”, dice Kane alla sua seconda moglie, quando lei vuole fuggire dalla segregazione in cui è stata resa prigioniera, capovolgendo i ruoli ‘vittima-carnefice’ e mettendosi lui nella parte della vittima incompresa. in questi casi, le persone non vengono trattate come soggetti ma come ‘oggetti di proprietà’ che non possono avere una vita propria né ribellarsi, così come non è stato possibile fare a lui da bambino di fronte alla scelta (vissuta come arbitraria) da parte di sua madre.
Il mausoleo che lui riempie alla rinfusa, mescolando senza alcuna cura oggetti preziosi ed oggetti di scarso valore, rappresenta il suo confuso mondo interiore, un mondo ‘morto’, in cui l’accumulo di una grande ricchezza non può dare vitalità o calore, ma riproduce soltanto la ripetizione ossessiva e maniacale di quel bocciolo di rosa (rosebud) stroncato sul nascere.
Così quando F. Nova scrive:
*E non perché costui sia un mentitore; anzi è nell’insieme sincero nel suo percorso destinato al successo e alla grandiosità solitaria del Castello che si è costruito. E’ proprio il vivere – implicante complicate relazioni con altri intrise di amicizia e malevolenza, di colpi bassi e adorazioni fin troppo prive di dubbi – a impedire che di quest’individuo si sappia chi realmente sia. Nemmeno lui riesce a capirsi. Del resto, nessuno apprende se stesso poiché siamo tutti presi dall’agire, dal provare sentimenti contrastanti, dal calcolare razionalmente i risultati di certe azioni, dal perseguire dati obiettivi che spesso mutano di posizione (spazio-temporale) e inducono contraddittorie convinzioni; ecc. ecc.*.
Kane “è” un mentitore. Forse in parte inconsapevole, ma lo è. Non ha bisogno di giustificazioni idealizzanti: *Secondo me, il regista vuole farci capire che il carattere del fanciullo, già potenzialmente pronto a ciò che poi diventerà, è andato (non consapevolmente) oltre la ripulsa e la ribellione insorte per il triste evento della separazione dalla madre. Non c’è volontà né strumento in grado di opporsi ad un destino segnato dalla sua superiore capacità di emergere e dominare rispetto a tutti quelli che poi lo attornieranno nella vita* (F. Nova).
C’è un momento in cui, nell’incontro con quella che sarà la sua seconda moglie, riconosce la sua solitudine.
Ma, invece di tenerne conto e cercare di capire le motivazioni e non ripetere gli stessi errori (movimento molto difficile e doloroso, ne convengo), impone alla donna l’identico snaturamento degli affetti a cui lui è stato sottoposto. E, per fare questa violenza, utilizza il potere di condizionare le persone attraverso la manipolazione delle notizie.
E non c’è nemmeno bisogno di sostenere il protagonista con ‘teorizzazioni’ del tipo: *La potenza e ricchezza di un individuo sono intrise di solitudine e distanza dagli altri; con la giovialità e il dialogo intenso e amichevole, con l’apertura a reali incontri e vicinanze, non si giunge ai risultati voluti e acquisiti da Kane* (F. Nova).
Poverino!
Anche perché, poi, quelli non sono *i risultati voluti da Kane*. La sua inquietudine non è mai sazia per quanto si riempia, saccheggiando di qua e di là, di oggetti (o persone/oggetti) su cui lui si illude di avere potere.
Solo alla fine può permettersi il ricongiungimento con l’inizio, quando lottare per mantenere la scissione e l’oblio di quella parte di sé fragile, non ha più motivo di esistere perchè i giochi sono ormai fatti.
Solo allora, erompe la potente realtà di quella rottura a fronte della quale egli contrappose il potere di una realtà effimera, una realtà dai piedi d’argilla, quella della ‘notizia’. La notizia che non produce, non trasforma in senso reale, ma crea solo movimento, spostamento di masse. Il culto, la venerazione della notizia in sostituzione del pensiero consolidato, che implica dignità (e sofferenza) intellettuale nel cambiamento dei paradigmi. Notizia che invece, come una puttana, si dà a tutti fermandosi presso il migliore offerente.
E in questo modo, pure nel finale, la nemesi dell’uomo che fa notizia, non l’abbandonerà bruciando, assieme alla slitta ‘rosebud’, la sua essenza umana.
Solo lo spettatore, il ‘terzo che osserva’, potrà raccogliere ulteriori indizi sul cittadino Kane.
R.S.
Nell’analisi di Franco Nova il personaggio Kane è articolato su una contraddittorietà intima tra il sentimento vitale di amore per la madre, di cui è cosciente, e il carattere e la personalità che, oltre la sua consapevolezza, lo consegnano al suo destino di potenza e solitudine.
Infatti Kane non è solo un essere umano la cui vita, come quella di tutti “almeno per quanto ne sappiamo, è la vicenda più complicata che si svolga nell’intero Universo.” Perché Kane è un uomo di spessore, un grande, “condannato da questa sua superiorità alla solitudine”.
La generale disponibilità di Nova verso una trascendenza, o eccedenza, propria di tutti gli esseri umani gli fa scrivere “non c’è modo alcuno di spiegare in tutti i suoi risvolti la personalità di un qualsiasi essere umano; e mai si giungerà ad elencare tutti gli eventi che attraversano l’esistenza di ognuno di noi”, ma la vera trascendenza è quella di Kane nei confronti degli altri uomini. Kane è potente, per la sua energia incomprimibile, per l’intelligenza e la forte personalità. “Non c’è volontà né strumento in grado di opporsi ad un destino segnato dalla sua [di Kane] superiore capacità di emergere e dominare rispetto a tutti quelli che poi lo attornieranno nella vita” perché gli altri sono solo “di contorno, delle comparse nella vita d’un grande”.
Uguaglianza e differenza sono il cuore del pensiero umano, dai massimi livelli alla legge elettorale, e credo che nessuno possa evitare di risolvere per proprio conto la questione. Chiedo a Nova: come articola la espressa convinzione sulla inconoscibile complessità di ogni vita, con la sottolineata distanza degli individui superiori, alla Kane, rispetto agli altri? Oppure: la sua visione aristocratica, espressa a proposito del film Quarto potere, può risolversi “politicamente” nella parabola personale e sentimentale, come è successo per Kane?
Comprendo il collegamento che fa Rita Simonitto tra parabole personali e vita collettiva “ogni sistema sociale, sia per portare avanti il suo potere e sia per sopravvivere attraverso metodiche di sopraffazione, ha bisogno di queste persone ‘scisse’, ambigue. Le quali presentano la loro parte seduttiva e trascinatrice nei confronti degli altri, mentre poi non guardano in faccia nessuno perché c’è solo il proprio principio da salvaguardare”.
Lo stesso Nova premette, alla valutazione di Kane come individuo biologicamente superiore, l’inconoscibilità della vita personale, addirittura scindendo l’individuo in un se stesso che sarebbe prima o fuori dal proprio vivere “nessuno apprende se stesso poiché siamo tutti presi dall’agire, dal provare sentimenti contrastanti, dal calcolare razionalmente i risultati di certe azioni, dal perseguire dati obiettivi che spesso mutano di posizione (spazio-temporale) e inducono contraddittorie convinzioni”.
Ma ambiguità, complessità e inconoscibilità non danno risposte sulla differenza umana, nei termini di uomo superiore,
potente e perciò solo, su cui Nova nella sua analisi di Quarto potere ha portato l’attenzione.
.. kane mi colpisce nella sua vicenda umana per quel suo duplice ruolo di vittima e di carnefice…Certo il bambino Kane aveva subito da parte della madre sia un atto di violenza, sradicato come fu, con l’allontanamento dal nucleo familiare, dai suoi sentimenti più profondi e vitali e dalla serenità dei giochi infantili, sia un atto di mistificazione, essendogli stata imposta la convinzione che lo strappo fosse per il suo bene…La grande personalità e la superiore intelligenza di Kane gli valsero il dominio sugli altri e il potere, ma non la capacità di liberarsi dalla scia del destino che la madre aveva tracciato per lui…Infatti nella sua vita non fece che replicare su se stesso e sugli altri atti di violenza e mistificazione…Non seppe ricevere e dare affetto, come non l’aveva ricevuto, anzi impose agli altri la sua cieca volontà di sopruso e in cambio si guadagnò una solitudine estrema…Divenne il re della mistificazione: attraverso il gigantesco Quarto potere della stampa, capace di diffondere notizie senza attinenza con la realtà e la giustizia e quindi manipolando gli animi, come era successo a lui …Solo alla fine della sua vita non poté nascondere a se stesso la sua corsa folle verso il nulla e rivide il bambino felice che era stato e quello capace di ribellarsi…In fondo ci riscattiamo con un attimo di verità. Questo, secondo me, sembra suggerirci il regista…Ma anch’io sono d’accordo con Franco Nova sulla difficoltà di sondare sino in fondo l’animo umano, con tutti gli indizi possibili, rimanendo sempre, e per fortuna, una zona d’ombra…
“Il fatto è che ogni sistema sociale, sia per portare avanti il suo potere e sia per sopravvivere attraverso metodiche di sopraffazione, ha bisogno di queste persone ‘scisse’, ambigue. Le quali presentano la loro parte seduttiva e trascinatrice nei confronti degli altri, mentre poi non guardano in faccia nessuno perché c’è solo il proprio principio da salvaguardare” (RS).
Ogni sistema sociale ha in effetti anche bisogno di personalità di tal genere perché è evidente, in tutta la storia da noi conosciuta (e certamente per come è stata scritta, questo va tenuto presente), che le grandi masse, alla fin fine, identificano determinate idee, e quanto esse significano per la possibilità di evoluzione in date direzioni, in precisi personaggi assurti a quel significato per meriti personali (meriti non significa che non siano magari dei “malvagi”) ma anche per alcune vicende non dipendenti da loro (senza prima guerra mondiale e crollo delle istituzioni zariste, difficilmente Lenin sarebbe diventato quello che fu; sarebbe ricordato in modo assai diverso). Tuttavia, nessun individuo, per quanto le vicende ne abbiano creato un forte carisma, può mantenere in piedi un dato sistema di potere (e senza questo potere, il “sistema” frana) in mancanza della formazione di una ben articolata (e ordinata) struttura di relazioni anche gerarchiche. Lenin credé che l’élite professionale rivoluzionaria, cioè il partito bolscevico, fosse soltanto l’avanguardia della “classe operaia” che tuttavia, in sé e per sé, era secondo lui influenzata da mentalità “sindacale”, di lotta per la distribuzione del reddito e non per la trasformazione radicale dei rapporti sociali (di produzione), la famosa “base economica” della società secondo Marx. Quell’élite non creò infatti nessuna società “socialista” (con proprietà collettiva dei mezzi di produzione), riprodusse una società differente dal capitalismo (intanto divenuto quello di matrice americana e non più quello inglese, borghese, studiato e sistematizzato teoricamente da Marx), ma basata pur sempre sul potere di una minoranza. In ogni caso, lo ripeto, senza forte struttura organizzata del potere, quel nuovo sistema sociale nato dall’ottobre ’17 non si sarebbe retto in piedi. Da qui partirebbero molte altre considerazioni che non farò però qui (ne ho parlato altrove non poco).
