di Luciano Aguzzi
Ferve dappertutto la discussione sull’enigma Trump. Difficile è orientarsi ed evitare prese di posizioni emotive ed estremizzate, tipo: “Addà venì Trump!” o ” Torna l’Ur-fascismo” di cui parlò Umberto Eco ( Cfr. qui). D’altra parte nella situazione caotica d’oggi non c’è neppure la tranquillizzante possibilità del “giusto mezzo”. Perché, in effetti, tutte le categorie che ancora usiamo per pensare questa realtà in sommovimento sono come minimo ballerine e logorate. Possiamo insistere però nella fatica di catturare e selezionare le notizie e le riflessioni che potrebbero aiutare i nostri ragionamenti a capirne qualcosa in più. Pubblico perciò questo intervento di Luciano Aguzzi, che s’inserisce nello scambio (Cfr. Appendice) di opinioni tra me e lui avvenuto su “Poliscritture FB” e spero che altre voci aggiungano dati e riflessioni utili ad approfondire i problemi qui accennati. [E. A.]
@ Ennio Abate
A rigor di logica tu mi contrapponi una serie di differenziazioni di grado e di sentimenti soggettivi, non interpretazioni alternative e incompatibili con la mia. Né, del resto, mi poni specifiche domande a cui rispondere, ma piuttosto una tua valutazione per allargare il dibattito. Quindi, sempre a rigor di logica, non avrei nulla da rispondere che non sia già contenuto nel mio intervento.
Comunque sia, svolgerò alcune considerazioni ulteriori commentando le tue affermazioni che mi sembrano più adatte a restituire alcune chiavi del discorso.
1) Tu scrivi: «E molti degli argomenti contro i “mondialisti” a me paiono addirittura echeggiare le critiche di Edmund Burke all’”astrattezza” dei principi illuministici della Rivoluzione francese». Non ho pensato al teorico inglese, ma il riferimento mi può anche andar bene, visto che l’attuale “mondialismo” ha sicuramente una sua radice nella Rivoluzione francese e visto che le critiche di Burke erano pertinenti e in gran parte condivisibili. Ricorderai certamente che negli anni iniziali della rivoluzione ci fu un acceso dibattito proprio sul significato dell’affermazione dei “diritti universali”. Che significava universali? Che chiunque ne poteva godere alla pari dei francesi? La risposta, in pratica, fu che non era così, che i diritti universali andavano coniugati con la condizione nazionale. Il nazionalismo prevalse sull’universalismo dei diritti e «libertà, fraternità, uguaglianza» si ridussero a menzogneri slogan che la rivoluzione e poi Bonaparte usarono strumentalmente, negandone, di fatto, il contenuto sia in Francia, sia nelle colonie francesi, sia nei vasti territori europei conquistati dalle armate napoleoniche. L’esportazione dei principi rivoluzionari, come oggi l’esportazione della democrazia e dei principi umanitari, servì al “mondialismo” rivoluzionario per instaurare un dominio totalitario e imperialistico, peggiore dell’imperialismo all’inglese. La faccenda si ripeté poi con la Rivoluzione russa, i cui valori internazionalistici si ridussero all’imperialismo bolscevico e il comunismo a una feroce dittatura totalitaria.
2) Tu dubiti che le vecchie categorie siano oggi inservibili (cioè tutte le distinzioni «fra destra e sinistra, fra capitalisti e anticapitalisti, fra progressisti e conservatori, fra ricchi e poveri e così via»). Prova, se ci riesci, a interpretare uno qualunque dei maggiori problemi e aspetti dei conflitti odierni con tali categorie. Ti accorgerai che tutti i conflitti, tutti gli “eventi”, compresa l’elezione di Donald Trump e ciò che ci sta sotto in termini di realtà americana, risultano trasversali a tali vecchie categorie e quindi non comprensibili e nemmeno descrivibili tramite il loro uso. Le vecchie categorie possono ancora rendere conto di alcuni fenomeni circoscritti, ma non di fenomeni complessi ed estesi trasversalmente a molti strati sociali. Né questi fenomeni complessi ed estesi risultano essere una semplice somma di fenomeni circoscritti, ognuno dei quali spiegabile con vecchie categorie. No, perché, oltretutto, i fenomeni circoscritto sono spesso anche in contraddizione fra loro, pur rientrando in una tendenza che poi si “unifica” nel fenomeno Brexit o elezione di Trump o altro. Pertanto la logica “sociologica” dei molti fenomeni circoscritti presi singolarmente non è la stessa logica che li trasforma nel macrofenomeno esteso e li riconduce a una tendenza unificatrice. Sia pure, come sempre nella storia, unificatrice solo provvisoriamente, perché fra qualche anno la tendenza può cambiare. Ad esempio è indubbio che un certo numero di ex elettori di Obama abbiano questa volta scelto Trump. I fenomeni sociali estesi sono sempre il risultato di stratificazioni di cui alcune hanno tendenze più profonde e durevoli nel tempo, altre più mutevoli anche nell’arco di pochi anni. Le vecchie categorie della sinistra non colgono praticamente nulla, se non frammenti, di questa tettonica sociale e dei terremoti che la rendono instabile.
3) Tu scrivi: «globalizzazione/mondializzazione o – diciamolo chiaramente – nazionalismo/autarchia sono le due opzioni generali». No, non è così, non confondiamo categorie, terminologie e definizioni diverse. Non si tratta della stessa erba né dello stesso fascio. La globalizzazione pone di più l’accento su fenomeni economici, di comunicazione, di circolazione e così via; la mondializzazione invece si riferisce con maggiore insistenza a fenomeni di omologazione culturale e politica e di conseguente dominio politico di alcuni strati elitari (con la coda di strati non elitari ma ideologicamente convinti e seguaci). L’opzione alternativa non è il «nazionalismo/autarchia» (e questi due termini, poi, non sono assolutamente la stessa cosa), che col mondialismo possono essere – talvolta, non sempre – in concorrenza per la gestione del potere, ma sempre in accordo con la gestione centralistica ed elitaria del potere stesso. L’opzione alternativa sia al mondialismo sia al nazionalismo è l’affermazione più ampia delle libertà dei singoli individui, e di conseguenza delle comunità in cui i singoli individui si riconoscono e delle libertà collettive (collettive ma basate sulla volontà dei singoli membri, non sovrastanti ad essi come nelle teoriche giacobine, comuniste, fasciste o naziste). L’opzione è la difesa e l’estensione della libertà degli individui e la riduzione dei poteri dello Stato, di qualunque Stato, perché lo Stato è sempre il problema, mai la soluzione. Per i comunisti il discorso libertario, assai più diffuso nell’animo popolare americano che in quello europeo, è un discorso di destra, mentre per la destra tradizionale (ad esempio il fascismo) è un discorso di sinistra. In realtà non è né di destra né di sinistra, non riconosce queste categorie-etichette pubblicitarie e si oppone a tutte le forme di statalismo antilibertario. Mondialismo e nazionalismo estendono la regolamentazione a danno della libertà, il diritto pubblico a danno del diritto privato, il potere di “mamma Stato” a danno dell’autodeterminazione dei singoli e della loro responsabilità. Affermano che “tutto è politico”, mentre di veramente politico c’è solo la difesa della propria vita e della propria libertà, perché il resto dovrebbe e potrebbe essere “tutto privato”.
4) Tu scrivi: «venuta meno la prospettiva storica del socialismo, la scena è tutta occupata dai cosiddetti “populismi” che – questo è un punto forse decisivo – anche se non fossero effettivamente quelli classici della Destra ci assomigliano troppo». La prospettiva del socialismo è venuta meno da molto tempo: da quando il socialismo, anziché fondarsi sulla libertà degli individui e sull’associazione fra di essi, preferì fondarsi sullo Stato: da conquistare, da gestire, da conservare. E lo Stato è il Moloch che ha sacrificato libertà e socialismo per affermare se stesso, il proprio sempre più onnipotente potere. In quanto, poi, all’odierna retorica del populismo, perché non riportare il discorso alla sua verità di base? Il populismo è un frutto tipico e proprio della democrazia, nella sua forma degenerativa (ma può esistere una democrazia non degenerativa, non degradata? Credo di no, perché, contrariamente alla diffusa opinione, democrazia non vuol dire libertà, ma potere della maggioranza presunta manipolata dall’élite di turno ed è un’ideologia tipica dello statalismo, cioè della sovranità dello Stato sui cittadini ridotti a sudditi). Già Polibio descrisse la oclocrazia (governo delle masse, delle moltitudini) come forma deteriorata della democrazia. E il populismo, che si voglia dire di destra o di sinistra, è sempre una forma deteriorata della democrazia, che è una forma di governo sempre troppo facilmente deteriorabile. Anche in questo caso non c’è alternativa al populismo nell’ambito della democrazia eticamente intesa (cioè, di fatto, ideologia dello Stato etico). L’alternativa sta nel diminuire il potere e l’estensione del governo delle masse a favore del governo dell’individuo su se stesso. L’alternativa è un aumento di libertà, non aumento di democrazia come governo di maggioranza.
5) Tu scrivi: «Che poi tra i mondialisti ci ficchi anche “o per ragioni culturali/ideologiche (i buonisti di tutti i tipi, gli assertori dei diritti universali)” […] aumentava la mia diffidenza». Posso capire la tua diffidenza di comunista, ma la storia dimostra che il buonismo è sempre stata un’arma ideologica del mondialismo, sia nelle forme della politica (l’imperialismo non ha sempre avuto pretese buoniste? Civilizzare i selvaggi, esportare la democrazia, l’internazionalismo, la solidarietà ecc. ecc.?), sia in quelle dell’ideologia e sia in quelle delle religioni. In certe forme attuali il buonismo è poi anche psicologia dell’abbandono dei propri valori e del suicidio sociale, tipico fenomeno delle società in decadenza, sotto stress e storicamente depresse, che rinunciano a se stesse e si rassegnano a trasformarsi in “altro”, non ad accogliere a determinate condizioni “l’altro”, ma a trasformarsi e subordinarsi, senza condizioni, nel solo nome di pretesi diritti universali e nella doverosa solidarietà, in “altro”. Ma così facendo anche gli “altri” si trasformano in “altro” e il rimescolamento produce danni a tutti, la bontà miete le sue molte vittime.
6) Tu scrivi: «si capisce che il cuore di Aguzzi batte per i “residenti”». Il mio cuore batte per la libertà degli individui e per il diritto dei “residenti” a gestire se stessi senza intrusioni dittatoriali da parte dello Stato. Che prendano decisioni che condivido o decisioni che io non condivido, riconosco loro il diritto di prenderle. Se le decisioni fossero sbagliate, gli altri hanno il diritto di cercare di convincerli, non quello di imporgli decisioni esterne ed estranee a loro. La battaglia dev’essere di tipo culturale, non combattuta sulla base di leggi e decreti impositivi che negano autonomia alle comunità di base. Sono contrario alla solidarietà per decreto statale (e prefettizio): la solidarietà (altro nome per sostituire l’antico termine “carità” che non è più politicamente corretto), o è libera e volontaria o non è solidarietà, ma mancanza di libertà.
7) Tu scrivi: «Ma questa schematica e idealtipica contrapposizione forse non corrisponde affatto a una realtà, che pare essere molto più frastagliata, intrecciata e vischiosa». Che la dicotomia “mondialisti / residenti” sia schematica è vero, ed è vero che la realtà è sempre “frastagliata, intrecciata e vischiosa”. Ma lo schema, come ogni schema sociologico e politico, deve cogliere la tendenza, la nota dominante, e ricomporre un universo frastagliato altrimenti incomprensibile. Se riesce a farlo, vuol dire che funziona. Schematici non sono forse i concetti dicotomici “borghesia / proletariato”, “lotta di classe” e tanti altri? In dettaglio, la borghesia, come il proletariato, si suddividono in sottogruppi e gruppetti frastagliati e vischiosi e sfuggono alla pretesa di descrizione politica che Marx attribuiva a queste nozioni, tanto è vero che la “lotta di classe” è sempre stata una lotta trasversale, con a capo quasi sempre dei borghesi (Marx, Engels, Lenin ecc.). Tuttavia queste nozioni sono servite a indicare delle tendenze forti, anche se quasi mai dominanti né uniche, che si sono evidenziate in alcuni periodi storici. Sono, pertanto, state categorie che sono servite a comprendere certi fenomeni sociali, che oggi si presentano in maniera diversa e richiedono diverse categorie per comprenderli e descriverli.
