di Donato Salzarulo
Queste composizioni fanno parte di un ciclo poetico (ancora in corso) cominciato tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Qui vengono offerte come anticipazioni sia per contribuire al dibattito di POLISCRITTURE sulle vie della poesia, sia per raccogliere impressioni, spunti di lettura, annotazioni critiche. La scrittrice irlandese evocata nella seconda strofa di “Soffioni boraciferi” è Edna O’Brien, il libro «Oggetto d’amore» (Einaudi, 2016). [D. S.]
SOFFIONI BORACIFERI
Oggi qualcosa ha mutato l’atmosfera
del tuo viso. Nei tuoi occhi non piove,
ma li vedo più piccoli come se
una nuvola densa di vapori
scivolasse giù dalla fronte…
——————-Da ieri sera frequento
i racconti di una scrittrice irlandese:
lucidi, ben scritti, gremiti di dettagli
mi riportano ai giorni della mia
infanzia pugliese, al tempo del mio
passato contadino…Brava, bravissima,
sa tenermi incollato alla pagina
per ore.
———Poi stamattina me ne stavo
comodo. Non ho accompagnato
Giuseppina al lavoro e per un po’
mi sono imbarcato sul sito di
Poliscritture. Quali vie deve
ancora percorrere la poesia?…
Semplice: tutte quelle su cui è
incamminata o s’incamminerà
la “moltitudine poetante”
esodante o non esodante.
A me viene da scrivere, scherzando:
eso-dante o non eso-dante
e mi chiedo se sia un caso
che dentro questa parola
ci sia il nome di un poeta grande…
Il fatto mi suggerisce un criterio:
inutile, caro lettore, affannarsi
su questi versi malfatti. Meglio
dedicarsi ai morti, alla biblioteca
dei morti, a quelle opere che, come
una volta a scuola s’insegnava,
durano nel tempo…
———————-E qui una prima
nuvola s’impadroniva delle mie
pupille: quale verso hai scritto
da tramandare a memoria nei
prossimi cinquemila anni?…
«Tu che conosci me che non conosco».
«Come soffione il giallo offre l’avallo
per questa lunga insidia che mi covo».
«Due costellazioni ha la vita:
la salute e l’amore
il resto è inutile rumore.»
…
A continuare così per tutta la giornata,
la depressione è assicurata.
Ancora peggio se dal sito passo
al veleno dei soliti giornali.
«Gli uomini sono esseri mirabili»…
Infatti, a Goro fanno barricate
contro una decina di rifugiate e
a Calais la polizia sgombera
“la Giungla” degli immigrati…
La poesia non può essere buonista,
pacifista, accogliente. Deve imparare
ad essere tagliente contro il comando
dei prepotenti, contro chi predica
la selezione naturale, la lotta animale
per la sopravvivenza…
—————————–Ma non è che
siamo tutti finiti in una grande fabbrica
dell’orrore? Oltre a quelle visibili,
non è che hanno eretto intorno a noi
mura invisibili contro cui sbattiamo,
barriere insormontabili di godimenti
apparenti?… Tutta quest’industria
della comunicazione non ha forse
legato ognuno a una cuccia in cui
dormire e mangiare, esibirsi,
copulare e ogni tanto abbaiare?…
L’amore di Celan per la poesia
era assoluto. Vagando per gli scaffali,
ho raccolto tutte le sue opere,
le ho posate sul tavolo, ho aperto
«La sabbia delle urne» e mi sono
rimesso al lavoro.
———————Sto scrivendo
e mentre lo faccio m’accorgo
che mi sta passando quell’atmosfera
un po’ nera che stamattina mi
circolava per la mente.
—————–Ecco, perché scrivi.
Per tirarti su, per trovare ragioni
alle tue delusioni. Per ripararti,
rimetterti in sesto. Anche perché
qualcuno aspetta i tuoi versi
——————-Che siano fantasmi
di morti o siano mirabili, l’inferno,
come diceva Sartre, sono i nostri
simili. Allora, bisogna appoggiarsi
alle persone che inferno non sono,
occorre frequentare chi ci rilancia,
chi ci dona una mano con amore
per condurci oltre il presente
squallore.
Ma era proprio questo che Celan
non amava, questa poesia-terapia,
questa sublimazione che favorisce
lo spirito di riconciliazione
con questo modo immondo d’essere
del mondo.
——————Non è la bellezza
che devi cercare, né il piacere,
né la seduzione. Muta la rosa,
muta la ginestra, la verità è veleno
di cicuta.
«La verità è il fuoco del giorno…»
– dice lei mentre m’ascolta – «La poesia
non può amare gli altri se non ama
se stessa…È cosa, linguaggio-mondo.
La trovi ovunque c’è luce, passante,
bosco incantato o non incantato,
metropoli fremente, attenzione
al salice piangente, alla foglia in bilico,
fragile germoglio, pietra, fiume, ombra,
preghiera, sguardo intento, tormento di
un monte, sorriso, silenzio, occhi…
C’è.
——–Per dire la nota di ciò che non
si può dire, il sapore della pioggia,
il colore di un atomo invisibile,
l’abbaglio di un profumo di sole…
La poesia non raddrizza le violenze
della storia…Immagina soltanto
un altro mondo, un’altra via… »
——————Così dalla camera
del cuore si sprigiona
l’ultimo soffio
di vapore.
NELLA PAROLA “VIOLA”
A un certo punto, mi volsi alle parole
già belle e conservate nel vocabolario.
Le rincorsi per ore come farfalle
variopinte, multicolori. M’innamorava
il suono e, dopo un po’, quasi per magia,
sentivo nella parola “viola” il profumo
delle mammole che raccoglievo
a primavera nei boschi dell’Appennino
irpino. Ma il fatto che più m’incantava
è che raccoglieva un mare di significati.
Nella parola non dovevo vederci
solo le mie viole, quelle domestiche,
familiari che in prima media regalavo
alla professoressa d’italiano.
Dovevo vederne a centinaia:
ce n’erano blande e calcarate,
cornute e cucullate, palmate e pedate,
etrusche ed ederacee. C’era perfino
quella tricolore, del pensiero…
Un’incredibile scorpacciata!
