di Roberto Bugliani
Se non il quadro in sé, un acquerello dipinto da Paul Klee nel 1920 e titolato Angelus Novus, è nota la lettura allegorica fatta da Walter Benjamin di questo “angelo che sembra in atto d’allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta” (Sul concetto di storia, tesi IX, nella traduzione di Renato Solmi, Angelus Novus, Einaudi 1962, pp. 76-77).
Benjamin scrive le tesi nel 1940, quando l’attesa messianica della storia, della redenzione sociale, del futuro come salvezza e riscatto dal tempo presente, era forte, e contrastava drammaticamente col senso di sconfitta che gravava sulla sua generazione. “Nella conclusione di una versione precedente della tesi [la XI] il pessimismo storico nei confronti del presente è scritto chiaramente: se una generazione lo deve sapere è la nostra: ciò che possiamo attenderci dai posteri non è la gratitudine per le nostre imprese, bensì che vi sia memoria di noi che siamo stati battuti”, annota Benjamin nel suo ultimo scritto prima del suicidio avvenuto nel settembre 1940 a Portbou, al confine tra Francia e Spagna, per non cadere nelle mani della Gestapo.
All’angelo della storia ravvisato da Benjamin nel dipinto di Klee, angelo che per un ventennio “ebbe un ruolo di grande importanza nelle sue riflessioni”, informa il suo amico e interprete Gershom Scholem, non è dato “destare i morti e ricomporre l’infranto”, ma viene trascinato in avanti dalla tempesta del progresso, quello stesso progresso dal decorso temporale “rettilineo e vuoto” che, in forma di sviluppo tecnico, ha fornito alla classe operaia tedesca, sostiene Benjamin nella tesi XI, “l’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi nella direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica”.
Lo sguardo del romanzo di Velio Abati, Domani (Manni editore, 2013), è pur esso volto all’indietro, ai trascorsi d’un mondo contadino (collocato nella fattispecie in un territorio immaginario della bassa Toscana corrispondente nella realtà a quello maremmano e dell’Amiata, e identificato nei paesi di Petra e Paiese, il cuore d’una campagna dove “non arrivano né treni né corriere”; p. 159) di cui la seconda metà del XX secolo in Italia ha registrato il definitivo superamento e di cui oggi resta, per chi sa ancora vederlo, “un cumulo di rovine”, peraltro sempre più invisibile alle nuove generazioni, mentre il titolo parrebbe proiettare tale sguardo verso il futuro, alludendo, benché in modo aleatorio, a una speranza, una promessa o una conferma. Ma non è il futuro semplice, o prossimo, a conferire un avvenire a Domani; ad articolarlo è semmai una forma singolare di futuro, il “futuro anteriore“, quello paradossale “di essere un futuro e tuttavia anche un passato”, come nota Peter Szondi nel suo “Speranza nel passato. Su Walter Benjamin” (in aut aut 189-190, 1982, p. 18).
L’avverbio temporale domani è, dunque, parola di memoria, non già di premonizione. Esso non allude ad alcun domani effettivo, storicamente inteso, della società contadina, ma è del tutto interno al suo mondo e, in quanto tale, è misura temporale della continuità scandita per cicli lavorativi (le stagioni della semina, del raccolto, della preparazione dei campi) e passaggi generazionali (“non meno rigoglioso – scrive Abati al termine della sua nota “Al lettore” -, a ogni stagione, accestisce l’intrico delle diverse generazioni”; p. 5).
E non potrebbe essere diversamente per una società come quella contadina deprivata del proprio domani dal modo capitalistico di produzione. Non è difatti un caso che la cronologia della narrazione, al netto del suo iter spiraliforme, s’arresti all'”autunno del [millenovecento]quarantaquattro” (p. 155), ossia alla vigilia di quel secondo dopoguerra che ha portato al disgregamento ultimo della secolare società contadina, costringendo i suoi componenti a migrare al Nord, nelle città del famoso “triangolo industriale” italiano, dove la figura dell’ex contadino si trasformerà in operaio di fabbrica e, nei tardi anni Sessanta, nel proletario urbano dell’operaio-massa (ricordo, per restare in ambito letterario, il protagonista “collettivo” radicalizzato del romanzo Vogliamo tutto – 1971 – di Nanni Balestrini, la cui “estraneità ideologica al lavoro” segna il punto di rottura con l’alienazione lavorativa operaia o contadina che sia). Non solo, ma la distanza della società contadina di Domani dall’odierno suo lettore è ancora più marcata a considerare il declino, verificatosi in Italia negli anni a cavallo tra il XX e XXI secolo, della classe operaia stessa, cui la vulgata marxista aveva conferito il ruolo di centralità rivoluzionaria, e, congiuntamente a ciò, lo smarcamento dalla sua tradizionale identità politica, con successiva dissoluzione della coscienza di classe, fino a venire egemonizzata dalla destra politica, in un contesto lavorativo non più soccorso dai diritti acquisiti con le lotte sindacali del secolo scorso e definito da forme selvagge, “globalizzate”, di precarietà e flessibilità e da tassi di disoccupazione senza precedenti (a considerare le serie storiche). E’ questo il nuovo “cumulo di rovine” su cui l’angelo della storia, il viso volto all’indietro, dovrà fissare lo sguardo, mentre la tempesta lo sta sospingendo a forza verso un futuro (un domani) del quale nessuno, né lo stesso angelo né noi, può avere al momento una pur minima e opaca “visione”.