8) Tu scrivi: «Se ne dovrebbe dedurre che un Trump sarebbe meno pericoloso di una Clinton? E se poi non fosse affatto un “residenzialista” puro?». Do per scontato che il Trump presidente sarà molto diverso dal Trump candidato alle elezioni, che non è e non sarà un “residenzialista” puro e che, soprattutto, non sarà un libertario antistatalista. Dal mio punto di vista l’America di Trump non cambierà molto da quella di Obama (basti dire che il governo Obama, negli ultimi cinque anni, ha espulso circa due milioni e mezzo di ispanici, anche se a differenza di Trump, che proclama la sua volontà di espellerli, Obama e la Clinton hanno messo la sordina su questi fatti del loro governo). Tuttavia nei discorsi di Trump leggo affermazioni che certamente non appartengono né a Obama né a Hillary Clinton, tipo questo brano: «L’establishment politico di Washington e chi lo finanzia esiste solo per un motivo: proteggere e arricchire se stesso […]. La nostra campagna rappresenta una minaccia esistenziale mai vista prima d’ora. Questa non è semplicemente una sfida elettorale, siamo a un crocevia della storia della nostra civiltà dove si determinerà se il popolo riprenderà il controllo sul governo […]. L’establishment che tenta di fermarci è quello stesso responsabile della disastrosa politica economica ed estera […]. Questa è la lotta per la sopravvivenza del nostro paese e l’elezione deciderà se diventeremo una nazione libera o illusa di esserlo mentre siamo guidati da interessi specifici e lobbistici».
Ma io non sono americano e devo dire che i due candidati mi sono sembrati entrambi pessimi, come persone tout court e come persone politiche. Ma in politica estera, che è poi l’aspetto che più mi coinvolge (la politica interna è affare loro, degli americani) dalla Clinton, falco corresponsabile di guerre e migliaia di morti, vero criminale in senso letterale, non potevo aspettarmi nulla se non ulteriori danni e degradi e tensioni a livello mondiale. Da Donald Trump, se realizzasse anche solo il 10% del suo programma, posso aspettarmi una politica estera più distensiva, con minore presenza militare americana sui vari fronti, compresa l’Europa della Nato. Non sarebbe poco.
9) Tu scrivi: «ma perché sbilanciarsi tanto a favore dei cosiddetti “residenti”?». Mi sembra di avere risposto. La tendenza è che i mondialisti prevalgano, e non sono contrario a una maggiore unificazione mondiale e alla diffusione dei diritti civili e umanitari in genere. Ma sono contrario al modo in cui ciò sta avvenendo. Non sta avvenendo per libera e progressiva integrazione culturale, economica, sociale e politica, ma per strappi e tagli e imposizioni dittatoriali del potere mondialista, con danni umani e di ogni tipo a danno dei “residenti”. Questa dei mondialisti di oggi non è una politica a favore della diffusione dei diritti, nel rispetto delle libertà e dei diritti di tutti, ma è una guerra che usa strumentalmente i diritti per sopprimere ogni rimanente libertà dei residenti e trasformarli in pedine fungibili manovrate dal potere delle élite. Fino al punto, paradossalmente assurdo eppure reale e riscontrato quotidianamente, che certi diritti che lo Stato riconosce agli “altri” (ad esempio gli immigrati) non vengono riconosciuti ai propri cittadini “residenti”, trattati da cittadini di serie B. E perché i residenti non dovrebbero incazzarsi?
Se poi l’arroganza dei mondialisti arriva a qualificare i residenti che protestano (e ce ne sono sempre di più, in tutta Europa e negli Usa) come razzisti e xenofobi, dimostra solo la sua malafede e l’ideologico e strumentale fanatismo del “buonismo” alla Boldrini. Non si tratta di xenofobia e di razzismo, ma di spontanea e corretta (spesso, non sempre, ma la tendenza è questa) reazione a una tragedia che il mondialismo strumentalizza. Infatti, il fenomeno odierno dell’immigrazione presenta tre aspetti decisivi, presenti in Italia e, in misure diverse, in tutti i Paesi meta dei flussi migratori:
a) Si tratta di una emigrazione di massa e con la prospettiva di durare decenni o secoli, il che rappresenta un fenomeno diverso dall’emigrazione sporadica.
b) È un fenomeno che avviene troppo velocemente e non c’è possibilità, né prospettive nemmeno a medio termine, di reale integrazione.
c) Il fenomeno, nonostante la sua gravità e le conseguenze che produce in termini di conflitti, violenze, criminalità, degrado della qualità della vita praticamente dovunque, sia nei quartieri poveri sia in quelli ricchi, sia nelle città sia nelle campagne, non è governato adeguatamente. Nonostante, dunque, che rappresenti una vera tragedia sia per chi arriva sia per chi li dovrebbe accogliere, il fenomeno non è governato e si lascia che produca le sue conseguenze a macchia d’olio. Non è adeguatamente governato (ma io direi che, in Italia, non è governato affatto) per incapacità del governo? o per un deliberato proposito? Qualunque sia la risposta, il fatto resta: una tragedia colossale come questa emigrazione di massa viene costantemente e volutamente sottovalutata e se ne scaricano le conseguenze maggiori sulla popolazione meno difesa, negando persino che esista un problema di governo del fenomeno, se non in termini di imposizione della “solidarietà” e di soccorso “umanitario”.
Se il governo non vuole e/o non è capace di governare il fenomeno, l’alternativa – che per me sarebbe la prima opzione, non la seconda – è che il fenomeno venga governato dai comportamenti liberi e spontanei dei cittadini. Chi vuole accogliere stranieri, dovrebbe essere libero di farlo, a spese proprie. Chi non vuole accoglierli, dovrebbe essere libero di farlo e non costretto contro le proprie convinzioni. Lo Stato non dovrebbe mantenere gli stranieri a spese dei cittadini (ora costano oltre quattro miliardi all’anno, una cifra enorme sulla spartizione della quale prosperano speculazioni, corruzioni, forme di criminalità organizzata), ma dovrebbe lasciare che si mantengano da soli, se trovano lavoro, o che decidano di andare altrove. Lo Stato dovrebbe inoltre impedire le attuali diffuse forme di criminalità e di mendicità, e pretendere sempre il rispetto della legislazione nazionale.
[Luciano Aguzzi, martedì 15 novembre 2016]
APPENDICE da “Poliscritture FB)
Luciano Aguzzi 9 novembre alle ore 11:51
Donald Trump 45° presidente degli USA
Trump ha vinto come era stato previsto da quei pochi che, a differenza dei troppi sondaggisti, dei maggiori giornali americani, dei gruppi di potere e di molti fra gli stessi uomini che più contano nelle file del partito Repubblicano; di quei pochi, dicevo, che anziché ascoltare il fumo dei desideri e scambiarlo per realtà, hanno ascoltato la testa e la pancia dell’America cosiddetta profonda: delle periferie, delle campagne, dei monti, dei deserti, delle fabbriche, delle attività economiche concrete e non dell’establishment finanziario, bancario, giornalistico ecc. Un paio di sondaggisti minori l’avevano capito, altri avevano capito che le cose non sarebbero andate come si credeva, ma non avevano previsto questo risultato. La campagna elettorale della Clinton e di Obama ha parlato alla superficie, non ha colto quei movimenti profondi che stanno cambiando l’America, come hanno cambiato la Gran Bretagna della Brexit e il clima sociale e politico di molti Paesi europei.
Come in altre occasioni (Brexit innanzitutto) si sono nettamente delineati due modi di pensare e di progettare il futuro che hanno diviso in due gli Usa, come dividono in due l’Europa. E la spaccatura non passa fra categorie vecchie, ormai inefficienti, cioè fra destra e sinistra, fra capitalisti e anticapitalisti, fra progressisti e conservatori, fra ricchi e poveri e così via. Ma piuttosto passa attraverso due modi diversi di concepire il Paese e i suoi rapporti con l’estero.
Da una parte ci sono i cosiddetti “mondialisti”, come ormai sono stati chiamati da diversi commentatori politici, che sono quello strato consistente della popolazione che guarda con più interesse ai legami internazionali che a quelli interni al paese. Non si tratta però di sola politica estera, ma di una visione complessiva, direi di una nuova ideologia. I mondialisti hanno interessi trasversali, senza confini, o almeno credono di averli. Sono coloro che operano nel mondo della finanza, delle banche, di un certo tipo di industria e di attività commerciali non legate al territorio; sono coloro che lavorano nelle università e si concepiscono come una élite intellettuale e delle competenze cosmopolita; sono gli emigrati di successo che si trovano bene nel nuovo paese in cui si sono trasferiti e non concepiscono le frontiere se non come un vincolo da abbattere; sono coloro che sono sempre in movimento e per i quali conta più vivere in un certo tipo di ambiente che ha rotto i ponti con i Paesi, le nazioni, gli Stati, se non per utilizzarne strumentalmente le opportunità. Insomma, i mondialisti proiettano se stessi in una concezione mondiale dei rapporti sociali, culturali, politici ecc.
I mondialisti hanno poi a loro favore, in genere, anche chi non ha gli stessi interessi, ma aderisce a questo orientamento o per ragioni pratiche (ad esempio i dipendenti degli organismi internazionali, della burocrazia degli Stati ecc.) o per ragioni culturali/ideologiche (i buonisti di tutti i tipi, gli assertori dei diritti universali).
I mondialisti sono per i diritti civili, per l’apertura delle porte e la costruzione dei ponti agli emigranti, per uno Stato più centralistico e assistenzialista che serva da ammortamento dei conflitti sociali, ecc. e non tengono conto dei legami “naturali”, da quelli familiari a quelli di comunità in cui si vive a quelli nazionali. Di conseguenza i mondialisti sono contro la tradizione, o almeno ne tengono poco conto; ritengono che una legge che stabilisca qualcosa valga più di secoli di storia del costume e della mentalità.
Contro i mondialisti è gradualmente cresciuta un’opposizione, che in qualche caso si è trasformata in movimento (la campagna elettorale di Trump ha costituito un movimento, quella di Hillary Clinton solo un aggregato di fan di diversa provenienza, che spesso hanno scelto la Clinton considerandola il male minore, senza entusiasmo). Questa opposizione si può chiamare “opposizione dei residente”, direi quasi “dei nativi”. Cioè di quelle componenti della popolazione più legate al territorio, alle comunità di base, al loro lavoro concreto, ai legami di solidarietà che non si appoggiano su principi generali ma sulla vicinanza geografica e di costume.
Ma non è uno scontro fra pancia e testa, come molti commentatori ripetono, ma piuttosto fra la maggiore concretezza di pancia e testa dei “residenti” contro la maggiore astrazione dei diritti, e interessi, generali delle pance e teste mondialiste. Anche i mondialisti, spesso, ragionano di pancia, ma si tratta di pance diverse.
Fra i mille esempi che si potrebbero fare, basti seguire l’andamento degli umori religiosi dei cattolici americano sempre più stanchi del mondialismo di papa Bergoglio. Certo, per i residenti cattolici la solidarietà è un valore, ma non va espressa allo stesso modo per tutti, bensì va data la preferenza ai più vicini: ai familiari, ai parenti, agli abitanti della proprio comunità e così via. La psicologia dei pretesi diritti universali e quella diversa della vicinanza (tradizione, costume, conoscenza diretta ecc.) sono diverse e suggeriscono strade diverse.
Hillary e Obama hanno cercato di conquistare, riuscendoci solo parzialmente, il voto degli afroamericani, degli ispanici e di altri componenti in linea con la loro concezione, molto europea e poco in linea con la tradizione americana, di welfare e di solidarietà; ma non hanno saputo parlare agli americani bianchi, agli operai disoccupati vittima della chiusura delle fabbriche in diversi Stati, ai ceti medi che hanno visto ridurre ai minimi termini la propria condizione, agli imprenditori che si vedono ostacolati da leggi imposte dall’ideologia dei diritti universali, come ad esempio i minimi di salario, che pongono ostacoli e costi insormontabili ad artigiani e piccola industria. Ai tanti che credono nella libertà, come valore di fondo dello spirito americano, e nell’iniziativa privata, e che si sono sentiti umiliati dalla politica di Obama che avrebbe voluto trasformare gli americani in “mangia rane”, cioè in europei, abituati a vivere con minore libertà e sotto l’ombrello protettivo di mamma Stato che pensa a tutto.
