Amore per le diagnosi e poesia

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di Donato Salzarulo

 1- Da diversi giorni conservo nella tasca sinistra del pantalone il foglietto fucsia di un post-it. Sopra è annotata la diagnosi della radiografia che Francesca ha fatto alla fronte. Si trattava di capire se i suoi mal di testa dipendessero dalla sinusite o da altro. Dovendo relazionarsi quasi quotidianamente con un gruppo di professori ai quali il consiglio più lieve che si possa dare è di cambiare mestiere, ero propenso a sostenere che questa fosse la causa principale dei suoi malori. Comunque, non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare del mio innamoramento per le diagnosi. Le leggo, le rileggo, le raccolgo. Quella di Francesca era l’ultima e alle mie orecchie suonava come una fonte di meraviglia: «Non focalità patologiche in corrispondenza dei segmenti scheletrici esaminati. Regolarmente pneumatizzati i seni paranasali. Nei limiti l’ampiezza della sella turcica. Regolari le rocche. Lieve deviazione destro convessa del setto nasale. Ipertrofia dei turbinati in particolare a destra.» Un linguaggio che non intende avere nulla di soggettivo, che non vuole tradire nessuna emozione del radiologo esaminatore, il cui fine è limitarsi a fornire il referto di quanto osservato sulla lastra, pullula di “lingua poetica”: l’ellissi dei verbi, le tante allitterazioni e le rime interne (esaminati/penumatizzati/ turbinati), le tante metafore come “segmenti scheletrici”, i “seni paranasali”, la “sella turcica”, le “rocche” i “turbinati”…Insomma, una vera lussuria. Richiamando le parole di un insieme di saperi, il radiologo riesce a descrivere con una certa oggettività la situazione di una parte corporea. Il lessico è una combinazione, un miscuglio di lingua comune (sella, deviazione, destra), di ottica (focalizzazione), di geometria (segmenti, seni, convessa, regolari), di anatomia (scheletrici, paranasali, nasale), di patologia (ipertrofia), di sistemi difensivi (rocche)…Alla base della rete metaforica si coglie l’idea di un corpo pronto a infiammarsi, che cova fuochi sotto la cenere, che si “pneumatizza” in modo più o meno regolare, pronto a deviare, a farsi ipertrofico, a disordinarsi. La medicina convoca tanti saperi per difenderci, per assicurarci la normalità/regolarità delle rocche corporee sempre sul punto di essere assaltate dall’interno e/o dall’esterno da agenti patogeni.

2 – Ricordo quando cominciò il mio amore per il linguaggio delle diagnosi. Fu all’inizio dell’estate del 1972. Mia madre doveva compiere 49 anni. Io ne avevo 23. Sapevo fin da bambino del suo “mal di cuore”. Avevo quattro anni, quando alla nascita di mia sorella (nel 1953), ebbe il suo primo scompenso. La salvò un famoso medico del paese (don Michelino), praticandole un salasso. Io ho il ricordo di me bambino che, con le mani strette all’inferriata del balcone prospiciente la strada, piango e mi dispero «Cosa avete fatto a mamma mia?!…Cosa avete fatto?!…» Le persone che avrebbero potuto farle qualcosa erano le vicine che si affannavano al suo capezzale. Poi la crisi acuta passò. Poi tutto finì nell’oblio. Solo Lucia, la nonna materna, ogni tanto ci ammoniva: «Ricordatevi che vostra madre ha il mal di cuore!…». In quell’inizio d’estate del 1972 lo scompenso era ritornato. La ricoverammo d’urgenza all’ospedale di Vimercate. «Sua madre ha il cuore usurato» disse al primo colloquio con i parenti il vecchio primario. Usurato?!… E che vuol dire? Vuol dire vecchio, logorato, da buttar via. «Sua madre è come se avesse novant’anni.» Un dolore intenso, diffuso, inconsolabile. Non riuscivo a pensare a chi aveva dato origine al mio mondo come ad una vecchia da cui congedarsi per sempre. Ne parlavo con gli amici. Per fortuna Enrico usciva con la figlia di un primario di Niguarda. «La diagnosi… Qual è la diagnosi?…» Il padre della fidanzata del mio amico voleva conoscere la diagnosi. “Cuore usurato” era un sintagma generico, la metafora di un organo vitale logorato dall’uso. Come una macchina, un vestito, un pneumatico. Poteva essere paragonato a questi oggetti il cuore di mia madre?…Il mio rifiuto era istintivo. «Dottore, mi dica: qual è la diagnosi?… Cosa ha di preciso il cuore di mia madre?…» «Stenosi mitralica». La mia situazione psichica non migliorò. Il cuore di mia madre, comunque, non andava; comunque, funzionava sotto sforzo da anni. Dal punto di vista conoscitivo, però, il progresso era stato notevole. Avevo capito cosa produceva usura, logoramento: il restringimento della valvola mitralica. Certo, non si usciva dalla metafora del cuore-macchina, ma quel primario di Niguarda accese a tutti noi una luce. Sulla valvola mitralica si poteva intervenire allargandola o sostituendola con una protesi. L’operazione di allargamento fu fatta in autunno e mia madre si sentì ringiovanire.