Nell’affresco di 396 pagine delle comunità confinanti di Petra e di Paiese, compreso in un arco temporale che abbraccia due secoli di storia, le cui vicende riconosciute e gli eventi cronologizzati vanno dal 1797, ma soprattutto dal 1845 al 1944 (ma alla seconda guerra mondiale, per la ragione suddetta, sono riservate poche scene), è tratteggiata la “saga” genealogica di quattro famiglie: quella di Lorenzo, i “Mosè”, i marchesi Ildibrandi e gli Stracci e, a complemento, qualche pennellata è riservata alla presenza in loco della famiglia straniera dei de Saint-Phalle (“Mercanti arricchiti. Presuntuosi. Francesi”; così li apostroferà il marchese Ildibrandino Ildibrandi; p. 68). Contadini, proprietari terrieri, “capoccia” e fattori che il romanzo modella dando conto delle metamorfosi generazionali, delle fortune e dei rovesci familiari, dei contrasti di classe (“finora i padroni avevano fatto il loro comodo”: p. 252) e delle lotte (l’occupazione delle terre, la cui atmosfera impregna e condiziona la vita della comunità contadina di buona parte del capitolo I) ricorrendo a una narrazione, come s’è detto, cronologicamente spezzata o frammentaria, dove l’irruzione improvvisa d’un sintagma tipo: “Scampaste la guerra d’Africa e ora vi evitate anche questa contro gli austriaci” (p. 131) contestualizza temporalmente il narrare, o dove basta un consueto “a capo”, un semplice rigo bianco per saltare anni o interi decenni di cronaca, repentine “fughe prospettiche” (Abati) sulle cui vicende il romanzo ritornerà pagine dopo o lascerà definitivamente in sospeso, ad libitum, nodi irrisolti a punteggiare la continuità di scrittura (gli scarti temporali degli eventi sono, per così dire, compensati dal fluire stilisticamente omogeneo della narrazione).
A questo proposito, la stessa conclusione del romanzo (ovvero le ultime pagine del capitolo IV, “La Sapienza”), se da un lato non si differenzia da una delle sue innumeri sospensioni, dall’altro rimanda tematicamente alle pagine iniziali del capitolo I, “La Forza dell’Ira”, saldandosi a queste e arricchendole di alcuni particolari retrospettivi (come le turbe psichiche di Petra, cognata di quel Sergio che avrà un ruolo di primo piano nell’occupazione delle terre successiva alla prima guerra mondiale e nella nascita della cooperativa agricola), componendo in tal modo una struttura circolare, o più propriamente a spirale della narrazione, che rimette in ciclo anche il domani, consegnandolo all’ambito temporale che gli è proprio.
Le ragioni di siffatta discontinuità temporale sono da Abati esplicitate nell’avvertenza “Al lettore” posta all’incipit del libro, nella quale scrive: “Il mondo che vedi prender vita nelle pagine seguenti, oltre alla lingua e alla misura, ha generato anche il propro ordine del tempo. Ispido, lo riconosco, e persino sprezzante di tante abitudini diventate ovvie, ma esso è di tale intima necessità, di cause forse e di effetti, da non sopportare dall’autore intromissioni semplificatrici – una paroletta esterna, un rigo bianco – senza innescare rovinosi processi di rigetto” (p. 5).