Infine, ma qui sto ricordando solo pochissimi aspetti, in un rapido schizzo, e ci vorrebbe ben altro spazio per esaminare la situazione nel dettaglio; Obama e la Clinton sono i responsabili di migliaia di morti, delle guerre intraprese in nome della diffusione della democrazia e che hanno invece creato il caos in Libia come in Iraq, in Siria e altrove, hanno foraggiato il terrorismo islamico, hanno contribuito a diffonderlo in Europa e negli Usa. I residenti sono invece più propensi a una politica cauta, prudente, isolazionista, dove gli americani difendono i loro interessi soprattutto a casa loro. Ciò comporta anche la volontà di ridurre i flussi di emigrazione nei confronti degli ispanici (Messicani soprattutto) e degli islamici visti come potenziali nemici.
L’ideologia dei residenti è di fatto la loro terra, il legame con la patria, non tanto intesa in senso statale e nazionalistico, ma nel senso classico di terra in cui si è nati, dove sono sepolti gli avi, dove vivono gli amici, dove si svolge la propria vita. E dei legami che questa concezione crea, legami naturali, spontanei e pre-statali.
L’ideologia dei mondialisti, con molta ipocrisia e molto strumentalismo, è quella dei diritti universali, della globalizzazione, del mondo intero da ridurre tutto uguale, soppresse le differenze delle tradizioni e della storia. Fra cui anche le pratiche democratiche, che si riducono sempre più a mere formalità ininfluenti sull’effettivo cammino della globalizzazione.
Da un lato, si potrebbe dire che l’eroe dei residenti è il cittadino libero, che si fa da sé, che difende la terra e la famiglia, che combatte contro le intrusioni dello Stato sempre più invasivo e prepotente. Dall’altro, l’eroe del mondialista è lo Stato protettore ed erogatore di diritti universali, lo Stato che limita la libertà e non riconosce le autonomie delle organizzazioni naturali dei cittadini, lo Stato che si assume compiti che non gli spetterebbero e che aumenta continuamente il peso fiscale per accrescere il potere e tenere sotto controllo i cittadini. Lo Stato, infine, che non si identifica con la “Patria” in senso tradizionale e retorico, ma con uno strumento di intervento in mano ai mondialisti, i quali lo trasformano in fonte di potere, di privilegi, di guadagni parassitari e di differenziazione rispetto agli altri.
Entrambe le posizioni – mondialisti e residenti – hanno una parte di ragione e una parte di torto. Lo scontro si acuisce quando gli uni non tengono conto delle ragioni degli altri, si irrigidiscono in posizioni ideologiche, non pragmatiche e non realiste, e soprattutto quando il mondialismo cammina troppo veloce e travolge i residenti, senza dare a nessuno il tempo di trovare un punto di reciproca integrazione e di rivitalizzazione dei valori della tradizione in forme aggiornate. Ma nella fretta del mondialismo c’è l’ansia del potere, del guadagno e della speculazione che gli suggerisce di non rispettare le ragioni e i diritti degli altri.
Per questo, a mio parere, in questa fase storica, il mondialismo è più pericoloso del “residenzialismo”, anche se a breve e lungo termine risulterà vincitore. E avremo allora una spaccatura sempre più evidente con una classe politica ed economica che se ne va per conto suo e una popolazione subalterna sempre più scontenta, magari alle prese con quelle “guerre tra poveri” promosse dalle dissennate politiche mondialiste e che servono per sviare la rabbia dei popolo e renderlo sempre più subalterno al potere statale.
[Luciano Aguzzi]
Ennio Abate 12 novembre alle ore 22:22
Non mi convince la lettura di Aguzzi su Trump presidente USA. Trovo la sua contrapposizione tra “mondialisti” e “residenti” (o quasi “nativi”) troppo “culturalista”. E molti degli argomenti contro i “mondialisti” a me paiono addirittura echeggiare le critiche di Edmund Burke all’”astrattezza” dei principi illuministici della Rivoluzione francese.
Davvero questi «due modi di pensare e di progettare il futuro che hanno diviso in due gli Usa, come dividono in due l’Europa» avrebbero ormai definitivamente reso inservibili in blocco le « categorie vecchie», cioè tutte le distinzioni «fra destra e sinistra, fra capitalisti e anticapitalisti, fra progressisti e conservatori, fra ricchi e poveri e così via»?
Ne dubito. Concorderei di più se dicesse che globalizzazione/mondializzazione o – diciamolo chiaramente – nazionalismo/autarchia sono le due opzioni generali entro le quali le classi dirigenti occidentali si dibattono per tentare di uscire dalla crisi che le attanaglia e le contrappone. E se aggiungesse che, venuta meno la prospettiva storica del socialismo, la scena è tutta occupata dai cosiddetti “populismi” che – questo è un punto forse decisivo – anche se non fossero effettivamente quelli classici della Destra ci assomigliano troppo. E parlo di Trump, Putin, Le Pen, Salvini e – in maniera più ambivalente e confusa – Renzi e M5S. (Visto che il populismo “di sinistra”, auspicato o intravisti da qualcuno in Sanders, è rimasto sulla carta).
Che poi tra i mondialisti ci ficchi anche « o per ragioni culturali/ideologiche (i buonisti di tutti i tipi, gli assertori dei diritti universali).» I mondialisti sono per i diritti civili, per l’apertura delle porte e la costruzione dei ponti agli emigranti, per uno Stato più centralistico e assistenzialista che serva da ammortamento dei conflitti sociali, ecc. e non tengono conto dei legami “naturali”, da quelli familiari a quelli di comunità in cui si vive a quelli nazionali… aumentava la mia diffidenza…
Da come dipinge i due raggruppamenti, si capisce che il cuore di Aguzzi batte per i “residenti”. Oh, com’è da lui abbellita, resa autentica, spontanea, democratica (con un sapore d’antan) la loro ideologia!
E, infatti, scrive: « si potrebbe dire che l’eroe dei residenti è il cittadino libero, che si fa da sé, che difende la terra e la famiglia, che combatte contro le intrusioni dello Stato sempre più invasivo e prepotente».
E com’è, invece, «ipocrita», strumentale, omogeneizzante, cieca alle « differenze delle tradizioni e della storia » l’ideologia dei mondialisti!
E, infatti, scrive:«l’eroe del mondialista è lo Stato protettore ed erogatore di diritti universali, lo Stato che limita la libertà e non riconosce le autonomie delle organizzazioni naturali dei cittadini, lo Stato che si assume compiti che non gli spetterebbero e che aumenta continuamente il peso fiscale per accrescere il potere e tenere sotto controllo i cittadini. Lo Stato, infine, che non si identifica con la “Patria” in senso tradizionale e retorico, ma con uno strumento di intervento in mano ai mondialisti, i quali lo trasformano in fonte di potere, di privilegi, di guadagni parassitari e di differenziazione rispetto agli altri».
Ma questa schematica e idealtipica contrapposizione forse non corrisponde affatto a una realtà, che pare essere molto più frastagliata, intrecciata e vischiosa. Aguzzi salomonicamente e prudentemente ammette anche che «entrambe le posizioni – mondialisti e residenti – hanno una parte di ragione e una parte di torto». E però alla fine cede a una conclusione sbrigativa: «in questa fase storica, il mondialismo è più pericoloso del “residenzialismo”, anche se a breve e lungo termine risulterà vincitore».
Se ne dovrebbe dedurre che un Trump sarebbe meno pericoloso di una Clinton? E se poi non fosse affatto un “residenzialista” puro? Se, come dice l’articolo di Fumagalli che ho appena segnalato qui su “Poliscritture FB”, non è così sicuro che« Trump, che si è posto a parole come paladino contro il potere finanziario, voglia realmente operare per ridimensionare tale potere» e può rivelare anche lui un’anima un po’ “mondialista”?
Non voglio dire che le “vecchie” categorie permettono di capire di più il nuovo imbroglio che stanno preparando contro la “gente comune” questi ceti dirigenti in crisi e in contrasto tra loro, ma perché sbilanciarsi tanto a favore dei cosiddetti “residenti”?
La vittoria di Trump mi porta drasticamente all’annosa domanda “Chi siamo?”.
Risposta: gli umani dovrebbero avere l’accortezza di ricordarsi di appartenere alla specie animale; in quanto animali non possono aspirare a modelli di vita sovrumana ma, nella migliore delle ipotesi, contentarsi di individuare e riconoscere alcune qualità specifiche della propria specie; tra queste l’aggressività, l’avidità-tornaconto-egoismo, dominio, sazietà e menefreghismo: insomma, tutte qualità tipiche degli animali predatori, con in più l’acume necessario per poterne esagerare – portarsi avanti in previsione di – perché non siamo affatto buoni, tutt’al più buonisti. Fossimo buoni saremmo anche cannibali. Davvero, ancora non riesco a capire cosa ci trovino di tanto interessante gli storici in quel che abbiamo combinato, socialmente, fin qui. La Rivoluzione francese ha prodotto generazioni di schiavisti vocati alla grandeur nazionalista, la Rivoluzione russa allo statalismo più asfissiante, e lasciamo stare le altre tirannie… che a conti fatti sarebbero più veritiere perché aderenti alla nostra vera natura. Poi, è ovvio, come altri mammiferi ci diamo da fare per “amarci” e proteggere la prole.
Dunque, secondo me, più che discutere di Trump dovremmo rispolverare Darwin e porre la nostra attenzione su fattori evolutivi: più che interpretare queste votazioni americane, dovremmo considerare il fattore tempo, in termini di ere!
L’umanità non è impazzita, è sempre stata così. Alcuni, vedi il Ku Klux Klan, si attardano su livelli di primitiva sembianza; altri, le varie monarchie, sul modello dell’alveare con tanto di Ape-regina; altri ancora sul continuo rattoppamento del sistema democratico: sistema che non tiene minimamente in considerazione, per l’appunto, la natura umana per come realmente è. E quindi non gliela si fà.
Quindi la questione che mi porrei è la seguente: visto e considerato che siamo animali (mangiare, bere, accoppiarci, essere più ricchi dei poveri), e visto e considerato che questo è lo stato delle cose – siamo così, prendiamone atto; nemmeno nichilisti, no, queste sono solo idee (oh sì, oh sì non sono le idee quelle che ci mancano, ne abbiamo cassetti, anzi silos, anzi arsenali pieni di idee e classificazioni ) – menti ruminanti, ancora alle prese con la sopravvivenza malgrado tutti si spacchino la schiena da mane a sera per produrre tanta ricchezza da coprirci l’Everest… – COME M…A SI PUò FARE X POTER VIVERE BYPASSANDO LA DEFINIZIONE NAZISTA DEL “GUADAGNARSI DA VIVERE”, COME SE IL GUADAGNARE FOSSE L’UNICO SCOPO PER IL QUALE SIAMO AL MONDO? Avevano ragione i nostri vecchi” mettiamo al mondo più figli così ci facciamo un’azienda”, mentre oggi se ne fanno meno per la stessa ragione: perché manca denaro e lavoro!
TRUMP! più che un nome, un vero ruggito.
Allo stato attuale della nostra evoluzione temo qualsiasi rivoluzione.
Dal prossimo anno se non paghi il bollo dell’auto ( bollo auto significa che la macchina non te la sei pagata ma l’hai avuta in prestito) te la sequestrano; così se la prendono in quel posto tutti gli “evasori” che a quel lusso non avevano diritto – e magari gli serve per poter lavorare, quindi sopravvivere. L’elenco delle malefatte sarebbe troppo lungo. Ma mettiamoci pure qualsiasi altra faccenda; l’Europa ad esempio: ma chi si meraviglia più dei giochini con lo spread, delle manovre “per bene” di un sistema reso falso e sbilenco perché segnato da poverofobia e cattolicesimo? Era meglio nel Medioevo, quando ti appendevano in una grata fuori dalle mura delle città: almeno sapevi bene con chi avevi a che fare.