Cristina [Cristiana] mi attribuisce una mentalità aristocratica o qualcosa del genere (mi sembra). Se ciò significa che non credo che siamo tutti veramente eguali, come recita il principio giuridico di questa società liberata da vincoli servili espliciti (schiavitù, servitù della gleba, ecc.), è vero: sono convinto che gli individui abbiano intelligenza, forza del pensiero astratto, capacità nel fare pratico, ecc. molto differenti gli uni dagli altri. Marx – che ben pochi capiscono nel suo comunismo, da lui indicato come semplice conclusione di un processo oggettivo, del tutto interno ai mutamenti già in corso, secondo lui, nella società capitalistica in sviluppo – sapeva benissimo di questa non eguaglianza di capacità, possibilità, occasioni, anche nella futura società comunista, che non annullava affatto l’individualismo, anzi lo esaltava ma proprio nel suo essere il portato di una “liberazione” dall’esigenza di procurarsi i beni per vivere tramite duro lavoro e nelle condizioni di forza lavoro salariata (cioè merce) organizzata dai capitalisti (con potere di disporre dei mezzi di produzione) in quanto dirigenti dei processi produttivi. “A ognuno secondo i suoi bisogni” (questo era il principio base della nuova società); e, in essa, ognuno avrebbe sviluppato le sue proprie abilità e predisposizioni sempre nell’ambito di differenze individuali; solo con la minima possibile (non nulla, mica Marx era un sognatore) prevaricazione dei più intelligenti e capaci sugli altri. Sarebbe finito l’“antagonismo di classe” e si sarebbero estrinsecate le “contraddizioni all’interno del popolo” (Mao); ma in tali contraddizioni si sarebbero esplicitati in pieno i conflitti tra individui dotati di diverse predisposizioni e finalità. Altro che eguali e comunità di intenti. Nessuno mi sembra capire che significa per Marx “la classe” e l’antagonismo tra classi (solo due: la proprietaria e la non proprietaria dei mezzi di produzione! Non c’è classe alcuna senza questa divisione). Non finiva minimamente il conflitto interindividuale, proprio basato sul fatto che non siamo per nulla eguali e tutti amorevoli gli uni nei confronti degli altri. Siamo diversi e affermiamo come possiamo questa diversità; a volte abbastanza pacificamente, altre volte con metodi “un po’ decisi”.
scusa Cristiana, sono stato peggiore di Kane e ti ho chiamata Cristina. E’ un periodo in cui sbaglio nomi e luoghi.
scusate, ho sbagliato a mettere la scena finale. Questa è quella vera, in cui si capisce il senso della parola “rosebud” e del “no trespassing”. Mi scuso ancora
Nota di E.A.
Ho messo ora nel testo quella giusta.
ah grazie Ennio. Ancora non trovo il “di” al posto di “si”. Ma si capisce tutto benissimo. Quando lo trovo (se cerco ancora)….
notate la dissolvenza della slitta con scritto “rosebud” nel fuoco e il Castello nella semioscurità con comignolo che butta fuori il fumo nero delle cose bruciate. E la macchina si sposta lentamente e mostra anche in primo piano, proprio sbattuta in faccia allo spettatore, la scritta “trespassing” sulla rete. Il significato dell’insieme non potrebbe essere più esplicito. E il “the end” che sigilla il tutto lo è altrettanto.
APPUNTO 2: ORSON WELLS E GIOVANNI VERGA
A me «Citizen Kane» ha fatto venire subito in mente «Mastro-don Gesualdo» di Verga. L’analogia andrebbe argomentata, tenendo conto dei contesti storici diversi. Non disponendo di molto tempo, mi limito a stralciare, a sostegno di questa possibile traccia di riflessione, alcuni passi riguardanti il romanzo di Verga da «La scrittura e l’interpretazione», 5, Tomo primo, un manuale per la scuola di Luperini, Cataldi e Marchiani, Palumbo, Palermo 1997) :
p. 472: «Nella fine di Gesualdo opera insomma quella legge del contrappasso che sembra regolare la sua vita: ogni successo viene punito, rovesciandosi nel suo contrario e accelerando il fallimento interiore dell’eroe. La logica del moderno – la corsa per il denaro – e lo stesso individualismo borghese si rivelano in tutta la loro assurdità: son rappresentati solo per mostrarne l’insensatezza»;
p. 485: «La politica stessa, anche quella rivoluzionaria, è considerata un’ipocrita mascheratura degli interessi individuali: cosicché gli avvenimenti storici risultano alla fine come dispersi e smembrati, totalmente sommersi in un grottesco minuto e quotidiano che toglie loro ogni spessore. L’ unica realtà è quella del condizionamento naturale, dei bisogni elementari, degli interessi egoistici. Per Verga le specie e gli individui si succedono e si combattono all’infinito all’interno di un meccanismo naturale cieco e anonimo in cui la pulsione egoistica al possesso e all’affermazione non lascia dietro di sé alcuna eredità di affetti (si pensi alla morte di Gesualdo), ma è solo spinta verso la morte e il nulla, in un ciclo che incessantemente si ripete di generazione in generazione. L’unica durata è quella dei cicli biologici e della lotta per la vita; l’unica continuità è quella della roba che passa di mano in mano al di là della pretesa dei singoli di possederla»;
p. 486: «A differenza dei “Malavoglia”, dove il decesso dei singoli si colloca nello spazio degli affetti della famiglia e nel ciclo del tempo etnologico e dunque in una dimensione in cui la vita continua e la lezione dei vecchi trapassa nei giovani, la morte si presenta in “Mastro-don Gesualdo” come un annullamento totale o una fine sostanziale, priva di qualsiasi eco di solidarietà collettiva. In “Mastro-don Gesualdo” la morte è solitaria e individualizzata. La perdita di senso della carriera individuale, che rivela alla fine la propria assurdità, la travolge nella stessa crisi e nel trionfo del nulla. Il romanzo della roba si configura come romanzo dell’alienazione, dell’autoannientamento e della morte. D’altronde la stessa struttura del romanzo rivela una volontà di comunicare una tesi precisa […]: la norma economica è l’unica possibile perché corrisponde alle esigenze moderne della lotta per la vita, ma al suo interno non si dà salvezza. Se sottrarvisi significa compiere un atto patetico e anacronistico ( come sono patetici e anacronistici i fratelli Trao*) e condannarsi alla sconfitta, anche adeguarvisi è comportamento alla lunga inutile e assurdo che induce a scelte autodistruttive nel campo della vita privata e porta egualmente al fallimento. La realizzazione di sé è in ogni caso impossibile».
P.s.
Aggiungerei un’altra analogia tra l’atteggiamento di Verga al momento in cui scrive «Mastro-don Gesualdo» e quello di Nova,quando riflette su gli aspetti politici di «Citizien Kane» (ma aggiungere anche, in vesti di teorico, sul fallimento del marxismo e del comunismo).
Nel manuale viene riportata una nota di Giancarlo Mazzacurati sul disincanto politico di Verga di fronte ai risultati del movimento risorgimentale. Scriveva questo critico: «Dando la romanzo l’incorniciatura di un “racconto storico” […]Verga intendeva anche denunciare come, contro ogni passata illusione, non vi fosse stata, fin dalla genesi, alcun altra storia reale che quella dei don Gesualdo, alcun’altra società che la sua, di servi, di predatori, di decadenza esangui, dove, se spunta qualche raro istinto d’amore, viene presto ferito a morte». Pare evidente, insomma, che Verga nel «Mastro-don Gesualdo» scavi nel fallimento del Risorgimento e lo veda come «un lungo inganno, dapprima coperto dalle battaglie risorgimentali», che ora, «nella stagione del disincanto», appaiono anch’esse dominate dall’egoismo individuale.
*I fratelli Trao rappresentano nel romanzo il mondo dell’onore e dei valori antichi destinato alla sconfitta.
Non mi sono mai sognato di considerare la Rivoluzione d’Ottobre un semplice inganno, un fallimento che lascia chi aveva inneggiato e sperato in essa del tutto nudo e privo di speranza. Simile stato d’animo può pervadere solo chi credeva (e ripeto: credeva, per semplice fede) che quella rivoluzione fosse l’inizio dell’emancipazione universale, dell’affermazione definitiva dell’eguaglianza e della comunità tra uomini. Nemmeno nel 1953, a 18 anni, ho mai pensato simili sciocchezze. Ero tuttavia convinto che effettivamente si andasse formando una società in qualche modo socialista, ma nel senso in cui la pensava Marx, non i credenti che di quest’ultimo, del suo realismo sia pure dimostratosi alla fine fallace, non hanno mai capito un accidenti. Comunque, anche quando ho abbandonato l’idea che si fosse dato avvio ad una “transizione” al socialismo, ho continuato a pensare quell’evento come una svolta storica, l’inizio di nuovi processi, ancora oggi non del tutto analizzati adeguatamente né ben compresi. In ogni caso, è intanto finito il capitalismo borghese, crollato assieme allo zarismo e incapace di sostituirlo in Russia. I comunisti, credendo che esistesse solo quel capitalismo, hanno subito pensato che fosse iniziato un trapasso alla formazione sociale pensata da Marx. Alla fine, e dopo un confronto tra Stati Uniti e lo Stato alfiere di una formazione sociale che ancora non ha trovato vera analisi ben definita, ha vinto il primo paese. Noi lo definiamo ancora capitalistico, ma è una società assai diversa da quella inglese studiata e teorizzata da Marx.
Dopo la seconda guerra mondiale, la presenza dell’Urss ha consentito la liberazione di mezzo mondo dal vecchio dominio coloniale. Certo le lotte di liberazione nazionale, spesso guidate da partiti comunisti, non hanno impedito che si affermassero in moltissime ex colonie nuove forme di dipendenza da altri paesi. In genere, l’Inghilterra e la Francia sono state sostituite dagli Usa; tuttavia, si tratta di forme assai diverse di dominazione – per sfere d’influenza – che non possono essere confuse con il colonialismo d’antan. In definitiva, è fallito il sogno dei veterocomunisti, ancorati a vecchie ideologie oggi quasi ridicole. Non è fallita la rivoluzione del ’17; solo che ha realizzato altri obiettivi rispetto a quelli voluti dai molti che l’appoggiarono in quell’epoca lontana. E’ la stessa cosa accaduta alla rivoluzione francese del 1789. Mica è fallita nel suo rappresentare una netta svolta storica e l’avvento di un mondo assai diverso; semplicemente sono rimaste fantasie di uomini assai limitati la “liberté, égalité, fraternité”. Il mondo cambia, in definitiva, per la lotta di determinati gruppi sociali contro altri che difendono il passato. Solo bisogna abituarsi a pensare che non cambia mai com’era nelle intenzioni dei gruppi dirigenti delle rivoluzioni. E allora occorre smetterla di frignare, talvolta continuando a sperare che si possa ritornare ai vecchi progetti. Si deve tentare di capire come effettivamente è cambiato il mondo, in quale direzione ci si sta muovendo. E ai sognatori, un bel calcio in culo.
ho scritto queste in fondo poche righe (per un argomento simile) per dire che non penso come Verga pensava con riferimento al Risorgimento. Avrei anche dubbi sul parallelo tra Mastro Don Gesualdo e Citizen Kane. Ma non ho adesso il tempo di parlarne.
APPUNTO 3. COSCIENZA INFELICE E POTERE
«E’ proprio il vivere – implicante complicate relazioni con altri intrise di amicizia e malevolenza, di colpi bassi e adorazioni fin troppo prive di dubbi – a impedire che di quest’individuo si sappia chi realmente sia». (Simonitto)
Mi chiedo perché saremmo tenuti a « sceverare un’intera esistenza nel suo effettivo svolgersi»? È proprio necessario? È possibile? É quello che ci serve quando *dobbiamo* farci un’idea di una persona o di una collettività o di un «processo di sviluppo» (interiore), che – come nel caso di Kane – è stato « bruscamente interrotto dal trauma della separazione»? Forse semplifico, ma a me pare sia sufficiente e doveroso farsi un’idea sia pur approssimativa e rimanere tanto vigili da poterla rivedere e correggere mano mano.
