di Alessandro Scuro
La fortuna di José Agustín Goytisolo non può prescindere dal successo delle versioni musicate delle sue poesie, oltre che indissociabile dalla voce più rappresentativa di quei cantori, quella di Paco Ibáñez. Legati da una profonda amicizia e uniti talvolta sul palcoscenico, entrambi si riconoscevano appieno in quelle canzoni, raccolte nel 2004 nel disco Paco Ibáñez canta a José Agustín Goytisolo, ad alcune delle quali come «Cuento», ribattezzato in seguito «El lobito bueno», e «Palabras para Julia», debbono parte della loro celebrità.
Un lupo buono, una strega bella, un principe cattivo e un pirata probo sono i grotteschi personaggi che si incontrano nel mondo al rovescio, dove il vero è un momento del falso. L’ironia, con la quale il poeta aggira la censura degli stolti e stuzzica l’ingegno dei complici, è artificio fondamentale del suo armamentario, come lo dimostrano le caricature dell’alta società barcellonese e l’esagerazione dei loro vizi, contenute nelle parabole di Salmos al viento, la raccolta che lo consacrò dopo il successo di El retorno. Entrambe gli valsero importanti riconoscimenti (Premio Adonais la prima e Premio Boscán la seconda) e sono sufficienti a dimostrare la poliedricità della sua traiettoria.
Le elegie dedicate alla madre, con le quali Goytisolo esordisce, lo pongono di diritto nella schiera dei figli della guerra, ma la sua attitudine nel rielaborare quegli eventi marca le distanze che lo separano dalla poesia allora in voga; tanto dall’artificiosità dei poeti celestiali, quanto dalla concretezza dei poeti sociali. «C’è un’intenzione comune – spiega Jaime Gil de Biedma in una conversazione con Goytisolo e Mario Benedetti – Forse è esagerato dire “definirsi socialmente”, ma c’è per lo meno il proposito di non occultarci socialmente. Non facciamo poesia proletaria, ma poesia di figli di borghesi, perché questo siamo»[i]. Concetto che corrisponde con quello espresso da Goytisolo più avanti: «Non vogliamo metterci nei panni di un operaio, perché sarebbe un pasticcio terribile. Non vogliamo nemmeno cantare in nome di un popolo intero».
Al tempo di questa intervista (1962), oltre ai libri già citati, Goytisolo aveva pubblicato Claridad (1961), le cui poesie manifestano l’importanza dell’aspetto autobiografico nella sua produzione, evidente nell’intima tragedia di El retorno e trasfigurato attraverso lo sguardo ironico del poeta di strada di Salmos al viento. Queste raccolte offrono anche i primi indizi utili a ricostruire l’eterogenea biblioteca dell’autore, a partire da Machado, omaggiato nel XX anniversario della morte. A tal proposito è curioso, ma non è un caso, che la raccolta dei suoi primi tre poemari, Años decisivos, venga pubblicata nella collana Collioure, diretta da Josep María Castellet[ii]. Tra i testi Claridad, oltre al già citato «Homenaje en Collioure», Goytisolo ricorda le figure di altri due poeti, la cui esperienza è simbolica degli eventi della guerra civile. «Historia conocida» è quella di Miguel Hernández: nasce; scrive e muore carcerato – scrive Goytisolo – «Ma il suo nome prosegue;/continua come noi ad aspettare/il giorno in cui questo caso e molti altri/ si daranno per conclusi». Non manca naturalmente una dedica a Lorca, con la cronaca dei suoi ultimi istanti narrata in «Me cuentan como fue».