…Luciano Aguzzi dice, riguardo all’immigrazione, che la prima opzione sarebbe che “..il fenomeno venga governato dai comportamenti liberi e spontanei dei cittadini” e non dai governi…Non che abbia grande fiducia in quest’ultimi, tuttavia pensare di far cozzare tra loro le cosidette “libertà” mi sembra insensato. Ho, infatti, un concetto di libertà, intendo quella reale, molto ristretto…Da una parte quella che consideriamo “la libertà” di un certo comportamento può essere la conseguenza di una “necessità” legata alle condizioni contingenti, dall’altra può essere una spinta “egoistica”, legata ad altre condizioni contingenti…E storicamente sono interscambiabili queste condizioni nello stesso territorio, da qui la relatività dei concetti di mondialisti e residenti…Noi italiani ora siamo più residenti, un tempo più mondialisti. Sono invece d’accordo con L. Aguzzi quando dice che i secondi, ma allora sono uomini di governo e di potere, spesso accampano la credenza in valori universali per giustificare guerre coloniali e imperialiste
Il 10 Novembre ero a Bisaccia, in Alta Irpinia. Non avevo nessuna ansia di sapere chi fosse il vincitore delle elezioni presidenziali americane. Mentre ci preparavamo la colazione, Giuseppina mi fa: «Accendi ‘sta televisione…Vediamo chi è il nuovo Presidente statunitense…» «Trump…», le rispondo e non perché fossi rimasto in piedi la notte. Anzi, avevo dormito profondamente. Perché me lo sentivo dentro. Infatti. Non ho accolto, quindi, la vittoria di Trump con meraviglia, stupore, sconcerto. Da anni il senso comune e il pensiero dominante non sono né democratici, né socialisti, né “politicamente corretti”. Basta mettere il naso fuori di casa o fuori dai propri social e siti di riferimento per sentirsi ripetere pensieri osceni ed indicibili sugli immigrati (la migliore è che se ne stiano a crepare nei loro luoghi di nascita), per raccogliere rancori e rabbie represse sul declino del proprio status economico-sociale, sulle donne che si sono montate la testa e che farebbero bene a fare figli e a starsene a casa, sui “froci” e sulle lesbiche che ora pretendono persino di sposarsi, sul mondo che è diventato un caos e va alla deriva, sulla necessità di un uomo forte e coi cabasisi sulla tolda di comando, ecc. ecc. Certo, ci sono per fortuna tante persone che la pensano diversamente. Ma pure queste ormai sono disorientate: non sanno con chi prendersela. Viene loro ripetuto che “Destra” e “Sinistra” sono categorie ottocentesche, obsolete; che la lotta tra le classi è ormai rottamata; che non esistono più lavoratori e padroni, sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori, ecc. ecc. (proposizioni ripetute contro qualsiasi evidenza ); che tutti questi sono discorsi del secolo scorso, otto-novecenteschi, vecchi, incapaci di interpretare il “nuovo che avanza”. E qual è il nuovo che avanza?…Jobs act, voucher, caporalati, lavori neri o da schiavi, possibilità di licenziare come e quando si vuole, disoccupazioni, Costituzioni sotto i piedi, muri “democratici” e “antidemocratici”, Trump, Salvini, Farage, Orban…
Per esprimermi alla Trump, di tutte queste chiacchiere ne ho piene le palle. I leader, le persone, le proposte politiche ed elettorali, i partiti, i movimenti, le organizzazioni, per quanto mi riguarda, li giudico e continuerò a giudicarli sulla base della risposta che danno a queste domande (in ordine rigorosamente gerarchico):
1. – Sono anticapitalisti?…Sono antiliberisti?…Si propongono o no di tagliare i profitti dei capitalisti, i redditi da capogiro di banchieri, finanzieri, miliardari, amministratori delegati, manager, ecc.?…Se continuano a tirarmi in ballo soltanto “la casta” dei politici, li mando a quel paese.
2. – Sono democratici al proprio interno e nel rapporto con gli altri?…Democratico per me vuol dire “tutela delle minoranze”. Democratico non è chi si affida alla maggioranza, ma chi si preoccupa di non togliere la parola e soffocare la vita delle minoranze. Tra l’altro, occorre tener presente che le “maggioranze” in nome delle quali governano oggi molti presidenti occidentali (e non) sono maggioranze per modo di dire. In fondo Trump ha conquistato in assoluto meno voti di Hillary Clinton…
3. – Quali valori propugnano e praticano?…Sono per l’eguaglianza assoluta degli esseri umani?…Combattono per la loro dignità?…Oltre alla libertà, praticano la fraternità?…Sono interessati alle élite o al popolo?…Pensano che la storia sia fatta dalle grandi personalità o dalle masse popolari e dalle classi sociali?…
Potrei dilungarmi. Ma ci siamo compresi. Sulla base di questi miei criteri ritengo di non aver nulla a che spartire con Trump. In verità, neanche con Hillary Clinton. Sebbene fra i due, per quanto mi riguarda, credo che ci siano delle differenze e, se fossi stato un elettore statunitense, prima di non andare a votare o di deporre nell’urna una scheda nulla, ci avrei pensato su una decina di minuti. Comunque, cosa farà Trump e come influirà sulla mia (sulle nostre) esistenze?… Non lo so. So che sicuramente non farà nulla di sostanziale per i suoi elettori “dimenticati”: operai, artigiani, impiegati proletarizzati, anziani, poveri, abitanti di piccoli centri e campagne, ecc. Ammesso che siano questi i suoi veri elettori e non anche ricchi capitalisti. Ecco, infatti, cosa leggo sul Manifesto di oggi (16.11.2016) in un articolo di Loris Caruso:
«Ma il voto popolare è stato determinante nella vittoria di Trump? No, questo al momento non può dirlo nessuno. Se vogliamo prendere per buoni gli unici dati che abbiamo, gli exit poll della Cnn, il quadro che emerge è completamente diverso da quello che domina i commenti post-voto. La vittoria di Trump è massima tra i ceto medio-alti. Tra chi ha un reddito inferiore ai 30.000 dollari, Clinton prende il 53% e Trump il 41. Nell’elettorato tra i 50 e i 100.000 dollari, Trump vince 50 a 46. Tra i ricchi (più di 100.000 dollari) sono quasi pari, ma vince Trump: 48 a 47.»
Non farà nulla di sostanziale, dicevo, per le classi popolari e lavoratrici “dimenticate” e, se non tiene a bada i suoi, rischia di scatenare una “guerra civile” più o meno strisciante. Protezionismo?… Ci penseranno i suoi amici capitalisti a fargli cambiare idea. Isolazionismo in politica estera?…Ci penseranno i generali del Pentagono a fargli capire che gli USA hanno “interessi vitali” in giro per il mondo…
Insomma, dalla mia minuscola e assai periferica specola tutta questa “rivoluzione” trumpiana al momento non la vedo. Ciò che vedo, invece, è che le destre conservatrici e reazionarie, nazionaliste, xenofobe e razziste mondiali pensano di aver trovato un ottimo amico e punto di riferimento. È il presidente degli Stati Uniti, dell’economia e complesso militare-industriale più potente del mondo…Ma Trump potrà diventare il loro capo?
Secondo me, oggi sarebbe “democratico” ripristinare la terza classe nelle ferrovie, e sugli autobus i posti per gli immigrati.
In contemporanea su due grandi quotidiani italiani leggo stamattina due articoli che suscitano il mio interesse. Il primo è di Christian Salmon su “la Repubblica”, il secondo, sullo stesso argomento, è di Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. Lascio stare il secondo e mi concentro sul primo.
Christian Salmon è un ricercatore e scrittore francese noto per i suoi studi sul fenomeno dello storytelling, ossia l’arte di raccontare storie. In italiano sono stati tradotti «Intervista a Milan Kundera» (Minimum fax, 1999), «Diventare minoritari. Per una nuova politica della letteratura» (con Joseph Hanimann, Bollati Boringhieri, 2004), «Storytelling. La fabbrica delle storie» (Fazi Editore, 2008), «La politica nell’era dello storytelling» (Fazi Editore, 2014).
Ebbene, quali tesi sostiene in questo articolo? Eccole di seguito con le mie considerazioni tra parentesi quadre:
1. – Per cominciare, un interessante citazione di Hannah Arendt: «Il suddito ideale del regno totalitario non è il nazista convinto, ma l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più.» Eccellente definizione di Donald Trump, sostiene Salmon. La sua campagna elettorale (contenuti, modalità, forme, strumenti, ecc.) ha, infatti, abbondantemente cancellato questa distinzione, permettendogli così di conseguire l’elezione a Presidente.
[Domanda: l’ha fatto soltanto Donald Trump?…Ovviamente, no. Ma diciamo che il miliardario l’ha fatto in modo esemplare.]
2. – Negli Usa è stato coniato un neologismo «per designare questa nuova era di menzogna politica, “la politica del post-verità”. L’incontro dei movimenti populisti e dei social network avrebbe creato un nuovo contesto e un nuovo regime di verità caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, torri di informazione immuni ai checks and balances tradizionali che facevano da arbitri nello spazio pubblico. Gli individui ormai possono scegliere la loro fonte d’informazione in funzione delle proprie opinioni e dei propri pregiudizi, in una sorta di inviolabilità ideologica che è anche una forma di autismo informativo. »
[Il che significa che non esiste, se mai è esistita, “un’opinione pubblica”, ma una frammentazione delle opinioni pubbliche, ognuna con le proprie “bolle informative”, pregiudizi, ideologie…Domanda qual è oggi la “bolla informativa” di una sinistra che si vorrebbe antagonista al capital-liberismo? Qual è il suo “regime di verità”? Come uscire dall’”autismo informativo” in cui è probabilmente immessa?…]
3. – Durante la campagna elettorale presidenziale, si è assistito a una particolare “isterizzazione del dibattito pubblico” che, secondo lo scrittore francese, può essere spiegata risalendo a ciò che disse nel 2002 un consigliere di George W. Bush a Ron Suskind, editorialista del “Wall Street Journal” dal 1993 al 2000 e dal 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione alla Casa Bianca: «Mi disse che le persone come me [ossia, come Ron Suskind] facevano parte “di quella che chiamiamo la comunità della realtà [reality-based comunity]: voi credete che le soluzioni emergano dalla vostra giudiziosa analisi della realtà osservabile”. Io assentii e mormorai qualcosa sui principi dell’illuminismo e l’empirismo. Lui mi interruppe: “Non è più così che funziona realmente il mondo. Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo”».
[Ho già letto questa confessione da qualche altra parte. Non ricordo dove. Qui è in discussione il concetto di “realtà”. Mi pare giusto affermare che chi sente “attore della storia”, crei storia. Il problema nostro è che, ormai, da diversi decenni, non ci sentiamo più “attori della storia”. Di conseguenza, non agiamo più e non creiamo più quasi nulla. È la nostra lotta politica ad essere bloccata. Non quella degli altri, che la fanno con menzogne e mezze verità. In tutti i modi possibili, pur di tenerci in un angolo, dimenticati e paralizzati. Noi potremmo farla sbandierando la verità, ma non lo facciamo…Perché?]
Comunque, secondo Christian Salmon le frasi riportate da Suskind «ostentano una nuova concezione dei rapporti tra la politica e la realtà: i dirigenti della prima potenza mondiale si allontanano non soltanto dalla Realpolitik ma anche dal semplice realismo, per diventare creatori della loro realtà, rivendicando quella che potremmo definire una Realpolitik della finzione.»
Assistiamo di conseguenza ad una sconfitta sia dei sostenitori del “dibattito pubblico” illuministico e razionale (non importa se siano repubblicani o democratici), sia dell’empirismo (“i fatti separati dalle opinioni”). L’obiettivo, sostiene Ron Suskind, è l’eliminazione del giornalismo d’inchiesta: «Così non ci rimarrà più nient’altro che una cultura e un dibattito pubblico fondati sull’affermazione invece che sulla verità, sulle opinioni invece che sui fatti.»
[Domanda: perché non proviamo a farlo noi il “giornalismo d’inchiesta”?…Perchè non proviamo a raccontare le storie VERE (non finte) dei disoccupati, degli immigrati, dei dimenticati, ecc. ecc.?]
4. – Richiamando il ruolo che hanno avuto ed hanno i diversi strumenti di comunicazione di massa nella conquista e nell’esercizio del potere (la radio per Roosevelt, la televisione per Kennedy, ecc.) e facendo propria un’osservazione del neuroscienziato Antonio Damasio («Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazioni 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere.»), lo scrittore francese sottolinea quanto segue: «In società ipermediatizzate, percorse da flussi di informazioni continui, la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista e dell’esercizio del potere.»
[D’accordo. Questo significa che se vogliamo ricostruire un Noi, se vogliamo “strutturare una visione politica” dobbiamo uscire dal circuito informativo 24 ore su 24. Dobbiamo darci tempo per riflettere, elaborare le nostre storie, organizzare…Forse oggi l’esodo da proporre è questo.]
