Appunti su «Pensiero poetico e critica integrale dell’arte» (CFR 2013)
per la serata del prossimo 14 ottobre 2016 a Rovellasca su Lucini.
Scaletta del mio intervento.
di Ennio Abate
1.
Alla base della scrittura saggistica di Gianmario Lucini troviamo un’insofferenza etica potente contro ogni concezione che intenda la poesia come attività specialistica, professionale, autonoma o regolata esclusivamente da leggi interne al suo un campo. Egli è, perciò, ostile all’estetismo e al formalismo, cioè ad una ricerca esclusiva del Bello o della Forma, che non ritiene scopi sufficienti a giustificare l’attività poetica.[1] Lucini vuole invece un collegamento stretto tra poesia ed etica. Per lui la Poesia (che – si noti – scrive sempre in maiuscolo) non può essere la semplice «rappresentazione della realtà», la sua copia in versi. Deve essere «ricerca di verità» e lavorare alla «prefigurazione di un mondo, magari utopico ma possibile» (p. 41), essendo per lui l’utopia «semplicemente un luogo che non esiste, ma che può venire ad esistenza se conosciuto e reso abitabile» (p. 36).
2.
La ricerca della verità è compito primo ed esclusivo della Poesia. Per Lucini essa «non può delegare questo compito (ossia la creazione di mondi utopici) ad altre discipline (ad es. la politologia, l’economia, la storia, la sociologia, la psicologia..)» (p. 45). Perché questi saperi si occupano di «realtà concrete e verificabili, sperimentabili, misurabili, di leggi naturali, di validazioni e falsificazioni» (p. 45), mentre la ricerca della verità richiede altro: «non è un’attività che si possa svolgere esclusivamente con la parte logico-razionale del cervello,[…] è una ricerca che deve coinvolgere la cosiddetta parte a-logica: le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, la percezione, persino le pulsioni, ecc., ossia la parte “pazza” di noi” la “pazza di casa”»[2] (p. 45).
3.
Se la Poesia è ricerca della verità e dell’utopia, per Lucini essa non può che essere buona eticamente, impegnata e civile, sensibile cioè alla lotta contro le disparità e le ingiustizie sociali. Altrimenti non merita neppure il nome di poesia. E perciò egli scrive in questo saggio:
«Il poeta deve dunque, per coerenza, essere un ribelle, un socialmente deviante (da una via socialmente ma acriticamente condivisa e tollerata), un “culturalmente fuori-legge” (ma non poeticamente fuori contesto), uno che non accetta la negazione della libertà e le forme della disumanizzazione – quelle che, a nostro avviso in prevalenza, regolano i rapporti fra gli uomini e fra i popoli e sono socialmente tollerate, o anche rimosse dalla coscienza collettiva» (p. 41).
4.
Dove sono le radici di questa visione della poesia? Credo che vadano rintracciate nella cultura della Resistenza[3] e, più in particolare, nel cristianesimo sociale ed ecumenico di padre Turoldo. Questa visione – lo conferma la giovanile militanza di Lucini nella Cisl – è stata alimentata dalla sua partecipazione ai movimenti di contestazione nati anche negli ambienti cattolici più conservatori attorno al ’68-‘69, i quali, in sintonia e spesso in collaborazione coi movimenti sorti negli ambienti altrettanto conservatori d’estrazione marxista (socialisti e comunisti), tentarono per tutti gli anni Settanta di smuovere le pratiche religiose e politiche spesso reazionarie dell’Italia repubblicana. Aggiungo che le delusioni seguite alla sconfitta di quei movimenti rafforzarono in Lucini una preesistente diffidenza verso la politica, tanto che la sua tensione utopica si concentrò poi, soprattutto se non esclusivamente, sull’obbiettivo di una generale trasformazione culturale, da lui perseguita soprattutto scrivendo poesie e organizzando con la sua piccola casa editrice i fermenti poetici più ai margini e meno conformisti.
5.
Nella riflessione poetica e saggistica di Lucini troviamo un tema fondamentale: quello della fragilità e dell’assenza di libertà della condizione umana. E va detto che i conflitti (sociali, militari, culturali) che caratterizzano tale condizione, invece che essere meditati in un’ottica razionale e scientifica, vengono da lui letti alla luce dello scontro – astorico e potremmo dire biblico – tra Bene e Male. Sono cioè affrontati in un’ottica decisamente sapienziale. Non è perciò un caso che abbia assorbito, e in modo capillare, alcuni degli sviluppi filosofici che negli ultimi decenni del Novecento hanno più insistito sulla «crisi della ragione» (Gargani). Il pensiero di Lucini s’è mosso dentro la rinascita dell’heideggerismo e si è riallacciato esplicitamente al «pensiero debole» di Gianni Vattimo. Che – va precisato – è stato allievo di quel Pareyson, a cui Lucini direttamente attinge per formulare il suo «pensiero poetico integrale».[4]
6.
