di Giorgio Mannacio
I.
La vastità del mare aperto, che non pone neppure un ostacolo fisso allo sguardo, sembra attuare pienamente quella riflessione circa la successione degli spazi in una serie infinita che è il fuoco centrale di una delle meditazioni leopardiane. Di quest’ultima resta irrisolto però, in una pluralità di significati , il verso finale che suona così: e naufragar mi è dolce in questo mare.
Vogliamo credere che la perentorietà della chiusa non segnali uno scacco della ragione ma, piuttosto, il suo limite che si esprime nell’ossimoro testuale della dolcezza di un evento altrimenti funesto.
Di fronte al concetto di infinito e alla sua rappresentazione fisica, la ragione non si perde affatto, non si dilata disordinatamente secondo la suggestione della serie senza fine dei numeri, ma si concentra sull’oggetto della propria ricerca, ne individua i confini e, su ciò che in essi è compreso, scava con profondità inaudita e coraggio indomito. Acquista allora un senso concreto quello che Cassirer attribuisce a Nicolò da Cusa e cioè l’ardire dell’originale affermazione secondo cui il cerchio è niente altro che un poligono con una infinità di lati.
L’enunciazione, che può apparire quasi un motto di spirito, un’arguzia intellettualistica per uscire da una aporia, rivela, sotto più aspetti, una concisa verità.
Se il riconoscimento dei limiti della conoscenza non sfocia in un nihilismo radicale, cioè nel rifiuto della esistenza stessa, è proprio in virtù della lettura interna del significato del limite.
Esso individua semplicemente un traguardo ma non si esprime rispetto al raggiungimento possibile di altri traguardi aperti alla forza della ragione e quindi anche alla confessione di un’incapacità temporanea.
Quando gli spazi aperti, anziché distrarci, favoriscono una maggiore concentrazione (quasi che l’impossibilità di cogliere l’attualità del compimento alimenti la riflessione sulla potenzialità della ricerca ); quando la conoscenza dello jato sempiterno tra cosa e parola si carica di tensione simbolica verso l’irraggiungibile oggetto in sé; quando un progetto politico costruisce una utopia non come non luogo che infrange nel mito della rivoluzione ogni azione umana, ma come espressione continua di un governare accettabile; ecco, quando tutto questo accade, ci si accorge che il naufragio nell’infinito è un arrivo ad una terra che, comunque, ci appartiene.
II.
“ Noi siamo l’accampamento che cammina “. Così inizia un canto dei Pigmei raccolto e registrato da E. von Sydow, etnologo di Lund, padre del più famoso M. von Sydow protagonista del film “ Il settimo sigillo “ di Bergman.
L’identificazione di un popolo con l’agglomerato materiale in cui esso vive è un’immagine che possiamo definire esteticamente suggestiva. Ma essa ha anche una valenza speculativa che attiene ad una particolare concezione dello spazio.
Leopardi ne L’infinito parla di una successione “ interminata “ distinguendo l’osservatore cioè il soggetto dall’oggetto osservato. Non vi è un movimento “ verso “ ma solo contemplazione.
Nel canto dei Pigmei la distinzione è abolita. E’ l’intero popolo che si identifica con l’oggetto in movimento, movimento reale perché ciò che si muove è la popolazione nella sua struttura organizzata. Anche in tale canzone si può vedere “ un infinito “ espresso nel termine ‘cammino’ che non ha una metà definita, ma in esso si manifesta in modo estremamente reale: lo spazio come luogo in cui si arriva. E’ acquisito che lo spazio – quella dimensione astratta entro la quale si collocano oggetti e persone – diventa “ luogo “ allorquando si instaura con esso un rapporto che può essere variamente definito. Ma il comune denominatore di tale rapporto è – nel canto pigmeo – la vita stessa.
Perché i Pigmei si identificano con un cammino? Perché lo spazio che via via ( “ lungo il
cammino “ ) occupano diventa centro della loro esistenza associata in tutti i possibili modi nei quali essa si manifesta. Si può dire che per costoro lo spazio è solo e sempre “ luogo “ e, dunque, in ogni sua declinazione, “ spazio vitale “.
Quali che siano le conseguenze di tali conclusioni, resta ineluttabile l’osservazione che ogni migrazione è, né più né meno, la ricerca e la possibile acquisizione di uno spazio vitale. Le migrazioni sono la ricerca di un luogo.
novembre 2016
Giorgio Mannacio “Quali che siano le conseguenze di tali conclusioni, resta ineluttabile l’osservazione che ogni migrazione è, né più né meno, la ricerca e la possibile acquisizione di uno spazio vitale. Le migrazioni sono la ricerca di un luogo.”