Ora, la “necessità” d’un tale ordine temporale fondato sul disordine cronologico degli enunciati (tutto parrebbe avvenire in simultanea) è tuttavia anche la più rilevante difficoltà di lettura del romanzo, come ha già rilevato Ennio Abate in “Dieci appunti su ‘Domani’ di Velio Abati” (in Poliscritture.it, articolo dell’1/5/2014): “Ci sono però – attori anch’essi, scomodi e mai trascurabili – i lettori. Mettendomi, sia pur criticamente dalla loro parte (e perciò senza concedere nulla alle pigrizie più spicciole e immotivate, alla cecità coatta o all’ignoranza tronfia di sé), sono stato tentato di accusare Abati di aver sottovalutato le difficoltà che i lettori di Domani incontrano. Il narratore non ha forse doppia responsabilità: una verso la materia che lo agita e un’altra rispetto ai destinatari (impliciti o espliciti) della sua impresa narrativa?”. E ancora: “Anche Domani di Abati comprova quanto sia difficile trovare un archimedico punto intermedio equilibrato tra stare come scrittore addosso alla materia e mettersi nei panni dei lettori, che non l’hanno ‘macinata’ e sono ‘distratti’ (non sempre scioccamente). Il che rende lo scarto tra autore e lettori ancora più problematico e drammatico, una reale contraddizione”.
Ai fini della sua comprensione Domani abbisogna d’una lettura lenta, minuziosa, integrale, che possa tener testa e alla cripticità della narrazione, e al dettaglio quale sua cifra compositiva: nessun lessema, nessun sintagma, nessun rigo vanno trascurati. Una lettura, per dirla col Barthes del Piacere del testo, che “non fa passare niente; pesa, aderisce al testo, legge, se così posso dire, con applicazione e trasporto” (Einaudi, 1975, pp. 11-2). Ma è anche una lettura storicamente contraddittoria col proprio tempo letterario quella a cui è chiamato il lettore, essendo la scrittura di Domani tributaria d’un impianto formale di tipo classicheggiante, il quale suggerirebbe, secondo Barthes, un ritmo di lettura “disinvolto, poco rispettoso verso l’integrità del testo” perché “non leggiamo tutto con la stessa intensità di lettura”: “si è mai letto Proust, Balzac, Guerra e Pace, parola per parola?” (op. cit., pp. 10-11). Le stesse, minuziosissime descrizioni dell’alimentazione contadina (il modo di preparazione dei cibi, il tipo di cibo cucinato a seconda che si tratti di ricorrenze speciali o situazioni ordinarie: “se era importante cucinare bene, perché, diceva [la nonna], è un lavoro nobile, tanto più lo era per quella festa [di San Pietro e Paolo]” p. 76; o delle feste popolari e religiose che scandiscono il tempo della vita sociale del mondo agricolo vanno a supporto d’una tale classicità, che trova in brani siffatti, trascegliendo a caso, il proprio modulo narrativo: “Lasciata la pecorareccia e i castri, lo stradello scendeva per un po’ tra gli olivi e i filari delle vigne. Il cielo era pieno di stelle. Il fattore aveva fatto trebbiare fino a quando, tramontato il sole, i balzi avvencati dall’umido avevano bloccato la trebbia” (p. 178). Mentre in un certo qual senso la modulazione stessa, il respiro largo della narrazione fa venire in mente l’oralità tipica del mondo arcaico, che non conosce confini geografici né viene impedita da latitudini e longitudini, qui richiamata, non a caso, dalla figura dello Storiaio, personaggio che si sposta di paese in paese per recare alle famiglie contadine almanacchi (“la copertina verde, familiare del Barbanera che alla fine comparve dal sacco sorprese tutti”; p. 99) e raccontare storie: “queste sono storie fresche. Sentite. Sono storie vere […] Si mise ora a leggere, ora a cantare, finché le donne non dovettero portare a letto i piccoli che piangevano e dormivano, finché al lume cominciò a mancare l’olio” (pp. 99-100). Personaggio, lo Storiaio, che nella sua funzione di memoria delle comunità arcaiche (contadine, in questo caso), rammenta la figura del hablador dell’omonimo romanzo di Mario Vargas Llosa, che, sotto forma di racconti orali, porta agli abitanti dei villaggi indigeni dell’Amazzonia peruviana le novità di quanto succede o degli eventi principali accaduti nella regione.