3.- In quegli anni la spinta propulsiva del Sessantotto non si era ancora esaurita. La politicizzazione diffusa stimolava a compiere “analisi di classe” anche di atteggiamenti come quelli del vecchio primario di Vimercate. Per quale ragione non ci aveva detto fin dall’inizio la diagnosi? Perché non ci aveva prospettata la possibilità di un’operazione? Si trattava d’ignoranza o di una consegna? Pensava che fosse inutile intervenire sul cuore usurato di una casalinga povera di 49 anni? Meglio limitarsi a compensarla un po’ e poi abbandonarla alla Natura che avrebbe fatto il suo corso?…Avrei voluto porre queste domande a lui, ma non mi ricevette. Parlai, invece, con un medico più giovane. « Sì, il primario è un uomo della vecchia scuola, ma non si agiti, non si costruisca fantasie…Al momento delle dimissioni, glielo avremmo detto che sua madre poteva ricoverarsi a Niguarda, al Centro “De Gasperis” per un’operazione di stenosi…». Chissà. Continuo a pensare ancora oggi che se non avessi avuto l’occasione di politicizzarmi col Sessantotto e di conoscere amici come Enrico, la “medicina di classe” (come la “scuola di classe”) avrebbe selezionato mia madre e l’avrebbe abbandonata al suo destino prima del tempo. Nata in una famiglia povera di pastori, aveva trascorso buona parte della sua fanciullezza e adolescenza in alcune masserie del Tavoliere Pugliese, affetta spesso da febbri malariche che avevano compromesso il regolare funzionamento della sua valvola mitralica. Chi se la sente di sostenere che questa storia individuale non sia anche una storia sociale? Davvero i destini del singolo non stanno all’interno di quelli generali di una collettività? Davvero si pensa che non si incrocino?…Mia madre è morta il 18 aprile del 1999. Dopo l’allargamento della valvola avvenuto nel 1972, si sottopose nel 1978 all’intervento di sostituzione. Le fu impiantata la protesi valvolare di Björk. Durò un po’ di anni, poi subì un terzo intervento per risistemarla ed esplorare l’atrio e la valvola aortica. Sono convinto: lotte sociali e politiche per il diritto alla salute e la realizzazione di un sistema sanitario nazionale, sviluppo delle scienze, delle tecnologie mediche, della cardiologia e cardiochirugia regalarono a mia madre altri 26 anni di vita. Come si fa a negare tutto questo?

4– Abbandonare il linguaggio comune, generico ( “mal di testa”, “mal di cuore”, “cuore usurato”) e formulare una diagnosi è il primo problema di un medico. A volte è relativamente facile da risolvere, altre no.

Tre anni fa – come passa il tempo! – , alla ripresa autunnale, una certa sera, togliendomi le calze, mi ritrovai la caviglia destra gonfia. Quando noto qualcosa d’irregolare nel corpo,  non è mia abitudine correre dal medico il giorno dopo. Aspetto un po’. Spero che l’allarme rientri, che tutto ritorni al suo posto, che la normalità (per quanto la sappia illusoria) riprenda il sopravvento.

Questa volta, invece, la gamba continuava puntualmente a gonfiarsi. Una sera, due, tre…Dopo una decina di giorni, Giuseppina che conosce la mia pigrizia e il mio fatalismo, prese un appuntamento col medico. Valentino è un amico. Mi cura da quasi mezzo secolo. Diede un’occhiata al piede, posò tre o quattro volte l’indice sulla superficie della tibia e mi spedì di filato a fare un eco-color-doppler agli arti inferiori.