L’insistenza in questo saggio sui limiti della ragione (più che su un suo rifiuto totale, che farebbe di Lucini un irrazionalista) lo porta alla rivalutazione – direi neoromantica – del “sentire”. Scrive:
«non è possibile, secondo i principi che vado esponendo, una critica soltanto logico-razionale (e, in questo caso, intellettualistica), ma una critica integrale, nella quale entrino, seppure in background, anche i sentimenti e le emozioni, perché l’uomo non è soltanto un essere che ragiona, ma anche un essere che sente, che ragiona pascalianamente con il cuore» ( p. 42).
Nella sua visione ragione e sragione dovrebbero, dunque, riconoscersi e rispettarsi «reciprocamente» (p. 46) proprio per realizzare l’utopia. O quella «innocenza al potere», una formula turoldiana che Lucini sottolinea e raccorda esplicitamente all’Elsa Morante de «Il mondo salvato dai ragazzini» (p. 44).
7.
Che dire della concezione della poesia espressa da Lucini in questo libro, il quale ha una forma spuria ed è insieme testimonianza appassionata, dialogo polemico e riflessione colloquiale, libera, divagante, condotta in modi sempre pacati? Quattro sono le obiezioni che mi sento di fare:
- 1.
Lucini sembra sottovalutare che il sentire non è oggi di per sé più sano o intatto della ragione di cui egli diffida. Anche a non prendere alla lettera Lukàcs, che parlò di una «distruzione della ragione», e tenendo presente la critica, ben diversa da quella di Heidegger, del lato oscuro della ragione fatta nel 1947 da Adorno e Horkheimer in «Dialettica dell’illuminismo», a me pare evidente che anche il sentire, e non solo la ragione, sia stato offeso e deturpato. E dunque non è più quella riserva di autenticità che comunemente si crede. E che, dunque, non possiamo affidare le nostre speranza di miglioramento, d’incivilimento o di costruzione di una cultura diversa o di una società più giusta alla Poesia che volesse fondarsi soltanto su questo sentire.
- 2.
Troppi sono i casi in cui abbiamo «buona poesia» (p. 41) in compagnia – guarda un po’! – dell’ingiustizia o chiusa nella bolla protettiva dell’indifferenza (individuale o collettiva) alle ingiustizie. Questa contraddizione viene alla luce quando Lucini affronta il tema della “poesia civile”.[5] Fa l’esempio di Sandro Penna[6] (ma ci sarebbero molti altri casi letterari: Balzac, Céline, Benn, ecc.) e deve ammettere che si tratta di «buona poesia». Ma non è “civile” e non raggiunge quel traguardo in cui bellezza, bontà e verità[7] si fondono insieme e permettono di parlare di Poesia o di vera Poesia. Il legame stretto e aprioristico che Lucini stabilisce tra etica e poesia quando afferma: «Per chi scrive, nulla può essere bello, (vero, buono, ecc.) se non è anche giusto, e viceversa» (p. 41),[8] gli impedisce di avere una visione più critica e non “salvifica” della poesia. A me pare che la poesia – quella reale e storica, civile e non – è un illusorio buon rifugio che pare proteggerci dalla sporcizia della politica, dalla durezza della lotta per la vita e dalle ingiustizie del mondo. Ed è invece anch’essa campo di tensioni e contraddizioni; e a volte di coesistenza ambigua se non ipocrita tra modi contraddittori di pensare e poetare. Se, come Lucini pensa, «per scrivere poesia civile bisogna non soltanto “sentire” questa poesia ma avere anche una certa conoscenza di come vanno le cose, di chi possano essere certe responsabilità, di come funzionino certi meccanismi sociali e politici. Bisogna insomma “esserci dentro”, vivere in qualche modo l’esperienza del sentimento di appartenenza» (47), vuol dire che la portata universalistica della Poesia (e del ««pensiero integrale») vale solo per costoro, per una minoranza. La “poesia civile” non è di tutti, non è un’esigenza universale e naturale. É – direi io – una porzione della ricerca dei poeti, se non un partito da prendere. Che è stato in passato il partito di un Dante, di un Fortini e di tanti altri, ma non di un Penna e di tanti altri pur bravi poeti. Soltanto se, per raggiungere in poesia la bellezza (o la Bellezza) si dovesse obbligatoriamente attraversare il terreno della storia, del noi, dei conflitti sociali, i poeti tutti sarebbero costretti ad affacciarsi finalmente oltre i «confini della poesia» (Fortini) o di quella poesia che si dedica esclusivamente alla ricerca del Bello. E magari la rimetterebbero in discussione: o per trasformarla o per estendere alla vita, come pensava Fortini, la spinta formalizzante che in essa sperimentiamo.