Un’altra difficoltà di lettura è data dal cospicuo utilizzo di dialettalismi o comunque di termini propri della cultura contadina, la cui sapienza, al netto del progresso tecnologico relativo all’incremento delle coltivazioni e all’aumento delle rese (com’è descritto alle pagg. 384-5), è “di poco variata dagli antichissimi albori, quando gli esili branchi intrepidi e ombrosi, dei prischi padri, bruciavano intera la costa e la piana selvosa, controllando alla meglio, coni bastoni e le rame, le fiamme, perché potessero, stepidita la cenere, smuovere la crosta e sotterrare il seme” (pag. 384). Tali parole non solo soltanto il risultato della scrupolosissima ricerca documentale effettuata da Abati – per inciso: la disseminazione di queste “parole travolte dalla dimenticanza” (come lo stesso Abati riconosce) avrebbe peraltro reso opportuno la presenza di un vocabolario in appendice -, ma già risuonavano, almeno in parte, nella memoria ancestrale dell’autore.
Scrivendo il “suo” Domani Abati ha anche inteso fare i conti con la propria origine familiare (parimenti sua potrebbe essere la questione postasi da Romano Luperini, autore del romanzo generazionale La rancura, 2016: “Per quali travasi del sangue io sono io?”) pur essendo consapevole – come lui stesso avverte – di non potere in alcun modo saldarne il debito. Debito “non di sole parole”, si potrebbe aggiungere citando il Sereni del poemetto Un posto di vacanza, accumulato sia da Abati, sia, più in generale, dalla generazione del secondo dopoguerra nel momento in cui s’è trasferita nelle città dell’industria e dei servizi conseguendo un nuovo status sociale (erano gli anni del cosiddetto boom economico e della scolarizzazione di massa). “Dedico dunque il romanzo – scrive Abati a p. 396 – alle persone nominate: è la narrazione a chiarirci quali fra esse. Aggiungo di farlo con la consapevolezza che nessun autore può pagare tale debito. Solo il lettore futuro potrà, se vorrà, renderne giustizia”.
La scrittura di Domani è, come ho prima detto, in sintonia con una scelta stilistica debitrice della tradizione narrativa otto-novecentesca (il romanzo rivela l’influenza non solo di scrittori quali Manzoni e Verga, come ha rilevato Ennio Abate nel suo articolo sopra citato, ma anche degli scrittori toscani del primo novecento, e penso in primo luogo a Bilenchi), consona a un romanzo che parla per l’appunto di tradizione (la cui continuità, per citare ancora Benjamin, è l’idea regolativa della tradizione degli oppressi) e di genealogia, e che ha per misura compositiva la commistione di “linguaggi diversi: il popolare, il lirico, il tecnico delle culture materiali ed anche il curiale e il cancelleresco. Essi sono compresenti, fusi insieme secondo le esigenze narrative, dominati con perizia così da non apparire mai letterari o artificiosi”, ha scritto Maria Vittoria De Filippis nell’articolo “‘Domani’ di Velio Abati”, apparso sulla rivista on line “L’ospite ingrato” il 24/1/2014. Questa diversità di linguaggi, tuttavia, non è solo un impasto d’ordine naturalistico, per così dire, che rispecchia i milieu sociali di provenienza dei locutori, ma l’un linguaggio è in aperto contrasto con l’altro, riverberando in modo emblematico il conflitto esistente tra le classi sociali.