Una settimana dopo, il 14 dicembre, la data è segnata sulla cartella coi risultati dell’indagine, ero steso su un lettino d’ambulatorio. Lo specialista di chirurgia vascolare, dopo avermi spalmato le gambe di gel, passava sopra una sonda e guardava sullo schermo le immagini delle mie vene. Ogni tanto mi suggeriva di respirare a pieni polmoni o di sforzarmi come se dovessi andare a gabinetto per svuotarmi.

Al termine: «Sig. Salzarulo, la sua situazione è grave!…Lei ha una trombosi venosa in corso, rischia un’embolia polmonare…Deve recarsi subito dal suo medico curante e cominciare la terapia anticoagulante con eparina e coumadin…Deve anche utilizzare una calza stringente fino all’altezza della coscia… ».

Rassicurato da Valentino («Non ti preoccupare!… Cominciata la terapia, il pericolo è abbastanza ridotto…L’unico problema che avrai è il dosaggio del coumadin per regolare il Tempo di Protrombina…»), potei dedicarmi alla lingua del referto, passandola e ripassandola:

«A SINISTRA Pervietà del circolo femoro-popliteo-gemellare con buona comprimibilità venosa e flusso fasico con gli atti respiratori. Fisiologica risposta alle manovre di attivazione muscolare. Non reflussi significativi. Non segni di TVP in atto.

Pervietà e normocontinenza dell’ostio safeno-femorale. Pervietà e normocontinenza della vena safena interna che risulta di calibro regolare, lungo tutto il decorso. Pervietà e normocontinenza della vena safena esterna che risulta di calibro regolare.

A DESTRA pervietà della vena femorale comune, della vena femorale profonda in assenza di segni di TVP. Pervia la vena femorale superficiale che presenta diffuso ispessimento parietale ma risulta essere ben comprimibile con flusso modulato con gli atti del respiro. Trombosi della vena poplitea che risulta occupata da materiale ipo-anecogeno ed incomprimibile.

Pervietà e normocontinenza dell’ostio safeno-femorale e della vena safena interna. Pervietà con normocontinenza della vena safena esterna che risulta essere ectasica verosimilmente con funzione vicariante.»

Il lessico è prevalentemente medico-anatomico. Ma non mancano parole e sintagmi di registro comune: ovviamente “vena” , “calibro regolare”, “decorso”, “in assenza di segni”, “flusso” “atti del respiro”, ecc. Le parole ricorrenti  sono “pervietà”, “normocontinenza” e “vena”. Quest’ultima, accoppiata con “safena esterna” o “safena interna”, oltre a farci conoscere il nome di alcuni nostri fondamentali vasi sanguigni, produce un sintagma musicale con rima interna e allitterazione. Non male neanche i sintagmi “vena femorale comune”, “vena femorale superficiale” e “vena femorale profonda”. Ritmo e musicalità vengono  regalati da: «Pervia la vena femorale / superficiale che presenta / diffuso ispessimento parietale / ma risulta essere ben comprimibile / con flusso modulato / con gli atti del respiro». Doppio novenario iniziale, due endecasillabi centrali (il primo piano, il secondo sdrucciolo) e doppio settenario finale. Un bel circolo all’interno del quale il flusso sanguigno si modula e armonizza con gli atti del respiro. Certo, per la comprensione del significato di diversi sintagmi fui costretto a ricorrere al dizionario: mi riferisco, in particolare, a quel “materiale ipo-anecogeno” che, occupando la vena poplitea destra, mi procurava di fatto la trombosi. O anche a quell’attributo “ectasica” della mia vena safena esterna… Capii che “anecogeno” significa letteralmente che “non genera eco” o che ne genera “ipo”, cioè poco. Si tratta, quindi, di formazione liquida quasi certamente benigna, formazione che l’ecografo vede sullo schermo di colore nero. È meraviglioso scoprire che ogni parte del nostro corpo ha un suono o rimanda un’eco trasformata in colore dalla macchina.

“Ectasica”, invece, è una vena patologicamente dilatata. In breve, a causa del trombo formatosi nella poplite, la safena esterna, assumendo una “funzione vicariante”, cioè sostitutiva, si dilatava come non doveva. Da qui il mio gonfiore.

Perché una trombosi? Le ragioni possono essere diverse. Dopo aver fatto ulteriori esami, la mia è quasi certamente dipesa dalla vita che conduco. Non è salutare passare ore seduto sullo schermo di un computer o sulle pagine di un libro.