Ma queste possono essere anche catastrofiche per coloro che quegli spazi già occupano. Tutta la storia umana è una storia di invasioni e di eserciti che difendevano, erigendo muri, od occupavano degli spazi con la violenza. Le civiltà la cui cultura tanto ammiriamo sono state costruite in tal modo. Per questo sono durate millenni. Ovvio che non possono durare per sempre ma c’è una fondamentale differenza fra durare millenni e non nascere. Nel qual caso saremmo rimasti all’età della pietra. A qualsiasi livello, per poter costruire qualcosa e svilupparla, è necessario crearsi uno spazio personale e inviolabile. Ciò non significa impedire le interazioni con gli altri ma solo poterle selezionare. Lo stesso accade con gli organismi viventi. Sono costituiti da cellule le quali per sopravvivere hanno dovuto crearsi un proprio spazio erigendo un formidabile muro con formidabili difese: la membrana cellulare. Ciò non impedisce loro di cooperare con le altre cellule per far funzionare l’organismo, anzi l’esistenza stessa delle membrane cellulari è indispensabile a questo scopo.
In condizioni normali, vale a dire senza particolari ostacoli, può servire parecchio tempo per far sì che un determinato spazio diventi luogo – luogo vissuto. Se d’improvviso decidessi di trasferirmi in una città che mi è nuova, a Parigi ad esempio, non per una settimana ma per viverci degli anni, dovrei pazientare parecchio prima di sentirmi un po’ parigino. Se poi i parigini mi accogliessero con diffidenza tutto sarebbe ancora più difficile; se un immigrato, che nulla sa delle norme che regolano l’ingresso in un determinato paese, si venisse a trovare emarginato, magari tra gente che fatica a dargli la mano perché non ha mai avuto a che fare con gente di colore, che non ti saluta perché non ti vede come persona ma come genere, allora di tempo ne potrebbe servire davvero parecchio.
Ventanni fa ho cambiato luogo, dal centro di Milano a un bosco, in una regione che ha in tutto, più o meno, uguale e complessivo numero di abitanti. La suddivisione dei rami, e delle nervature delle foglie, richiamano l’infinito frattale, e il limite, -su questo rapporto è il testo di Mannacio- si condensa in una verifica empirica. Se non procedo a potare le querce e i carpini i rami entreranno dalle mie finestre e si sdraieranno nei letti al posto nostro.
Il mio luogo è uno spazio necessario di coesistenza, un po’ taglio e poto, un po’ lascio che gli alberi camminino e mi accompagnino.
Nel luogo ormai invaso dagli alberi in cui ho ricavato una casa-luogo, mi raccontano soprattutto le donne anziane, quando erano bambine tutto era coltivazioni e cibo e collettività.
Infiniti come il mare, limiti che pondera la cultura, luoghi per abitare, oggi li dobbiamo ridefinire, e giustamente Mannacio ci richiama.
@ Ricotta e Fischer.
Grazie dell’attenzione. Ricotta ha ragione nel sottolineare l’onnipresenza – nella storia –
di movimenti costruttori e distruttori nello stesso tempo. E’ proprio quello che volevo sommessamente dire. Rispetto a tali movimenti non intendo assumere un atteggiamento di tipo moralistico di condanna o approvazione a priori ma solo quello di un ” richiamo” ( come dice la Fischer ) a questa presenza costante. Perchè ho scritto quelle poche righe? Perchè credo che uno dei problemi capitali del nostro tempoi sia proprio quello delle migrazioni. E’ sotto gli occhi di tutti ed è ineludibile. E lo è sotto un duplice aspetto : morale e politico, interagenti. Si può condannare la ricerca
del ” luogo” ?
No, perchè non c’è nulla di arbitrario in essa se è dettata dalla Necessità. Si può pretermettere una risposta politica se riflettiamo che ogni migrazione – ancorchè giusta – collide obbiettivamente con la legittimità di altri luoghi ? La risposta no è altrettanto obbligata. Su questi dilemmi si costruiscono non ragionamenti ( sulle cause, sugli sviluppi ),non progetti di soluzione ma paure avanzate che alla fin fine sono strumento di convincimento delle masse e quindi di dominio su di esse ( con ogni possibile conseguenze ). Alla fin fine anche una visione apocalittica – in termini di ” nuovo assetto del mondo “può essere assunta e fatta propria dalla Ragione.
