Mi piace aprire questo post con le ultime parole di un recente commento [qui] di Giorgio Mannacio: «ci muoviamo nel campo della Politica […] che va recuperata in tutti i suoi migliori aspetti. Lo riconosco: è la scoperta dell’uovo di Colombo e tutto il mio discorso è una sorta di meditazione personale ridotta in scrittura. Tre motivi suonano in essa: 1) siamo tutti eguali; 2) non uccidere; 3 ) al di fuori dei primi due la Politica è barbarie. Buon Natale». Anche se, nelle attuali circostanze, più che valori condivisi e praticati i tre punti mi appaiono auspici purtroppo smentiti dalle guerre occidentali in corso e dagli atti terroristici – ultimo quello di lunedì sera 21 dicembre 2016 nel mercatino natalizio di Breitscheidplatz a Berlino – che ad esse rispondono in un vortice inarrestabile di follia e oscuri disegni. Ancora un Natale insanguinato, dunque.
La scelta dei tre testi che seguono è dovuta al caso. Quello iniziale in prosa di Pasquale Balestriere mi ha offerto lo spunto per il post: presenta – sue parole – un Natale «visto con gli occhi ingenui e paesani di una memoria bambina, quindi innocente e (quasi) fuori del tempo». Il secondo di Giorgio Mannacio coglie con sarcasmo e disincanto la realtà desacralizzata dei Natali cittadini. E, infine, quello di Armando Tagliavento, il bidello-scrittore che ancora voglio ricordare in questa occasione, mugola la disperazione solitaria e violenta di tanti ignoti, sbandati e poveri, alle prese col freddo nelle vie luccicanti e ostili delle metropoli.
Volendo in qualche modo giustificare (innanzitutto a me stesso) la pubblicazione su Poliscritture di testi d’argomento natalizio, che qualcuno potrebbe ritenere incongruenti col taglio critico del sito, mi sono ricordato di Marx e sono andato a ripescare quel passo in cui, dopo essersi domandato: «la visione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca, e quindi della [mitologia] greca, è possibile con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e i telegrafi elettrici? Che ne è di Vulcano di fronte a Roberts & Co., di Giove di fronte ai parafulmini e di Ermes di fronte al Crédit Mobilier?», concludeva che, malgrado tutto – distanza temporale, contesti sociali e culturali inconfrontabili – un’opera d’arte, nel suo esempio il Partenone, continua a esercitare su un «fascino eterno». E più terra terra, mi sono detto che Natale per noi ha ancora un fascino poetico abbastanza simile.
Buone feste. Vi invito a pubblicare liberamente nello spazio dei commenti testi in sintonia o in contrappunto ai tre che qui leggerete. [E. A.]
Il Natale a Buonopane (A zonzo per la memoria)
di Pasquale Balestriere
S’annunciava così il Natale dell’infanzia: con freddi intensi e lo sperone innevato dell’Epomeo a pungere l’azzurrità del cielo. Oppure con piogge lunghe, interminabili, che chiudevano in casa bambini desiderosi di giochi all’aria aperta.
Il piccolo borgo di Buonopane, accovacciato in un semicerchio di colline, svolgeva tranquillamente la sua vita contadina.
Nel secondo dopoguerra i campi -nonostante l’accentuata emigrazione- pullulavano di persone intente al lavoro: a dicembre, intorno alle viti semispoglie, cominciavano i gracchi e gli scatti (“azzecchi” e “schiocchi” li definisce il Pascoli) delle forbici da pota; il contadino ritardatario “faceva le fratte”, cioè scavava con la zappa buche nel terreno allo scopo di captare acque preziose. Le donne raccoglievano erba per i conigli e legna per il focolare, che dava cenere per concimare le cipolle e brace per alimentare il braciere, intorno al quale si riuniva tutta la famiglia nelle fredde sere invernali; e che, nelle occasioni importanti, profumava la casa se si ponevano sulla brace pezzetti di pigna o d’incenso, o semplicemente bucce di mandarini o d’arance.