Ma “viola” era anche un colore, un nome
di ragazza, di città, un personaggio
di commedia, uno strumento musicale
il titolo di una canzone: “Viola d’amore”…
Tutta questa ricchezza raccolta
in una parola che potevo ancora caricare
di significati, vedendoci dentro
l’IO, l’OLA, o scomponendola
e anagrammandola…Non mi sembrava
vero! Sarebbe stato bello se “viola”
fosse solo la mia “viola” e non significasse
un mondo così ampio. Invece, non era così.
E, in fin dei conti, non mi dispiaceva.
Non è che ognuno può inventarsi
miliardi di parole per ogni cosa
o situazione del mondo.
M’ingegnai però a fermarla,
a fissarla alla mia storia,
migrando dai significati
ai significanti. La parola “viola”
nella sua materialità sonora
restava pur sempre quella: una
costante composta di cinque suoni
o, come dicono i linguisti,
fonemi e relativi grafemi…
Vista così, potevo trattarla come
un sasso, contemplarla, sentirne
l’apertura all’io, l’allegria del contatto,
il tepore primaverile, il disgelo,
il colore del pensiero, il dono,
la lotta, l’amore…
IL TICCHETTIO DELLE ORE
I
Mai come stanotte
ho percepito nettamente
il ticchettìo delle ore,
il loro lento trascorrere…
Come un tempo alla stazione
a vagare tra le banchine dei binari
o a sedersi nella sala d’attesa
di seconda classe,
ora sfogliando «La poesia»
di Croce e i «Saggi
Critici» di De Sanctis,
ora sollevando le gambe
sui sedili ricamati di scritte
dei viaggiatori…
Aspettavo te.
Cercavo la stella del mattino,
scrutavo il settore di cielo
che sarebbe diventato piano piano
più chiaro e allontanavo da me
l’avvoltoio, la iena amante
di cadaveri…Come ti percepivano
bene allora i miei occhi
senza percepire se stessi!…
Poi imparai a seguire le tue parole
e mi persi dietro concetti,
sogni, ideali perfetti d’amore…
Non così le cose potevano andare.
Un giorno, «Guarda!…» comandasti
mentre passeggiavamo.
E raccogliendo una foglia
di platano me la mettesti
sotto gli occhi controluce.
Fu un lampo. Non trovavo
parole per dire la ricca
nervatura che percepivo.
Sentivo la linfa, quasi l’intero
universo pieno di vita e forme…
Ero io quella foglia
e non ero solo un pensiero,
un sentimento.
Il fatto accadde a primavera,
una trentina d’anni fa.
Non fu uno sconvolgimento,
un terremoto… Però stanotte
quell’emozione torna a farsi
sentire e la percezione
delle lancette non mi fa dormire.
Perché forse eri tu
il mio palloncino rosso
che nella foto coi miei cugini
tenevo stretto stretto tra le dita
e poi chissà per quale gesto inconsulto
m’è sfuggito di mano e se n’è
volato via…Lontano, lontano,
sempre più lontano ed io con gli occhi
in aria come uno scemo
a guardarlo.
II
Mia madre era una specialista della
macerazione. Raro che un suo pensiero
seguisse un percorso lineare.
Amleto era il suo faro. Appena
alfabetizzata, non aveva mai
avuto la fortuna di leggere
Shakespeare. Evidentemente
ce l’aveva nel sangue. Chi davvero
sa come si trasmettono e riproducono
comportamenti e coscienze?…
Da giovane, devo confessare,
questo modo di fare m’irritava.
«Basta!…» sbottavo
e me ne andavo.
A volte, ora capita,
di vederlo trascritto in me stesso.
Come se il comportamento negato
venisse assunto più di quello ammirato.
Che strano modo di contagiarsi!…
LA PROMESSA DELL’OLMO
Tutt’altro che rarefatto il nostro amore
si conserva meglio d’un vino di riserva.
Gli anni non l’annacqueranno, gli daranno
corpo, vivacità, colore, un retrogusto
d’ immagini e parole tatuate sui
nostri volti con inchiostro indelebile.
Morire non mi farà uscire dalla tua vita.
Sul tavolo giocheremo solo un’altra
partita. Non è detto che sia più difficile
di questa che ora conduciamo.
Io sarò invisibile e tu resterai sulla pagina,
non come il doppio di me o come specchio,
ma come invaso di ruscelli, apparecchio
ricevente, circuito febbrile della mente
che s’attiva. Per me sei tutto: gioco d’origine
infantile, velivolo conoscitivo, banchetto,
congiunzione astrale, preghiera, colloquio,
piacere prediletto di parole, simposio
razionale-irrazionale, cosciente-
incosciente…
——————Sei lotta carnale con me stesso,
mentale per tener fede alla promessa
del nostro primo incontro: un gioco
adolescente in cui succhiasti gocce
di sangue dal braccio scorticato,
mentre m’arrampicavo sull’olmo.
T’avrei amato per sempre, ti dissi,
t’avrei donato il distillato migliore
delle mie ferite. T’avrei curato.
Così eccomi qua, pure stamattina
a ripeterti la dichiarazione, a rileggerti
il giuramento scritto sulle labbra
di questa perenne alluvione
che è la storia.
Ottobre-Novembre 2016
Grazie Donato seguo i tuoi scritti da tempo la tua poesia meriterebbe ampia divulgazione. Questo regalo è ancora più prezioso in questi giorni grigi di pioggia .
1.
Mi dispongo a leggere Donato Salzarulo e sento la naturalezza con cui scrive, come un camminare, come parlare e riflettere, e rivolgersi in dialogo corrente con i con-viventi, dialogo esplicito anche se solo mentale.
“Quali vie deve
ancora percorrere la poesia?…
Semplice: tutte quelle su cui è
incamminata o s’incamminerà
la ‘moltitudine poetante’
esodante o non esodante.”
Ma presto entra in temi seri, sul proprio essere poeta della moltitudine poetante, a partire dal rapporto con la tradizione:
“quale verso hai scritto
da tramandare a memoria nei
prossimi cinquemila anni?…
…
A continuare così per tutta la giornata,
la depressione è assicurata.”