Con un saluto cordiale G. Mannacio.
–
Tutti questi bellissimi pensieri mi fanno amare sempre di più la vita e il mio desiderio di spazio . Per fortuna la natura mi presenta sempre nuovi piccoli mondi che accontentano i miei sogni. Spazio per entrare e per uscire , accoglienza e libertà.
Grazie Giorgio , per averci ricordato questi spazi, questa nostra terra aperta a tutti.
…mi sembra molto interessante questa riflessione di Giorgio Mannacio sullo spazio che diventa luogo se vissuto, cioè circoscritto per quanto in espansione…E come il concetto di spazio illimitato coincida con l’infinito, non sperimentabile ma solo contemplabile, come nella poesia di G. leopardi…Le altre considerazioni mi suggeriscono come l’uomo viva diversamente, per scelta o per necessità, la sua presenza sulla terra: da sedentario, in luoghi dove vive in forma organizzata, da nomade quando il suo spazio e il suo luogo vengono a coincidere, come si dice nel canto dei pigmei: “Noi siamo l’accampamento che cammina”, oppure da migrante quando, per guerre o miseria, lascia i propri luoghi per cercarne altri da abitare stabilmente. Certo non sono rigide queste categorie perchè, per svariati eventi come ci dimostra la storia, l’una può confluire nell’altra..Penso che “La membrana cellulare” (A. Ricotta) di difesa per la sopravvivenza, con dinamiche diverse, debbano essere in grado di di costruirla tutti e all’interno di ognuna di quelle categorie…In una prospettiva futura apocalittica, come suggerisce G. Mannacio, mi interesserebbe approfondire quelle dei nomadi che, come le lumache, portano con sè il guscio…Un baricentro possibilmente non egocentrico
Mi pare che la domanda sia: è possibile che la Terra divenga un’unica nazione? In linea di principio ciò sembrerebbe possibile ma certamente non in modo indolore. La storia umana è una sequenza di caotiche e violente fluttuazioni fra aggregazioni e disgregazioni senza perciò una chiara direzione. La storia dimostra che le migrazioni di massa non fanno che iniettare instabilità nei sistemi e producono sovvertimenti e sofferenze che possono durare secoli, forse millenni, senza poi pervenire a equilibri conclusivi. Ciò che invece è andata in una precisa direzione è la nostra capacità di autodistruggerci che è aumentata a dismisura nell’ultimo secolo. La scienza è progredita molto e tende ad accelerare. Potremmo essere vicini a una nuova “rivoluzione scientifica” e a strabilianti applicazioni. Ma ho motivi per ritenere che tutto ciò non porterà più unione e pace bensì più conflitti.
“La storia dimostra che le migrazioni di massa non fanno che iniettare instabilità nei sistemi e producono sovvertimenti e sofferenze che possono durare secoli, forse millenni, senza poi pervenire a equilibri conclusivi” ( Ricotta)
Il sistema (capitalistico) è instabile per come si è costruito. La competizione al suo interno è fonte (strutturale) d’instabilità e può giungere alla guerra. E allora? Non mi pare che siano soltanto le migrazioni di massa ad “iniettare instabilità nei sistemi” e a produrre “sovvertimenti e sofferenze”. Semmai queste vengono in gran parte oggi prodotte proprio dalle guerre in corso.
@ Ennio Abate
Tutti i sistemi sono instabili. Anche la terra sotto i nostri piedi. Anche i sistemi comunisti e di qualsiasi altro genere. Ma possono diventare più instabili se sottoposti a determinate sollecitazioni.La guerra è una di queste e la fanno anche i comunisti, anche le tribù fra loro. In certe regioni i problemi climatici ed economici possono produrre guerre e comunque instabilità. Tutte queste cause provocano migrazioni e queste ultime esportano l’instabilità altrove. Non per questo noi dobbiamo subire passivamente queste migrazioni. Se c’è la volontà si possono arginare. Non per sempre ma per tempi abbastanza lunghi per evitare catastrofi. A meno che si ritenga che sia un bene destabilizzare un sistema che non ci piace.
@ Ricotta
Se ammetti che sono principalmente le guerre a produrre migrazioni (=di profughi, di sradicati, di gente gettata all’avventura in altri paesi), logico sarebbe contrastare chi mette su le guerre e non prendersela con le loro vittime. Ma so che da quest’orecchio non ci senti.