In prossimità della nascita del bambinello, quasi come in un rito pagano, cominciavano i sacrifici: del maiale, per esempio, che doveva immolarsi per garantire una certa riserva di cibo per l’inverno: salato, sotto aceto, trasformato in salumi (capocollo, salsicce, prosciutti, soppressate, ecc.), in ciccioli (‘e cìculë), in lardo, in sugna, in sanguinaccio. E tra amici stretti e parenti ci si scambiava” ‘u ségnë ‘e puórchë”, cioè il segno (dell’uccisione) del maiale, consistente in vari assaggi dei prodotti ora citati, ma in particolare delle carni. Va notato che l’acquisto e l’allevamento del maiale indicava, in quei tempi di povertà, un minimo di benessere economico. Anche i bambini erano ammessi alla movimentata e cruenta operazione, ma stando a debita distanza e solo come spettatori. A uno solo di loro, generalmente più grandicello, si concedeva il privilegio di tener ferma … la coda del porco. “Privilegio” del quale talvolta toccò anche a me di “godere”. Il lettore sorriderà, pensando che si trattasse di un’azione inutile, perché quell’appendice dell’animale non poteva in alcun modo creare problemi o pericoli per quanto si agitasse disperatamente. E invece la cosa aveva un senso, tribale se vogliamo: era una sorta di iniziazione con relativo atto di coraggio, il primo passo del fanciullo nel ruvido e poco includente mondo degli adulti.
L’altra vittima predestinata in tempi natalizi era il gallo (‘u capónë), il quale, nel corso della sua non lunga vita, ad ogni chicchirichì suscitava in contadini sempre affamati un ironico commento a forma di proverbio: “Canta capónë ca Natale vènë”, cioè canta pure, gallo, che prima o poi arriva Natale, e allora ..
Chi non aveva la “ricchezza” del maiale e nemmeno la disponibilità di un gallo si accontentava del coniglio di fosso[1], da sempre generoso con il suo allevatore.
Al mezzogiorno della vigilia si “faceva l’ottonzë”(otto once, circa 250 grammi), si consumava cioè un pasto leggero a base di baccalà fritto. Di sera invece il primo (povero) piatto era spesso costituito da vermicelli con le noci o “cu ‘e fiurillë”, cioè con i gallinacci e cantarelli, gli unici funghetti che si potevano ( e si possono ) trovare nei boschi dell’isola d’Ischia a dicembre. Erano lontani e inavvicinabili, per motivi pecuniari, capitoni, gronghi, murene e le varie fritture miste. Anche se, a dire il vero, qualche raro esemplare di grongo o murena “saliva” fino a Buonopane, oggetto di baratto natalizio tra pescatori e contadini legati da amicizia e da parentela.
A pochi giorni dal Natale, se non addirittura alla vigilia, si preparavano, sempre in casa, i dolci tradizionali: panettone, roccocò, susamielli, poi i mustaccioli; ed anche i liquori dopo aver acquistato, di contrabbando, l’alcol e, nelle botteghe, i “sensi”, cioè i concentrati ( essenze o estratti) aromatici del gusto preferito.
Quando il tempo aveva ancora ritmi lenti – diciamo negli anni Cinquanta/Sessanta- l’avvicinarsi del Natale, che ancora nei piccoli paesi era avvolto da misticismo religioso, veniva scandito da due momenti che ne creavano l’atmosfera: le novene, con i loro canti gioiosi, e la preparazione del presepe.
Si cominciava con la novena dell’Immacolata e poi, dal 16 dicembre, si proseguiva con quella di Natale. La chiesa, in queste circostanze, era molto frequentata, certamente più del normale. I canti erano guidati da uno degli organisti del paese, che in quel periodo erano Ottavio Di Meglio e l’insegnante Salvatore Di Meglio, che si avvalevano del necessario supporto di un paziente e forte Giovan Giuseppe che “tirava i mantici”, cioè girava la manovella per alimentare, appunto, i mantici dell’organo. Naturalmente dopo aver ben collaborato a impastare manualmente intere “màttërë” (madie) di farina ed aiutato ad infornare centinaia di pagnotte nel forno di famiglia che serviva tutto il paese.