Nella lettura di Rita (Simonitto) i problemi centrali posti dal film sembrano due: uno riguarda « la difficoltà del cittadino Kane a stabilire rapporti affettivi solidi e sinceri» e l’altro (analogo) «l’afflato verso i deboli – con cui una parte di Kane si identificava, mentre un’altra parte si proponeva come il loro salvatore». Kane fa in fondo una scelta:« Il potere del denaro, il potere ‘della’ e ‘sulla’ notizia, venne a supplire alla mancanza affettiva, rifiutò gli affetti così come si era sentito rifiutare da essi». D’accordo. Non capisco però perché « l’afflato verso i deboli» in automatico «non poteva che lasciare il campo alle delusioni». Penso perché Kane, nel porsi il problema di quale poteva essere il suo rapporto verso i deboli, « si proponeva come il loro salvatore». ( In altre nostre discussioni Rita ha citato la “lezione” di prudenza che si dovrebbe ricavare da «Viridiana» o da «Nazarin» di Buñuel). Ma i “deboli” ci sono e non è detto che i “forti” non possano imparare a rapportarsi a loro evitando sia la repulsione (cattivismo) sia la semplice identificazione (buonismo).
Partendo poi ancora da un altro punto del suo commento, quando scrive: «Qualcuno disse (non ricordo chi) che non possiamo imputare le atrocità del regime nazista al fatto che Hitler ebbe un’infanzia infelice o gli venne rifiutata la tetta materna. Il fatto è che ogni sistema sociale, sia per portare avanti il suo potere e sia per sopravvivere attraverso metodiche di sopraffazione, ha bisogno di queste persone ‘scisse’, ambigue. Le quali presentano la loro parte seduttiva e trascinatrice nei confronti degli altri, mentre poi non guardano in faccia nessuno perché c’è solo il proprio principio da salvaguardare», io mi chiederei – e al di là della rappresentazione comunque legittima e artisticamente potente che Wells ha dato nel suo film al problema – se Kane poteva essere immaginato in modo diverso; se cioè, era/è pensabile che, invece della “normale” saldatura tra il suo trauma infantile e le “leggi” del “sistema” fondate sulla sopraffazione (Manzoni, Adelchi: «far torto o patirlo»), poteva esserci un processo diverso ( “terapeutico-politico” diciamo) che riassorbisse sia la sua “ferita” come individuo e alleggerisse in qualche misura le “leggi” del sistema. È un’ipotesi (dialettica? “rivoluzionaria”?) che non scarterei, pur sapendo quanto oggi sia “sorpassata”. Tenendo in debito conto la complementarità tra le strutture psichiche e quelle socio-politiche, eviteremmo di giustificare («Poverino!») i vari Kane, che scelgono, adeguandosi al “sistema”, di «far torto», pur rimanendo “inquieti” o “tormentati” ( « La sua inquietudine non è mai sazia per quanto si riempia, saccheggiando di qua e di là, di oggetti (o persone/oggetti) su cui lui si illude di avere potere»). E non ci illuderemmo sulla potenza ( che a me non pare affatto “effimera”) del condizionamento “esterno”, ricorrendo alle apparentemente “liberatrici” fughe nell’”interiorità” . Fosse pure quella “finale” e tardiva per Kane( « Solo alla fine può permettersi il ricongiungimento con l’inizio, quando lottare per mantenere la scissione e l’oblio di quella parte di sé fragile, non ha più motivo di esistere perché i giochi sono ormai fatti.Solo allora, erompe la potente realtà di quella rottura a fronte della quale egli contrappose il potere di una realtà effimera, una realtà dai piedi d’argilla, quella della ‘notizia’»).
I “grandi” come Kane a me pare rientrino nella categoria della “coscienza infelice”, di quelli che «nella migliore delle ipotesi, dilatano a livello mondiale l’esistenza e la rilevanza certo realissima dei conflitti inconsci degli individui [e] fingono di non vedere che ogni cozzo di interessi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi negli individui e nei gruppi umani ma che nelle società moderne tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle grandi potenze assegnano un’importanza sempre minore ai motivi e agli interessi non formulabili in forma razionale». Per cui «quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare, dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei ericeti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura». (F. Fortini, Parola chiave:conflitto, in Disobbedienze II, pagg. 167-169, manifesto libri, Roma 1996).
Aggiungo che a me non pare neppure così importante stabilire se Kane sia o no «un mentitore». Mi pare questione secondaria rispetto a quella che ho posto: c’era/c’è o meno la possibilità per Kane (=per noi…) di sottrarsi al destino che non pare ostacolabile.
P.s.
Un breve cenno alla svalutazione della notizia a vantaggio del pensiero, che leggo in queste parole di Rita: «La notizia che non produce, non trasforma in senso reale, ma crea solo movimento, spostamento di masse. Il culto, la venerazione della notizia in sostituzione del pensiero consolidato, che implica dignità (e sofferenza) intellettuale nel cambiamento dei paradigmi. Notizia che invece, come una puttana, si dà a tutti fermandosi presso il migliore offerente».
È un’affermazione che rimanda ad analogo atteggiamento espresso da Ezio Partesana quando discutemmo del suo libro «Il gioco delle parti. Ideologia e propaganda» (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/). E sulla quale confermo riserve simili a quelle che avevo espresso in un commento (https://www.poliscritture.it/2016/04/06/la-societa-della-comunicazione/#comment-27283).
perfettamente d’accordo che non c’è bisogno di sceverare per intero una data personalità. E’ impossibile, ma non è cosa di cui essere sconvolti. Basta conoscere qualcuno per linee generale, a volte anche semplicemente comportamentali. Invece su altre questioni, interverrò, ma non tanto qui, quando avrò un po’ di tempo. E magari interverrò con il mio vero nome.
…senza pretendere di sviscerare la personalità di Kane- lo stesso regista che ha costruito il personaggio lo lascia avvolto nel mistero della molteplicità- mi sembra centrale l’episodio della imposta e traumatica separazione del bambino Kane dalla madre, come un “bocciolo stroncato sul nascere” (Rita Simonitto)…Un bocciolo poi trapiantato, per continuare il paragone, in un terreno avvelenato, in cui per sopravvivere avrà dovuto sviluppare un antidoto, che solitamente è ancora un veleno… Ma Kane adulto avrebbe potuto, giardiniere di se stesso, bonificare quel terreno e dare uno sviluppo diverso alla sua storia? Penso di sì, magari con l’aiuto di qualche alleato e accettando un destino di normalità …Non è andata così, sembra, e divenne un uomo potentissimo quanto solo e infelice.
Il paragone di Kane con Mastro Don Gesualdo mi convince solo in parte in quanto il primo va incontro ad un destino solitario e tragico, in una società distante e manipolabile, di cui è vittima e carnefice, il secondo fa parte del “ciclo dei vinti” per lo scrittore Verga, cioè è costantemente messo in relazione con la condizione sociale di grande povertà di provenienza, di contadini, di pastori, di pescatori…Entrambi i personaggi non hanno nessuna forma di solidarietà nei confronti degli altri, sono aridi affettivamente e avidi di denaro e di potere, ma il secondo è di una tragicità collettiva e sociale che forse manca al primo
“ma il secondo [Mastro don Gesualdo] è di una tragicità collettiva e sociale che forse manca al primo” (Locatelli)
Non pare. Rimando ancora a quanto scritto da Luperini et alii:
p. 486: «A differenza dei “Malavoglia”, dove il decesso dei singoli si colloca nello spazio degli affetti della famiglia e nel ciclo del tempo etnologico e dunque in una dimensione in cui la vita continua e la lezione dei vecchi trapassa nei giovani, la morte si presenta in “Mastro-don Gesualdo” come un annullamento totale o una fine sostanziale, priva di qualsiasi eco di solidarietà collettiva.
…non sono sicura, lo chiedo: ma Verga ha inserito anche Mastro Don Gesualdo nel “ciclo dei vinti”, in quanto, credo, travolto dall’illusione- che d’accordo è anche sprezzo per il mondo da cui si aveva avuto origine, è mancanza di valori collettivi- di potersi arricchire e, con un matrimonio d’interesse, raggiungere quel rispetto che a lui, come uomo e come appartenente ad una classe sociale “inferiore”, era mancato. Certo ambiva solo al riscatto personale, era privo di coscienza sociale… tuttavia sembrerebbe restare un esempio comprovato di discriminazione da parte di chi deteneva prestigio e potere sulle persone di origine povera, risucchiate in un ordine sociale, che non ammetteva superamento di caste. In questo senso, un vinto?
@ Annamaria [Locatelli]
Sì, il romanzo “Mastro-don Gesualdo” faceva parte del “ciclo dei vinti” poi non portato a termine; e i “vinti” per Verga non erano solo quelli “in basso”, per intenderci.
Ma, per un utile ripasso, ti scannerizzo questa pagina del manuale citato. E’ ben inquadrato l’argomento e – ripeto – secondo me le analogie (solo analogie!) con la visione di “Citizien Kane” ci sono:
…grazie, Ennio. avevo dimenticato molte cose sul verismo. Mi chiedo: al di là della dichiarata impostazione scientifica della corrente, volendo dare voce esclusivamente alla realtà, le simpatie di Verga in che direzione andavano? Anche lui “No trespassing”?
@ franco nova 12 settembre 2016 alle 23:5
I rivoluzionari sono sempre *un po’* sognatori. Se i rivoluzionari francesi o i boscevichi avessero potuto vedere in anticipo e senza alcun velo il risultato reale del loro tentativo, forse non l’avrebbero neppure inziato. E perciò distinguerei i sognatori “folli” o che agirebbero «per semplice fede» ( almeno come appaiono a chi è più ragionatore e rifiuta di sognare) dai rivoluzionari *un po’* sognatori ( e soprattutto da quelli che hanno agito). Mi chiederei pure quanto sia stato veramente il danno derivato a una rivoluzione o o ad un cambiamento vero procurato da quanti vengono presentati (soprattutto dai loro avversari o dagli incerti) come inseguitori di una palingenesi o del Paradiso in terra e subito. E ancora terrei conto del fatto che, almeno da quanto il pensiero scientifico ha cominciato a far sentire la sua influenza nella vita sociale, gli stessi sogni degli umani non possono essere rimasti inalterati. Non ci sono stati forse dei “sognatori seri” e persino “scientifici”?. Insomma sono convinto che sempre un po’ «bisogna sognare». Lo diceva anche Lenin [1]. E penso che anche Marx, con tutto il suo realismo, un po’ avesse sognato e si era ben sporcato le mani anche coi sognatori, visto se s’era dato da fare con la Prima Internazionale. Il sogno per me va precisato, elaborato, maturato. Perché dovrebbe essere demonizzato e del tutto cancellato? Se mutamenti comunque ci sono stati e in una direzione che giudichiamo, sia pur in parte, migliore di quella di prima è dovuto anche alla partecipazione dei sognatori alla lotta. E allora? Non ad essi va dato «un bel calcio in culo».
P.s.
Dopo aver scritto questa replica, mi sono ricordato di Danilo Montaldi e ho riletto un suo vecchio articolo del 1958, intitolato «Bisogna sognare. Lenin», che un po’ conferma questi miei pensieri. Lo riporto qui sotto:
(da Danilo Montaldi, “Bisogna sognare. Scritti 1952-1975”, pagg. 223 -225, Edito da Ass. culturale CENTOI INIZIATIVA LUCA ROSSI, Milano 1994)
se non ci fosse stata la prima guerra mondiale e il “vaso di coccio”, che era ormai l’apparato statale zarista, non fosse crollato con anche il forte malcontento in specie in alcune zone centrali (città) della Russia a causa della guerra e del suddetto crollo, ecc. Lenin poteva sognare finché voleva, ma sarebbe passato alla storia come un intelligente e anche innovatore marxista, non certo come chi ha fatto (non lui soltanto) la rivoluzione. Inoltre, ripeto che quella rivoluzione, importantissima, non ha nemmeno iniziato ciò che veramente voleva costruire. Non certo con la Nep a ormai 4-5 anni dall’ottobre ’17, non certo poi con Stalin (cui io attribuisco però egualmente altri meriti), ecc. I risultati finali di quell’evento, che sempre meglio possiamo valutare di questi tempi con la giusta prospettiva storica, non hanno nulla a che vedere con gli ideali diffusi a piene mani e per cui moltissimi hanno dato la vita. Adesso, bando ai sogni fino alla prossima epoca di “ebollizione”, in cui nasceranno nuove ideologie e nuovi ideali, nuovi entusiasmi e credenze in grandi avanzate dell’umanità, ecc. Per adesso, un po’ di freddezza e analisi oggettiva della stagione passata e del presente molto pasticciato e caotico. Il passato è passato e va studiato, valutato, ecc., ma non riproposto in nessun senso. Si ritarda soltanto la transizione all’epoca successiva. E si è veramente dei reazionari e conservatori. Il rivoluzionario, oggi, deve rimettere tutto in discussione.