@ Ennio Abate
Non mi pareva di aver scritto “principalmente le guerre” ma una pluralità di cause. Aborro i guerrafondai e sono sempre pronto a combatterli (ironia della sorte!). Sono stato un migrante e li capisco, ma comprendo anche i problemi di chi li deve accogliere. Già all’epoca mi rendevo conto che ci doveva essere un limite all’accoglienza per il quieto vivere di tutti, pur essendo in condizioni di necessità.
…qualora (non lo sto augurando!) ci fossimo anche noi tra le vittime, e non certo per mano degli attuali migranti, allora ci sentiremmo da entrambe le orecchie e sarà un fuggi-fuggi generale…lasceremo alle spalle monumenti, piazze, musei, biblioteche, banche, cinema, dimore ricche e povere, decorazioni natalizie…un’intera civiltà in bilico.
E chissà se qualcuno ci accoglierà o vagheremo in uno sterminato non luogo, come nomadi migranti…
@ Annamaria Locatelli
Non so se ho capito bene il tuo ragionamento. Ma quel che dici è successo più e più volte nella storia dell’umanità, anche recente. Non ci può essere accoglienza indiscriminata altrimenti il conflitto è inevitabile.
@ Angelo Ricotta
e se noi un giorno, capovolgendosi la sorte, fossimo tra gli esclusi? I conflitti hanno la loro origine più in alto…Effetto domino
@ Abate – Ricotta – Locatelli.
1.
Penso che occorra mettere un po’ d’ordine nei ragionamenti sull’argomento che ho introdotto con le mie riflessioni minimali sullo spazio e sul luogo. Il rilievo di R. secondo cui le migrazioni producono instabilità rispecchia certamente una reale conseguenza di esse ma ne coglie un aspetto parziale . La risposta di A. seziona – nella catena delle cause e degli effetti-un tratto certo molto significativo ma non esaustivo della vicenda. Se ci limitiamo a considerare l’Odierno ( il Tempo presente ) possiamo anche dire che l’instabilità è nella struttura propria del Capitalismo. Si tratta di una affermazione che da un lato presuppone una convinzione filosofico/politica particolare, possibile oggetto di discussione, e dall’altro esclude l’osservazione di fenomeni reali che – in un certo senso – richiamano le Origini.
Le migrazioni non sono flussi turistici determinati da desideri edonistici ma spostamenti di masse costrette a lasciare “ un luogo di penuria ” per raggiungere un “ luogo di abbondanza “. Mi sembra davvero poco ragionevole pensare che una popolazione lasci il Paradiso terrestre per cercare l’Inferno terrestre.
Se – per dare ordine al ragionamento – ci portiamo indietro nel tempo, trascurando il Paradiso terrestre, non è affermazione fantasiosa dire che le migrazioni originarie sono state determinate da situazioni di Penuria ( uso un termine di moda tra gli economisti e che estendo a tutte le situazioni di difficoltà ). Ma anche questa affermazione – che è fatta in funzione di una analisi globale – è insufficiente. E. ha ragione quando inserisce nella catena causale delle migrazioni anche le guerre. Questo punto rappresenta uno nodo di difficilissimo scioglimento. Se un popolo, spinto dalla Penuria, trovasse sul suo cammino una terra disabitata e fertile, il movimento dei migranti non avrebbe alcuna conseguenza in termini di squilibri e in definitiva di guerre. Ma così non è e, forse, non è mai stato così. E se la nuova terra fosse fertile ma già occupata da altra popolazione ? La guerra è “ quasi certa “ ma sarebbe pressocchè indecidibile la questione se è giusto che i nuovi arrivati si impossessino in tutto o in parte della terra occupata dai vecchi “ residenti “. Indecidibile perché anche l’altro corno del dilemma- la morte dei nuovi arrivati – sembra ed è una soluzione inaccettabile.
Ma l’analisi non può fermarsi qui.
In un certo senso l’Attualità ( che non è un concetto esclusivamente temporale ) costringe il nostro pensiero a non trascurare nessuno degli anelli che conducono all’instabilità e ad articolare le nostre riflessioni in un panorama molto ampio ed interagente di cause. Perché le attuali migrazioni – quelle che avvengono Qui ed Ora e sono oggetto di concrete valutazioni e indagini calate nel Presente – sono determinate, come causa prossima, da condizioni di vita insostenibili. Se, dunque, da un lato il dilemma sopra formulato si ripropone in termini tragici ( non è un termine ad effetto ma strettamente realistico )dall’altro la speculazione si ramifica in altre direzioni.