Dalla generazione del ‘98 echeggiano nella poesia di Goytisolo le lezioni maireniane: l’indocilità all’ordine del tempo, la necessità di coniugare l’etica ed estetica, di riappropriarsi del folklore minacciato non più soltanto dalla tradizione austera del franchismo, ma anche dal diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e dalla relativa cultura. Come l’apocrifo di Antonio Machado, il poeta catalano sembra convinto della priorità di un pensiero libero, rispetto alla libera emissione di un pensiero schiavo, come spiega a Merinos:
Il dovere di un regime progressista e democratico è quello di elevare il livello culturale di tutti i cittadini, sradicando innanzitutto l’analfabetismo, e successivamente offrendo alla sua popolazione autentica cultura e non sottoprodotti. Questo è un lavoro di anni, di generazioni. L’uomo nuovo è un progetto, una meta alla quale si deve giungere. […] Basta vedere le code davanti ai cinema per sapere il gusto della gente, o pensare che l’autore spagnolo più letto è Corín Tellado[iii]. Perché risulta che il cattivo gusto ha più presa sugli analfabeti di secondo grado, quelli che sanno leggere e scrivere ma che non possiedono criterio selettivo né bagaglio culturale, che sugli analfabeti totali. Gli analfabeti di secondo grado sono facile preda di tutti i sottoprodotti culturali che gli offrono i mass media, e finiscono per convertirsi in vere bestie. Per questo dicevo che l’uomo nuovo è un progetto di lungo corso, un’opera di generazioni.
Ciò che distingue Goytisolo dai cosiddetti poeti sociali è la notevole preoccupazione formale, il gusto per la sperimentazione continua, ereditato dai poeti del ‘27. Secondo Gil de Biedma, nelle parole riportate da Benedetti, l’interesse per quei poeti deriva dal loro tentativo di «creare una realtà autonoma che poteva appoggiarsi, come punto di partenza, nella realtà dell’esperienza», anche se le loro parole non avevano altra validità che quella estetica. Su questi presupposti si giustifica la diffidenza dei due amici nei confronti di quei poeti più affini nelle tematiche, ma incuranti della forma.
Dopo la guerra vennero i poeti che reagirono contro di loro [contro i poeti del ‘27], ma in maniera un tanto elementare. Disinteressati dal formale e incapaci di inventare nuove forme, imitarono gli stessi poeti che avevano combattuto. Noi invece ci preoccupiamo del formale. Se vogliamo dire qualcosa, cerchiamo di vedere qual è la forma adeguata. Credo che, in definitiva, siamo un po’ più coscienti. Quelli del ‘27 avevano un concetto di perfezione, e noi abbiamo il nostro, ma i poeti che apparvero tra quelli del ‘27 e noi non ebbero un criterio di perfezione formale.
Il raggiunto equilibrio tra forma – modellabile secondo l’occorrenza e mai fine a se stessa – e contenuto – critico e libero da ogni compromesso, ma privo delle intenzioni didattiche e messianiche dei predecessori – esemplifica lo stile di Goytisolo, capace di prendere le distanze tanto dalle illusioni di pura bellezza che aveva accecato i primi, quanto dagli istinti primordiali dei secondi. La poesia di Goytisolo si nutre di tutte le esperienze possibili e riflette una vita varia e curiosa, una poesia urbana composta da tutti gli elementi che la città offre al poeta, uomo tra gli uomini, membro attivo di una società dalla quale si distingue, sempre però restandovi immerso. In questo senso non si può disconoscere l’impatto che ebbero sul giovane Goytisolo libri come Hijos de la ira di Dámaso Alonso o Poeta en Nueva York, la raccolta postuma di Federico García Lorca.
Se si escludono gli anni di studi a Madrid, dove stringerà alcune delle numerose amicizie latino-americane che in seguito lo porteranno a più riprese oltreoceano, a Cuba in particolare, l’esistenza di Goytisolo si svolge principalmente a Barcellona. Questo si rivela fondamentale per comprenderne alcuni aspetti della sua originalità, non solo per l’impatto che la cultura catalana ha avuto sulla sua opera[iv], ma anche perché essa costituiva un punto di osservazione “privilegiato” sui cambiamenti e l’evoluzione del regime, oltre che una meta ambita, insieme alla sua costa, dei turisti stranieri. «Immediatamente si nota che siamo inseriti in una società che non è quella spagnola, – spiega a Benedetti – ovvero che stiamo vivendo e scrivendo e pensando in Catalogna, unica zona che si possa dire industrializzata».