@ Nova
Secondo me non si tratta di mettere al bando i sogni «fino alla prossima epoca di “ebollizione”, in cui nasceranno nuove ideologie e nuovi ideali, nuovi entusiasmi e credenze in grandi avanzate dell’umanità, ecc». Una cosa del genere sarebbe possibile solo a pochissime menti davvero fredde e scientifiche. I sogni non si arrestano. Tanto più oggi con l’immaginario strabordante costruito dall’industria culturale. Come ho detto, credo sia più intelligente e potrebbe dare risultati politici più fecondi aiutare a precisare, elaborare, maturare i sogni (oggi dispersi, spesso minimi e inquinati) che la gente continua a fare). E le analisi di Ernst Bloch su questi aspetti della vita sociale mi paiono ancora utili. Ammesso poi che si ricostruisca un Attore capace di influire su questo immaginario, dovrebbe svolgere nei confronti dei “sognatori” un’azione maieutica e non una repressiva o demonizzante. E poi chi ci dice che verrà di certo un’«epoca di “ebollizione”». Lo schema dei due tempi separati – oggi freddi, domani bollenti – non mi convince. Né mi pare facile o giusto sbarazzarsi, come dei sogni, anche del passato. Perché non andrebbe «riproposto in nessun senso»? Reazionari e conservatori scelgono e ripropongono quella parte di passato che dà sostegno ai propri obiettivi presenti e futuri. E un procedimento simile, ma di segno diverso, hanno sempre adottato da parte loro i rivoluzionari. Che anch’essi hanno scelto quella parte di passato coerente coi loro obiettivi (che so: le rivolte di Spartaco, quelle dei contadini di Muntzer, la Comune di Parigi, ecc.), cercando appunto di *riproporle* non nelle forme ma nella sostanza.
L’affermazione :«il rivoluzionario, oggi, deve rimettere tutto in discussione» mi pare perciò viziata di spirito futuristico. Nessuno, a meno che non voglia suicidarsi, rimette davvero tutto in discussione. È impossibile. Ci sono aspetti che riguardano la sopravvivenza della propria identità (individuale e collettiva), di cui non ci si deve disfare. Negli ultimi decenni abbiamo visto che i fautori della tabula rasa, presentatisi come “rivoluzionari”, non hanno affatto rimesso in discussione *tutto*. Non sono degli asceti o dei mistici. Si sono disfatti velocemente ed esclusivamente di quella parte della loro storia non più compatibile coi loro “nuovi” scopi, che hanno celato e decorato coi colori della “democrazia”. Devo poi dire che in giro non mi pare siano tanti quelli « che sognano ancora la società giusta, piena d’amore reciproco, confusa con il comunismo». E dunque, come ho ancora detto, non mi pare che gli ostacoli a condurre analisi oggettive della realtà in trasformazione vengano da cotesti tipi di sognatori. Ben altri ritardano « la transizione all’epoca successiva».
Certamente, se penso a quanti sognatori c’erano alla fine del secolo scorso, devo rilevare che oggi sono ridotti al lumicino. Nemmeno sostengo che questi tempi siano perciò migliori di allora. Se debbo guardare alla mia personale esperienza per ciò che concerne la soddisfazione provata sia nel fare politica sia nel vivere più in generale, devo dire che dagli anni ’70 in poi tutto mi è parso in continuo peggioramento. E infine, nemmeno credo che tutto si possa uniformare. Gli elementi contraddittorî esisteranno sempre, così come il bene e il male; come si può riconoscere il bianco se non ci fosse il nero? Quindi, è in un certo senso necessario che esistano i conservatori per poter riconoscere meglio quando infine un’epoca muterà per l’azione degli innovatori. Tuttavia, resto convinto che in effetti le epoche di stanca e di innovazione siano relativamente ben distinte e fra loro separate da quelle di “transizione”, in cui tutto quanto si credeva in passato sbiadisce sempre più, diminuiscono quelli che ancora propugnano i vecchi ideali, in progressiva fase di trasformazione in semplici ubbie, quasi dei tic di chi resta a raccontare quelle che in futuro assomiglieranno sempre più a favole, e nemmeno particolarmente divertenti. Nelle epoche di transizione non si riesce a ben sapere dove si andrà a parare; le trasformazioni saranno raccontate poi nell’interpretazione di coloro che ormai vivranno nella nuova epoca. E’ sempre la solita storia della “nottola di Minerva, ecc.”; o di quanto diceva lo stesso Marx: “l’analisi comincia sempre post festum”. Secondo la mia impressione, non un’assoluta certezza, siamo in piena “transizione”; e questa mi appare (ma posso sbagliare) assai lunga. Quindi mi comporto di conseguenza. Non avverto troppa indulgenza verso chi s’attarda in quelle che considero ormai fantasie e illusioni. Anche perché credo di essermi attardato fin troppo io stesso in una delle correnti di pensiero che le alimentano. Sia chiaro che secondo quanto penso nessuno, di qualsiasi orientamento sia, si è liberato del tutto delle vecchie ideologie. E’ però giusto ripensarle, metterne in luce le carenze ormai fin troppo visibili e individuare, se possibile, dov’erano situati i più deleteri errori che ci hanno condotto al disfacimento odierno. Tutto questo non potrà non avvenire in contrasto con chi preferisce restare ancorato ai vecchi porti che gli danno maggior conforto e lo fanno sentire al riparo dai rischi dell’alto mare. C’è però chi desidera armare le caravelle e avviarsi alla ricerca di nuove terre, contando che ci siano. A mio avviso, non è bene buttarsi nell’avventura senza una buona dose di freddezza e privi di facile entusiasmo, che si proverà solo quando eventualmente si avvistasse infine la nuova costa su cui sbarcare.
…oggi è difficile sognare perché viviamo in un periodo di transizione, ma anche di confusione e se si rivolge l’attenzione verso le nuove generazioni, che rappresentano il futuro, rimaniamo sconvolti dall’aggravarsi dei loro (nostri) problemi..Tuttavia, se non vogliamo immobilizzarci, ma “armare le caravelle”, navigando a vista verso nuove terre, una certa conoscenza dell’arte della navigazione, cioè dell’esperienza del mare (anche se i mostri si sono moltiplicati) da parte dei naviganti che ci hanno preceduto, e orientarci con un semplice progetto nel campo dei possibili, penso sia indispensabile. Questo per me significa sognare…Il sogno non dovrebbe sfociare in un’illusione, però dobbiamo tener presente che l’impossibile di oggi, potrebbe diventare il possibile di domani. Perciò fantasia e fantascienza da non escludere del tutto…
Dai due ultimi commenti tra Ennio e Nova balzano fuori alcune concezioni del tempo. Intanto per Nova non esiste solo la dimensione duale, del presente/passato e del presente/futuro, ma esiste una “epoca di transizione”, cerniera vuota tra i due spazi temporali, margine che non esiste pur segnando la differenza, in cui “tutto quanto si credeva in passato sbiadisce sempre più” e “non si riesce a ben sapere dove si andrà a parare; le trasformazioni saranno raccontate poi nell’interpretazione di coloro che ormai vivranno nella nuova epoca”. Peggio di così…! Senza possibilità di attingere a schemi o ragioni ereditate, senza capacità di modulare l’eredità per progettare un futuro… E sembra pure che l’epoca di transizione sarà assai lunga, quindi bisogna acconciarsi, e orientarci con criteri pragmatici: i gruppi di potere si combattono secondo le loro strategie, segrete ovviamente, possiamo tentare di decrittarle immedesimandoci, e decidere per la parte nostra.
Epoca di transizione che è una non-epoca, sospensione nella continuità della storia, come la differAnce di Derrida che rivela la soglia perennemente spostata tra significante e significato.
E chi dice che GLG non abbia ragione, e che la situazione non stia proprio in questi termini?
D’altra parte Ennio compie un’operazione di sostituzione, quando dichiara che i rivoluzionari “hanno scelto quella parte di passato coerente coi loro obiettivi (che so: le rivolte di Spartaco, quelle dei contadini di Muntzer, la Comune di Parigi, ecc.), cercando appunto di *riproporle* non nelle forme ma nella sostanza”.
La chiamo sostituzione perchè scambia una proiezione/ricostruzione ideologica dal presente sul passato, per il passato reale. Rispetto a cui occorre dire che “il passato” non esiste, cioè esiste solo il passato del presente. Né Spartaco, né Muntzer, né la Comune sono quello che una particolare tradizione storiografica ha accreditato, o forse anche sì, ma non solo.
Stando quindi sul piano di come ciascuno concretamente opera, Ennio si propone di “aiutare a precisare, elaborare, maturare i sogni (oggi dispersi, spesso minimi e inquinati) che la gente continua a fare)” mentre Nova dichiara che non “avverte troppa indulgenza verso chi s’attarda in quelle che considero ormai fantasie e illusioni” e, riguardo il futuro di cui nessuno può disinteressarsi, si considera tra “chi desidera armare le caravelle e avviarsi alla ricerca di nuove terre, contando che ci siano”.
Siamo quindi, come premettevo, dentro discorsi sul tempo, prima che sulle ideologie.
Sul tempo non saprei cosa dire. Certamente, forse una riflessione s’imporrebbe, ma non riesco, almeno adesso, ad afferrare qualcosa che magari mi corre disordinatamente per il cervello. Venendo ad altro, diciamo che mi sono commosso al film di Kubrik su Spartaco; probabilmente mi accadrebbe lo stesso se vedessi un film su Müntzer (non l’hanno mai fatto? Non so, non credo). Sulla Comune ho letto e meditato soprattutto sulle lezioni che Marx credé di poterne ricavare (vedi “La guerra civile in Francia”) e che furono poi riportate e commentate da Lenin in “Stato e rivoluzione”. Indubbiamente letture di molti anni fa e che adesso non avrei tempo di rifare; e nemmeno, temo, ne trarrei grande utilità, poiché non mi sembra che in questa fase storica si ripropongano situazioni storico-sociali di quella particolare configurazione. Per il resto, ribadisco che senz’altro l’esperienza passata non va assolutamente dimenticata e se ne dovrebbero trarre tutte le possibili indicazioni per l’oggi e per l’immediato futuro. Per i prossimi 50 o 100 anni, mi sembra ci si debba attenere a ipotesi di grande genericità. Se poi qualcuno pensasse ai prossimi secoli, non saprei veramente cosa pensare di costui. Sull’esperienza passata, tuttavia, si deve riflettere proprio per l’ormai dimostrata erroneità delle teorie e credenze in merito a quanto accaduto, ai risultati ottenuti, ecc. E si deve quindi rivedere quanto si è fino adesso sostenuto. In fondo, ho affermato soltanto questo. Tuttavia, è abbastanza per lasciare alle spalle teorie e credenze di tanti anni prima. Non per condannarle, non per vergognarsi del proprio passato; solo per invitare i “nuovi venuti” a cambiare strada e a concentrarsi su qualcosa di nuovo e di più efficace teoricamente e praticamente. Sempre sapendo che la maggiore efficacia, se effettivamente conseguita, lo sarà temporaneamente. Nulla dura troppo a lungo. Non si deve cercare di protrarre per più tempo del necessario certi desideri, che spesso sono belli nei nostri ricordi perché magari ci abbiamo costruito sopra una (ir)realtà di “grande poesia”. Sempre esistono anche desideri, inseguiti da altri, che sono contrari ai nostri; e allora li diciamo totalmente mostruosi, mentre magari avevano alcuni lati positivi, che andrebbero anch’essi ricordati e analizzati con oggettività per trarne insegnamenti non inutili. Nelle epoche di grande scontro, siamo settari e perfettamente chiusi a ciò che sostiene il “nemico”; dobbiamo solo annientarlo e prevalere su di esso. Quando sono tramontate sia le tesi e le speranze nostre sia quelle degli avversari, bisognerebbe tentare una più fredda valutazione del passato in tutte le esperienze che l’hanno caratterizzato. Dovremmo smettere di presentare noi come grandi idealisti e gli altri come pura nequizia, disumanità e quant’altro. Ancora non intravvedo simile capacità. Nemmeno in me, troppo spesso, non mi tiro fuori.