Quella più immediata è l’individuazione della causa( in tesi: ignota) della causa nota ( la Penuria ).
E’ certo – abbandonando finalmente il discorso delle Origini – che la Penuria è determinata da cause individuabili con sicurezza. E’ certo, ad esempio, che lo sfruttamento operato dal Colonialismo su
“ popoli primitivi “ ne ha assottigliato e distrutto le risorse creando quella Penuria di cui ho parlato. Non si è trattato di una sottrazione di sole risorse materiali ma anche di una modificazione del sistema di vita e dell’introduzione di modelli “ altri “, premessa di ulteriori cause di squilibrio.
La spinta demografica dei paesi del c.d terzo mondo è un fattore di instabilità in quanto accresce oggettivamente il numero di coloro che reclamano condizioni di vita accettabili. Le risorse sono oggi meno abbondanti di ieri ma non è accettabile che questa costatazione sia fatta da Stati con altissimo tenore di vita e funzionale a politiche di sfruttamento verso paesi ricchi di risorse ma soggette a sfruttamento.
Sembra un paradosso ma l’ “ invenzione “ e la costruzione dello “Stato “ – che secondo il pensiero antico si collocano in una prospettiva di sicurezza di un certo aggregato sociale – si rivelano , alla fine, fattori di disordine nel momento in cui sostituiscono al bisogno individuale il più complicato bisogno collettivo che implica scelte politico-economiche collidenti con quelle di altri stati. Interesse individuale e interesse collettivo sono concetti diversi. La struttura del secondo implica che le modalità di soddisfacimento del relativo interesse passino attraverso strutture di
“ potere “ che possono essere indifferenti – per molteplici ragioni – all’interesse dell’individuo o degli individui. Se questa situazione “ normale “ è di per sé già foriera di squilibri essa diventa tragicamente reale se si ipotizza che il “ potere “ che governa e dirige uno stato si regga su una visione di per sè conflittuale nei confronti di altri stati ( Imperialismo, Politiche altrimenti espansive etc ). E’ forte la suggestione del pensiero “ anarchico “ nella sua versione umanitaria
di “ abolire lo Stato “ o di quello universalistico di sostituire agli Stati , guidati da un interesse “egoistico “, uno Stato unico entro il quale assorbire le tensioni “esterne “ e tradurle in questioni di politica interna. In questa direzione l’Utopia è l’esercizio costante teorico e pratico di pensare modelli di convivenza diversi e di adoperarsi per attuarli.
2.
Poiché non ci sono più “ luoghi “ dove dimorare in pace ed equilibrio e dato che penso veramente che non è possibile arrestare le migrazioni, si deve essere pronti ad una deriva apocalittica. Tale aggettivo non deve essere assunto nel senso negativo di una resa dei conti feroce e ingovernata.
Si deve leggere come previsione di un nuovo assetto di vita del pianeta Terra, necessario e quindi da accettare come Destino. Quanti Nuovi Mondi non abbiamo mai avuto dalla notte dei tempi ?
E’ molto probabile che le migrazioni dirette e le migrazioni indirette finiscano in un termine relativamente breve per determinare un nuovo assetto nella composizione degli Stati e diano maggiore incisività alle spinte dei migranti verso “ uno spazio vitale “ . Si deve essere pronti a questo evento. L’interrogativo di Ricotta ci mette con le spalle al muro quanto al modo di rispondervi. Risuonano spesso nelle mie orecchie le parole di un teologo tedesco che a proposito di una affermata crisi del Cristianesimo scriveva: “ Bisogna preparare al Cristianesimo una fine che sia per esso più onorevole e per noi meno rovinosa “ ( F. Overbeck: Cristianesimo e cultura )
Per l’amore del vs dio non scambiatemi per un aspirante musulmano !
CINQUE APPUNTI
@ Mannacio
1.