Esempi significativi mi paiono, da un lato, la raffinata disquisizione, condita con una dovizia di citazioni e riferimenti colti, sul nome della propria casata fatta dal marchese Ildibrandino Ildibrandi, vera e propria riflessione filologica che per ben quattro pagine spazia dal latino al francese antico, dal provenziale al greco, dal ligure alle radici tedesche del cognome nobiliare, distinguendolo dall’altro, quello degli Aldobrandeschi: “Eccovela, alla fine, la dimostrazione: il nostro, Ildibrandi, è il casato originario; l’altro, Aldobrandeschi, il ramo corrotto” (p. 67). Questione, quella del nome, essenziale per la vanagloria del marchese Ildibrandino, ma che possiede tratti inequivocabili di comicità (certamente involontaria da parte del marchese) e di spiccata surrealtà propria dei discorsi nobiliari fuori dal tempo (anche se il tempo nel quale il marchese parla è quello dell’epoca fascista, e malgrado il fatto che gli Ildibrandi, da antichi proprietari terrieri, si siano opportunamente saputi riciclare in banchieri). Ora, siffatte frivolezze linguistiche hanno il loro contrappunto conflittuale nel linguaggio, a titolo esemplificativo (e giovandomi nell’interpretazione degli stessi scarti temporali che compongono l’ossatura del romanzo), di Mosè, figlio di Antonio e appartenente all’omonima famiglia, cacciato dal collegio religioso perché simpatizzante dei “rivoltosi anticristo”, in cui matura la coscienza di classe in questi termini: “I libri gli avevano affinato il corpo e l’occhio. Non poteva più mentire a se stesso. Era tempo di tagliare i ponti, di testimoniare con la parola e con l’opera la calma verità che gli appariva quando ragionava con gli altri, quando si sedeva a tavola o quando si coricava” (p. 319). E in cui la cultura (i “libri”) possiede una ben diversa funzione rispetto a quella esemplificata nel discorso del marchese: “Ho consumato questi anni dietro la medesima fatica. Ho scavato uno a uno i libri dell’intera biblioteca e l’ho pesato con il vostro [del padre] insegnamento. E’ vero, babbo, il pane non casca dal cielo. Raccolgo da voi l’orgoglio di nonno, scampato dall’oppressione degli ozi e dei saccheggi. Il coraggio semplice di chi, nel tempo lungo dei servi, sapeva d’avere solo in sé la forza, non si raccomandava a Franza o Spagna. Per questo sono con te, padtre, quando eccedi, irridi e volti il culo al papa e al re. Qui, credimi, mi riconosco e ti ringrazio. Ma c’è un utile, che non è affatto il vostro utile. Di qui, le parole si dividono e gli uomini e il futuro. La mia verità non è la vostra” (pp. 319-20).
Da 2 anni, ma anche un po’ prima, il paese Italia ha impegnato i suoi organi culturali (RaiTv, scuole, editoria, mostre culturali e artistiche) a celebrare l’entrata in guerra nel 1915, ultimo passo risorgimentale per raggiungere l’attuale estensione dei confini e una compiuta coscienza nazionale.
Invece, nella periodizzazione storica della critica letteraria, il momento storico focalizzato è quello della fine della II GM, fine della modernità e fine della poesia progressiva, come l’andamento dell’angelo volto pur sempre all’indietro, ma trascinato dalla tempesta che viene dal futuro. “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”.
Questa doppia datazione – l’atteggiamento ufficiale punta all’inizio della I GM per figurare un compimento, la cultura critica alla fine della II GM (per altro un’unica guerra secondo alcuni storici) – per rivelare una frattura, indica la faglia che separa cultura di destra e di sinistra.
Scrive R. Bugliani “tradizione (la cui continuità, per citare ancora Benjamin, è l’idea regolativa della tradizione degli oppressi)”: gli oppressi si regolano in nome della continuità della lotta tra oppressi e oppressori.
“L’avverbio temporale domani è, dunque, parola di memoria, non già di premonizione”, altro che continuità nazionale, con cui si è pesantemente ricoperto il meccanismo di sfruttamento di parti del paese su altre parti!
(Il libro “Anschluss di V. Giacché ha mostrato l’effettualità di questo meccanismo di sfruttamento nella riunificazione delle due Germanie, ma quel caso è un modello che fa comprendere cosa è accaduto in altre situazioni di unificazione nazionale.)
Non ha tempo il domani
si resta nell’oggi a pensare
uno sforzo un volto una conquista
sembra che nessuno voglia resistere
è una faccenda un seguito
ed è già domani.
@ cristiana fischer,
“Il libro “Anschluss di V. Giacché ha mostrato l’effettualità di questo meccanismo di sfruttamento nella riunificazione delle due Germanie”. Ottimo libro, anche come vademecum per capire l’oggi alla luce di ieri.
…il “progresso”, per quello che ho capito attraverso la bella e illuminante presentazione di R. Bugliani del libro di Velio Abati “Domani”, ha sconvolto drasticamente il secolare mondo contadino,il nostro, recidendolo dalle radici, con le migrazioni in massa dalle campagne alle città industrializzate…Uno strappo che ha generato amnesie anche in chi ne ha vissuto un ultimo scampolo. Questo romanzo allora mi sembra di poterlo paragonare all’opera paziente di scavo archeologico davanti ad “un cumulo di rovine”, di cui ricomporre i frammenti di civiltà, in più linguaggi e usanze intorno a un tempo considerato “sacro” dallo scrittore in quanto umano (pur nei contrasti di classe)…Così riesco a spiegarmi la non linearità del racconto, gli scarti temporali, le sospensioni, la pluralità dei soggetti…Un’opera che viene consegnata a noi, ma soprattutto ai posteri perchè sopravviva e, chissà, un giorno ripresa?