La preparazione del presepe era l’altro momento significativo. Il presepe, non l’albero di Natale, che qui è arrivato dopo, dalle nevi ghiacciate del nord dell’Europa.Si iniziava con la ricerca e la raccolta delle “réppulë”, cioè di muschio e di selaginella, per fare il tappeto del presepe; e poi ceppi di canne, pezzi di rami, cartoni e materiali vari per costruire il paesaggio. Nell’ultima fase si posizionavano i “pastori”. Spesso al presepe lavorava tutta la famiglia.
Ma le feste natalizie si portavano appresso, per la gioia non solo dei bambini, un piccolo corredo di giochi. Con le nocciole, per esempio: le ragazzine “alla fossa”, cercando i far rotolare le nocciole in una fossettina a colpi di “pizzico”, cioè incrociando pollice e indice e facendo scattare il pollice che colpiva la nocciola con la forza necessaria perché questa si imbucasse; i ragazzini invece si divertivano “a castilletto”, cioè disponendo ognuno quattro nocciole a castello e cercando, con una nocciola più grossa, di colpire i castelli, allineati, da una certa distanza. Gli adulti invece, nelle lunghe sere festive, amavano giocare a tombola (le donne), a carte (gli uomini).
Passava così il Natale d’una volta. Naturalmente con una tavola ricca di cibi (una tantum!) e la classica lettera fitta di promesse (da marinaio) dei figli sotto il piatto del papà. E già dopo pranzo i bambini lanciavano l’assalto al bambinello di zucchero che ognuno di loro aveva avuto in dono: chi cominciava a mordere dalla testa, chi dai piedi. E qualcuno, per farlo durare più a lungo, succhiava delicatamente.
E oggi? È un Natale piuttosto diverso ai miei occhi di adulto. Ma a quelli dei bambini di oggi forse questa festa appare come appariva a me tanti anni fa, con la magia, l’allegria e il miracolo che accompagna ogni nascita. Certo, al presepe si è aggiunto l’albero, qualche canto natalizio di un tempo è stato sostituito da altri più moderni; il maiale viene ucciso in vari periodi dell’anno, e il pollo si può anche comprare facilmente, e magari è sostituito dal tacchino. Forse non si gioca più con le nocciole e non si porta il bambinello per le case, ma non sono sparite le cerimonie religiose e alcuni canti intramontabili conservano il fascino di un tempo. Nel presepe i pastori sono più nuovi e più numerosi, e c’è più illuminazione natalizia per le strade, e di giorno, nei campi, gracchia sempre qualche forbice che trancia e cima i rami delle viti, mentre a casa ancora tante donne preparano i dolci tradizionali. E, dopo un periodo di assenza, sono pure ritornati gli zampognari.
Sì, lo possiamo dire: nel paese di Buonopane, dove ancora si respirano fragranze di mosto e profumi di vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata[2], dove la tradizione si conserva anche nell’acqua di Nitrodi[3] e nella grande quercia di Candiano, la festa del Natale, sia pure con qualche fatica, mantiene non solo il suo fascino di evento spirituale, ma anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca come in nessun altro periodo dell’anno.
E ancora oggi, nei freddi decembrini, lo sperone talvolta innevato dell’Epomeo punge, caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le campane annunciano quella che per tanti è ancora la festa delle feste.
Note
[1] “conigli di fosso” perché, un tempo, allevati con la sola erba fresca, in fosse quadrate o rettangolari, profonde circa due metri, in parte coperte perché scavate nella parete, spesso di tufo, di un poggetto. Queste fosse, da noi al maschile -fossi-, e il tipo di allevamento sono, credo, una prerogativa dei contadini dell’isola d’Ischia.
[2] La ‘Ndrezzata è un canto rituale con spade e bastoni originario dell’isola d’Ischia. La leggenda vuole che la ‘Ndrezzata fosse il ballo delle Ninfe sulle note che Apollo produceva da una cetra d’oro. Più realisticamente si ritiene che possa trattarsi di una danza guerresca della Grecia antica, trasformatasi nel tempo -per via delle mutate condizioni non solo storiche- in un’espressione danzante della lotta dei sessi.