Quindi passa dai morti ai vivi: essere nel tempo presente e scacciare l’illusorietà di durare negli scritti per millenni. Molte le interrogazioni e molte le opposizioni: poesia accogliente o tagliente? mura invisibili? godimenti apparenti?
Da uomo meridionale, antico greco, poeta eleatico del materialistico Essere di Parmenide e dell’atomismo lucreziano, senza fiducie ottimistiche, per Donato lo squallore presente è solo sociale, non il suo essere transeunte; le barre invisibili sempre sociali, non esistenziali, così è sempre sociale lo scrivere, per sè e per gli altri.
Tuttavia, pur cedendo alla lusinga che la sostanza del vivere sia il piacere, anche il piacere mentale di chi scrive la poesia, la chiude con sarcasmo e con i quattro versi progressivamente più brevi:
” Così dalla camera
del cuore si sprigiona
l’ultimo soffio
di vapore.”
2.
” … Sarebbe stato bello se ‘viola’
fosse solo la mia ‘viola’ e non significasse
un mondo così ampio. Invece, non era così.
E, in fin dei conti, non mi dispiaceva.
La parola ‘viola’
nella sua materialità sonora
… potevo trattarla come
un sasso, contemplarla, sentirne
l’apertura all’io, l’allegria del contatto,
il tepore primaverile, il disgelo,
il colore del pensiero, il dono,
la lotta, l’amore…”
Ogni volta che leggo versi così colmi di scrittura, di riflessione e di ricchezza letteraria, mi viene spontaneo richiamarmi alla mente il prologo di Giovanni: al principio era il Logos.
3.
Non mi metto a analizzare anche le altre poesie, che sono lì da leggere.
Credo che Donato Salzarulo la pensi come me: in questi tempi, di poesia è meglio metterne poca ( qui intendendo per poesia il “semplice” uso della metafora). Ma forse intendiamo diversamente quel che poesia non è: per lui è prosa, come per comunicare in una lettera qualcosa di privato, oppure sul proprio diario; mentre per me è accadimento, luogo in cui la realtà finisce col turbinare in vortici di immagini e rumore. Questa differenza non è in sé molto importante, però spero aiuti a riflettere sulla prosa: quella scritta da un autore di romanzi e quella scritta da poeti; perché, almeno questo è il mio punto di vista, per un poeta la prosa è uno “strumento” al pari di tanti altri che ha a disposizione. Se a scriverne è un poeta lo si capisce subito, se lo fa un romanziere altrettanto.
I suoi a me sembrano scritti di saggezza, doni che l’età matura spesso sa e può offrire; toccano un po’ troppo facilmente le corde dei buoni sentimenti ma ci mette qui è là dell’ironia, perfino dell’umorismo; si guarda dentro guardandosi indietro (“si”, se stesso) innumerevoli volte rispecchiandosi in sentimenti languidi e libri di qualità…
Ma poesia? E’ quella che scrive o che va cercando nei libri?
CINQUE APPUNTI SU “SOFFIONI BORACIFERI E ALTRE POESIE”
1.
Questo è per me un *saggio in versi*. In una forma narrativo-diaristica Donato [Salzarulo] riconferma la sua fedeltà a una visione della poesia soprattutto come lirica. Che deve conservare un solido nucleo – molto intimo, molto soggettivo e poco incline a farsi mettere in discussione da quello che, per semplificare, chiamo l’extrapoetico (storia, politica, ecc.). Come dichiara in questi versi, per Donato la poesia va scovata e inseguita in tutto ciò che dà un piacere diffuso: «La trovi ovunque c’è luce, passante,/ bosco incantato o non incantato», ecc.).( Impossibile pare, infatti, trovarlo nella storia, nella politica, nel conflitto). Anche perché un tale piacere si fonde/confonde con un certo tipo di eros e con un certo tipo di femminile («T’avrei amato per sempre, ti dissi,/ t’avrei donato il distillato migliore/ delle mie ferite. T’avrei curato» ecc.) e va golosamente e gelosamente perseguito nell’innamoramento per la parola, che ha la funzione di raccoglierlo,distillarlo, di prolungarlo nei versi.
2.
Quella di Donato è davvero, come sostiene Mayoor, «prosa, come per comunicare in una lettera qualcosa di privato, oppure sul proprio diario»? Non mi pare. Donato non si confessa come fa un adolescente. E non si dimentichi che ha fatto nella vita il maestro, il dirigente scolastico, il politico e che ha ottime competenze letterarie. I suoi intenti sono semmai più didascalici. Non cede all’ effusione “sincera” o “autentica” (si dice) delle sue emozioni. E anzi direi,a differenza di Mayoor, che di prosa-prosa (nel senso più rigoroso, quella che lavora sui significati, i concetti, la loro coerente esposizione in grado di controbattere le eventuali obiezioni di filosofi, politici, storici,…) ce n’è meno di quella che si può pensare. Donato si mantiene programmaticamente ( per scelta di poetica e anche per visione politica) sul piano di un discorso amichevole e cordiale. Mira alla condivisione. Anche quando polemizza. (E, se lo fa, sceglie modi impliciti e obliqui perché procede poggiandosi sempre sul senso comune dei lettori-interlocutori che si sceglie). Mayoor parla a ragione di «scritti di saggezza, doni che l’età matura spesso sa e può offrire».
3.