APPUNTO 4. TABULA RASA O RIUSO DEL PASSATO?
(in replica a cristiana fischer 16 settembre 2016 alle 12:57)
Esiste davvero «una “epoca di transizione”, cerniera vuota tra due spazi temporali» o «un’epoca di transizione che è una non-epoca, sospensione nella continuità della storia», come si chiede Cristiana Fischer ?
A me pare che questa sia una (legittima) ipotesi sull’epoca che stiamo vivendo o una possibile interpretazione (con i vantaggi e i limiti di ogni interpretazione). Solo dopo si capirà o altri (i posteri) capiranno se questa nostra sarà stata davvero epoca di transizione e se davvero «tutto quanto si credeva in passato» sarà del tutto sbiadito. Per ora, dunque, non vedo una impossibilità assoluta di « attingere a schemi o ragioni ereditate», anche se ammetto – riferendomi a Marx e alla tradizione marxista – la loro insufficienza a fornirci tutti gli elementi indispensabili per « progettare un futuro». E personalmente temo che quanti affermano che ci sia stata ormai un azzeramento di tutte le tradizioni del passato (otto-novecentesche) di destra e di sinistra, comunista, socialista e fascista e ritengono di aver fatto tabula rasa di esse nelle loro menti e si accingono a ripartire da zero, ricorrono, più spesso di quanto si creda e a volte acriticamente, a questo o a quell’elemento che, analizzato con attenzione, risale all’una o all’altra delle Grandi Narrazioni date per svanite. Insomma attenzione al * post* (modernismo, comunismo, fascismo, ecc). Solo questo mi sento di dire.
Cristiana poi scrive che io compirei «un’operazione di sostituzione, quando dichiar[o] che i rivoluzionari “hanno scelto quella parte di passato coerente coi loro obiettivi (che so: le rivolte di Spartaco, quelle dei contadini di Muntzer, la Comune di Parigi, ecc.), cercando appunto di *riproporle* non nelle forme ma nella sostanza». Perché scambierei «una proiezione/ricostruzione ideologica dal presente sul passato, per il passato reale». E precisa, sia pur in modo dubitativo: Né Spartaco, né Muntzer, né la Comune sono quello che una particolare tradizione storiografica ha accreditato, o forse anche sì, ma non solo».
Ma allora che sono? Non sono esistiti? Si è forse scoperto che erano diversi dall’immagine che una certa storiografia ci ha trasmesso? Se sì, discutiamo di queste immagini revisionate. Ma evitiamo il rischio della indecidibilità o di uno scetticismo totale verso la lettura del passato e della storia. Altrimenti – mi permetto una battuta – rimaniamo in una sorta di «agnosticismo palpitante» (Franci La Media) anche su temi e problemi che la storiografia ha chiarito o può chiarire.
Infine, chi avesse seguito con un minimo di attenzione la faticosa ma non disprezzabile discussione su postmodernità e ipermodernità svoltasi in campo letterario ma non solo ( un esempio qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=11196; http://www.leparoleelecose.it/?p=11214) capirà quanto complessa sia la questione e come ad una conclusione solida non si sia giunti. È meglio allora che tra le due concezioni di tempo, che Cristiana ha voluto individuare nel suo commento( quella di un tempo sospeso o di una transizione, ma con drastica cesura nei confronti del passato, che io ho definito “futuristica”; e quella che insiste a rielaborare storicamente il passato e non lo riduce a fantasia o a pura illusione), il confronto anche serrato prosegua, senza delegittimare troppo in fretta una delle due.
1 parte
“È meglio allora che tra le due concezioni di tempo, che Cristiana ha voluto individuare nel suo commento (quella di un tempo sospeso o di una transizione, ma con drastica cesura nei confronti del passato, che io ho definito “futuristica”; e quella che insiste a rielaborare storicamente il passato e non lo riduce a fantasia o a pura illusione), il confronto anche serrato prosegua, senza delegittimare troppo in fretta una delle due.”
Bene: prendo sul serio il *rischio* del futurismo, cioè, come scrive Ennio “il rischio della indecidibilità o di uno scetticismo totale verso la lettura del passato e della storia”.
(E’ parente, come mi accusa, dell’agnosticismo palpitante di Franci La Media? forse anche sì: ogni prospettiva religiosa è rivolta al futuro -per il cristianesimo la virtù teologale della speranza- più che al passato).
Ma prima di esaminare il rischio del futurismo, torno a distinguere tra due possibili modi di sentirsi collocati nel presente: 1) come in un luogo che di fatto non esiste, in quanto il presente è, soggettivamente ma anche storicamente, un’intersezione come tale sempre tralasciata tra un presentepassato e un presentefuturo; oppure 2) come una durata di incerta definizione “epoche di transizione in cui non si riesce a ben sapere dove si andrà a parare” (Nova, 15 sett 9.43) e però “esperienza passata (che) non va assolutamente dimenticata e se ne dovrebbero trarre tutte le possibili indicazioni per l’oggi e per l’immediato futuro” (Nova 16 sett 16.20). Mi sembra che Ennio concorderebbe con queste frasi di Nova.
Nei confronti di questo interrogare del passato, concesso da Nova e intenzionalmente perseguito da Ennio, i dubbi che si presentano, sulla periodizzazione e sulla definizione, sono di grande momento, lo stesso Ceserani nel primo testo di LPLC identifica un secolo e mezzo di modernità, poi sulla rottura a mezzo il novecento cominciano i tiramolla di post iper ecc. Ma poi Ennio non si rifà tanto a ipotesi di periodizzazione, quanto a una identificazione di topoi simili in collegamento ideale, Spartaco, Müntzer, la comune, ecc. Allora io preferisco seguire l’affermarsi della singolarità nel 1200, negli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, nel romanticismo, nei poeti e filosofi ebraici dopo il nazismo… due letture della storia per costellazioni, e perché no?
Ma il punto per me importante è quello del presentefuturo, rispetto a cui occorre evitare il “rischio di futurismo”, e sono d’accordo. Ma temo di più l’idea per cui siamo in una fase di transizione in cui occorre identificare il passato-radice per prepararsi al futuro. Questo mi pare assurdo, il futuro non aspetta che qualcuno si prepari, ma è già qua, la bufera infernal che mai non resta di qua di là di su e di giù ci mena. Se noi siamo, come ritengo sempre e solo nel presentefuturo e nel presentepassato (e mai in un presente fermo -di transizione- lungo o corto che sia), quest’ultimo presentepassato lo abbiamo incorporato, si può migliorarne la consapevolezza ma è indubitabile che c’è già, come il DNA che abbiamo anche senza saperlo. Anche se conoscerlo aiuta per tante operazioni, andiamoci piano con storicismo psicoanalisi ed ermeneutica (entro cui colloco i vari ritorni a Marx), per non farci impaludare. Meglio quelle filosofie del taglio, che non è cancellazione ma taglio prospettico, che consente ipotesi di azione e di progetto e si occupa di più del presentefuturo. Tanto, come diceva Brecht nella Leggenda sull’origine del Taoteking (trad Fortini) “ma, chi alla fine vinca, interessa anche me”. E’ quello che interessa tutti, perché non ci si può fermare, e non si fermano né gli amici né i nemici. E come faccio a decidere? Ah, quello… e chi non conosce da che parte sta? Magari non lo dice, o mente, per confondere il nemico, ma lo sa, lo sa.
né riuso né tabula rasa. Considerazione degli errori di valutazione e previsione commessi sulla base di teorie invecchiate e divenute solo ideologie putrefatte, che procurano gravi infezioni se le si vuol ancora usare. Da quella vecchiezza si può però certo imparare, e molto, ma riconoscendo – sia pure con un qualche ritardo, come sempre avviene – gli sbagli enormi commessi per aver insistito nel coltivare date concezioni anche quando ormai erano di fatto morte. I cadaveri insepolti (con tutti gli onori, per carità) procurano gravi guai.
credo non si capisca come sia le teorie scientifiche sia le ideologie di tipo sociale abbiano periodi di crescente inconsistenza e ci voglia del tempo prima che verifichi una nuova sintesi, tale da consentire il rilancio di determinate pratiche dotate di effettivo successo. Dopo l’affievolirsi della spinta legata alla Rivoluzione francese, che non finì subito con l’Impero napoleonico, bensì con Waterloo e il Congresso di Vienna (1814-15), si ebbe un lungo periodo di sostanziali fumisterie ideologiche; non dico senza alcun significato, ma che non rimettevano in moto processi effettivamente nuovi. Infine vennero gli anni ’40, sfociati nei moti del ’48-’49, e da lì prese l’aire quello che fu detto “movimento operaio” e che diede vita a pratiche piuttosto vitali. In campo scientifico, lungo fu il lento declinare della teoria newtoniana. Ci furono anche qui sussulti tutt’altro che negativi – ad es. Faraday e Maxwell – ma non capaci di operare sintesi fortemente innovative. Infine si giunse a Einstein (preparato da Poincaré) nel 1905 e ’16 (relatività speciale e generale), subito dopo la quantistica, ecc. Quindi le epoche di trapasso, ancora incerte, ci sono; naturalmente, non è detto che sia tutto un piattume, in genere ci sono spunti per la novità. Tuttavia, questi non trovano subito sintesi dotate di decisiva spinta innovativa.
@ Nova
«Né riuso né tabula rasa»?
Ma sono forse equivalenti le due operazioni? A me imparare dagli sbagli commessi pare rientri nel concetto di *riuso*. A meno di non pensare questa operazione come superficiale aggiustamento o mera decorazione. E per non aggirare il punto di latente dissenso tra noi, a me pare che un riuso di Marx comporti una revisione del suo metodo e delle sue categorie, ma un far tabula rasa della sua impostazione comporta un abbandono e, conseguentemente, un rivolgersi a qualche altro pensatore. In modo palese o in modo velato. Del resto questo mi pare sia avvenuto in sostanza almeno a quel livello universitario e accademico, che comunque influenza anche indirettamente le nostre ricerche “indipendenti”: Marx dagli anni Ottanta a livello filosofico è stato sostituito dal duopolio Heidegger/Nietzsche (con qualche variante weberiana alla Cacciari o foucautiana o deleuziana) e a livello politico-economico dal neoliberismo americanizzato (con qualche residua coda keynesiana o polanyana).