«Risuonano spesso nelle mie orecchie le parole di un teologo tedesco che a proposito di una affermata crisi del Cristianesimo scriveva: “ Bisogna preparare al Cristianesimo una fine che sia per esso più onorevole e per noi meno rovinosa “ ( F. Overbeck: Cristianesimo e cultura )»
Parto da questo brano del tuo commento perché mi ha ricordato una riflessione di Fortini su Tolstoj che esprime un analogo pensiero (fondamentalmente cristiano) nel rapporto tra chi sta meglio e chi sta peggio (hegelianamente: tra padrone e servo). Eccolo:
«V’è un celebre e prodigioso racconto («Il padrone e il bracciante») che è del 1895; quasi quarant’anni innanzi prefigurato da «La tempesta di neve». Un venditore di bestiame e il suo bracciante si perdono in una tormenta, e il bracciante verrà ritrovato, vivo, sotto il padrone morto per proteggerlo col proprio corpo […] Il mito del padrone e del bracciante sembra quello di un’antica religione. Il padrone,«quello che sta di sopra», copre e preme, col suo corpo, il servo; opprime questo «seme sotto la neve», ma, morendo, gli dà vita. Nell’attimo in cui il proprietario comprende i valori dell’antagonista e cessa di credere ai propri, la sua morte è decretata; ma quella morte è anche la sua salvezza.
Nell’abbraccio dei due uomini, Nikita è, in un certo senso la passività femminile della Grande Campagna, ma anche la forza assoluta, alla quale il proprietario non può che cedere il proprio calore. La morte di Vassilij è la morte simbolica della classe proprietaria, il prezzo della salvezza di quella, mistica per Tolstoj, storica per noi. Non solo: ma una metamorfosi è avvenuta nel corso della notte; Nikita, grazie al terrore notturno, alla solitudine che circondano Vassilij, e alla propria stessa pacifica accettazione dell’assideramento, domina – ma nel senso di un dominio dell’amore – l’uomo che lo disprezza e che avrebbe lasciato morire; e Vassilij invece serve il suo servo. Quello che si celebra in quella notte d’inverno è realmente un mistero, con quel tanto di oscuro, di orgiastico e tribale che è nel fondo della natura di Tolstoj e che per tanti fili, lo tiene congiunto al mondo del decadentismo. Capacità di simbolo che è anche la sua forza maggiore; di mantenere un racconto nella più schietta tradizione veristica e incieme di farne una leggenda»
(F. Fortini, « Tolstoj, il padrone e il bracciante», in « Saggi ed epigrammi», pagg- 324-327, Mondadori Milano 2003)
Lo cito solo per sottolineare quanto ci siamo distanziati oggi da un certo tipo di cultura e modi di riflettere sui conflitti sociali.
2.
Il vero nodo su cui si dissente ( nel caso: con Ricotta) riguarda la risposta che si dà quando la questione delle migrazioni viene posta o sembra presentarsi in termini di *mors tua vita mea*. Cioè in termini di *guerra* (tra «nuovi arrivati» e «vecchi “residenti”»). È davvero così o si tratta della sovrapposizione di uno schema (del nostro pensiero e/o del nostro immaginario) ad una realtà molto più dinamica e sfuggente? Io, in assenza di dati certi e indiscutibili, tendo a pensare alla seconda ipotesi.
3.
Non capisco la relazione che sembri stabilire, nell’esempio (del tutto astratto) che hai fatto, tra le attuali migrazioni e il caso dei «nuovi arrivati» che si impossessano« in tutto o in parte della terra occupata dai vecchi “ residenti “». È una menzogna propagandistica parlare delle nuove migrazioni come fossero delle invasioni (che di solito sono armate, credo). Non è la tua posizione, certo. Ma credo che si debba insistere a puntare l’occhio a monte delle migrazioni. Appunto sulle guerre, che sono state decise e condotte dal ’90 in maniera *permanente” dagli USA e dalle coalizioni “occidentali”. Sono esse che, oltre a distruggere economie, strutture sociali e persone negli Stati presi di mira o , come tu ben dici, oltre ad attuare «una sottrazione di sole risorse materiali ma anche …una modificazione del sistema di vita», hanno introdotto «modelli “ altri “, premessa di ulteriori cause di squilibrio» e costringono a migrare una parte delle popolazioni. E trovo paradossale che si tenda a discutere di una guerra eventuale (esageriamo: persino probabile tra «nuovi arrivati» e «vecchi “residenti”»), ma si tace su quelle già in atto, non certo imputabili agli immigrati. Questa è, secondo me, rimozione della realtà.
4.