- 3.
Esiste un rapporto – conflittuale e non facilmente conciliabile – tra poesia e scienze (e poesia e filosofia). Sì, la poesia è strumento conoscitivo, ma questo strumento è stato forgiato da secoli in epoche che possiamo definire pre-industriali; e quando le scienze e l’industrializzazione si sono sviluppate, non sempre ha permesso ai poeti di affiancarsi e confrontarsi alla pari con filosofi e scienziati. Oggi a me pare che con tale strumento si possa contestare – e lo si deve fare – l’egemonia a volte ambigua delle scienze e criticarle quando necessario, ma non credo sia possibile e auspicabile, come Lucini in questo saggio teorizza, che la Poesia come «pensiero poetico integrale» sia da sola, e in competizione con le scienze e la filosofia, in grado di integrare razionale e a-razionale.
- 4.
Dalla sua diffidenza verso la ragione e dalla valorizzazione del sentire Lucini fa discendere un atteggiamento rischioso di diffidenza e quasi rifiuto anche nei confronti della critica. Ritiene, infatti, che l’arte debba diffidare del critico e che quest’ultimo si debba astenere dai giudizi di valore (p. 88). Teme addirittura che la critica possa arrivare a dire tutto su un’opera (p. 80) impedendo poi ad altri di accostarla. E vorrebbe che si limitasse a “introdurre” all’opera, mentre di solito – egli sostiene – «chiude, preclude, impedisce, tende insomma ad usare una certa violenza sul testo» (p. 96). C’è in questo atteggiamento un rifiuto quasi istintivo della teoria che dovrebbe essere sostituita da un (troppo) generico «ascolto interpretativo» (98).
8.
Come avete capito dalle quattro obiezioni che ho formulato – spero con maggior rispetto e cautela ora che il dialogo dal vivo con lui è stato purtroppo interrotto dalla sua morte – nel breve periodo in cui abbiamo collaborato assieme, io e Gianmario Lucini ci siamo parlati stando su sponde filosofiche diverse e per certi versi contrastanti: heideggeriane le sue e di ascendenza marxista e fortiniana le mie. Credo tuttavia che anche questa mia interpretazione delle sua concezione della poesia e l’indicazione dei punti rischiosi che credo di scorgervi, possa essere utile. Almeno a quanti vorranno approfondire con strumenti critici, anche diversi dai miei, questo saggio o l’intera opera di Lucini, senza limitarsi ad un atteggiamento di semplice ammirazione o di simpatia per le sua grande e, anche per me, indiscutibile umanità.
Note
[1] La sua polemica è contro Croce: «L’estetica crociana si chiude nella coppia antinomica bello-brutto, evitando ogni riferimento a vero-falso o buono-cattivo l’arte è un gioco… non è una cosa » (pagg. 41-42). Per lui «l’opera d’arte è anche moralità».
[2] L’immagine è ripresa dal filosofo Dario Sacchi, autore di Libertà e infinito, Studium, Roma 2002.
[3] Si veda Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bornghieri, Torino 1991.
[4] Lucini dichiara apertamente di riprendere le posizioni di Vattimo in Poesia e ontologia (Mursia 1985): «Non mi dilungo su questa materia, che peraltro non saprei svolgere in modo adeguato, non essendo un filosofo ma un poeta (non basta insomma riflettere, per considerarsi filosofi). Voglio semplicemente sottolineare che questo scritto si sta muovendo in modo molto vicino all’orizzonte delineato da Vattimo e dalla sua ermeneutica del pensiero debole» (23).