Barcellona è scenario costante dei versi di Goytisolo; è la città rasa al suolo dall’aviazione fascista, nei tragici eventi infantili di El retorno; è la scenografia posticcia davanti alla quale si recita la farsa della élite industriale catalana e dei suoi accoliti, derisi in Salmos al viento e ispirati ai personaggi incontrati nella quotidianità, svoltasi tra impieghi talvolta improbabili e apparentemente lontani dall’ideale poetico[v]. Barcellona è talvolta protagonista manifesta della sua poesia, come nel caso di «En mi ciudad algun día», il componimento che conclude Claridad.
Io berrò prima o poi
il rosso vino; l’aria
della tua recuperata
libertà e uscirò
per le tue strade cantando
cantando fino a rimanere
senza voce – perché sarai
di nuovo e per sempre –
alloggio di stranieri
ospedale dei poveri
patria dei coraggiosi
tu Laye città mia.
Note
[i]
Le citazioni delle interviste sono sempre tratte dai materiali presenti nel fondo Goytisolo della UAB. I testi delle poesie, e le altre informazioni sono estratte dall’opera completa di José Agustín Goytisolo e dall’antologia Los poemas son mi orgullo, edite entrambe da Lumen e curate da Carme Riera, professoressa della stessa università e promotice della cattedra Goytisolo.
[ii] Josep María Castellet (1926-2014), fu il critico che favorì maggiormente il successo dei giovani poeti catalani tra cui Goytisolo, Biedma e Barral, grazie al suo ruolo nella rivista «Laye» nei primi anni Cinquanta e tramite alla pubblicazione dell’antologia Veinte años de poesía española (1960), alla quale seguirà un’altra dedicata alla generazione successiva, Nueve novisimos poetas españoles (1970).
[iii] Corín Tellado, all’anagrafe María del Soccorro Tellado López (1927-2009) fu una prolifica autrice di romanzi rosa campioni d’incassi. Le copiose vendite dei suoi libri le valsero il Guinness dei primati e il secondo posto, nella classifica stilata dall’Unesco nel 1962, tra gli scrittori in lingua castigliana più letti, dopo Miguel de Cervantes.
[iv] Goytisolo fu anche traduttore dal catalano al castigliano dell’opera di Salvador Espriu e di altri autori catalani.
[v] Impiegato, gestore di un negozio di materiali idraulici, membro dello studio dell’architetto Ricardo Bofill, editore etc.
…se ho ben capito, il poeta J. A. Goitysolo, essendo nato e vissuto, per il suo maggior tempo, in Spagna durante la dittatura franchista (avendo anche conosciuto, da bambino, la guerra civile), ma a Barcellona la città più industrializzata del paese e quindi più aperta ad accogliere il turismo europeo, aveva potuto sin da subito conoscere da una parte le pesanti limitazioni del vivere sotto una dittatura e dall’altra le mistificazioni di una libertà camuffata offerta dalle nuove democrazie europee. Perciò non si illudeva sulle difficoltà di far uscire “l’uomo nuovo”, prima come dopo il franchismo…Forse per questo era contrario ad una poesia troppo “spudoratamente” civile? Il problema della libertà si faceva più complesso?…L’analfabeta di secondo grado ormai siamo tutti noi?
In tempi come questi nei quali il premio Nobel per la Letteratura è assegnato a Bob Dylan può far piacere sapere che “la fortuna di José Agustín Goytisolo” poeta autentico, anche se poco noto, “non possa prescindere dal successo delle versioni musicate delle sue poesie cantate da Paco Ibáñez.”
In particolare per i giovani autori può essere fruttuosa la lettura delle opere del Goytisolo perché la sua poesia, sicuramente densa e complessa, si alimenta di tutte le esperienze possibili. Un esempio di come si possa fare una poesia per così dire intimista, soggettiva, e nel contempo dare voce alle istanze sociali (il rapporto del poeta con la sua epoca, con la storia) senza mettersi, come afferma il poeta spagnolo:“nei panni di un operaio, perché sarebbe un pasticcio terribile” o pretendere di cantare “in nome di un popolo intero.”
Ubaldo de Robertis