Capisco solo in parte la tua tendenza a considerare il fenomeno delle migrazioni in tempi lunghi o lunghissimi. L’instabilità derivata dall’affermarsi nella storia del “Capitalismo” in che differisce da quella che si osserva nei «fenomeni reali che – in un certo senso – richiamano le Origini» ( e che io stento a capire quali siano)? Che le attuali migrazioni non abbiano a che fare coi flussi turistici mi pare evidente. Ma quale sarebbe la «causa (in tesi: ignota)» della «causa nota (la Penuria)»? E la Penuria oggi, con questo sistema capitalistico, è una causa in sé (dovuta diciamo a “scarsità di risorse” per così dire “oggettiva” o “effettiva”? Oppure deriva da determinati rapporti sociali di forza (oggi capitalistici), per cui alcuni gruppi ( o classi o Stati o gruppi di potere) sottraggono ad altri con inganno o violenza le risorse che le vittime avevano o (potenzialmente) avrebbero potuto sfruttare a loro vantaggio? Se un certo tipo di Penuria è stato prodotto, come tu giustamente indichi, dal Colonialismo, dove sta l’impossibilità ( sempre se non capisco male) di individuare con sicurezza almeno questa come causa certa?
5.
Non credo che saranno le migrazioni a « determinare un nuovo assetto nella composizione degli Stati». Viceversa, da come sarà ricomposto (magari anche con altre guerre) l’attuale conflitto tra gli USA e gli Stati che più o meno apertamente tendono a contrapporsi alla sua (calante?) egemonia, potrà venire una maggiore apertura o una più dura chiusura verso i migranti.
Poche notazioni aggiuntive.
Ennio ,seguendo la tua numerazione aggiungo solo brevi chiarimenti.
2.
La guerra tra “ nuovi arrivati “ e vecchi residenti “ rappresenta solo uno schema di ragionamento che vede nella conquista di “ spazi vitali “ una situazione di instabilità e, quindi , di guerre. Più in generale mi sembra di avere detto qualcosa, in altra sede, sulla profonda trasformazione della nozione di spazio. Se non riflettiamo su ciò si “ rimuove “ la considerazione delle condizioni di vita
di coloro che ad esse si ribellano con “ guerre asimmetriche “.
3.
Parlare di “ migrazioni improprie “ significa semplicemente ipotizzare che anche queste possono determinare situazioni di squilibrio. La propaganda sta nell’affermare che esse sono la sola causa di una certa conseguenza e, soprattutto, nel non riflettere sui rimedi possibili a che le conseguenze non si manifestino. Il discorso generale sulla guerra riguarda anche le guerre in atto. O c’è un passo delle mie note in cui affermo che le guerre in atto sono “ di natura diversa “?
4.
Il termine Origine ( che ho scritto in maiuscolo proprio per sottolinearne una sorta di primum nel ragionamento ) vuole ipotizzare la causa “ della prima guerra della Storia “ , identificata la quale abbiamo un criterio di giudizio tra guerra e guerra. C’è o no una differenza tra chi si muove verso fertili terre perché “ affamato “ e chi invece vuole soltanto “ una maggiore opulenza “ ?
Ho tanto poco trascurato l’influenza di altri fattori che ho accennato alla posizione “ paradossale “ dello Stato che –nato per proteggere – può diventare strumento di dominio. Nelle mie osservazioni – riconosco: sintetiche – è delineata la situazione del “ conflitto “che si può porre tra cittadini rappresentati e Stato predone che li rappresenta storicamente. Mi pare che da tale notazione consegua che l’organizzazione statuale è uno dei fattori che può essere determinante per la guerra.
Penso che la prospettiva di una modificazione della struttura antropologico- culturale di alcuni stati non sia da trascurare. Ciò non rappresenta un giudizio su tali modificazioni né un invito ad impedirla con la violenza. Non sarebbe un modo “ onorevole “ per il nostro passato.
Persino la corsa allo spazio (talvolta detta anche prima era spaziale) è allo stesso tempo un capitolo dell’esplorazione spaziale del Novecento e uno degli aspetti che assunse la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Le due superpotenze si sfidarono nella rincorsa a sempre maggiori successi spaziali nel lancio di missili, satelliti, nella conquista della Luna e di pianeti del sistema solare, cercando di prevalere l’uno sull’altro. Lo spazio ha sempre causato guerre, la politica ne è la principale causa.
Purtroppo , pare che tutto questo sia inevitabile. Imparare a convivere con le nostre diversità , anche le più difficili, dovrebbe essere l’unico modo per evitare terribili scontri, ma si sa io vivo su un altro pianeta…
Il post originario di Giorgio Mannacio mette in rapporto: a) la mentalizzazione di un limite all’infinito spaziale e temporale, e b) il processo di appropriazione di spazio -definito “luogo”- come espressione di attività collettive vitali. Per esemplificare il rapporto tra limite e illimitato richiama il poligono iscritto in una circonferenza, e, citando Leopardi, il processo conoscitivo fondato sulla visione, quindi il dualismo tra osservatore e cosa osservata, tra soggetto e oggetto.