[5] Non senza qualche resistenza, perché dapprima sembra negare valore euristico a questo termine, riassorbendolo, con Croce, nel concetto generale di Poesia : «Nessuna poesia ha un solo carattere e anzi, la Poesia li possiede tutti, anche se in rapporto tra loro diverso, perché è la Poesia e basta» (p, 40). E in nota aggiunge: «Anche il Croce sembra d’accordo con questa concezione, quando scrive: “Epica o lirica, o drammatica e lirica, sono scolastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica o, se si vuole, epica e drammatica del sentimento”» (p. 40). E in altro punto scrive: «La poesia lirica può essere anche ottima poesia civile, e così quella tragica, quella elegiaca, quella satirica, ecc. “Civile” attiene in prevalenza a una sfera della sensibilità rivolta a un “noi” e un “voi”, o un “essi”, piuttosto che un “io” e un “tu”( p. 47).
[6] «Non sto, infatti, affermando che chi non scrive poesia civile o di denuncia non possa essere un buon poeta. Sandro Penna, per dire un nome, non ha scritto un verso di poesia civile, che io ricordi, ma certamente è un grande poeta» (p. 46).
[7] Come sostiene qui: «per chi scrive, nulla può essere bello, (vero, buono, ecc.) se non è anche giusto, e viceversa» (p. 41).
[8] Qui, a riprova di questa tendenza a collegare etica e poesia, devo riportare un giudizio di Michele Ranchetti su Fortini, che a me pare possa essere riferito, con i necessari distinguo (Lucini mi disse che aveva cominciato ad accostarsi agli scritti di Fortini solo da pochi anni), anche alla poetica di Lucini:
«Fortini volle leggere le mie poesie. Le lesse, le prese in mano con una padronanza assoluta, come di un maestro d'arte che esamina il prodotto di un aspirante artigiano. E anche qui,in una materia per me allora così privata e segreta, io mi accorsi di quanto fossero rilevanti, per lui, tutte le cose, direi tutte le forme dell'esperienza del vivere: lo scrivere, il discutere, le amicizie, i mestieri, le appartenenze, in un certo senso senza discrimine, perché non c'è nulla che non abbia importanza e significato. Soprattutto, non c'è nulla di cui non si debba rendere conto. Ma il suo, cosi almeno mi pare, ora più che allora, non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico. Tanto meno, un giudizio religioso: era una sorta di giudizio universale privato che comprendeva tutti gli elementi, dove il bene e il male appartenevano a una sfera estetica, cosi come alla sfera morale, per cui una poesia non poteva in un certo senso essere bella, se non era anche buona o giusta». (Intervento di Michele Ranchetti al convegno «1917-1941 "Nella città nemica" Fortini a Firenze - Atti della Giornata di Studi, 18 novembre 2004»).
DA “LA PAROLA E LO SPIRITO” A “POLISCRITTURE SITO”
Giovanni Nuscis ha detto:
ottobre 17, 2016 alle 12:23 am
Mi ritrovo molto nelle parole di Ennio Abate nel suo saggio dedicato a Gianmario Lucini, poeta e critico in cui un’etica forte e resistenziale ha sempre percorso la sua poesia, e il suo giudizio su quella altrui.
Etica era anche la sua generosità, in un’ideale umanesimo e di comunità letteraria oltre il narcisismo e l’egoismo degli artisti. La sua idea di poesia andava dunque oltre la bellezza, o, meglio, comprendendo o fondendo in essa anche uno sguardo lungo e sensibile sul mondo intorno; un prendere posizione sui grandi temi che evidenziano l’abbrutimento e l’ingiustizia sociale, l’inganno del potere. Ad ogni modo vi è da dire che Gianmario non ha mai nascosto cosa scegliere, eventualmente, messi alle strette, tra la bellezza e la verità, il prendere posizione: […]“So di essere un poeta indisciplinato / e scrivo versi brutti raccontando le brutture / so d’aver deviato / dileggiando i canoni estetici:[…] (Colpa di nessuno – da Sapienziali). Per Gianmario, come giustamente scrivi: “La ricerca della verità è compito primo ed esclusivo della Poesia. Per Lucini essa «non può delegare questo compito (ossia la creazione di mondi utopici) ad altre discipline (ad es. la politologia, l’economia, la storia, la sociologia, la psicologia..)» “Il poeta deve dunque, per coerenza, essere un ribelle, un socialmente deviante (da una via socialmente ma acriticamente condivisa e tollerata), un “culturalmente fuori-legge” (ma non poeticamente fuori contesto), uno che non accetta la negazione della libertà e le forme della disumanizzazione”.