@ Fischer
La prospettiva religiosa «è rivolta al futuro»? A me pare si tratti però di un futuro ovviamente immaginato a partire da un passato mitico e che ha le sue fondamenta storiche risalenti al mondo antico. (Nuove o significative religioni sorte più recentemente non ne vedo). Quel passato nelle religioni è incancellabile e immodificabile ( malgrado i – bisogna dire limitati – tentativi di modernizzazione: protestantesimo, modernismo) e che i riti non fanno che riproporre. Mentre i “futurismi” (che possano essere intesi come neo-religioni, come ha ipotizzato forse Agamben (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/16/se-la-feroce-religione-del-denaro-divora.html) a me paiono più legati alla modernità, ai suoi sviluppi, alle sue esasperazioni). Detto questo, trovo un po’ ellittici e a volte oscuri, alcuni punti del tuo commento:
– non capisco fino in fondo cosa intendi quando scrivi – primo caso -che « il presente è, soggettivamente ma anche storicamente, un’intersezione come tale sempre tralasciata tra un presentepassato e un presente futuro»; ( forse, agostinianamente mi pare, che esso non esiste? Che è occupato in buona parte dal passato o dal futuro che avanza…?)
– non capisco se stabilisci o no un’analogia tra presente e “epoche di transizione in cui non si riesce a ben sapere dove si andrà a parare” (Nova, 15 sett 9.43); (se sì, bisognerebbe dire che le epoche di transizione il riferimento “produttivo” col passato lo perdono e questo mi pare inconciliabile con l’altra affermazione: “esperienza passata (che) non va assolutamente dimenticata e se ne dovrebbero trarre tutte le possibili indicazioni per l’oggi e per l’immediato futuro” (Nova 16 sett 16.20);
– non capisco cosa intendi per «letture della storia per costellazioni»; (forse la scelta – sicuramente ideale o mossa da simpatia poco verificabile per alcuni personaggi o periodi storici piuttosto che per altri?);
– – non capisco cosa intendi con « occorre identificare il passato-radice per prepararsi al futuro»?
– non capisco quello che tu chiami ‘presente futuro’ («il futuro non aspetta che qualcuno si prepari, ma è già qua, la bufera infernal che mai non resta di qua di là di su e di giù ci mena»; o perché « noi siamo, come ritengo sempre e solo nel presentefuturo e nel presente passato»;
– non capisco cosa intendi con « filosofie del taglio, che non è cancellazione ma taglio prospettico, che consente ipotesi di azione e di progetto e si occupa di più del presente futuro».
Certo sono troppi i ‘non capisco’, ma mi pare giusto elencarli. Mentre trovo chiaro il riferimento a Brecht e sono andato a rileggermi quel suo scritto e un commento interessante di un certo Sabbadini che copio qui sotto in Appendice.
Appendice
* http://www.associazionecentronamaste.it/dove-siamo/21-approfondiment1/il-pensiero-cinese/78-la-leggenda-dell-origine-del-tao-te-ching
La leggenda dell’origine del Tao Te Ching
di Shantena Augusto Sabbadini
Un vecchio cavalca un bue, accompagnato da un ragazzo, su per montagne scoscese e deserte. Portano con sé poche provviste e qualche coperta. Si lasciano alla spalle un regno con una cultura raffinata, una città popolosa e campagne fertili e vanno verso occidente, verso steppe abitate solo da tribù di barbari. In cima al monte c’è un passo, l’ultimo confine del regno. Seduto all’ombra di un pino, un unico soldato sta a guardia del passo. È un povero militare, l’uniforme logora, i piedi nudi. Fedele alla consegna, ferma i viaggiatori, chiedendo la loro identità e la meta del loro viaggio. Ma meta questi due non ne hanno. E chi è questo vecchio che sembra di nobile lignaggio e in tarda età si avventura in un viaggio tanto faticoso? Il vecchio, dice il ragazzo, “insegnava”. “E cosa insegnava?” chiede il soldato. “Oh,” dice il ragazzo, “strane cose. Parlava dell’acqua che, pur essendo la sostanza più morbida, erode le rocce più dure. Insegnava che il morbido e il flessibile sono in grado di sopraffare il duro e il rigido.”
Il ragazzo tira la cavezza del bue. È ansioso di ripartire, perché si sta facendo sera e i due viaggiatori hanno ancora un buon tratto di cammino da fare. Ma il soldato ora è incuriosito. ” Cos’è questa faccenda dell’acqua?”
Il vecchio lo guarda tra le palpebre socchiuse: “Vuoi sapere?” “Io conto ben poco,” dice il soldato, “ma questa idea che il morbido e il flessibile vincono il duro e il rigido mi sembra importante. Perché non vi fermate qui questa notte e ne parliamo un poco? La mia capanna è modesta, ma si sta bene al riparo dal vento e accanto al fuoco.”
La curiosità è sincera e il consiglio sensato. Non si rifiuta un insegnamento a chi lo chiede in maniera tanto cortese. E al bue non dispiacerà il riposo e l’erba fresca del monte. Il vecchio a fatica smonta dalla sua cavalcatura.
Restano con il soldato quella notte e un’altra e un’altra ancora. Il soldato ha chiesto al vecchio di lasciargli qualcosa di scritto di queste strane cose che insegna e il vecchio ha acconsentito. Non lo aveva mai fatto, nei lunghi anni trascorsi nella capitale. Ma ora, di fronte alla richiesta di quest’uomo semplice, che appena sa leggere, stranamente, senza neppure pensarci, ha dettò sì. Perciò, seduto sotto il pino, trascorre le giornate scrivendo.
I giorni passano in tranquilla semplicità. I contrabbandieri si stupiscono che il
guardiano del passo sia divenuto tanto indifferente ai loro andirivieni. Il settimo giorno il vecchio consegna il manoscritto al soldato. I viaggiatori prendono congedo, ringraziano dell’ospitalità, il ragazzo aiuta il vecchio a risalire in groppa. al bue e si rimettono in cammino. Scompaiono in lontananza sul sentiero tortuoso.
Questa è una libera versione di una poesia di Bertolt Brecht. [1]La poesia è intitolata “Leggenda dell’origine del libro Tao Te Ching sul cammino di Lao Tzu verso l’esilio” ed è a sua volta una libera versione di una leggenda tramandataci da Sima Qian, il primo grande storico cinese. In verità non sappiamo neppure se Lao Tzu sia veramente esistito. Ma la leggenda trasmette un messaggio importante e profondo.
“Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”: così comincia il manoscritto che il vecchio consegna al soldato prima di allontanarsi per sempre dal suo mondo. La parola tao significa in primo luogo ‘via, strada, cammino’, e in senso figurato ‘via da seguire, principio guida, norma, dottrina, metodo’. Quindi per estensione anche ‘dire, parlare, insegnare, esprimere’. La frase cinese è interessante e merita di essere esaminata un po’ più in dettaglio. Il cinese classico non ha articoli, non ha singolare o plurale, non distingue sostantivi e verbi. Una traduzione letterale della frase potrebbe perciò essere qualcosa come “tao possibile dire/insegnare/comunicare non costante/eterno tao”.
A un primo livello possiamo leggerla come:
“ogni dottrina che è possibile insegnare, trasmettere o comunicare non è una dottrina costante o eterna”, “ogni principio guida o norma che si possa enunciare non è una norma costante o eterna”.
Contiene dunque una radicale critica del linguaggio, non dissimile da quella che caratterizza il pensiero postmoderno: ogni dottrina, ogni enunciazione che pretende di avere un valore di verità, ogni norma che pretende di dirigere la condotta, ha un valore unicamente relativo e incostante. Dipende dal punto di vista e dagli interessi di chi parla. Più in generale, tutte le nostre teorie intorno alla realtà sono relative. Sono, secondo la bella metafora del matematico Korzybski, delle mappe: e una mappa non equivale al territorio. La realtà, il territorio, è eternamente al di là di tutte le nostre rappresentazioni.
Ma se i taoisti e i postmoderni condividono lo stesso scetticismo nei confronti del linguaggio (e della razionalità), le conseguenze che ne traggono sono assai diverse.
Se il linguaggio è incapace di contenere la realtà, la mossa dei pensatori postmoderni consiste nel lasciare andare la realtà. Abbandonano la nozione di una realtà oggettiva e universale e si concentrano unicamente sul linguaggio come creatore di realtà relative, di mappe intersoggettivamente condivise, e quindi di mondi sociali.
I taoisti fanno la scelta opposta. Se il linguaggio è incapace di contenere la realtà, essi sono pronti a lasciare andare il linguaggio. Il loro interesse è tutto concentrato su ciò che è al di là del linguaggio, sull’incomunicabile. Il tao degli esseri umani può essere incostante e inaffidabile, ma il Tao della natura, il Tao del mondo, il Tao dell’essere (e del non-essere, del vuoto) semplicemente è. Essi attribuiscono quindi un nuovo significato alla parola tao: è il significato che indico con l’iniziale maiuscola (che in cinese non esiste): Tao. Beninteso è un significato paradossale, perché vuole indicare l’indicibile, ciò che è al di là di ogni discorso, e perciò si nega nel momento stesso in cui viene enunciato. È qualcosa a cui si può solo alludere, un dito che indica la luna: è, soprattutto, un invito a un viaggio esperienziale, a una trasformazione esistenziale.
In questo senso perciò dobbiamo capire la leggenda riguardante le origini del Tao Te Ching. Secondo la leggenda Lao Tzu durante tutta la sua vita non avrebbe mai scritto nulla. Sima Qian ce lo descrive come “intento a cancellare ogni traccia personale di sé”. Come poteva scrivere, se in realtà la sola cosa di cui vale la pena di parlare è indicibile? Wittgenstein conclude il suo Tractatus-Logico-Philosophicus con le parole: “Di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere”[2]. Coerente con se stesso e con Wittgenstein, per ottant’anni Lao Tzu (il cui nome significa ‘vecchio maestro’) ha taciuto.
Ma su quel passo di montagna, in cammino verso il volontario esilio, avviene un miracolo. Lo stesso si racconta di Gautama Buddha. Improvvisamente, quando meno se lo aspetta, dopo aver abbandonato come futili tutte le pratiche ascetiche, mentre sta bevendo una tazza di latte, gli si spalancano i cieli. Coglie lo splendore della realtà e la sua identificazione con il suo corpo, con il suo io si dissolve come neve al sole. È uno con l’oceano dell’esistenza. E, naturalmente, vorrebbe condividere con tutti questa realizzazione, che appartiene di diritto a tutti, che è la meta del viaggio di ogni forma di coscienza, di ogni essere senziente. Ma come fare? Le parole sono di gran
lunga insufficienti. Ogni descrizione della sua esperienza tradisce la realtà che vuol descrivere. È preso da un moto di sconforto, da un senso di impotenza.
Ma anche per lui avviene il miracolo. La nube gonfia di pioggia incontra la terra assetata. La sincera richiesta del soldato scioglie la riserva di Lao Tzu. La compassione per la sofferenza degli esseri senzienti scioglie la riserva di Buddha.
Entrambi assumono la sfida di dire l’indicibile. Coscienti del pericolo (della
certezza!) che le parole, come ossa calcinate, tradiranno un giorno l’esperienza vivente. Che la gente scambierà il dito per la luna e, ipnotizzata dal dito, dimenticherà la luna. Ma Lao Tzu, nel momento in cui accetta di servirsi delle parole, ritiene giusto mettere in guardia il lettore fin dall’inizio:
“Il Dao di cui si può parlare non è l’eterno Dao”.
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[1] Bertolt Brecht, “Legende von der Entstehung des Buches Taoteking auf den Weg des Laotse in die Emigration”, Werke, Frankfurt, 1988, XII, 33. Per una traduzione inglese vedi, p.e., la pagina web http://www.penninetaichi.co.uk/index_files/Page1090.htm.
* http://www.manifestosardo.org/laotse-e-lemigrazione/
Vi allego una poesia di B. Brecht, che ci ricorda l’importanza di rendere accessibile a tutti la conoscenza e la possibilità di apprendere, e questo non solo perché “serve”. Buon 2010!”
Leggenda sull’origine del libro Taoteking dettato da Laotse sulla via dell’emigrazione
1
Quando fu, e già logoro, ai settanta,
anche il Maestro ebbe voglia di quiete.