Ho però l’impressione che il suo ricorso alla forma narrativo-diaristica del *saggio in versi* alleggerisca dei contrasti che sarebbero più evidenti, se egli argomentasse in prosa la sua visione del mondo e della poesia. Ad esempio, io qui ci trovo “liquidati” due problemi sui quali in questi anni molto mi sono scervellato :
– quello della “poesia esodante”, che per me è *una via* da distinguere meglio dalle altre vie che ecumenicamente o pluralisticamente oggi vengono ammesse. «Cento» addirittura, secondo D’Elia, con la cui posizione, caldeggiata da Muraca nel 2010, polemizzai: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Abate_QUALE_POESIA_OGGI_26_MAG_2010.pdf ); e mi riferisco a questi versi: «A me viene da scrivere, scherzando:» e «Quali vie deve /ancora percorrere la poesia?…/ Semplice: tutte quelle su cui è / incamminata o s’incamminerà/ la “moltitudine poetante”/ esodante o non esodante»;
– quello dei “moltinpoesia”: «inutile, caro lettore, affannarsi/ su questi versi malfatti», che mi pare – viene di fatto cancellato con una specie di “ritorno all’ordine” e alla “poesia seria” e “duratura” di una volta: «Meglio/ dedicarsi ai morti, alla biblioteca/ dei morti, a quelle opere che, come/una volta a scuola s’insegnava,/durano nel tempo…».
4.
Se si fa poi attenzione al susseguirsi delle scene della narrazione/diario, si noterà che l’intera composizione è costruita sullo schema: stato di serenità – sua interruzione – ricomposizione del medesimo. Come in una fiaba o come di solito avviene in un certo filone sublimante della poesia (non solo contemporanea), la contraddizione viene felicemente ricomposta.
Infatti, abbiamo all’inizio raccoglimento e serenità, che esaltano il piacere intimo e personalissimo della lettura (di un io del tutto privato):
Da ieri sera frequento
i racconti di una scrittrice irlandese:
lucidi, ben scritti, gremiti di dettagli
mi riportano ai giorni della mia
infanzia pugliese, al tempo del mio
passato contadino…Brava, bravissima,
sa tenermi incollato alla pagina
per ore.
Il passaggio successivo introduce una situazione di depressione, una minaccia che viene dall’esterno, da altri tipi di letture. Quando Donato (la voce poetante) dice che, «imbarcato sul sito di/Poliscritture», viene a trovarsi in contatto con – diciamolo – intellettualistiche elucubrazioni o, passando ai giornali, con la loro cronaca “velenosa”.
Ed, infine, si ha il “risorgimento” (dalla depressione spirituale e dai veleni sociali) a contatto con Celan e col suo amore «assoluto» per la poesia. Si precisa che Celan «non amava, questa poesia-terapia». E pure che la poesia non dovrebbe «cercare, né il piacere,/ né la seduzione», ma «la verità». Che – importantissimo – «è veleno/di cicuta». In fondo, però, tutto questo veleno in poesia non si deve vedere, non deve entrarci. Dato che la poesia non può «amare gli altri se non ama/ se stessa». (Accomodamento o ribaltamento postmoderno del detto evangelico? Pendenza del conflitto io/noi a favore dell’io e del “giardinaggio poetico”?). Così la poesia finisce appunto per mettere sullo sfondo l’extrapoetico e accomodarsi nei suoi paesaggi, sempre più o meno ameni o idilliaci:
La trovi ovunque c’è luce, passante,
bosco incantato o non incantato,
metropoli fremente, attenzione
al salice piangente, alla foglia in bilico,
fragile germoglio, pietra, fiume, ombra,
preghiera, sguardo intento, tormento di
un monte, sorriso, silenzio, occhi…
5.
E la violenza nella storia, nella politica, tra “le pareti domestiche”? Non turba la poesia e i poeti? (Quanto ne abbiamo discusso per il n.12 di Poliscritture dedicato alla guerra…). Qui il problema pare «semplice» e (a parole) la soluzione rassicurante:
“La poesia non raddrizza le violenze
della storia…Immagina soltanto
un altro mondo, un’altra via…
Se – in prosa! – incalzassimo il *saggio in versi* di Donato con una domanda forse troppo acuminata e “cattiva”: E se e quando se lo immaginerà o se lo immaginasse, che succederebbe? I suoi lettori e una vasta fetta dei poeti e dei lettori di poesia scuoterebbero la testa e converrebbero – lo so – mettendo molti “mi piace” a questi suoi bei versi:
Sei lotta carnale con me stesso,
mentale per tener fede alla promessa
del nostro primo incontro: un gioco
adolescente in cui succhiasti gocce
di sangue dal braccio scorticato,
mentre m’arrampicavo sull’olmo.
vero, ma la magia accade se scomponi il testo in strofe; guarda caso eliminando il resto…
Mi sembra che Salzarulo abbia preso troppo alla lettera quanto disse Fortini a proposito della poesia, se non ricordo male, lo riportasti tu su Poliscritture: una scrittura con molti a-capo.
Insomma, voglio dire: “sei lotta carnale (…) sull’olmo” acquista forza se tolta dal contesto che la banalizza.
… come dicevo sopra, meglio se di poesia ve n’è poca. Nel qual caso però bisogna stare attenti che leggere poesia non diventi come andare per funghi.
…secondo me, per Donato Salzarulo la poesia coincide con la vita, il respiro stesso, è anche “come andar per funghi” (Mayoor) per boschi e montagne per prendersi una pausa, per riflettere…Ma non è solo un patto d’amore, un piacere privato e da condividere, è anche un patto di sangue, una forte responsabilità verso gli altri, un coinvolgimento morale. Il suo aut aut precede l’et et, in certe persone “riposa” nello stesso DNA. Scusate un paragone, mi viene in mente il personaggio di Zorro: la sua normalità, amante degli affetti, dei piaceri e del bello, e il suo impegno mascherato, uomo di pace e di lotta: “…muta la rosa,/ muta la ginestra, la verità è veleno/ di cicuta”
UN CALAMARO. CHE FELICITÁ!…
«Meglio se di poesia ve n’è poca.
Nel qual caso però bisogna stare attenti
che leggere poesia non diventi
come andare per funghi.»
Mayor
Le giacche spesso hanno bisogno di toppe.
Il problema è trovare quelle giuste.
Su un blu scuro, un tempo, si sceglieva
un blu chiaro. Oggi va bene anche un rosso
squillante o un giallo. L’armonia può
essere dissonante come un pugno
nell’occhio. La critica del gusto
ha perso terreno. Occorre spararle grosse,
essere eclatante per tenersi a galla.