Il bello (per originalità, potenza espressiva, eufonia…) e il vero possono dunque andare di pari passo, ma per Gianmario la seconda qualità perdonava indubbiamente le carenze della prima. Aveva una straordinaria capacità di ascolto e il rispetto per ogni genere di poesia, purché autentica, non furba, non involuta, non scopiazzante altra poesia.
Quanto alla definizione di poesia civile, ritengo personalmente opinabile l’uso di tale aggettivo: la poesia è o non è, per valenza formale ed estetica, per qualità espressiva. A caratterizzarla, invece, inverandovi lo sguardo e il sentire dell’autore – la sua personale percezione del giusto e del vero – è la scelta tematica.
La c.d. poesia civile, programmaticamente tale, sta in un crinale un po’ rischioso. Franco Fortini aveva espresso le sue perplessità su tale poesia, nella sua prefazione alla raccolta di Luigi Di Ruscio “Non possiamo abituarci a morire”.
Mi ha fatto piacere cogliere nel commento di Giovanni Nuscis un paio di riferimenti che fanno parte del mio vissuto. Comincio dal cenno all’amico e mio conterraneo il compianto poeta e scrittore Luigi di Ruscio. L’altra citazione attribuita a Gianmario Lucini che aveva “ il rispetto per ogni genere di poesia, purché autentica, non furba, non involuta, non scopiazzante altra poesia” mi richiama a ciò che mi disse nel corso di un reading a Pisa proprio il Lucini dopo aver ascoltato qualche mia composizione, rimarcando in esse il contenuto di autenticità.
Ovviamente ho apprezzato per intero quanto riportato da Ennio Abate nei propri Appunti ovvero la scaletta del suo intervento su: La Poesia secondo Gianmario Lucini.
Anch’io penso che la “Poesia non possa essere la semplice «rappresentazione della realtà», la sua copia in versi. Deve essere «ricerca di verità» e lavorare alla «prefigurazione di un mondo, magari utopico ma possibile»”
Per quanto riguarda il punto 3, quello del buona eticamente mi sarebbe piaciuto conoscere il pensiero del Lucini circa la poesia di Pound. Mi allontano da Lucini per quanto richiamato dal punto 5. Per me “i conflitti (sociali, militari, culturali) devono essere meditati in un’ottica razionale e scientifica”. Concordo con Abate con il rilievo esposto al punto 7.1. Il punto 7.2 merita da parte mia un ulteriore approfondimento. Al punto 7.3 credo che i poeti non possano eludere “di affiancarsi e confrontarsi alla pari con filosofi e scienziati.” Quindi al contrario di Lucini non vedo la poesia in “competizione con le scienze e la filosofia” Così come credo fondamentale per certi aspetti il contributo della critica (punto 7.4)
Ubaldo de Robertis
@ de Robertis
In merito al punto 7.3 (necessità per i poeti di affiancarsi e confrontarsi alla pari con filosofi e scienziati”) sottolineerei quanto la questione sia ardua e quanto sia complicato sfuggire oggi alle insidie delle posizioni di moda culturale che genericamente definisco “heideggeriane”.
E poiché non amo sfuggire le complicazioni, segnalo un articolo appena letto ( in singolare coincidenza?) sempre su CONSECUTIO TEMPORUM (Husserl e le “Scienze del male”. Considerazioni etiche e fenomenologiche di Valerio Carbone
http://www.consecutio.org/2015/03/husserl-e-le-scienze-del-male-considerazioni-etiche-e-fenomenologiche/) d a cui stralcio i seguenti brani, quasi più favorevoli alle posizioni di Lucini che alla mia ( o tua):
1.
La natura restituiteci dalla scienza è allora diversa dalla natura immediatamente intuibile, quella della Lebenswelt, del mondo-della-vita; è piuttosto una formazione storica, un modello di mondo obiettivo e misurabile, seppure svuotato di senso, un universo razionale idealizzato entro cui la nostra spiritualità si fonda, entrando però in crisi. Il vertice della rivoluzione scientifica – il punto più alto toccato dalla razionalità occidentale – ha paradossalmente significato, per Husserl, l’inizio stesso della crisi dell’umanità europea. Per questo Galileo viene definito “un genio che scopre e insieme occulta”:
Galileo, lo scopritore della fisica e della natura fisica – oppure, per rendere giustizia ai suoi predecessori: colui che aveva portato a compimento le scoperte precedenti – è un genio che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l’idea metodica, egli apre la strada a un’infinità di scopritori e di scoperte fisiche. Egli scopre, di fronte alla causalità universale del mondo intuitivo, ciò che da allora in poi si chiamerà senz’altro (in quanto sua forma invariante) legge causale, la “forma a priori” del “vero” mondo (idealizzato e matematico), la “legge della legalità esatta”, secondo la quale qualsiasi accadimento della “natura” – della natura idealizzata – deve sottostare a leggi esatte. Tutto ciò è una scoperta e insieme un occultamento, anche se fino ad oggi l’abbiamo considerato una pura e semplice verità (pp. 81-82).