Ché nel paese ancora una volta era debole il bene
e ancora una volta più forte cresceva la malvagità.
E lui cinse i calzari:
2
E prese su quanto aveva di bisogno.
Poco. Però, una cosa e l’altra, e c’era
la pipa che sempre fumava, la sera,
e il libro che sempre leggeva.
E, a occhio, pan bianco.
3
Godè la valle ancora e la dimenticò
quando ai monti volse la via.
E il suo bue godeva l’erba fresca,
ruminando, con il vecchio in groppa,
ad un passo che per lui bastava.
4
Ma nel quarto giorno fra i dirupi
gli sbarrò la strada un gabelliere:
“Hai qualcosa di prezioso?”, “Nulla”.
E il ragazzo che guidava il bue disse:”Insegnava”.
Tutto dichiarato, dunque.
5
Ma quell’uomo, in un suo lieto animo,
chiese ancora: “E che cosa ne ha cavato?”
E il ragazzo: “Che cede all’acqua docile,
a lungo andare, la pietra più tenace.
Quel che è duro la perde, capisci?”
6
Per andare finché c’era, di quel giorno,ancora luce
pungolava il ragazzo ora il bue.
E già dietro un pino nero scomparivano quei tre
quando improvvisamente si riscosse
l’uomo e gridò: “Ferma, ehi!
7
Che storia è, questa dell’acqua, vecchio?”
“Ti interessa?” Il vecchio si fermò.
“Io sono solo un gabelliere”, disse,
“ma, chi alla fine vinca, interessa anche me.
Dillo, se tu lo sai!
8
Tu scrivimelo! Dettalo al ragazzo!
Non si può portar via certe cose con sé.
Ce n’è, da noi, di carta e inchiostro.
E anche da cena. Quella è casa mia.
È una proposta, no? “
9
Con lo sguardo allora il vecchio scese
su quell’uomo. Giubba a toppe. Scalzo.
E la fronte tutta fitte rughe.
Oh, non gli parlava un vittorioso.
E mormorò: “Anche tu?”
10
Per dir di no a una cortese preghiera
era il vecchio, o pareva, troppo vecchio.
E così disse forte: “Chi domanda si merita risposta”.
Poi il ragazzo: “E vien freddo”.
“Bene, una breve sosta”.
11
Dal suo bue scese il Saggio
e scrissero per sette giorni in due.
Li nutriva, il gabelliere, e soltanto sottovoce
in quei giorni bestemmiava con i suoi contrabbandieri.
E il lavoro si compì.
12
E una mattina il ragazzo porse
al gabelliere ottantuna sentenze.
E per qualche provvista ringraziando
pei dirupi dietro il pino presero.
Più di così chi può esser cortese?
13
Ma non solo al Saggio si dia lode
che sul libro col suo nome splende!
Ché strappargliela si deve, prima, al Saggio la saggezza.
Anche sia grazie dunque al gabelliere
che la seppe volere.
(Sono davvero tanti i tuoi non capisco. Capita anche a me, nel qual caso leggo e rileggo, e i non capisco diminuiscono.)
1 La prospettiva religiosa “è rivolta al futuro”, perchè orienta i fedeli ad agire in qualche prospettiva (anche in quelle pessime). Non è una valutazione positiva o negativa da parte mia delle religioni, è la costatazione che le religioni propongono comportamenti per degli scopi e, se vuoi, questo potrebbe spiegare il loro successo attuale.
2 “Il presente come intersezione sempre tralasciata” (o tra-lasciata). Certo: non ha durata, per questo non posso identificarlo con quella che staremmo vivendo, l’epoca di transizione, statica, incerta, indefinitamente prolungabile, che sta tra una ebollizione passata e la prossima a venire, di cui scrive Nova. 14 sett. 17.52: “Adesso, bando ai sogni fino alla prossima epoca di ‘ebollizione’, in cui nasceranno nuove ideologie e nuovi ideali, nuovi entusiasmi e credenze in grandi avanzate dell’umanità, ecc.” E successivamente, il giorno 15: “resto convinto che in effetti le epoche di stanca e di innovazione siano relativamente ben distinte e fra loro separate da quelle di ‘transizione’, in cui tutto quanto si credeva in passato sbiadisce sempre più, diminuiscono quelli che ancora propugnano i vecchi ideali”.
Mi sembra, lo ripeto, che Nova schematizzi il tempo storico in 3 fasi: di ebollizione, di transizione, di stanca o nuova ebollizione. Nella fase di transizione il passato si dissipa e il futuro non si annuncia, e allora che tempo è? una lunga durata di un presente identico a se stesso. Ma il presente non esiste, è solo un passaggio! Quindi è meglio non rappresentarci il tempo in cui viviamo come *transizione*, è in realtà un modo per consegnarci all’inerzia.
3 Anch’io trovo contraddittorie le due affermazioni di Nova che citi. Forse aggiunge che è necessario studiare il passato dopo che tu hai insistito su questo.
4 “lettura della storia per costellazioni” e non per periodizzazioni, come invece è lo sforzo di Ceserano e Donnarumma nei due link che avevi segnalato, per approfondire le due concezioni del tempo che avevi desunto dal mio scritto. Ma in realtà tu non ti muovi solo in una lettura periodizzante del tempo.
5 “rivolgersi al passato-radice”. Tu insisti sulla necessità di collegarsi al passato e anche Nova dichiara che occorre studiare il passato per capire quello che siamo. Io credo che sia più importante capire quello che vogliamo, invece che capire come siamo diventati quelli che siamo.
6 Che siamo nel “presente futuro” vuol dire che il progetto e l’intenzione sono l’interesse primario, mentre in “epoche di transizione” ci si trova consegnati a segnare il passo. Cito da un articolo su Infoaut: “si inizia a insinuare una nuova percezione temporale che nuovamente ridefinisce i vettori temporali … la catastrofe che si profila nel futuro è una spia rilevante di una temporalità frammentata che sta uscendo dalle coordinate moderne, o quantomeno da quelle consolidate. Quali siano le possibilità per opzioni sociali antagoniste di incidere sulla definizione del piano temporale nei tempi a venire saranno unicamente le lotte a poterlo determinare” http://www.infoaut.org/index.php/blog/editoriali/item/17548-renzi-mao-la-governabilità-5-stelle-e-il-nostro-tempo-politico
7 Filosofie del taglio prospettico, che aprono al futuro, sono filosofie che non rimasticano o aggiornano, ma riposizionano il pensare su basi allargate e più concrete: fra queste la nuda vita, la biopolitica, le pensatrici femministe. (Ma vedi anche il rischio del ready-made di cui ha scritto B. Carnevali.)
per me riuso significa qualche riaggiustamento di una vecchia concezione senza pensare a qualche possibilità di innovazione reale. L’innovazione non è certo fare Marx+ altro autore. Sì, soprattutto certi vecchi operaisti (tipo Cacciari ad es.) hanno tentato di unirci gli autori citati da Ennio. Ricordo però anche Marx+ Bateson, Marx+ Prigogine, Marx+ Maturana-Varela. Nel migliore dei casi Marx+Foucault. Se uno mi avesse letto negli anni ’80 e prima metà ’90 saprebbe che ho sempre criticato e talvolta deriso simile “mania”. A partire dal ’96 soprattutto, ho tentato un nuovo approccio, ma che partiva da Marx, certamente con un cambiamento di paradigma (dalla centralità della proprietà dei mezzi di produzione e dunque del “modo di produzione” alla centralità del conflitto strategico, mettendo in stretta relazione le sfere sociali, teoricamente distinte in economica, politica, ideologico-culturale). Si tratta di un cambiamento che certamente lascia ancora oggi dei problemi insoluti su cui continuo a pensare. Certamente però senza andare ad altri autori. Magari c’è il “riecheggiare” di qualche altro (ad es. Burnham, ma la sua rivoluzione manageriale non è esattamente ciò che dico io). In ogni caso, non c’è alcuna propensione per il liberismo e la semplice “mano del mercato”.
APPUNTO 4. ANTROPOLOGIA MARXIANA E ANTROPOLOGIA DEL CONFLITTO STRATEGICO
@ franco nova 20 settembre 2016 alle 19:56
Non sono ancora riuscito a leggere «Tarzan vs Robinson» e quindi lascio in sospeso il mio giudizio sul cambiamento di paradigma («centralità del conflitto strategico» ) che hai proposto e su cui stai lavorando. È vero che non c’è propensione per il liberismo nella tua visione delle cose. E tuttavia a me resta il dubbio che la tua riflessione strettamente economica, politica, ideologico culturale si iscriva in una antropologia che non è più quella di Marx; e che “riecheggia” (diciamo così) fin troppo elementi che secondo me hanno a che fare con un certo Nietzsche o con un certo darwinismo sociale.
Ad esempio,in questa stessa discussione, rispondendo alla domanda di Cristiana Fischer sulla «sottolineata distanza degli individui superiori, alla Kane, rispetto agli altri», hai scritto: « non credo che siamo tutti veramente eguali, come recita il principio giuridico di questa società liberata da vincoli servili espliciti (schiavitù, servitù della gleba, ecc»; e ti dici « convinto che gli individui abbiano intelligenza, forza del pensiero astratto, capacità nel fare pratico, ecc. molto differenti gli uni dagli altri».
Sono affermazioni che fotografano una realtà evidente. Ma a me importa capire se questo accada per ragioni storiche, che presuppongono la possibilità di un mutamento per quanto arduo esso possa essere, o per ragioni “naturali- biologiche”, che nessun mutamento prevedono o lo ipotizzano solo in misura ridotta.
L’antropologia marxiana , come tu hai scritto, « sapeva benissimo di questa non eguaglianza di capacità, possibilità, occasioni, anche nella futura società comunista, che non annullava affatto l’individualismo, anzi lo esaltava». Ma va precisato che l’individualismo nella visione marxiana poteva diventare “diverso”, poteva essere “liberato” «dall’esigenza di procurarsi i beni per vivere tramite duro lavoro e nelle condizioni di forza lavoro salariata (cioè merce) organizzata dai capitalisti».
Caduta nella tua visione questa ipotesi, venuta meno o ridimensionata la capacità di mutamento del conflitto tra le classi o tra capitale e lavoro, cosa di sostanzioso potrà mai mutare nella condizione umana?
E ancora. Nell’antropologia marxiana, da non confondere con quella cristiana/cattolica che insiste su un’eguaglianza (ideale) degli individui o meglio delle *persone*, le differenze individuali restavano; e anche nella futura società comunista essa prevedeva che magari restasse la «prevaricazione dei più intelligenti e capaci sugli altri». Perché appunto, come tu insisti fin troppo, «mica Marx era un sognatore». Ma grazie al mutato contesto (non più capitalistico ma comunista), quelle differenze individuali avrebbero potuto svilupparsi non più naturalisticamente come *struggle for life*, ma storicamente come «contraddizioni all’interno del popolo» (Mao).
Sarebbe – penso io – almeno diminuita sia la necessità della «prevaricazione dei più intelligenti e capaci sugli altri» (che èpoi la base della morale dei signori) sia la necessità di sottomissione, gregarismo, doppiezza dei meno intelligenti e capaci ( base della morale dei servi). Anche se l’eguaglianza e la comunità d’intenti non ci sarebbero state, e «non finiva minimamente il conflitto interindividuale e non si diventava «per nulla eguali e tutti amorevoli gli uni nei confronti degli altri». Nell’antropologia che mi pare d’intravvedere, invece, nel paradigma della «centralità del conflitto strategico» l’affermazione delle «diversità» resta fissata – per sempre, pare – a livello naturalistico; e i metodi per affermarla resteranno per sempre « metodi “un po’ decisi”»(!), seguiranno cioè sempre la legge del più forte e la morale dei signori.
.