5. Conclusione: «L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto culminante di questa evoluzione. Con lui, è l’universo dei reality che entra alla Casa Bianca. Più che di costruire la realtà si tratta di produrre un reality show permanente. Il reality show trumpista è un telecarnevale in cui va in scena senza posa il capovolgimento dell’alto e del basso, del nobile e del triviale, del raffinato e del volgare, il rifiuto delle norme e delle gerarchie costituite, la rabbia contro le élite. Trump è una figura del trash del lusso che trionfa sotto i segni del volgare, dello scatologico e della derisione. “Ho messo il rossetto a un maiale”, secondo le parole del suo ghost- writer Tony Schwartz. Ai bianchi declassati, che hanno rappresentato il cuore del suo elettorato, propone una rivincita simbolica, la restaurazione di una superiorità bianca scossa dall’avanzata delle minoranze in una società sempre più multiculturale, specchio dei media e degli intellettuali. È contro questo specchio che Trump ha incanalato la rabbia verso le élite, gettando discredito sugli uni e ridando credito agli altri al prezzo di menzogne di ogni genere. È questo bisogno di rappresentazione che Donald Trump è riuscito a captare e trasformare in capitale politico. “Io assecondo le fantasie della gente. La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grande, la più eccezionale, la più spettacolare. Io la chiamo iperbole reale. È una forma innocente di esagerazione e una forma efficacissima di promozione.” Dalla sua autobiografia: “Trump: l’arte di fare affari”.»
[Se tutto questo è vero, i bianchi declassati si accontenteranno di questa “rivincita simbolica”?…È vero, che non di solo pane vive l’uomo e che i simboli hanno la loro importanza, ma bastano?…]
LA LEZIONE DI TRUMP.
1.
Anche – e forse soprattutto – dagli eventi indesiderati si possono, si debbono trarre lezioni.
L’elezione di Trump alla Presidenza degli USA dice molte cose e a molti soggetti.
La sconfitta dei sondaggisti – oggetto di commenti ironici ( che non mi interessano ) – è segno in primo luogo, di una deplorevole ignoranza sulla struttura antropologica della popolazione statunitense. Basterebbe un viaggio, ancorchè breve negli USA e forse anche solo una occhiata ad alcuni loro importanti films, per rendersi conto che gli USA non sono né New York, né Chicago, né Boston ma gli agglomerati sparsi nel territorio, a volte isolatissimi nelle immense campagne.
Nel cuore, meglio nel ventre di questi USA, si concentra l’anima nordamericana che è quella di un west sempre vivo, xenofobo, tendenzialmente misogino, amante delle armi e della giustizia fai da te.
Abbiamo sentito – ma non era una novità – che esiste ancora un K.K.K tanto vivo da essere capace di organizzare una manifestazione pro Trump ( dai giornali ).
Trump ha battuto – in campagna elettorale – su questi tasti e se vi è stata – ovviamente – una radicalizzazione del loro messaggio in funzione elettorale, resta il fatto che essi appartengono a lui e a quanti la pensano come lui.
La sensazione diffusa della inadeguatezza della Clinton al governo del paese è solo in parte la conseguenza di una “ ribellione “ contro il sistema ( quasi che Trump sia contro il sistema ). E’ la convinzione radicata che la donna è di per sé inadatta alla guida di uno stato, guida che deve essere lasciata ai “ veri uomini “. Non va sottovalutata l’”ambiguità oggettiva “ della figura di Trump che da un lato si presenta homo novus rispetto alla nomenclatura Clinton e dall’altro “ americano puro “ nella capacità di farsi da sé, accumulare ricchezza e successi. Nel giudizio sugli uomini di successo il “ popolo “ non va tanto per il sottile.
Queste ed altre considerazioni avrebbero consigliato una maggiore cautela nelle previsioni dei sondaggi.
Tralascio, in queste osservazioni a caldo, di considerare il curioso sistema di elezione del Presidente che vige negli USA e che – a quanto pare – consente esiti paradossali.
2.
Qualcosa, che ci è più prossima, ha a che fare con la composizione socio-politica dell’elettorato. Si è ripetuto negli USA ed ovviamente su vasta scala il fenomeno di un distacco delle popolazioni più povere e più emarginate dalla linea di ispirazione democratico-liberale o democratico-socialista.
Ciò è avvenuto anche in Italia. Nelle recenti elezioni comunali il PD ha ricevuto più voti dai centri delle città che non dalla periferia. So che a fronte di questo rilievo sta l’obbiezione che nega ogni caratteristica di “ sinistra “ al PD. A me pare ragionevole operare ancora delle distinzioni relativizzando la distinzione tradizionale. Ma questo è un altro discorso.
Anche negli USA – dati alla mano – si deve pensare che i più poveri e i “barbari “ ( ispano-americani, neri etc ) non hanno affatto votato in massa per i democratici. Tale partito si è mostrato ancora vitale nelle grandi città, e non sempre. Cioè ancora in quegli agglomerati distanti dal modello
“ autenticamente americano “ di cittadino.
Si può dire- oggettivamente – che il movimento democratico degli USA non intercetta più o intercetta meno le esigenze dei più poveri e meno protetti.
3.
Tale fenomeno – come tutti i fenomeni socio-politici – scaturisce , a mio giudizio, da una serie di cause alcune delle quali sono contingenti ed altre strutturali.
Le ragioni contingenti, che interessano meno, si atomizzano in una serie di errori strategici e/ tattici dei Democratici, contrapposti ad un più efficace operare dei Repubblicani, ma resta più interessante esaminare le ragioni strutturali, avvertendo però che tra le prime e le esiste certamente una interazione più o meno intensa.
Io penso che due fattori abbiano contribuito – reagendo sugli altri – in maniera determinante alla vittoria dei Repubblicani: il fenomeno dell’emigrazione di massa e il fenomeno della globalizzazione delle economie.
4.
L’ emigrazioni di massa costituisce un fenomeno epocale e, penso, sostanzialmente inarrestabile., se unito allaconsiderezione del tasso di natalità delle nazioni più povere e alla maggiore spinta che in essi esercitano le condizioni di vita insostenibili. In termini più o meno lunghi esso determinerà una modificazione profonda delle identità degli Stati e, quindi, della risposta politica degli appartenenti agli Stati stessi. Direi, rovesciando i termini del problema, che le affermazioni lodevoli sulla libertà di circolazione di uomini e beni sono semplicemente la presa d’atto di un fenomeno “ naturale “ che ha la forza dei fenomeni naturali. Ma ogni perdita di identità o minaccia di perdita di identità produce “ paura “ e induce a reazioni difensive. Il razzismo – che all’origine ha avuto o può avere avuto radici in una pretesa diversità antropologica – è oggi, a mio giudizio, una reazione alla paura di perdere la propria “ identità “. Sarei portato ad inserire in questo concetto quel complesso di
“ utilità e vantaggi “ che identificano un certo standard di vita. Banalizzando : vogliamo mantenerci “ricchi” quanto siamo.
E’ fin troppo facile raggiungere un consenso elettorale sempre più diffuso agitando questa paura.
Ma ad essa fanno sempre più ricorso i Capi di Stato che vogliono raggiungere il successo elettorale ed esercitare il potere. Non so e forse non serve disquisire su quanta parte abbiano avuto fattori antropologici e quanto fattori strettamente economici ma è certo che tra l’ostilità per l’antropologicamente diverso e il “ concorrente “ nell’occupazione esiste una sinergia moltiplicatrice. In proposito viene osservato che la manodopera straniera incide negativamente sull’occupazione nazionale. Vera o falsa che sia tale opinione, si deve registrare in fatto che la prima è impiegata soprattutto nei mestieri più umili, quelli che i lavoratori nazionali rifiutano di compiere. Sta di fatto, comunque, che l’argomento viene agitato come rilevante ai fini della resistenza all’immigrazione. La verità circa il carattere ineludibile di essa non viene mai messa in evidenza e si invocano rimedi inaccettabili sotto il profilo etico oltre che impraticabili di fatto.
5.
E’ vero che in alcuni settori si sono verificate profonde modificazioni del lavoro rispetto ai modelli del passato, ma da questa costatazione ad affermazioni fantaeconomiche ( vd. ad esempio Rifkin: La società a costo marginale zero: Mondadori 2014 ) sul tramonto del Capitalismo ci corre molto. Si tratta, a mio giudizio, di “esperimenti teorici” in corpore vili che escludono ogni interferenza con questioni politiche- morali relative al principio dell’eguaglianza e che non riflettono sulle modificazioni dei mezzi di produzione. I fatti mettono in evidenza una permanenza se non addirittura un aggravamento delle diseguaglianze economico-sociali , segno evidente di una persistenza sub altro aspetto delle cause di esse.
Il fenomeno della globalizzazione ha esteso senza limiti il problema della “ concorrenza “ che il Capitalismo –movimento dinamico per eccellenza – ha sfruttato al meglio ( pro domo sua ) su scala mondiale.
Una risposta globale sembra necessaria. Visto sub specie humanitatis et justitiae non è possibile attuare quei rimedi che i vari Trump stanno escogitando.
Rivalutando il concetto di utopia come “ progetto da attuare secondo verità e giustizia “ ogni soluzione innescata sulla “ paura “ e sull’interesse settoriale sembra politica irresponsabile.
Lo sforzo per capire “ verso dove stiamo necessariamente andando “ è enorme , ma a mio giudizio va fatto.
Credo che mutamenti epocali appartangono alla storia dell’uomo e, tuttavia, siamo ancora qui ad ignorarli.
Devo effettuare per onestà una correzione alla citazione di Hannah Arendt riportata al punto 1 del precedente commento: «Il suddito ideale del regno totalitario non è il nazista convinto NÉ IL COMUNISTA CONVINTO, ma l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più.»
Ah, che lapsus calami!…Il mio inconscio, evidentemente, in totale disaccordo con Arendt, esclude che il “comunista convinto” possa avere a che fare col “regno totalitario”…
APPUNTO 1. ALCUNE REPLICHE @ Luciano Aguzzi
1. Burke etc. « L’esportazione dei principi rivoluzionari, come oggi l’esportazione della democrazia e dei principi umanitari, servì al “mondialismo” rivoluzionario per instaurare un dominio totalitario e imperialistico, peggiore dell’imperialismo all’inglese. La faccenda si ripeté poi con la Rivoluzione russa, i cui valori internazionalistici si ridussero all’imperialismo bolscevico e il comunismo a una feroce dittatura totalitaria».
Il fallimento delle rivoluzioni borghesi o socialiste non può essere la prova del nove che renderebbe «pertinenti e in gran parte condivisibili» le critiche di Burke e di altri pensatori reazionari o conservatori come lui. Dal pensiero dei dominatori (in genere di Destra ma che ha inquinato abbondantemente la Sinistra) dobbiamo imparare, ma per combatterlo meglio, perché le ragioni (mai del tutto oggettive) dei dominatori non possono essere le mie/nostre ragioni.
2. Vecchie e nuove categorie. « Tu dubiti che le vecchie categorie siano oggi inservibili (cioè tutte le distinzioni «fra destra e sinistra, fra capitalisti e anticapitalisti, fra progressisti e conservatori, fra ricchi e poveri e così via»). Prova, se ci riesci, a interpretare uno qualunque dei maggiori problemi e aspetti dei conflitti odierni con tali categorie. Ti accorgerai che tutti i conflitti, tutti gli “eventi”, compresa l’elezione di Donald Trump e ciò che ci sta sotto in termini di realtà americana, risultano trasversali a tali vecchie categorie e quindi non comprensibili e nemmeno descrivibili tramite il loro uso. Le vecchie categorie possono ancora rendere conto di alcuni fenomeni circoscritti, ma non di fenomeni complessi ed estesi trasversalmente a molti strati sociali».
A me pare che le vecchie categorie siano effettivamente logorate e in parte inservibili. Non credo però che da un giorno all’altro le si possa dismettere o “rottamarle”, come fai tu quando scrivi: « Le vecchie categorie della sinistra non colgono praticamente nulla, se non frammenti, di questa tettonica sociale e dei terremoti che la rendono instabile». Non è chiaro, infatti, con quali altre categorie si possa leggere il mondo caotico d’oggi. Del resto tu, usando categorie “anarchico-libertarie”, o altri “oltrepassatori”, usandone di liberiste o populiste, siete in un territorio nuovo. E qui devo dire una mia impressione (brutta). Temo, infatti, che le vecchie categorie le continuiamo ad usare di fatto e in due modi che però fanno una certa differenza: o riconoscendone l’insufficienza e usandole *criticamente*; oppure in modi ambigui (o addirittura subdoli) dando ad intendere che la soluzione c’è, ma senza esplicitarla fino in fondo, cioè fino a mostrare effettivamente se è nuova o è sempre la solita e se in quell’ *oltre* (la destra e la sinistra, il capitalismo e l’anticapitalismo, il progressismo e il conservatorismo, l’esaltazione della ricchezza e il disprezzo per i poveri) ci sia almeno un frammento ragionabile di *che fare*. Non è che rifiuto le nuove categorie, ma vorrei che mi dimostrassero che sono indubbiamente nuove. Se non ci sono o quelle che alcuni danno per nuove non lo sono (o non mi paiono tali) che posso pensare o fare? Se, ad esempio, la mia vista è indebolita e la gradazione dei miei occhiali mi fa vedere le cose sfuocate, che faccio? Butto via gli occhiali che ho? Col rischio di vederle ancora più sfuocate? O me li tengo finché non riesco a fornirmi, ammesso che ci riesca, di lenti più adatte? Questi a me paiono dilemmi reali e non aggirabili.