Studiando un referto si guadagna in poesia e conoscenza. Una ventina d’anni fa scrissi questi versi: «Il tuo piede greco / è il mio secondo cuore: / una straordinaria / macchina d’amore».  “Secondo cuore” era una precisa metafora, che coglieva il funzionamento reale della circolazione sanguigna degli arti inferiori. La trombosi è stata l’occasione per ripassare la lezione. Davvero le nostre gambe funzionano come un “secondo cuore”. Perché torni a ossigenarsi il flusso del sangue deve essere ripompato su, deve vincere la forza di gravità. Le valvole devono funzionare, evitare il riflusso.

5– Con la mia trombosi venosa profonda (in sigla, TVP), tutto sommato, sono stato fortunato.

Il problema è quando un bel giorno avverti un cambiamento nel timbro della voce e non sai spiegarti la ragione. Non sei intasato. Non è il cambio di voce indotto da un forte raffreddore o da un’influenza. Un po’ hai paura, un po’ cominci a tacere, a ridurre i tuoi colloqui, le tue conversazioni. Vai dal medico e ti dice: «Chissà!… Forse è un momento…Forse sei solo un tantino depresso…». Trascorre qualche mese e t’accorgi che neanche le dita delle mani rispondono a dovere. Non tieni bene la penna, fai fatica ad allacciarti le scarpe, senti impacciata quella che a scuola chiamiamo “motricità fine”…Dio mio, cosa mi sta succedendo?!…Ho una paralisi progressiva?… Qualche volta ho l’impressione di avere le vertigini. Perdo l’equilibrio…

Si torna e ritorna dal medico. Comincia la lunga serie d’esami e accertamenti. Intanto, è passato un anno e mezzo e non hai risolto nulla. Non sai di che morte morire né di che vita campare. O meglio, di che vita lo sai: sempre in allarme rosso, col falco dell’ansia e del timore nella testa. Per il resto, non va, proprio non va. T’accorgi che non riesci più a guidare bene neanche la macchina. E continui ad articolare male le parole e le frasi. Anche la deglutizione non va come dovrebbe.

A maggio sei andato in visita dal primario di un reparto di neurologia. Qualche settimana prima hai fatto un elettromiografia nel primo ospedale che te l’ha prenotata. Diagnosi: «sofferenza di radicolopatia bilaterale.» Ma lo specialista non ne è convinto e al termine della visita ti scrive: «Il quadro non è del tutto convincente per una encefalopatia di tipo pseudobulbare, vanno escluse sia una sofferenza del motoneurone (emg di controllo) che, più probabile, una sindrome cerebellare o degenerativa  o paraneo (eseguire anticorpi anticervelletto, markers neoplastici).»

“Encefalopatia”, “sofferenza del motoneurone”, “sindrome cerebellare o degenerativa”, “paraneo” le parole ti dicono che sei entrato in un tunnel. Lo specialista non si pronuncia, ancora non ti sa dire in quale tipo di tunnel sei entrato…ma qualcosa c’è che non va. Riguarda il cervello. Quando si comincia a parlare di questa massa misteriosa protetta dalla scatola cranica, le diagnosi si fanno sfuggenti. Dove c’è meno conoscenza anche la poesia perde mordente. Si accascia sulle parole comuni:“encefalopatia” è solo una parola dotta per dire “sofferenza del cervello”. Come il “mal di cuore” di mia madre. Ma cosa ha mai questo cervello che non mi fa più parlare come vorrei, che mi fa camminare allargando le gambe, che mi fa sentire addosso una debolezza inimmaginabile?…Non lo so e non lo sa neppure lo specialista.

Certe diagnosi probabilmente risultano chiare peggiorando. Sottoposto sei mesi dopo all’elettromiografia di controllo e all’elettroneurografia,  la diagnosi muta. Ciò che prima era escluso, ora viene incluso: «sospetta malattia del motoneurone». La sicurezza non c’è ancora, ma il sospetto si. Tanto basta per finire in apnea, per dare una spinta al tuo capogiro.

Mi torna in mente zia Francesca. Fu la mia più grande illusione. Quando la parete dei neuroni cominciò a scrostarsi e l’Alzheimer avanzò come un cavallo al galoppo, la sua lingua pungente finì sotto i piedi e con lei l’orgoglio smisurato e il prato d’intelligenza di cui si sentiva ossessivamente regina. E se “anima”, “psiche”, “coscienza” fossero solo dei fragilissimi veli? Se fossero solo illusioni di quell’universo straordinario nascosto dietro la nuca?…

Siamo tutti scatole cinesi
magie di storie intrecciate.
La tragedia è assicurata.
Il lieto fine soltanto
fantasticato.