Uguaglianza e differenza sono concetti né contrari né opposti, tra uguaglianza e differenza c’è un rapporto di diffrazione. Uguaglianza vale in rapporto a qualche idea classificatoria: gatti diversi sono ugualmente gatteschi, gli esseri umani sono ugualmente umani, i maschi ugualmente maschi e così le femmine. Si può persino essere ugualmente forti o intelligenti, ma esistono varie forme di intelligenza, o di prestanza, o di empatia: in ogni famiglia numerosa i genitori, e poi i figli tra loro, conoscono, nell’amarsi, le reciproche differenze.
A Nova, nel mio commento del 10 sett 17.39 chiedevo: “come articola la espressa convinzione sulla inconoscibile complessità di ogni vita, con la sottolineata distanza degli individui superiori, alla Kane, rispetto agli altri?”.
Mai negherei le differenze di potenza caratteriale, intellettuale, o di energia, né pretenderei un livellamento sociale, o politico, o tutt’e due. Però Nova non mi ha risposto evitando quella contrapposizione tra uguaglianza e differenza che io ritengo logicamente errata, ma anzi ribadendola (10 sett 20.31).
D’altra parte non mi soddisfa, per chiarire il rapporto tra uguaglianza e differenza, quanto scrive Ennio, che nella futura società comunista “quelle differenze individuali avrebbero potuto svilupparsi non più naturalisticamente come *struggle for life*, ma storicamente come «contraddizioni all’interno del popolo» (Mao)”. Regolazione storica e non naturalistica delle differenze, grazie a meccanismi sociali di giustizia distributiva e a un’ideologia dell’uguaglianza in un concetto astratto di umanità e nel progresso.
Dico concetto astratto di umanità perchè non si è creata un’umanità nuova, non si sono migliorate le disposizioni caratteriali, non si è incorporata una nuova etica.
Come umanità ci troviamo in condizioni mai affrontate prima, questo è vero sempre ma mai la popolazione si è sviluppata a questo punto, incidendo sui fattori naturali del pianeta, mai ha messo in questione la natura corporea della nostra esistenza. Gli interventi sul clima e nella biologia dipendono da identificabili interessi, collegati a visioni scientifiche e sostenuti da sistemi politici. Comportamenti non pirateschi e non futuristicamente allucinati potrebbero interessare altri abitanti del pianeta, non coinvolti nel sistema rapinoso dominante.
L’elitismo non prevede di occuparsi efficacemente di chi non fa parte delle élites. L’uguaglianza attraverso meccanismi di redistribuzione su un terreno di avanzamento progressivo ha mostrato la corda. In realtà c’è un terreno a disposizione di tutti, la cui primarietà può impegnare ogni tipo di energia e di capacità, ed è la cura dei discorsi e la cura dei rapporti.
non mi convince la volontà di potenza e nemmeno una selezione tramite il mero conflitto inteso soltanto come carattere intrinseco alla “natura umana”. Non parlerei dell’ipotesi relativa al flusso squilibrante ecc. se potessi accontentarmi di Nietzsche e di Darwin. Non ci sono comunque innovazioni, veri cambiamenti, ecc. se i “portatori” di questi movimenti (“oggettivi” anche se hanno bisogno dell’azione di dati “attori”) non fossero organizzati. E ogni organizzazione richiede più livelli gerarchici, a volte non troppo rigidi ma comunque sempre necessari. Quello che a me piace veramente poco è il “capo carismatico”; e tuttavia, fin troppo spesso, non c’è unità d’azione senza questo. Ed è il lato più debole di ogni azione trasformatrice.
@ Fischer
« Uguaglianza e differenza sono concetti né contrari né opposti»?
« gatti diversi sono ugualmente gatteschi, gli esseri umani sono ugualmente umani, i maschi ugualmente maschi e così le femmine»?
« in ogni famiglia numerosa i genitori, e poi i figli tra loro, conoscono, nell’amarsi, le reciproche differenze»?
Continuo purtroppo a non capire questi esercizi di acrobazia intellettuale, che un po’ mi stupiscono e un po’ m’insospettiscono. Non solo perché trovo evidenti smentite nella realtà storica e di tutti i giorni, ma perché essi velano anziché affrontarle gerarchie di fatto o immaginarie, che sono la fonte a mio parere di conflitti profondi. Sarà pur vero che « gatti diversi sono ugualmente gatteschi» o, per fare un esempio concreto che va al sodo, i migranti che arrivano sui barconi «sono ugualmente umani» quanto Salvini, ma sta di fatto che le esigenze dei primi sono in aperto conflitto con quelle del secondo e dei suoi seguaci. E il problema (politico e fondamentale) è vedere se prevale la spinta dei primi ( e con quali effetti politici, appunto) o la spinta del secondo. Nel primo caso sotto il velo dell’ideologia dell’uguaglianza si arriverà a certi risultati ( buoni per una parte della popolazione, cattivi per un’altra). Nel secondo, sotto il velo dell’ideologia della differenza se ne avranno altri (anche in questo caso buoni per una parte della popolazione, cattivi per un’altra). Direi perciò che uguaglianza e differenza non sono « concetti né contrari né opposti» solo nell’astrattezza del pensiero, ma nella pratica sociale e interpersonale lo sono, eccome. La contrapposizione tra uguaglianza e differenza sarà pure «logicamente errata», ma la realtà non è logica o mai del tutto logica. E su questo devo dar ragione a Nova, anche se non è detto che io debba scegliere le pratiche che puntano sull’ idea regolativa della differenza e anzi preferisco quella dell’eguaglianza, pur sapendo che è solo regolativa e non esisterà mai un mondo in cui tutti ci sorridiamo e ci salutiamo amichevolmente. Io la vedo così, dispostissimo a cambiare opinione se mi si mostra in concreto la realtà in modo diverso. L’ipotesi di una futura società comunista, nella quale « “quelle differenze individuali avrebbero potuto svilupparsi non più naturalisticamente come *struggle for life*, ma storicamente come «contraddizioni all’interno del popolo» (Mao) era (è?) una *possibilità* ( molto simile a quella dell’uguglianza, ma non del tutto coincidente, come ho detto nel commento precedente). Non è avanzata, non ha creato una « un’umanità nuova». Ed è perciò che stiamo a discuterne e a disperarci o a cercare altre vie. Ma va detto che questa di « un’umanità nuova» era un’ideologia abbastanza dogmatica, non condivisa nello stesso campo marxista: sempre Fortini l’ha continuamente criticata proprio per la sua astrattezza, puntando invece alla correzione possibile, storicamente possibile, dei rapporti sociali capitalistici. E rimando ancora alle precisazioni che ho fatto nel precedente commento miranti a negare che comunismo sia un abbracciamoci tutti e da ora in poi viviamo felicemente d’accordo.
E per concludere: attenzione all’enfasi sul discorso secondo il quale «come umanità ci troviamo in condizioni mai affrontate prima, questo è vero sempre ma mai la popolazione si è sviluppata a questo punto, incidendo sui fattori naturali del pianeta, mai ha messo in questione la natura corporea della nostra esistenza». Io questo « terreno a disposizione di tutti, la cui primarietà può impegnare ogni tipo di energia e di capacità», non lo vedo. Vedo ancora il conflitto tra spinte vagamente egualitarie e spinte vagamente elitarie.
@ Nova
Molto meglio se anche ai tuoi occhi non appaiono convincenti né la nicciana volontà di potenza né la « selezione tramite il mero conflitto inteso soltanto come carattere intrinseco alla “natura umana”». Vuol dire ci si può interrogare sul che fare senza scivolare su questi terreni per me insidiosi .
“Direi perciò che uguaglianza e differenza non sono ‘concetti né contrari né opposti’ solo nell’astrattezza del pensiero, ma nella pratica sociale e interpersonale lo sono, eccome”. Appunto!
Proprio nella pratica sociale e interpersonale si usano dei criteri per parlare di uguaglianza o di differenza. Secondo il liberismo se valorizzi l’uguaglianza conculchi le pregiate differenze (e così Nova, che pure non è liberista, ha risposto allora alla mia domanda in merito). Se parli di uguaglianza in umanità, capita che neghi la differenza dei sessi e usi un linguaggio neutro-maschile. La frase “i migranti che arrivano sui barconi ‘sono ugualmente umani’ quanto Salvini” può essere detta dal papa, dal governo e da Salvini stesso, ma non ha lo stesso significato, perchè uguale umanità, se non specifichi a cosa ti riferisci, vuol dire tutto o pochissimo: hanno l’anima? o i diritti? è questione di compassione? o di legge: i clandestini sono umani ma non li accolgo perchè clandestini.
*Sembra* che i due concetti di uguaglianza e differenza, nei tre esempi che ho fatto, si escludano. Invece occorre trovare delle mediazioni, proprio quelle sociali e interpersonali -ma anche culturali se non ti spiace, astrattezza compresa- per mantenerli efficaci tutti e due. E da dove partire se non dalla *naturale* relazionalità primaria, e dalla primarietà del discorso, che le relazioni le nomina e le simbolizza?
Da qui arrivo a vedere che il nesso, tutto interno a un orizzonte storico: progresso-giustizia distributiva, non ha operato trasformazioni/evoluzioni nella naturalità umana, come i caratteri dei diversi stati usciti dall’urss dimostrano, Russia compresa. Un’opera di mediazione tra comune umanità e cultura che finora le diverse civiltà hanno consolidato in comportamenti collettivi.
L’enfasi sul discorso delle condizioni inedite in cui ci troviamo a vivere dipende dal fatto che i problemi di oggi: clima, risorse, isole di plastiche, donne che diventano uomo ma poi si fanno ingravidare e allattano con baffi e tutto (ci sono a disposizione foto notevoli), non possono essere affrontati nei modi “vagamente egualitari o vagamente elitari” della postmodernità. Per me occorre un radicalismo nuovo, per cui precisare le vecchie contrapposizioni tra uguaglianza e differenza è importante.
…sarei per una uguaglianza che valorizzi le differenze oppure per una differenza che ricerchi il denominatore comune dell’uguaglianza…entrambe, credo, nella loro radicalizzazione, possono dare origine a forme di segregazionismo, di dittatura o di falsa democrazia, di razzismo…
Volevo tornare sull’affermazione che molti oggi, giovani e meno giovani, pensano di dover ricominciare tutto da zero. In effetti è così, e questo può certo derivare dal fallimento di molti progetti decollati e naufragati durante l’ultimo secolo, la mancanza sostanziale di un cambiamento generazionale nel mondo del lavoro, quindi lo scarso inserimento attivo nella società da parte delle ultime generazioni…Ma, secondo me, a giocare un ruolo negativo sono stati anche i numerosi strappi durante il secolo scorso, per primo dalla civiltà contadina, nostra da sempre, poi l’urbanizzazione e il mondo operaio, strappo anche da quello, con quanta era la tradizione dei valori marxisti, per il complicarsi del capitalismo e delle tecnologie…Come nella vita della singola persona, gli strappi, e così ravvicinati, possono generare un cortocircuito, un’amnesia, in questo caso collettiva, dove sprofondano, sullo stesso piano, miliardi di informazioni, spesso tra loro contrastanti, provenienti da un mondo globalizzato…Ricominciare da zero, ma senza conoscere il bandolo della matassa e, tanto meno, il filo di Arianna si può?
beh, credo che “Quarto potere” ormai non c’entri più nulla. Il resto del dibattito non mi sembra che abbia molto senso svolgerlo qui. Inoltre, mi dispiace, sono adesso distante da certe tematiche e sto concentrandomi su alcuni problemi che mi portano via molto tempo. Può piacermi, ogni tanto e per distrazione, dedicarmi ad altro – tipo raccontini o anche considerazioni su film – ma poi debbo ritornare alle questioni che ormai assorbono i miei interessi più pressanti. Fra l’altro, è almeno un anno che non penso proprio più a racconti. Credo ce ne siano ancora due tre che giacciono “in un cassetto”; in questo periodo sono però del tutto sterile a quel proposito.