Temo poi che la nostra difficoltà non stia neppure soltanto nell’obsolescenza delle categorie a cui, per mancanza d’altre più efficaci ( e dunque non solo per nostra resistenza soggettiva a cambiare), siamo ancora *costretti* ad affidarci ( ripeto: criticamente). Non credo, cioè, che abbiamo di fronte un problema solo conoscitivo.
La mia convinzione è che l’andamento caotico dei conflitti (internazionali e nazionali) abbiano, per così dire, respinti una buona parte di noi «in basso loco», cioè ai margini delle vicende storiche in corso.Il tessuto sociale e culturale (operaio, piccolo borghese) in cui abbiamo operato ( e per anni attivamente militato) è stato disfatto. Si è anche interrotto il rifornimento di notizie meno manipolate e di riflessioni intellettuali con un alto o buon valore critico proveniente da parte delle élites politiche “di sinistra”. Che ce le passavano in anni in cui la loro lotta per la supremazia aveva bisogno di un protagonismo anche “popolare” o “operaio” ampio e in grado di esprimere anche una certa autonomia di pensiero. E che ora non ce le passano più o ce le passano soltanto “spettacolarizzate” e da “consumare” svagatamente. E questo perché hanno abbracciato la visione del mondo che prima combattevano e, grazie alle nuove tecnologie e alla TV a cui hanno avuto più accesso di prima, proprio in quanto élite “assimilate” ( come i *liberti* di una volta), pretendono di orientarci esclusivamente come “tifosi” o “elettori” e non più come “compagni” o “militanti”. È, insomma, lo scarto tra noi e i centri di potere che è cresciuto; e, questo comporta un peggioramento dei modi in cui possiamo aumentare e verificare autonomamente i mutamenti reali.
3. Individui e comunità. « L’opzione alternativa sia al mondialismo sia al nazionalismo è l’affermazione più ampia delle libertà dei singoli individui, e di conseguenza delle comunità in cui i singoli individui si riconoscono e delle libertà collettive (collettive ma basate sulla volontà dei singoli membri, non sovrastanti ad essi come nelle teoriche giacobine, comuniste, fasciste o naziste). L’opzione è la difesa e l’estensione della libertà degli individui e la riduzione dei poteri dello Stato, di qualunque Stato».
Come sarebbe bella questa prospettiva «libertaria»! Di un colpo solo ci si libererebbe di alcuni incubi che ci tormentano: il mondialismo (che, sì, ha la sua faccia culturale omologante, colonizzante e “americanizzante”, da non staccare così nettamente come tu fai da quella della globalizzazione che « pone di più l’accento su fenomeni economici, di comunicazione, di circolazione»), il nazionalismo, più o meno chiuso e ben poco vergine, e magari anche il populismo ( che, come tu dici e qui concordo: « che si voglia dire di destra o di sinistra, è sempre una forma deteriorata della democrazia, che è una forma di governo sempre troppo facilmente deteriorabile. »).
La posso rispettare, ma mi pare solo un’ideologia consolatoria.
4.
“Buonismo” e problema delle attuali migrazioni. Sono due questioni enormi, che rimettono in gioco tutte le tradizioni di pensiero (cattolica, marxista ma anche la libertaria) in cui siamo cresciuti e andrebbero ripensate a fondo. Mi limito a esprimere la mia meraviglia per la tua polemica contro il “buonismo” che riprende in parte gli argomenti dei “cattivisti” e a farti notare la debolezza contraddittoria del tuo libertarismo.
Quando scrivi: « Se il governo non vuole e/o non è capace di governare il fenomeno, l’alternativa – che per me sarebbe la prima opzione, non la seconda – è che il fenomeno venga governato dai comportamenti liberi e spontanei dei cittadini. Chi vuole accogliere stranieri, dovrebbe essere libero di farlo, a spese proprie. Chi non vuole accoglierli, dovrebbe essere libero di farlo e non costretto contro le proprie convinzioni. Lo Stato non dovrebbe mantenere gli stranieri a spese dei cittadini (ora costano oltre quattro miliardi all’anno, una cifra enorme sulla spartizione della quale prosperano speculazioni, corruzioni, forme di criminalità organizzata), ma dovrebbe lasciare che si mantengano da soli, se trovano lavoro, o che decidano di andare altrove. Lo Stato dovrebbe inoltre impedire le attuali diffuse forme di criminalità e di mendicità, e pretendere sempre il rispetto della legislazione nazionale», sembri non tenere conto dei contrasti reali (economici, culturali, religiosi) tra le varie tipologie di immigrati e le varie tipologie di “connazionali”. Dove sono in una situazione di crisi i « comportamenti liberi e spontanei dei cittadini » capaci di «governare il fenomeno»? Cosa si fa quando i “cittadini”, come a Gorino, vorrebbero governare il fenomeno assalendo o respingendo donne e bambini in fuga dalla guerra?
Commento di Donato Salzarulo 17 nov 12.45, al punto 3, politica della post-verità.
“Noi siamo un impero adesso e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente come piace a voi, noi agiamo di nuovo e creiamo altre realtà nuove. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, non resta altro che studiare quello che noi facciamo”, disse il consigliere di G. W. Bush.
Donato Salzarulo commenta: “Qui è in discussione il concetto di ‘realtà’. Mi pare giusto affermare che chi [si] sente ‘attore della storia’, crei storia. Il problema nostro è che, ormai, da diversi decenni, non ci sentiamo più ‘attori della storia'”.
Ennio Abate 17 nov 23.51, al suo punto 2 indaga questo non essere più attori della storia: “Temo poi che la nostra difficoltà non stia neppure soltanto nell’obsolescenza delle categorie a cui siamo ancora *costretti* ad affidarci (ripeto: criticamente).
La mia convinzione è che l’andamento caotico dei conflitti (internazionali e nazionali) abbiano, per così dire, respinti una buona parte di noi ‘in basso loco’, cioè ai margini delle vicende storiche in corso. Il tessuto sociale e culturale (operaio, piccolo borghese) in cui abbiamo operato (e per anni attivamente militato) è stato disfatto. Si è anche interrotto il rifornimento di notizie meno manipolate e di riflessioni intellettuali con un alto o buon valore critico proveniente da parte delle élites politiche ‘di sinistra’. Che ce le passavano in anni in cui la loro lotta per la supremazia aveva bisogno di un protagonismo anche ‘popolare’ o ‘operaio’ ampio e in grado di esprimere anche una certa autonomia di pensiero. E che ora non ce le passano più o ce le passano soltanto ‘spettacolarizzate’ e da ‘consumare’ svagatamente.”
Senz’altro (parafrasizzo) è cresciuto lo scarto tra noi e i centri di potere e di conseguenza sono peggiorati i modi in cui possiamo aumentare e verificare autonomamente i mutamenti reali. Non per questo possiamo affidarci a ideologie consolatorie, come quella che i comportamenti liberi e spontanei dei cittadini sarebbero in grado di affrontare gli attuali avvenimenti storici globali.
Da questi due richiami che ho fatto dei commenti di Donato e di Ennio, si possono ottenere dei punti fermi.
Sia la post-verità che il restringimento del ceto medio di cui abbiamo fatto parte rimandano a un altro soggetto, quello che opera. Le sopravvissute ideologie novecentesche lo definiscono con categorie nuove-vecchie: populista, fascista, razzista, illusionista, mentitore. Ma “agire di nuovo e creare altre realtà nuove” (come dice il consigliere) non è sviare nell’ideologia, non è mentire, sono fatti, è realtà. Si può pensare, e lo si dice a voce alta, e con manifestazioni e scritti, che, mentre “quelli” operano presentano anche il loro operare con abbellimenti più o meno credibili per chi ci vuole credere. In realtà operano e nessuno è riuscito a fermarli, a posteriori si studierà, si analizzerà, si continuerà a deprecare.
Sto accettando tutto da ottusa rassegnata o da cinica indifferente? Non credo.
Quello che a me sembra importante è capire quello che succede. Dice bene Ennio: se le nuove categorie non ci sono, o non sono così nuove come pretendono di essere, non le butterò per questo via, con il rischio di perdere anche la poca comprensione che offrono.
Ma, scendendo nel concreto, non sono sicura che Trump sia solo razzista e mentitore. Ha una politica estera e un indirizzo economico precisi. Ci sono persone per me stimabili che riconoscono il cambio di direzione che Trump sicuramente darà alla realtà: a UE, Nato, Russia, Siria, delocalizzazione, lavoro reale, ecc. L’impero USA procede su un altro registro, e questo avrà delle ripercussioni anche per me.
Certo che i gruppi bianchi del KKK lo sostengono! E Obama sosteneva l’Isis. Domando: qual è il livello di realtà creata principale da considerare, e quale il livello secondario?
L’impero USA si affida a un altro gruppo di potere, che cosa resta uguale, che cosa cambia? quali gruppi ceti realtà economiche e militari saranno favoriti, quali meno? Sarà quello di Trump il modo più efficace di mantenere il ruolo imperiale? E come si ripercuote su di me, su noi?
Il mio ragionamento, però, non prende in considerazione un’altra possibilità, millenarista, che cioè Trump sia la catastrofe come fu Hitler, una rottura storica diversa dalle altre, la rovina per il mondo intero, lo scontro tra due parti, la civiltà e la bestia. Appunto, non la prende in considerazione, e spero di non sbagliarmi.
SEGNALAZIONE
Per un populismo democratico
http://www.senso-comune.it/
*« Tramontata l’idea di classe come dato di natura» (!) arrivano i “populisti democratici” che vogliono costruire una «società decente». Non mi convincono, ma discutiamone.
Stralci:
1.
il disagio sociale si esprime perlopiù attraverso forme, simboli ed organizzazioni estranee alla sinistra, e che qualsiasi insistenza su quel repertorio non farebbe altro che permettere alle classi dirigenti di collocarci in un luogo a loro congeniale, in quanto di facile neutralizzazione. In altre parole, la creazione di una nuova volontà popolare che tenga insieme una maggioranza sociale maltrattata dalle classi dirigenti deve essere capace di parlare delle diverse situazioni e dei diversi contesti dell’oppressione, cercando di amalgamare settori che al momento differiscono in maniera sostanziale sotto il profilo ideologico, sociologico e antropologico. La costruzione di un nuovo soggetto potrà procedere solo negativamente, cioè attraverso la costituzione di frontiere politiche che strutturino in maniera inequivocabile le relazioni tra diversi agenti sociali e semplifichino lo spazio politico. Il dispiegamento dell’antagonismo, la proiezione cioè di un avversario comune a questa maggioranza maltrattata, è quindi momento fondante che dota un progetto politico di senso e significato. Chiamiamo questo tipo di creazione politica populismo. Al contrario dell’uso convenzionale quindi, per noi il populismo non è sinonimo di demagogia o autoritarismo. Siamo infatti fermamente convinti che il populismo non delinei né una patologia politica né un’ideologia, ma consista piuttosto in una logica costitutiva della politica attraverso la quale diversi progetti competono per egemonizzare il campo sociale.
2.
In altri contesti tuttavia, il ruolo aggregatore può essere svolto da una persona, il leader, nel quale si cristallizzano le domande democratiche frustrate. Va qui rotto un tabù caro ai razionalisti di sinistra: le identità collettive non sono il frutto immediato del discernimento oggettivo dei propri interessi, bensì processi mediati e contingenti, dettati in larga misura dalla capacità di mobilitazione degli investimenti passionali. Che sia un leader o una domanda che promette pienezza sociale, è importante riconoscere i limiti del sapere e afferrare la produttività sociale di cui i simboli e i miti sono dotati. Il leader può essere in questo senso uno strumento importante per generare degli affetti politici tali da scardinare inerzie altrimenti inamovibili e che il semplice ragionamento non è capace di intaccare. La nascita di un leader non deve quindi essere vista come un fenomeno necessariamente narcisistico o dispotico: nella misura in cui condivide tratti con coloro che lo seguono, l’incontro avverrà a metà strada, rendendolo un primo fra pari capace di tenere insieme domande eterogenee. Un Cesare democratico, in altri termini, che sappia ripoliticizzare tutti i diversi tipi di oppressione di cui soffrono i subalterni e che le oligarchie vogliono spacciare per naturali.