 L’amico del prodigio e mio fratello
stanno male. Gli specialisti
sospettano una malattia fatale.
Non voglio vederli trasformati
in statue di sale.

3 dicembre 2014

 

8 pensieri su “Amore per le diagnosi e poesia

  1. Questo bellissimo testo di Donato Salzarulo unisce storia, vita personale, e lingua, in un racconto piano e quasi occasionale, tipo: “ma vedi un po’ cosa capita nella vita e cosa capita oggi a me”.
    Intanto ci racconta delle lotte negli anni 70 del novecento e di riforme importanti per la vita degli abitanti di questo paese.
    Che la politica e lo storia si dispieghino nel corso del tempo è un dato orbo e insignificante, ma che la lingua tracci percorsi progressivi – da cui si può tornare indietro facilissimamente, e tuttavia sono passi progressivi in sé, e “sono stati” – lo spiega bene Donato: la lingua allusiva e narratoria delle diagnosi è impiegata a curare se il mondo sociale la obbliga a essere tale. Altrimenti, se politica ferma la ricerca e ripete una distanza dai pazienti in formule neutre, allora siamo consegnati a una resa che ricade solo sui deboli.

  2. Donato , che bella scrittura. Ci fai sempre riflettere e sempre ci incuriosisci. Non ci si annoia mai.
    Questa volta l’argomento così nuovo e ben descritto che lascia spazio (sembra impossibile ma è cosi) anche alla poesia è davvero qualcosa di eccezionale.
    Sono emozionata e…non so come dirtelo ma…mi dispiace …ecco mi dispiace per quello che ti capita. Un grande abbraccio. Auguri tantissimi.

  3. … Donato riesce, in questo testo davvero originale, bello e inquietante, attraverso il linguaggio delle diagnosi mediche che parrebbe rigorosamente tecnico, a narrare della sua vita, degli affetti, di uno spaccato di storia e di costume passato e recente. e infine di poesia…Come rendere vive e vissute, quotidiane come straordinarie, evocative, temibili e minacciose le parole che fanno parte di un lessico spesso ostico per chi non è del mestiere…e che solitamente accostiamo con un certo timore. Non sempre si può sdrammatizzare, ma la scrittura è comunque un’ottima medicina, penso…

  4. Anche a me è piaciuto il testo di Donato Salzarulo. Dopo un inizio affrontato con qualche perplessità, il testo mi ha afferrato con l’interesse e poi anche il piacere della lettura.
    Qui però vorrei fare solo una osservazione sul linguaggio dei referti medici, che, anche quando usano metafore, termini comuni e sensi figurati, ha sempre una chiarezza oggettiva. Se si parla di «seni nasali» con un’espressione apparentemente non scientifica, tutti quelli che hanno una qualche conoscenza del linguaggio medico, e a maggior ragione i medici stessi, sanno esattamente di che cosa si sta parlando e non è possibile cadere in fraintendimenti ed equivoci.
    Non così, purtroppo, è nel campo delle scienze umane, dove siamo lontani dall’avere e dall’usare un linguaggio non “equivoco” (in senso tecnico). Molti termini (categorie, concetti, nozioni ecc.) storiografici, sociologici, filosofici, politici, psicologici assumono un significato abbastanza preciso solo se si indica il senso in cui li si usa, con riferimenti all’autore a cui quel particolare significato rimanda. Se manca il rimando, il discorso diventa quasi sempre generico e fonte di fraintendimenti. Se si discute fra persone che hanno le stesse idee, il rimando può restare implicito. Ma purtroppo o per fortuna quasi mai si discute fra persone che hanno le stesse idee, nemmeno quando si rimane all’interno di un’area di riferimento con qualche radice in comune. Allora, forse, salvo quando si intende procedere per slogan e per affermazioni propagandistiche, non si dovrebbe mai dare per scontato il significato dei termini e espressioni che si usano e non usarli mai in modo generico e ripetitivo.
    Perché, a differenza di ciò che avviene nelle scienze più forti, compresa la medicina che pure è meno forte della matematica, della fisica, della chimica e delle scienze naturali, dove il linguaggio è maturato sulla base di una letteratura vasta che ha sempre cercato di eliminare i termini soggettivi mirando a un linguaggio univoco, nelle scienze umane la codificazione di un linguaggio univoco è ancora lontanissima dal rappresentare una realtà e ogni gruppo o gruppetto e a volte anche un singolo autore utilizza un linguaggio suo proprio; anzi, nella reinvenzione dei significati di vecchi termini, nell’investirli di nuovi significati, nell’usarli in modo del tutto personale, sta spesso la sola novità di alcuni saggisti e studiosi.