La regola è la provocazione. Per questo
preferisco chi si tira fuori, chi la mattina
parte per andare a funghi o a castagne
piuttosto che farsi lo spirito amaro,
urlare, sbraitare, scomporsi…
La rissa non è il mio forte.
Dopo quattro ore di pesca ieri notte,
Ledo, mio cognato, ha portato a casa
un calamaro. Che felicità!…
27 Novembre 2016
Io invece sono afflitto per la sconfitta della Juventus. Però questa faccenda della poca poesia mi interessa davvero; m’interessa se corrisponde a una scelta precisa, che non sia semplicemente quella di voler adottare, in poesia, un linguaggio prosastico, o parlato; per esempio non si vorrebbe infiocchettare ulteriormente quel che è già bello e vero di suo. Può essere anche una sfida verso se stessi a misurarsi con poeti del calibro di Milosz, ad esempio. Oppure viene naturale, e allora penso che non si sia poeti, che poi non è un’umiliazione ma solo qualcos’altro, che potrebbe essere anche piacevole, perché no? Però, a questo punto, mi piacerebbe conoscere meglio il tuo modo di concepire la poesia. La tua. Non scherzo, ho sempre da imparare. Tu poi sei un bravo insegnante, ne sono certo. Grazie
APPUNTI DIALOGANTI (1)
Ringrazio di cuore tutti quelli che finora sono intervenuti. Con le loro impressioni di lettura, annotazioni e osservazioni critiche mi aiutano, mi danno un feed-back per me importantissimo. Come scrivo in “Soffioni boraciferi”: «bisogna appoggiarsi / alle persone che inferno non sono, /
occorre frequentare chi ci rilancia, / chi ci dona una mano con amore / per condurci oltre il presente / squallore.» Il che non significa soltanto incoraggiare come fa Giulia Celati “una più ampia divulgazione” di queste poesie considerate un regalo prezioso “in questo giorni grigi di pioggia”, divulgazione che per quanto riguarda la poesia spesso è un passaparola (cosa che Giulia potrebbe fare e la ringrazio anticipatamente); significa soprattutto mettersi in ascolto. Recentemente ho letto dei frammenti di un testo di un grande drammaturgo, Antonio Neiwiller. Dice:
È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di sé.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie e l’orrore,
per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo diranno.
[…]
È tempo che l’arte trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione.
È tempo che esca dal tempo astratto del mercato,
per ricostruire il tempo umano dell’espressione necessaria.
Ci vuole un altro sguardo
per dare senso a ciò
che barbaramente muore ogni giorno omologandosi.
E come dice un maestro:
«tutto ricordare e tutto dimenticare».
Ovviamente, non pretendo che ci si metta in ascolto soltanto dei miei “Soffioni” o delle mie poesie. Intendo un ascolto delle persone, delle loro “espressioni necessarie”, dei loro sguardi, delle loro relazioni. “Critica dialogante” la chiama il mio amico Abate e credo che sia un atto giusto, una scelta culturalmente e politicamente saggia, previdente.
Per farmi perdonare, se la mia critica è parsa poco dialogante, invio un infruttuoso tentativo di prosa-poesia nel quale spero si capirà quanto sia difficile scrivere tra il dire e il fare, come fosse poesia:
Tonno in scatola.
Scelgo per il futuro una scatoletta di ferro
dalla forma di bara, con una finestrella, un oblò
dove si capisce che dentro è stata imbrigliata
la morte. Una scatoletta chiaramente elettronica
capace di produrre molteplici effetti; come
il silenzioso apri-chiudi con giunture gommate,
diverse suonerie di carillon e all’occorrenza
il movimentato sound di “Che morte non ci separi”
versione gospel ( nel caso non si sentisse).
E tuttavia un futuro c’è. In riserva di giorni
ma c’è. Ho tempo per bluffare una coppia d’assi
e cercarmi qualcuno con cui giocare.
Chiederò alle persone: io coppia d’assi e lei?
Doppia di sei e sette! Al che, dal momento
che sono solito giocarmi tutto, se aprissi la scatoletta
non avrei alcun debito da pagare a chicchessia.
Me ne starei seduto da qualche parte nell’universo
coi capelli resi bianchi dallo spavento di essere
venuto al mondo. Tutto per aver ceduto a quei due
la parte sinistra del mio cuore – per sempre –
sul tappeto volante del loro romanzo; una sera
d’agosto, quando ancora la terra mi sembrava
un brulicare di atomi, il mare un piatto di delfini
argentati e pensavo la terra abitata principalmente
da allegre famigliole di topi. Il paradiso.
Carissimo Mayor, desidero tranquillizzarti. Trovo le tue osservazioni utilissime. Tra l’altro mi hanno regalato “Un calamaro. Che felicità!…”. Senza le tue annotazioni, non avrei mai potuto scrivere un simile testo. Con i miei “Appunti dialoganti” sto cercando piano piano d’interloquire con tutti voi… Bella la poesia che hai postato. La leggerò, rileggerò e ti dirò la mia.
Ciao
Donato
APPUNTI DIALOGANTI (2)
1. – L’intervento di Cristiana coglie un elemento essenziale del mio fare poesia, quando scrive «sento la naturalezza con cui scrive, come un camminare, come parlare e riflettere, e rivolgersi in dialogo corrente con i con-viventi, dialogo esplicito anche se solo mentale.»
Probabilmente mi porto dentro echi di una poesia notissima di Saba che s’intitola “AMAI”. Dice:
«Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.»
“Ai poeti resta da fare la poesia onesta”…Questo era il compito che Saba si era dato. Egli metteva a confronto Manzoni con d’Annunzio e sosteneva che i versi degli “Inni sacri” e dei Cori dell’”Adelchi” erano “mediocri e immortali”, mentre quelli delle “Laudi” erano “magnifici”, ma “per la più parte caduchi”. I primi erano versi onesti, i secondi disonesti. Perché?…Perchè D’Annunzio, secondo Saba, «esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento; e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso».
L’onestà del Manzoni, invece, la si poteva rilevare nella «costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione».
Penso che queste considerazioni e valutazioni siano ancora attuali.