3.
In tal senso crediamo infatti che il mantra secondo cui gli Stati sono stati interamente fagocitati dai mercati non sia accurato. La riprova è data proprio dal fallimento del capitalismo finanziario informatizzato che, nell’autunno del 2008, è stato costretto a ricorrere al massiccio intervento dello Stato per salvarsi dalla catastrofe. Lo Stato si è quindi dimostrato decisivo quando il capitalismo finanziario ne ha avuto bisogno. L’apparato statale rappresenta in tale contesto una forma di assicurazione di ultima istanza alle conseguenze più nefaste del libero gioco dei mercati. È proprio per questo che la finanza ha sempre maggior bisogno di controllare la politica e assicurarsi che gli inquilini dei palazzi presidenziali non mettano i bastoni tra le ruote. In realtà quindi, lo Stato detiene ancora una serie di strumenti fondamentali che, se attivati intelligentemente, possono incidere in maniera sostanziale sulla realtà socio-economica. Questo non vuol dire che gli sviluppi politici ed economici degli ultimi 40 anni non abbiano prodotto un’importante riduzione delle capacità statali di regolamentazione, controllo e assegnazione delle risorse. Lo Stato-nazione non è morto, ma è certamente molto diverso rispetto a quello di una volta. Tant’è vero che gli Stati sono oggigiorno costretti ad agire in rete, ovvero sia a creare una serie di rapporti tra Stati e con una pluralità di attori sovra- e sub-nazionali, tanto pubblici come privati. L’analisi dello Stato pertanto non può prescindere dall’analisi dell’insieme dei nodi e dal groviglio di interazioni in cui le istituzioni statali sono coinvolte.
Questo ragionamento ci porta a pensare che le trasformazioni più profonde possano avvenire solo quando determinate reti sono opposte ad altre reti. La creazione di una nuova rete va intesa in tutti i sensi possibili. Da una parte, si tratta di forgiare alleanze internazionali tra attori statali sulla stessa lunghezza d’onda per creare spazi di alternativa più ampi e per accrescere l’incisività delle politiche anti-austerity. Questa possibilità è però resa difficile dalle diverse velocità a cui viaggiano i diversi dibattiti nazionali e dalle tempistiche con cui prendono luogo (se lo fanno) i processi di cambiamento. L’isolamento della Grecia nell’estate del 2015 è stato emblematico. Tuttavia, quello della Grecia è un caso limite, dato dall’esiguità della sua economia e dall’indisponibilità di liquidità per far fronte nel breve periodo a scelte più radicali. Crediamo invece che l’Italia, per quanto non immune da condizionamenti esterni, sia in una posizione migliore per poter implementare delle politiche ispirate dal senso comune. Il grado di audacia di queste politiche è dato dall’altro senso in cui la parola rete è qui inteso. Si tratta infatti della capacità di stabilire una profonda connessione con una pluralità di attori sociali a cui abbiamo già fatto riferimento. Nella misura in cui la proposta di cambiamento è accompagnata dal consolidamento di un nuovo blocco storico, questa potrà essere di maggiore portata. In altre parole, il potere statale deve essere alimentato dal combustibile di un radicamento popolare profondo e da una mobilitazione il più larga possibile.
Questa mobilitazione non potrà però avvenire sulla base di un generico richiamo all’europeismo o un’ acritica difesa dei processi di integrazione europea. Non è una questione di cedere a tentazioni sciovinistiche o rossobrune. Siamo semplicemente persuasi che l’Unione Europea sia un progetto oligarchico troppo sedimentato per poter essere “democratizzato” attraverso un movimento di opinione che manca di un vero e proprio luogo politico in cui poter farsi valere. L’Europa rimane un riferimento privilegiato, ma è un piano che va ricostruito su linee diverse da quelle attuali. L’Europa dei mercati va infatti sostituita da un’ Europa dei popoli e della solidarietà che rimetta al centro la questione sociale. Con questa prospettiva internazionalista in mente, è bene partire dal livello minimo in cui l’aggregazione è più naturale e il suo impatto acquista efficacia. Nessun vero internazionalismo può infatti ignorare o appianare la questione nazionale. D’altro canto, il processo di costituzione delle identità politiche segue perlopiù binari nazionali, dettato com’è da differenze culturali e linguistiche ancora molto profonde. In questo contesto, la rivendicazione di nozioni come sovranità e patria vuol dire disputare nozioni egemoniche al proprio avversario e declinarle in termini di maggior democrazia. D’altronde, sarebbe miope non capire che questi significanti traggono linfa da esperienze di umiliazione e sofferenza sociale reali, che comportano per la gente comune una perdita di controllo sui propri destini e i propri territori. L’importante è far capire che i migliori modi per recuperare la sovranità e per incarnare l’amor patrio non passano per l’esclusione degli stranieri o un ritorno a una concezione chiusa e ingenua dello Stato-nazione, bensì sviluppando una politica volta a restituire senso alle istituzioni democratiche e sottrarre le decisioni che contano a banche d’investimento e società per azioni.
SEGNALAZIONE
Il rischio del “frontismo” e una svolta nella comunicazione politica: intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
(dalla bacheca di Carlo Formenti:
http://radionew.infoaut.org/index.php/blog/approfondimenti/item/17875-il-rischio-del-frontismo-e-una-svolta-nella-comunicazione-politica-intervista-a-carlo-formenti-sul-voto-usa)
Stralci:
1.
Inoltre bisogna prendere atto che i giornali non li legge più nessuno, o comunque sempre meno gente si informa attraverso la carta stampata..ci sono anche le testate online, è vero, ma queste a loro volta sono lette poco e usate più come materia prima per rafforzare la propria opinione in un dibattito che come elemento di formazione originario. Anche la tv in fondo ha un impatto decrescente, poiché con il passaggio al digitale non ci sono più pochi emittenti ma c’è una pletora di canali e di trasmissioni, con la concorrenza che ne deriva..ciò ha cambiato anche lo stile di comunicazione, dei tg, dei talk show rispetto a quanto avevamo visto fino ad ora..
E’ cambiata profondamente la dieta mediatica e ciò ha portato ad enormi difficoltà di misurazione. La gente si serve dei vari media in modo idiosincratico, prendendo un po qua e un po là, e cìò a mio modo di vedere riapre – per chi fa politica dal basso – spazi notevoli di comunicazione soprattutto fisici, di faccia a faccia. Chi riesce in qualche modo a prendersi la piazza, a tenerla, a essere presente nei quartieri nei luoghi di lavoro, nei bar, chi riesce a comunicare in modo trasversale scambi di idee e emozioni ha un potenziale molto importante.
Questo ad esempio è stato alla base del successo di Cinque Stelle e Podemos. Se guardiamo nel concreto delle cose, internet ha pesato molto meno di quanto sembra rispetto a quanto hanno spostato i comizi di Grillo, la loro capacità di mobilitazione, nell’esplosione del fenomeno grillino. Insomma sta cambiando un po’ tutto, c’è un paradossale ritorno a forme di comunicazione e mobilitazione classiche, tradizionali, che si ripropongono mutate ma sono comunque capaci di sfidare l’establishment della comunicazione.
2.
Si riapre però dall’altra parte tutto uno spazio di rapporti di forza, di margini di trattativa, di un ruolo, a mio modo soprattutto nell’ambito del lavoro per quel movimento sindacale che sarà ancora capace di avere un atteggiamento conflittuale e di arrivare alla trattativa attraverso la lotta. Un altro aspetto da sottolineare per me è che laddove la variante populista, come l’ho chiamata nel titolo del mio ultimo libro, assume connotati e esiti di destra, la capacità delle elites finanziarie globali di riassorbirla è molto alta. Faranno letteralmente di tutto per riuscire in questo passaggio. Già la prime dichiarazioni di Trump – che su alcuni temi soprattutto economici in campagna elettorale sembrava quasi indistinguibile da Sanders – sembrano nella direzione di voler attenuare quanto promesso in campagna elettorale: si occhieggia ai primi esperti di Goldman Sachs ad esempio..insomma, chi vince nella dimensione populista di destra poi si vede presentare il conto, non è in grado di fare ciò che vuole come gli pare.
La cosa su cui bisogna stare molto attenti, secondo me è come si ci si muove a sinistra nel nuovo scenario cosi magmatico e contraddittorio. La cosa che va evitata come la peste, e che ho già visto emergere da giornali come Manifesto e in alcuni commenti circolati in rete, è rispondere con un riflesso frontista, che grida “Aiuto aiuto arriva il fascismo”. Se la minaccia principale è quella fascista, ne è conseguenza che ci si può alleare con i “democratici” per impedire che questo succeda..cioè passare ulteriormente dalla parte sbagliata della barricata.
C’è quindi un doppio rischio di rivoluzione passiva, per dirla con Gramsci: da un lato l’integrazione del populismo di destra nella logica sistemica, dall’altro l’assorbimento della “sinistra radicale” all’interno di una coalizione a difesa delle istituzioni a fronte di un presunto pericolo fascista, che all’oggi è davvero immaginario per quello che possiamo vedere. La storia non si ripete uguale a sé stessa, per dirla con Mao oggi il nemico principale non è certo il ritorno del fascismo, per modo di produzione e rapporti di forza interni anche alle stesse elites un passaggio di questo tipo non è pensabile. Bisogna stare attenti invece a questo passaggio di fase, sfruttare le contraddizioni del nemico per fare i nostri interessi di classe; non certo mobilitarci a difesa di un interesse generale, a una difesa di una “democrazia”, la quale non mi sembra sia stata in grado di assicurarci molto negli ultimi decenni.
APPUNTO 2. SUI COMMENTI DI MAYOOR E SALZARULO
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
(G. Carducci, Davanti San Guido)
@ Mayoor
Attenzione a non comportarci come l’asin bigio carducciano. Credo che la tentazione sia forte in noi perché siamo in difficoltà nel capire quel che accade ( e non certo solo per nostalgia o resistenze alle novità) . La ritrovo nel commento di Mayoor che di fronte alla vittoria di Trump ripiega sull’«annosa domanda “Chi siamo?» invece di proporsi almeno, accanto a questa, l’altra complementare e per me irrinunciabile su cosa sia la “realtà” che si sta trasformando e ci trasforma. E perciò replico per punti ai suoi argomenti:
– Non so quanti siano tra le persone che frequento o che conosco indirettamente quelle che aspirino «a modelli di vita sovrumana»;
– Riconosciamo pure (ancora non l’abbiamo fatto alla nostra età?) «l’aggressività, l’avidità-tornaconto-egoismo, dominio, sazietà e menefreghismo» ( nostro e altrui), ma proprio non capisco la sua svalutazione qualunquista e sbrigativa della storia («La Rivoluzione francese ha prodotto generazioni di schiavisti vocati alla grandeur nazionalista, la Rivoluzione russa allo statalismo più asfissiante, e lasciamo stare le altre tirannie…»);
– Pensare le cose nei tempi lunghi (nelle ere) o «rispolverare Darwin e porre la nostra attenzione su fattori evolutivi» porta davvero alla banale conclusione che « l’umanità non è impazzita, è sempre stata così» o che «era meglio nel Medioevo, quando ti appendevano in una grata fuori dalle mura delle città»? O a disinteressarci di «queste votazioni americane» e della vittoria di Trump, rinunciando a qualsiasi «analisi concreta della situazione concreta» (Lenin)?
@ Salzarulo
Nel mio precedente Appunto 1 ho scritto: « La mia convinzione è che l’andamento caotico dei conflitti (internazionali e nazionali) abbiano, per così dire, respinti una buona parte di noi «in basso loco», cioè ai margini delle vicende storiche in corso». Donato, in modi simili, parla di « minuscola e assai periferica specola» da dove «tutta questa “rivoluzione” trumpiana» non si vede. E anche qui direi di stare attenti. Temo che di fronte alla «politica del post-verità»o «Realpolitik della finzione», che sbaraglia qualsiasi «dibattito pubblico” illuministico e razionale» sia «l’empirismo (“i fatti separati dalle opinioni”)» ed elimina anche il giornalismo d’inchiesta» e crea « altre realtà nuove» imponendocele e facendo saltare «la distinzione tra vero e falso» siamo quasi disarmati. Sì, posso ricordarmi che Fortini, sulla scia di Lukács, parlò di «derealizzazione» e ci avverti contro il «surrealismo di massa». E che più tardi Debord ha tanto insistito sui cambiamenti indotti sulle nostre stesse percezioni dall’avvento stregante della «società dello spettacolo». Ma anche se qualcosa della «nostra storia» ci permette di accorgerci che « il senso comune e il pensiero dominante non sono né democratici, né socialisti, né “politicamente corretti”» e che circolano dappertutto «pensieri osceni ed indicibili sugli immigrati», «rancori e rabbie represse sul declino del proprio status economico-sociale, sulle donne che si sono montate la testa e che farebbero bene a fare figli e a starsene a casa, sui “froci” e sulle lesbiche che ora pretendono persino di sposarsi, sul mondo che è diventato un caos», restiamo disarmati.