Invece i pigmei, scrive Mannacio citando un etnologo, sono in movimento, percorrono lo spazio che diventa luogo, sono la vita che diviene rispetto la conoscenza/visione che separa.
Facile il passaggio nei commenti alle migrazioni, di cui è proprio anche quell’essere in movimento che è la vita stessa, che cerca/crea un luogo, non certo un viaggio turistico basato sul vedere/conoscere. La discussione si è subito spostata sugli attuali flussi di migranti nei nostri Stati organizzati.
Proprio perché questi Stati sono luoghi già “appropriati”, la creazione di un nuovo “luogo” in un “luogo” già stato creato da altri, mette in scena un fantasma di esclusione e di sostituzione, il nuovo luogo preteso dai migranti sottrarrebbe il loro luogo ai vecchi abitanti.
Ennio Abate e Annamaria Locatelli si mettono su un piano di redistribuzione del bene-luogo, sia a causa di precedenti e attuali espropriazioni di beni e spazi dei nuovi migranti, sia in base a principi di accoglienza e fraternità.
Mannacio consente con tutte e due le ragioni e aggiunge: “Poiché non ci sono più ‘luoghi’ dove dimorare in pace ed equilibrio e dato che penso veramente che non è possibile arrestare le migrazioni, si deve essere pronti ad una deriva apocalittica. Tale aggettivo non deve essere assunto nel senso negativo di una resa dei conti feroce e ingovernata.
Si deve leggere come previsione di un nuovo assetto di vita del pianeta Terra, necessario e quindi da accettare come Destino. Quanti Nuovi Mondi non abbiamo mai avuto dalla notte dei tempi ?”
Io vorrei credere che sia possibile una irenica, anche se senz’altro difficile, nuova conoscenza e creazione di luogo, consistente in un approfondimento del numero di lati del poligono iscritto. (E’ qualcosa che ho fatto nel nuovo luogo-bosco in cui sono andata a vivere: nuova terra per le mie necessità, la ricchissima vita da conoscere, ma contemporaneamente era terra coltivata 50 anni fa, da rendere di nuovo umanizzata.)
Che diventi luogo nuovo un luogo che già c’è, guardandolo in modo diverso, aprendo nuove possibilità di rendere luogo, di abitare, luoghi già abitati, porterebbe a quella “profonda trasformazione della nozione di spazio” di cui scrive Mannacio, come mi pare intendano anche Mayoor e Emilia Banfi.
p.s: Come contributo alla dialettica politica tra spazio e luogo, riporto il link a un articolo su Nigrizia, la rivista dei missionari comboniani. In Sudan il ministro Gentiloni ha incontrato il ministro degli esteri A. Ghandour del National Congres Party, salito al potere -con il nome di Fronte islamico nazionale- con un colpo di stato militare nell’ormai lontano 1989. E’ stato il primo caso di presa del potere di un partito che si ispirava, e continua ad ispirarsi, alle teorie del Fratelli Musulmani, che si proponeva, e continua a proporsi, l’arabizzazione e l’islamizzazione del paese prima, e parallelamente l’esportazione del progetto nella regione. “E’ chiaro che un programma politico basato sull’esclusione della maggioranza dei suoi cittadini, che non sono né arabi né arabizzati e sono sì musulmani ma ben lontani dalle teorie dell’islam politico dei Fratelli Musulmani, non può portare stabilità nel paese.” Nei campi profughi i leaders comunitari raccontano: “Ci hanno cacciato premeditatamente; i bombardamenti continui alle nostre spalle ci spingevano fuori dal paese; la nostra terra è stata data a gruppi etnici arabizzati e fedeli al regime; non abbiamo più una casa dove tornare; i nostri ragazzi sono lasciati senza istruzione; quando la guerra sarà finita non potranno giocarsi la vita alla pari con gli altri e dunque saremo ancora una volta cittadini di serie B; in particolare non avremo nuovi leader e la nostra esclusione dal governo del paese sarà totale.” http://www.nigrizia.it/notizia/italia-alleata-al-regime
@ Cristiana
Grazie per le osservazioni – tutte pertinenti ed acute – che hai svolto sulle mie note. Il tema cui ho accennato in esse mi segue costantemente e dunque raccolgo con gratitudine ogni intervento su di esse. Giorgio