Una ventina d’anni fa ho scritto un una poesiola che dice:
«Fai il bravo.»
Col sopracciglio così raccomandavi.
Ed io, slanciato nell’alta promessa:
«Certo, sarò bravissimo!»
Tu allora accennavi un gesto di sapienza
negli occhi tersi, mi riportavi
alle parole di partenza:
«Fai il bravo. Tanto basta
per non perderci.»
2. Cristiana poi scrive: «Da uomo meridionale, antico greco, poeta eleatico del materialistico Essere di Parmenide e dell’atomismo lucreziano, senza fiducie ottimistiche, per Donato lo squallore presente è solo sociale, non il suo essere transeunte; le barre invisibili sempre sociali, non esistenziali, così è sempre sociale lo scrivere, per sè e per gli altri.»
In queste parole non mi ci ritrovo. Nulla di male, vien da dire. In fondo, chi legge può vedere aspetti che chi scrive non vede. Qui mi limito a precisare che non sono interessato soltanto al presente squallore sociale. Sono interessato anche alle mie atmosfere nere, alla “nuvola densa di vapori” che scivola già dalla mia fronte, alle mie depressioni, nostalgie-malinconie, alle mie scorticature, alle mie ferite, al mio morire, che non vorrei affrettare, perché come diceva mia madre, “qui so cosa fare, dall’aldilà, invece non è mai tornato nessuno a raccontarci meraviglie”. Amletica, macerata, ma non mistica: non credeva alla dantesca “candida rosa” dei beati. Per questo, forse, seguendo il suo insegnamento, prendo le distanze da Celan. Se la verità della poesia si fa “veleno di cicuta” (ossia, suicidio), meglio la posizione di quella Lei che successivamente oppone “La verità è il fuoco del giorno…”
Ma era proprio questo che Celan
non amava, questa poesia-terapia,
questa sublimazione che favorisce
lo spirito di riconciliazione
con questo modo immondo d’essere
del mondo.
Non è la bellezza
che devi cercare, né il piacere,
né la seduzione. Muta la rosa,
muta la ginestra, la verità è veleno
di cicuta.
«La verità è il fuoco del giorno…»
– dice lei mentre m’ascolta – «La poesia
non può amare gli altri se non ama
se stessa…»
Certo, le ultime parole sono un adattamento del secondo Comandamento (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”), ma che c’è di male a riprenderlo?…Il suo contenuto di verità è forse sbagliato?…Io non sono un cristiano, un fedele, un seguace del Verbo, ma non mi va di buttare alle ortiche queste “trite parole”, ascoltate sin da bambino, per il timore di toccare, come scrive Mayor, nel suo primo commento “un po’ troppo facilmente le corde dei buoni sentimenti”. Buoni sentimenti?…Tenere a bada o reprimere il Caino che c’è in noi mi sembra un dovere morale.
3. «La sostanza del vivere sia il piacere, anche il piacere mentale di chi scrive la poesia…». Mi sono ritrovato spesso fra le pagine dell’Etica di Spinoza. Sono convinto che la “cupiditas” sia una molla fondamentale dei nostri comportamenti. Neanche penso che vada misconosciuto il “piacere mentale” che lo scrivere può produrre. Ho spesso in testa il titolo di un bel libro di Maria Corti su Cavalcanti e Dante: “La felicità mentale”. Un sintagma straordinario. Devo, però, confessare che scrivere non sempre mi procura un piacere duraturo. Per me è un’avventura che può farsi insidiosa, pericolosa. Ci si può imprigionare. Tra i versi che l’Io poetante dei “Soffioni boraciferi” considera memorabili, “durevoli”, si trovano questi due:
«Come soffione il giallo offre l’avallo
per questa lunga insidia che mi covo».
La poesia può diventare, allora, una lunga insidia.
Sono lieto, il dialogo si è fatto vivificante. Anche l’incomprensione aiuta se porta spiegazioni e chiarimento. Non vengo qui a commentare per fare complimenti, ma anche egoisticamente per nutrirmi. Quindi ringrazio… anche per il calamaro 🙂
Ecco come Donato si riferisce alla critica dialogante: “ascolto delle persone, delle loro ‘espressioni necessarie’, dei loro sguardi, delle loro relazioni”. Queste parole richiamano le persone in carne e ossa. A volte, decodificando la scrittura, il rapporto con la/le persone reali si raggiunge, a volte invece no, occorrono chiarimenti, altri testi, altra scrittura.
Lo scambio ripetuto tra Donato e Mayoor è qui a dimostrarlo, come anch’io ho letto Donato pitturandolo sullo sfondo di Orazio, mentre avrei dovuto, leggendo meglio, avvertire che la presenza femminile, madre in primis, Orazio lo metteva alle spalle.
La scrittura è un mondo parallelo, un doppio del mondo reale ma non autosufficiente, occorre un continuo passaggio tra il mondo in cui viviamo e quello dei testi, per ravvivarli e vivificarli.
È tempo che l’arte trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione.
È tempo che esca dal tempo astratto del mercato,
per ricostruire il tempo umano dell’espressione necessaria.
Ci vuole un altro sguardo
per dare senso a ciò
che barbaramente muore ogni giorno omologandosi.
Nello spazio della scrittura è necessario introdurre il tempo umano, espressione e ascolto, “‘Critica dialogante’ la chiama il mio amico Abate e credo che sia un atto giusto, una scelta culturalmente e politicamente saggia, previdente”.
APPUNTI DIALOGANTI (3)
L’intervento di Abate è molto articolato e coglie elementi essenziali di queste composizioni. Gliene sono grato. Trovo molte sue annotazioni ben formulate, ma non del tutto convincenti. Vado per ordine, seguendo i suoi punti.
1. “ *Saggio in versi* e forma narrativo-diaristica”. Ho delle perplessità sulla definizione di “saggio in versi”. È vero che in un saggio si possono trovare, mescolati tra di loro, oltre che nuclei di tesi ed argomentazioni, aneddoti, evocazioni, aforismi, ritratti, dialoghi, ecc., io, però, scrivendo, più che al saggio, pensavo al teatro.