Voglio dire che non possiamo ribadire a noi stessi e ai pochi amici che continuano a dialogare con noi che ci « sono i capitalisti e non soltanto “la casta” dei politici», che vogliamo verificare la «democrazia nei rapporti interni ed esterni e se tutela le minoranze e se i valori propugnati (uguaglianza, dignità libertà fraternità) siano praticati. Non basta, cioè, che non abbiamo « nulla a che spartire con Trump» o magari anche con Hillary Clinton. È che da questa nostra collocazione le stesse domande che Donato pone («qual è oggi la “bolla informativa” di una sinistra che si vorrebbe antagonista al capital-liberismo? Qual è il suo “regime di verità”? Come uscire dall’”autismo informativo” in cui è probabilmente immessa? Ma Trump potrà diventare il capo delle « destre conservatrici e reazionarie, nazionaliste, xenofobe e razziste mondiali?) non troveremo risposte o ne troveremo che convincono appena noi e alcuni di noi. Perché – e qui c’è un po’ di disperazione in quel che dico – alle menzogne e mezze verità degli altri imposte attraverso i mass media e la TV non possiamo contrapporre «la verità» nuda e cruda né « le storie VERE (non finte) dei disoccupati, degli immigrati, dei dimenticati, ecc» o provare a «farlo noi il “giornalismo d’inchiesta».
Donato sembra concludere con una sorta di invito a scendere nelle catacombe o a praticare una “secessione”: « se vogliamo ricostruire un Noi, se vogliamo “strutturare una visione politica” dobbiamo uscire dal circuito informativo 24 ore su 24. Dobbiamo darci tempo per riflettere, elaborare le nostre storie, organizzare…Forse oggi l’esodo da proporre è questo». Non so. Sono discorsi già fatti e in un certo senso praticati da tempo. E a me pare più per costrizione che per scelta. Personalmente ho maturato molte riserve verso il discorso, che forse a questo di Donato potrebbe essere accostato, di Agamben sulla «potenza destituente»:
« Mettendosi sotto il segno della sicurezza, lo Stato moderno esce dal campo del politico per entrare in un no man’s land di cui mal si percepiscono la geografia e le frontiere e per il quale ci manca una concettualizzazione. Questo Stato, il cui nome rimanda etimologicamente a una assenza di problemi o preoccupazione [souci] (securus: sine cura), al contrario non può che renderci più preoccupati per i pericoli che fa correre alla democrazia, poiché una vita politica è diventata impossibile; ora, democrazia e vita politica sono – almeno nella nostra tradizione – sinonimi.
Di fronte a uno Stato di questo genere è necessario ripensare le strategie tradizionali del conflitto politico. Nel paradigma della sicurezza ogni conflitto e ogni tentativo più o meno violento di rovesciare il potere forniscono allo Stato l’occasione di governarne gli effetti a profitto degli interessi che gli sono peculiari. È ciò che mostra la dialettica che associa strettamente terrorismo e risposta dello Stato in una spirale perversa.
La tradizione politica della modernità ha pensato i cambiamenti politici radicali sotto la forma di una rivoluzione che agisce come potere costituente di un nuovo ordine. È necessario abbandonare questo modello per pensare piuttosto una Potenza di pura rimozione, che non potrebbe essere captata dal dispositivo della sicurezza e precipitata nella spirale perversa della violenza. Se si vuole arrestare la deriva antidemocratica dello Stato di pubblica sicurezza il problema delle forme e degli strumenti di una simile Potenza destituente costituisce la questione politica essenziale sulla quale sarà necessario riflettere nel corso degli anni che verranno».
(http://www.ildialogo.org/estero/articoli_1389461780.htm)
A volte scrivo su questa rivista, oltre a perché ci sono affezionato, anche perché mi ricordo che è un luogo per poeti. Quindi, da poeta qual aspiro di essere, mi prendo alcune libertà; come quella di scrivere disubbidendo alla dialettica ragionante, quella tacitamente approvata da tutti perché consente il piano medio su cui poter stabilire confronti e scambi di idee e opinioni. Questa volta ho scelto lo sfogo, l’esternazione di un sentimento. Ma anch’io seguo le vicende e ragiono: portami un esempio di epoca storica di cui l’umanità dovrebbe andar fiera, così mi metto il cuore in pace; e non dirmi di ogni volta che s’è sperato in qualche liberazione perché sappiamo entrambi come è sempre andata a finire, poi. Sono poco “realista”? Figurati, lo sono al punto che secondo me, invece di spendere tanti lamenti concentrandoci sul “l’impoverimento del ceto medio” dovremmo riconoscere ufficialmente la classe sociale dei poveri: come parte costituente del sistema sociale, non come triste realtà a cui porre rimedio grazie a 80 euro o all’assistenza del volontariato. A me i poveri stanno insegnando molto – un po’ di tutto, anche a rubacchiare – quindi ho chiesto in giro: ma se, ad esempio, le Ferrovie dello Stato rimettessero in campo la terza classe nei trasporti urbani, se invece di spendere 5 euro ne spndessi 2.50, sareste d’accordo o vi sentireste discriminati, umiliati o quant’altro? Lascio a voi immaginare la risposta.
Ma restiamo a Trump: perché mai Putin lo preferisce a Obama? Perché i Democratici non sai mai cosa ti possono combinare, e almeno Trump è una pedina sulla scacchiera che sai quel che vuole; in campo ci sono schieramenti che si spartiscono il mondo, altro che favolette elettorali. Cina, USA e Unione Sovietica devono scendere a patti: è l’unico modo per scongiurare incidenti a rischio di guerre incontrollabili; e per tenere a bada gli stati islamici. Questo a me sembra tempo per dimenticarsi della “politica” e concentrarsi sui rapporti di forza; appunto: come i tori, i leoni e le altre bestie. Questo è il livello, la verità sul quoziente di scambio tra le super potenze. Che ci si può aspettare? Che d’improvviso tutto cambi ma senza nemmeno uno scossone? No, ma grazie al cielo la Democrazia ha delle falle al suo interno (falle a cui Renzi, qui da noi, sta cercando di porre rimedio per mettere al sicuro la sovranità delle rappresentanze sul popolo); grazie a queste falle voglio sperare che la classe politica, quella delle alleanze, delle intese sotto banco, dei compromessi, venga spazzata via. Infatti voto 5stelle, anche se con riserva perché si sa come le cose cominciano ma poi fan presto tutti a farsi sceriffi… lo insegna la Storia delle nefandezze.
SEGNALAZIONE
Gli effetti di realtà. Un bilancio della narrativa italiana di questi anni
21 novembre 2016 Pubblicato da Le parole e le cose |di Gianluigi Simonetti
http://www.leparoleelecose.it/?p=25124#more-25124
*A volte colgo delle coincidenze. Ad es. tra quel che ho scritto sopra rivolgendomi a Donato Salzarulo (Ennio Abate 20 novembre 2016 alle 17:58) e questo brano di Gianluigi Simonetti, che parla del problematico “ritorno alla realtà” nella narrativa italiana degli ultimi anni:
«Evidentemente ciò che è vero, oggi, si conosce attraverso i mass media: il caso del noir italiano mostra benissimo come, per chi lo scrive e per chi lo legge, è reale ciò che la comunicazione diffonde come tale[9]. «Forse l’immagine mediatica e spettacolare ha ormai talmente preso possesso del nostro cervello che chi vuole apparire credibile deve imitare quella e non la realtà sottostante»[10]; ma se le cose stanno così, il nostro attuale bisogno (estetico) di realtà potrebbe configurarsi soprattutto come bisogno di sembrar vero, niente affatto contrapposto ma anzi complementare alla bolla di derealizzazione in cui leggiamo (e scriviamo). Così, molti degli effetti di realtà di cui si nutre la narrativa attuale guardano alla comunicazione di massa come modello narrativo, linguistico e ritmico – accanto e oltre la tradizione letteraria.»
Cosa vuol dire: “attenzione a non comportarci come l’asin bigio carducciano”? L’asino è bigio (sarà anche scurito dal suo lavoro di bestia da soma) ma il cardo è rosso e turchino, Carducci preferiva i colori della natura agli oppressi e scuri lavoratori. Per cui, secondo Carducci, l’asino non curò gli scontri sociali e continuò a rosicchiare, e brucare da pecora. Carducci, come un liberal nostrano e clintoniano, tirava sassi ai notabili (papisti) e fantasticava sui miti (risorgimentalromantici: deh come bella, o nonna, e come vera/è la novella ancor!). L’indifferenza dell’asino bigio è quella di Carducci alla questione sociale del suo tempo, secondo me non vale per sgridare ogni distacco, né per ogni conflitto.
Infatti il pezzo di G. Simonetti in LPLC prende un’altra strada di distacco rispetto ai conflitti. Simonetti parla di “effetto di realtà”, solo “effetto”, dato che la realtà è “un mito, un mito occidentale – forse il più potente della cultura moderna”, e il realismo è una convenzione, “uno spazio di transizione tra universi non omogenei”.
Alla fine del breve testo riportato, l’effetto di realtà viene convertito in un *realismo dell’irrealtà*: “se di realismo si vuole parlare, allora, sarebbe il caso di definire lo spazio di uno specifico *realismo dell’irrealtà*, ambiguo e ricco di contraddizioni”.
Mi sembra però che Simonetti intenzionalmente si limiti a parlare di realismo, come se mai la letteratura potesse raggiungere davvero la realtà, ma essere al massimo un avvicinamento, un orientamento, a una realtà che assomiglia straordinariamente al vecchio noumeno irraggiungibile. Perché irraggiungibile?
Questo è un punto importante: se la realtà è in assoluto conflittuale, il realismo dipende “anche da quante contraddizioni siamo disposti a sopportare”. La contraddittorietà del reale si rappresenta nei media come cultura di massa, “ciò che è vero, oggi, si conosce attraverso i mass media”, la letteratura vi si assimila, così il bisogno estetico di realtà “sarà proporzionale a una proliferazione del falso e del finto nel mondo che abitiamo”.
In realtà nel presente veniamo resi incerti, insicuri circa la possibilità di capire, e circa la correttezza di quanto abbiamo capito. Ma per Simonetti la contraddittorietà del reale non ci offre vera conoscenza ma solo ideologia, “realismo” e non realtà.
E’ vero che a un certo punto egli scrive che di realismo si può parlare se si può orientare “altrove”, ma si riferisce, per la letteratura, a un altrove che autentica il reale “rifacendogli il trucco”: siamo dentro il realismo e non nella realtà. Un esito? Oggi, scrive Simonetti “il realismo dell’irrealtà interroga frontalmente i generi letterari. Contaminare scritture letterarie tradizionalmente connotate come fittizie con tipologie di scrittura meno blasonate, ma connotate come veritiere (soprattutto l’autobiografia vera o finta e il giornalismo di cronaca, ma anche il saggio, gli aforismi, il racconto di viaggio, la storia orale messa su pagina, eccetera)”…
Infatti ci sono scritture che, senza richiudersi nel finto della letteratura, mediano la realtà costruendo teorie, idee generali. Per esempio, la *potenza destituente* di Agamben è una idea che valorizza forme non ancora delineate di conflitto e di resistenza. Così la riflessione sull’origine (per Esposito propria della filosofia italiana), prima della teologia e prima della storia, è un fondamento di radicalità politica.
Non ho letto il romanzo di Velio Abati, ma da quanto riportato in due post su Poliscritture, la sua “densità” storica, lingua, personaggi, generazioni, conflitti di classe e di caratteri, poco si apparentano alla fiction dei media.
trumputin (storicamente per dire di una era torbida )
t/rasputin
tran/s/putin (tra uno spuntino e l’altro)
ras-putin (dal russo: ras : una volta…) : una volta putin
ecc.