  5. Ringrazio Cristiana, Emilia, Anna Maria e Luciano per i loro interventi e per i loro apprezzamenti. Ho raccontato come è nata quest’idea di cercare la poesia anche dove, di solito, si suppone che non ci sia. Sono d’accordo con Luciano: il linguaggio delle diagnosi è preciso, oggettivo, univoco. Non a livello del due più due fa quattro, ma sicuramente più oggettivo di quelle che chiamiamo scienze umane. Ma il mio stupore nasce proprio da questo: «Un linguaggio che non intende avere nulla di soggettivo, che non vuole tradire nessuna emozione del radiologo esaminatore, il cui fine è limitarsi a fornire il referto di quanto osservato sulla lastra, pullula di “lingua poetica”…»
    Sotto sotto, forse c’è anche l’intento, più o meno inconscio, di rendere leggere e inoffensive parole che spesso si temono. Per me, comunque, l’insegnamento è: più la poesia guadagna in precisione, come le diagnosi, meglio è.
    Detto questo, non sono stato certo il primo ad aver cercato di annettere al territorio della poesia i cosiddetti “linguaggi settoriali”, né il primo ad aver pensato alla “malattia come metafora”.
    Ancora grazie

  6. Sono estasiata dal Suo modo di scrivere nonché dalla Sua visione della vita. Se Lei è un ex Dirigente Scolastico , ho letto altri suoi articoli su”La Poesia e lo Spirito”, e sono conterranea di Nuccio Ordine. Ma la Sua “più grande opera” è stata quella di formare una persona, che però ha tutto tranne una cosa (che Lei invece ha in “abbondanza” ).
    Se ritiene di rispondermi (privatamente), potrò essere più esplicita, perché questa persona mi stava molto a cuore, e vorrei mi aiutasse a perseverare. Le porgo i miei complimenti nonché i più sinceri auguri, affinché la vita le riservi ancora tante gioie e perpetui la Sua grande voglia di vivere, che contagia chi la legge …!
    Buona serata e “buona vita”!

  7. Gentile Signora,
    la ringrazio per gli apprezzamenti e i riconoscimenti. Si, sono stato un dirigente scolastico e ho pubblicato diversi articoli su “La Poesia e lo Spirito”. Quanto al lavoro di educatore, sono contento che ci siano persone formatesi, per così dire, alla mia scuola. Ho sempre creduto che la relazione interpersonale venisse prima di tutto, una relazione in cui il primo ad apprendere dovessi essere io.
    Se è conterranea di Nuccio Ordine, vuol dire che è di Diamante, un paese in provincia di Cosenza. Ho avuto diverse insegnanti di questa provincia che hanno lavorato con me. Ottime persone.
    La saluto caramente e le faccio anch’io i migliori auguri di buona vita.

    1. Illustre dott. Salzarulo, sono io che La ringrazio per avermi risposto, perché, a dire il vero non ci speravo …! Lei è una persona così aperta, cordiale e solare in tutto, perciò (e non “a caso”) vorrei un parere : se si tenta di avvicinarsi affettivamente e amichevolmente ad una persona che Lei conosce molto bene, facendo di tutto e di più per far sì che tale persona ci stimi, e non ci si riesce, è sbagliato pensare che ciò accada per pregresse delusioni (da parte mia sto parlando di “amicizia” )? Non creda che sia impazzita e parli “a vanvera”, perché “sento” che lei comprenderà al volo allorché le avrò detto che sono una maestra … di Monza ! Se può, mi aiuti a “comprendere”, perché … non ci riesco, e la cosa mi sta facendo molto male, giacché “ero” una persona che credeva negli alti ideali della vita sin da bambina … e ora … li vedo scemare un po’ alla volta …! Sono moglie e madre di famiglia, e pensavo di essere anche una buona insegnante …!
      La ringrazio e le auguro un’ottima domenica.
      Gabry

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