Introducendo, ho precisato che le poesie presentate fanno parte di un “ciclo poetico” più ampio. In altre composizioni, infatti, quest’aspetto teatrale viene esplicitamente enunciato:
«Non è un concerto quello che ho dentro,
ma un condominio litigioso, un teatro
a cielo aperto, un quartiere napoletano.
Il personaggio peggiore è Bomboletta
Spray: sta sempre alla finestra
e spruzza, instancabile, acido corrosivo
sulle pareti del cuore. Invidiosa, ha un viso
molle, di fango e lo schizza dappertutto,
distruggendo qualsiasi intento di bellezza.
Gettarmi nelle sabbie mobili, ecco il suo scopo,
tormentarmi, paralizzarmi, affogarmi.
Bomboletta è diabolica. Si nasconde bene,
si maschera, si traveste.»
Penso che questo aspetto teatrale si possa cogliere anche in “Soffioni boraciferi”, sin dalla prima strofa:
Oggi qualcosa ha mutato l’atmosfera
del tuo viso. Nei tuoi occhi non piove,
ma li vedo più piccoli come se
una nuvola densa di vapori
scivolasse giù dalla fronte…
Qui non è detto che l’Io parlante coincida con l’Io poetante. Sembra che un Io “esterno” si stia rivolgendo all’Io poetante-Tu facendogli notare che qualcosa ha mutato l’atmosfera del suo viso. Come quando qualcuno/a ti dice: “Che faccia nera hai!”…
Più avanti, infatti, si dirà: “Sto scrivendo / e mentre lo faccio m’accorgo / che mi sta passando quell’atmosfera / un po’ nera che stamattina mi / circolava per la mente”. In questi versi il Tu, che si è visto inizialmente attribuire “una nuvola densa di vapori”, confessa d’essere l’Io.
Probabilmente avrei dovuto far risaltare meglio questa differenza, mettendo tutta la prima strofa tra virgolette, come se l’Io poetante stesse riportando le parole di un altro Io.
Sdoppiamenti-scissioni fra Io e Tu si ripetono più avanti:
Ecco, perché scrivi.
Per tirarti su, per trovare ragioni
alle tue delusioni. Per ripararti,
rimetterti in sesto. Anche perché
qualcuno aspetta i tuoi versi.
[…]
Non è la bellezza
che devi cercare, né il piacere,
né la seduzione. Muta la rosa,
muta la ginestra, la verità è veleno
di cicuta.
Nella penultima strofa, infine, compare una Lei di cui si riportano, correttamente fra vigolette, le parole e i pensieri relativi alla domanda di fondo sulla poesia ( Che cos’è?…Se serve, a cosa serve?…ecc.)
«La verità è il fuoco del giorno…»
– dice lei mentre m’ascolta – «La poesia
non può amare gli altri se non ama
se stessa…È cosa, linguaggio-mondo.
Oltre all’Io “esterno”, il Tu-Io poetante coi loro sdoppiamenti, il Lei, è possibile cogliere in alcune strofi una sorta di voce impersonale. Qui, ad esempio:
«La poesia non può essere buonista,
pacifista, accogliente. Deve imparare
ad essere tagliente contro il comando
dei prepotenti, contro chi predica
la selezione naturale, la lotta animale
per la sopravvivenza… »
Chi parla in questa strofa?…Da chi proviene questa voce-tesi portatrice di una specifica esigenza di lotta, contro il comando dei prepotenti?…
Insomma, non nego che queste composizioni abbiano una forma narrativa. Considero, però, importante non lasciarsi sfuggire quest’aspetto teatrale del testo, perché teatro vuol dire varietà di voci, personaggi, figure in conflitto che, solo raramente dialogano. Il più delle volte, sviluppano le loro azioni, tenendo conto degli altri, solo per raggiungere meglio i loro obiettivi consci o inconsci.
Ovviamente, il teatro si svolge nella mente dell’autore e le voci, le figure, i personaggi sono “parti interiorizzate” del teatro individuale/sociale, parti tutt’altro che armonizzate. Come sosteneva Francesco Orlando i testi letterai sono “formazioni di compromesso”. L’Io stesso, che sembra guidare la danza, è prismatico.
«Sei lotta carnale con me stesso,
mentale per tener fede alla promessa
del nostro primo incontro»
2.- Avrei «una visione della poesia soprattutto come lirica. Che deve conservare un solido nucleo – molto intimo, molto soggettivo e poco incline a farsi mettere in discussione da quello che, per semplificare, chiamo l’extrapoetico (storia, politica, ecc.).». Anche in questo caso ho delle perplessità. Ho notato, ad esempio, che Cristiana, citandola, ha tagliato, in un certo modo, la seconda poesia:
«… Sarebbe stato bello se ‘viola’
fosse solo la mia ‘viola’ e non significasse
un mondo così ampio. Invece, non era così.
E, in fin dei conti, non mi dispiaceva.
La parola ‘viola’
nella sua materialità sonora
… potevo trattarla come
un sasso, contemplarla, sentirne
l’apertura all’io, l’allegria del contatto,
il tepore primaverile, il disgelo,
il colore del pensiero, il dono,
la lotta, l’amore…»
Inoltre, mi sembra molto interessante la reazione di Mayor di fronte a questo gruppetto di versi considerati belli da Abate:
Sei lotta carnale con me stesso,
mentale per tener fede alla promessa
del nostro primo incontro: un gioco
adolescente in cui succhiasti gocce
di sangue dal braccio scorticato,
mentre m’arrampicavo sull’olmo.
È vero, sono bei versi, sostiene Mayor «ma la magia accade se scomponi il testo in strofe; guarda caso eliminando il resto…[…] Insomma, voglio dire: “sei lotta carnale (…) sull’olmo” acquista forza se tolta dal contesto che la banalizza.»
Personalmente intendo che se avessi fatto una scelta più da “poesia lirica”, avrei montato i miei versi, privilegiando le accensioni, le verticalizzazioni, il “dare forza alla parola” decontestualizzandola, …In fondo, chi ha tagliato così il testo oppure ha sottolineato alcuni versi rispetto ad altri è come se implicitamente avesse detto: “La poesia è qui!…”
Ma è proprio quello che io non ho voluto fare, proprio perché desidero che la narrazione, messaggera della “prosa del mondo”, non venga tagliata fuori, espunta.
