Resoconto del ciclo 2016 di conferenze su Benjamin
organizzato dall’Università di Girona
di Alessandro Scuro
Portbou è il primo villaggio catalano sulla costa mediterranea, alle pendici dei Pirenei. Si scende per una strada tortuosa scavata nella roccia, dominando all’orizzonte il mare oltre la rada. Se il panorama è incantevole e degno di una cartolina, lo stesso non si può dire a prima vista del paese: un porticciolo turistico e alcune moderne palazzine, incastrate tra i vecchi edifici rimasti in piedi dai bombardamenti della guerra civile, intorno all’unica spiaggia. Già da lontano, però, quel che nota l’occhio per primo è l’immenso edificio della stazione ferroviaria internazionale, decisamente sproporzionato rispetto all’estensione dell’abitato.
L’inaugurazione della rete ferroviaria e della stazione risalgono ai tempi delle guerre carliste e, da allora, la sua posizione frontaliera ha fatto di Portbou il principale snodo ferroviario tra la capitale catalana e la vicina Francia. È qui, in questo piccolo villaggio dei Pirenei dove nessuno lo conosceva, che Walter Benjamin trovò la fine dei suoi giorni in una notte di fine settembre di settantasei anni fa, in una stanza dell’Hostal Francia. Qui è dove venne seppellito anonimamente in una fossa comune al termine della seconda guerra mondiale, una volta scaduta la concessione del loculo che alcuni amici avevano procurato per le sue spoglie. Oggi nel cimitero di Portbou, costruito su una collina dirimpetto alla stazione, a cingere dall’altro capo la piccola baia, in omaggio a Benjamin esiste una lapide che indica simbolicamente la sua sepoltura; su di essa è incisa, a memoria dei posteri, una citazione particolarmente significativa: «Non esiste testimonianza di cultura che non sia al tempo stesso testimonianza di barbarie».
Ogni anno, in occasione dell’anniversario della sua morte, l’università di Girona, insieme al Memorial democràtic, al MUME (Museo Memorial de l’exili) e ad altre istituzioni locali, dedica una serie di incontri alla memoria del filosofo tedesco, collocando la sua figura e la sua opera nell’ambito dei processi migratori che interessarono la zona, con flussi in entrambe le direzioni, durante la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale. Il tema degli incontri, che si sono tenuti tra il 30 settembre e il 2 ottobre nei locali dell’università di Girona e al centro civico Ca l’Herrero di Portbou, è stato quello della guerra civile nell’epoca contemporanea, con particolare riferimento all’utilizzo delle immagini nella rappresentazione della guerra ai giorni nostri, e un richiamo inevitabile agli eventi della Spagna della seconda metà degli anni Trenta, ad ottant’anni dal sollevamento dei generali.
La fotografia di guerra e la falsificazione mediatica delle immagini dell’orrore è stato il filo conduttore della prima giornata, conclusasi con la tavola rotonda intitolata «Dal divano di casa. La rappresentazione visuale e la ricezione dell’orrore degli altri», alla quale hanno preso parte Imma Merino e Xavier Antich dell’università di Girona, Nicolás Sánchez Durá dell’università di Valencia e Placid García-Planas, neo-direttore del Memoriale democratico della generalità catalana. Il giorno seguente, a Portbou, la discussione si è invece sviluppata intorno ai temi dell’esilio e delle nuove forme di violenza, ed è terminata con un’altra tavola rotonda, alla quale hanno preso parte José Luís Martín Ramos e Javier Rodrigo dell’università autonoma di Barcellona e Sandra Souto, del Consi-glio superiore di investigazione scientifica.
La domenica, a chiusura dell’evento, è stata organizzata una camminata attraverso il confine da Banyuls, uno degli ultimi paesi della costa francese, fino a Portbou. L’itinerario attraverso le mon-tagne ha ricalcato quello percorso da Benjamin nel 1940. Accompagnato da Lisa Fittko, volontaria e militante socialista che in quegli anni si adoperò per far attraversare la frontiera a numerosi fuggiaschi, dopo una prima perlustrazione in cerca di un cammino più sicuro attraverso le vigne, Benjamin, cardiopatico e spossato dallo sforzo, trascorse la notte del 24 settembre all’addiaccio. Proseguirà la strada il giorno seguente, al ritorno dell’accompagnatrice, che lo abbandonerà al suo destino sul ciglio della discesa di Portbou. Fu proprio lei, anni dopo ad alimentare la leggenda intorno alla presunta valigetta che Benjamin portava con sé al momento della fuga, e che avrebbe dovuto conte-nere i suoi ultimi scritti mai ritrovati.
…ancora un racconto di Alessandro Scuro molto denso…e non poteva essere altrimenti visto il luogo di frontiera descritto, Portbou, che porta le tracce e la memoria di tragedie di ieri ancora scottanti, che sembrano ripetersi in teatri vicini e lontani di guerra..Ma a campeggiare nel racconto resta la figura di W. Benjamin rievocata nella sua traversata notturna dei Pirenei, esule e malato : l’ultima fuga prima di togliersi la vita. W. Benjamin speranze per il suo presente doveva averne ben poche, tra una dittatura, una guerra ed una persecuzione razziale…ma lui aveva il suo angelo nella tempesta, che mentre vedeva le macerie, era sospinto verso il futuro
«Non esiste testimonianza di cultura che non sia al tempo stesso testimonianza di barbarie». Questa frase riassume uno degli aspetti centrali della riflessione teorica di Benjamin, ed è alla base del riconoscimento della compresenza di fascinazione e orrore insiti nella fruizione dell’opera d’arte, che poi la critica soprattutto francese (la cosiddetta un tempo “nouvelle critique”) ha provveduto ad amputare, limitandosi a filosofeggiare sul “plaisir” e la “jouissance” del testo
Ringrazio Alessandro Scuro per il resoconto sulla conferenza 2016 su Benjamin.
Invito coloro che hanno a cuore la Poesia a leggere WALTER BENJAMIN: BAUDELAIRE,
con riferimento al sito: http://ilsaggiatorepoesia.com/?p=122
dove tra le varie riflessioni di Benjamin si può trovare che:
“il lirico non è più considerato come il poeta in sé. Non è più il «vate». Che “il pubblico è divenuto più freddo anche verso la poesia lirica che gli era già nota dal passato.” E inoltre che “Baudelaire si è assunto il compito di parare gli shocks da qualunque parte provenissero, con la propria persona intellettuale e fisica. Lo shocks questo elemento è stato fissato da Baudelaire in un’immagine cruda. Egli parla di un duello in cui l’artista, prima di soccombere, grida di spavento. Questo duello è il processo stesso della creazione. Baudelaire ha posto quindi l’esperienza dello choc al centro stesso del suo lavoro artistico. Questa testimonianza diretta è della massima importanza. In balia dello spavento, Baudelaire non è alieno dal provocarlo a sua volta.”
Ubaldo de Robertis