La progressiva tecnicizzazione metodica delle scienze ha dunque portato a una graduale astrazione dal mondo fisico: dalla matematica pura, – concretamente legata alle cose, – si è passati quindi alla matematica delle intuizioni pure, al riduzionismo simbolico, alle formule vuote di senso che ipostatizzano il proprio sistema, adattando al mondo-della-vita un abito ideale ben confezionato, quello delle cosiddette verità obiettivamente scientifiche[5].
Per questo, per Husserl, rimane fondamentale il problema del ritorno all’origine, che non a caso coincide con il ritorno all’esperienza e a quel mondo immediato in cui gli esseri umani vivono e in cui le cose accadono.
2.
Come detto, esiste un’esperienza diretta della natura, una forma di coscienza antepredicativa su cui, storicamente, sono stati poi costruiti tutti i saperi e tutte le scienze naturali. Il fenomenologo ha allora il dovere morale d’intraprendere un’opera di chiarificazione, un’investigazione a ritroso (oggi diremmo una reverse engineering[8]) per ricercare il senso originario delle attività umane, perduto nella trasmissione storica. Lo scopo è di evitare quella “tradizionalizzazione passiva” (Vincenzo Costa) che compromette le generazioni umane e che le trascina, mediante il linguaggio e la comunicazione, in uno stato di crisi.
Husserl sa che tutti i messaggi, i valori, le tradizioni possono essere veicolati e accolti anche in modo passivo, senza che nessun senso scaldi cioè il cuore degli esseri umani. Le parole possono diventare codici, regole, procedure incapaci di riattivare il proprio significato originario. La “crisi” è appunto questa reiterazione di segni passiva che dimentica l’origine, il telos, il proprio significato profondo. Così anche la ragione europea, – alienando il senso delle sue origini greche, – finisce per fraintendere se stessa, ponendosi come una mera ragione strumentale capace solo di misurare, matematizzare, sistematizzare il reale, senza più comprenderlo.
Il discorso sulla famosa Appendice III della Krisis s’inserisce esattamente a tal proposito. Husserl dimostra infatti come questo processo di progressiva astrazione del senso non avrebbe potuto compiersi – e non potrebbe compiersi in futuro – senza la diffusione del linguaggio, senza cioè la praticità dell’operare per segni e, dunque, senza la corrispettiva riproduzione di opere scritte (disegni geometrici, modelli algebrici, eccetera) e l’abituale trasmissione delle conoscenze acquisite.
3.
Eppure, anche se tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, – ripete Wittgenstein in un altro passaggio, – i problemi della nostra vita non sarebbero neanche sfiorati. Questo perché lo sguardo delle scienze è uno sguardo esclusivamente calcolante. Vedere il mondo in senso etico significa invece, propriamente, viverlo come un miracolo, cogliere in esso l’esserci del mondo: non come il mondo è, ma che esso è. “Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se per esempio avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro invece che coperto di nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo comunque esso sia. Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia” (p. 14).
4.
Per Husserl, le cose naturali (le “realtà-cause”) che lo studioso della natura – o il fisico esatto, o lo psicologo, o lo stesso scienziato da laboratorio – suppone e considera “vera natura”, non possono veramente essere considerate tali poiché non sono più esperibili sensorialmente. Le “cose della fisica” sono delle costruzioni cui si giunge dopo lunghi processi d’idealizzazione. La fisica, infatti, prende le mosse sempre e comunque da un ordine geometrico, un ordine cioè costruito concettualmente (Prolegomeni alla logica pura / Ricerche Logiche, p. 255). Le teorie scientifiche sono delle semplici ipotesi esplicative, costruzioni del pensiero che mirano a spiegare (partendo da modelli geometrico-matematici) ciò che accade sul terreno dell’esperienza (Crisi, p. 68) ma che finiscono per modificarne il senso – letteralmente – obliandolo, scambiando una coltre di idee, di numeri, di simboli, di segni e di astrazioni per il vero essere del mondo.