Per me l’extra-poetico oggi è questo. È la citazione ironica di un episodio di cronaca che sembra negare l’antropologia fortiniana contenuta nel verso “Gli uomini sono esseri mirabili”; sono gli interrogativi (retorici) sulla “fabbrica dell’orrore”, sulle mura visibili e invisibili erette intorno a noi, sull’industria della comunicazione in cui tutti siamo finiti…
«Ma non è che
siamo tutti finiti in una grande fabbrica
dell’orrore? Oltre a quelle visibili,
non è che hanno eretto intorno a noi
mura invisibili contro cui sbattiamo,
barriere insormontabili di godimenti
apparenti?… Tutta quest’industria
della comunicazione non ha forse
legato ognuno a una cuccia in cui
dormire e mangiare, esibirsi,
copulare e ogni tanto abbaiare?…»
Per il resto, è vero: il mio fare poesia contiene «un solido nucleo – molto intimo, molto soggettivo»… Questo per me non è, però, in prima approssimazione, un limite. È un fatto positivo. Un autore, in fondo, si riconosce dalla sua voce. Anche se accettasse di cantare in un coro, lo farebbe, comunque, con la sua voce che avrà sicuramente il suo calore, timbro, singolarità.
3. – Presenza /Assenza di «prosa-prosa (nel senso più rigoroso, quella che lavora sui significati, i concetti, la loro coerente esposizione in grado di controbattere le eventuali obiezioni di filosofi, politici, storici,…) ce n’è meno di quella che si può pensare.»
Su questo punto sono perfettamente d’accordo.
Un giorno, «Guarda!…» comandasti
mentre passeggiavamo.
E raccogliendo una foglia
di platano me la mettesti
sotto gli occhi controluce.
Fu un lampo. Non trovavo
parole per dire la ricca
nervatura che percepivo.
Sentivo la linfa, quasi l’intero
universo pieno di vita e forme…
Ero io quella foglia
e non ero solo un pensiero,
un sentimento.
In questi versi ho cercato di affermare un principio di fondo: i referenti delle parole e dei concetti sono mille e mille volte più ricchi di qualsiasi significato/significante. Il significato ha uno spettro semantico più ampio del significante che può essere contemplato come un sasso. Il “legame musicale” si sviluppa tra significanti, quello “semantico” tra significati. Sia l’uno che l’altro non riescono, tuttavia, a rendere la ricchezza della molteplicità. Per quanto mi riguarda sono d’accordo con Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.»
L’immediatezza, l’empatia, il sentimento dell’Uno sperimentato dai cultori di poesia è diverso da quello fabbricato razionalmente dai filosofi coi concetti. In poesia, cerco di non argomentare. Al massimo narro, evoco qualche scena o situazione, commento con qualche sentenza, faccio domande, dialogo, immagino… Ho simultaneamente gli occhi sulle immagini (come se fossi un pittore) e le orecchie attente al ritmo e al suono (come se fossi un musicista). Infine decide lo sguardo.
Perché forse eri tu
il mio palloncino rosso
che nella foto coi miei cugini
tenevo stretto stretto tra le dita
e poi chissà per quale gesto inconsulto
m’è sfuggito di mano e se n’è
volato via…Lontano, lontano,
sempre più lontano ed io con gli occhi
in aria come uno scemo
a guardarlo.
Ecco, per me questa è poesia. C’è quello “scemo” nel penultimo verso che attribuito a un bambino lascia un po’ sconcertati. Ad auscultare il legame musicale tra i versi, si nota, però, che “scemo” assuona con “gesto”. È stato un gesto scemo, inconsulto a far volare via il palloncino rosso che il bambino si teneva “stretto stretto”. Anafora per indicare un forte possesso affettivo, allitterante con “gesto”… La catena fonica dunque è: “stretto stretto”, “gesto”, “scemo” e dice l’essenziale. A volte per un gesto scemo perdiamo qualcosa (o qualcuno) a cui teniamo molto. Conclusione: attenti alle relazioni, attenti ai gesti inconsulti, scemi.
«La poesia non raddrizza le violenze
della storia…Immagina soltanto
un altro mondo, un’altra via…»
Il mio amico Abate vorrebbe che io argomentassi su quest’altro mondo che immagina la poesia, su quest’altra via. Ma questi non sono già argomenti?…Imparare a costruire relazioni interpersonali non sorrette soltanto da sguardi concettuali, che sono astratti e poveri, incapaci di cogliere la ricchezza del reale; evitare gesti scemi perché potremmo perdere ciò a cui teniamo tanto, ecc. ecc. non è un modo di immaginare un mondo?…
4. – Al punto 4 del suo intervento Abate scrive: «si noterà che l’intera composizione è costruita sullo schema: stato di serenità – sua interruzione – ricomposizione del medesimo. Come in una fiaba o come di solito avviene in un certo filone sublimante della poesia (non solo contemporanea), la contraddizione viene felicemente ricomposta.»
Non è così. La situazione iniziale del Tu-Io poetante è d’umor nero, depressiva.
«A continuare così per tutta la giornata, / la depressione è assicurata.» La situazione iniziale, quindi, è d’umor nero. Una situazione che comporta un rimpicciolimento degli occhi
(percezione/conoscenza) e la presenza metaforica di “nuvola densa di vapori” che sembra scivolare giù dalla fronte. Il titolo chiarisce che si tratta di “soffioni boraciferi”, ossia di emissioni violente di vapore, provenienti da spaccature del corpo-suolo.
Legati al vulcanismo secondario, questi soffioni si sviluppano durante la fase di stasi di un vulcano, tra un’eruzione e la successiva, oppure durante le ultime fasi della sua vita.
Qual è il mondo di “Soffioni boraciferi”?…Cosa racconta il testo?…Quale storia?…Mi sforzerò di rispondere a queste domande nei prossimi Appunti.