[3] Fonte d’acqua medio-minerale, potabile, ma soprattutto usata per medicina interna ed esterna. Il nome Nitrodi indica sia la fonte che il luogo, dove è venuto alla luce il più ricco assortimento (ben 11 pezzi, dieci scritti in latino, uno in greco) di rilievi marmorei votivi dell’Italia meridionale, risalenti al periodo II sec. a.C. – II sec. d. C. e dedicati ad Apollo e alle Ninfe Nitrodi.
Trittico natalizio
di Giorgio Mannacio
Natale e dopo.
In quest’ora prenatalizia
gelida e un poco arcana
ci parlano con vera nequizia
le Cariatidi di viale Col di Lana.
Donne crudeli, sirene
il cui sesso di pietra ed asfalto
sibila minacce oscene:
“ Mettilo dentro e lo farem di smalto”
E un uomo col cappello
nel negozio lì accanto sbircia un pollo.
Chicchirichì faceva
ai suoi bei dì.
Gli hanno tirato il collo
e il suo natale finisce qui.
Spread.
Una vigilia gravida di vento
su un cielo lenzuolato
color salmone
( ma è meglio l’aragosta ).
E’ solo, squattrinato.
Quanto gli costa
in spirito, in denaro
questo natale amaro.
Babbo natale.
S’è conciato,
( l’han conciato ),
sembra ed è Babbo Natale;
ai festanti s’è inchinato
anche i piccoli ha baciato
ed il mitra ha poi imbracciato.
Una strage bella e buona:
era solo un criminale
alla folla mescolato.
La campana per chi suona ?
La Notte di Natale (1982)
di Armando Tagliavento (in memoria)
E’ la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s’insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d’ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d’incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s’alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E’ la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.
Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E’ la notte di Natale.
L’individuo se ne va piangendo il male
che tiene all’addome, e d’allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d’amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: “E’ la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini.”
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce. .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
“Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
– gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?”
La gente del bare l’attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E’ la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box, bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! – pensava il gringo fra sé e sé – un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale.”
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?”
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: “Andiamocene, Peppe!
Non lo vedi? E’ stato sempre così scemo e ignorante quellolà! ”
E la folla, noncurante, se ne va.
E’ festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell’interno del viale.
E’ la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell’ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
“Signore, ma lei forse è ammattito?
– gli spara l’edicoloso – E’ la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale.”
Eppoi all’illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: “Cretino!”
E’ umiliato il tale.
“Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?”
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E’ la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l’illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E’ la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l’ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell’essere astrale?
E’ la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell’animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E’ la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch’è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l’apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l’altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E’ la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso alluca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.
( da http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/04/dizionarietto-moltinpoesia-armando.html)
Illuminazioni
Notti fluorescenti
di tiepidi abbandoni
rosse di luci al neon
e geometrie scomposte
Bioluminescenze
sui volti e sulla pelle
antrace o antracite
è pece appiccicosa
Bar semideserti
scie elettrochimiche
è un umido Natale
di fosfori e paillettes
Lampi tuoni e saette
pandori e panettoni
bianchi e rossi pregiati
brut o frizzantini
È un’ora luminosa
di lancette radioattive
ore piccole al buio
tante persone sole
Bellezze imbellettate
che vagano a gogò
si muore sulle strade
tra i fari allo xenon
AUGURI PER NATALE E L’ANNO NUOVO
(Improvviso d’occasione )
Son morte ormai le renne di Natale
che portavano i doni con la slitta
per i cieli notturni e nebbia fitta
a ogni bambino, a ogni focolare.
Ormai farsi i regali è un abituale
stress che moda e consumo ci hanno inflitto,
in questo labirintico tragitto
fra il dolore sospeso e il festeggiare.
Resta però il piacere dell’incontro
con gli amici, i parenti, i familiari
e chi ci aiuta quando nello scontro
con qualche giorno nero il cuore è incerto.
Qui non alludo ai medici o agli altari
ma a chi speranza e amore ci ha offerto.
È dunque giusto
che pure senza renne o animali
si porti un grazie a chi ci cura i mali,
e si abbia gusto
a dire Buon Natale a lui e famiglia
con in mano un dolcetto e una bottiglia;
e un verde arbusto
per augurare un Nuovo Anno Felice
che almen di qualche bene sia matrice.
eeeeeh, Tagliavento , è Tagliavento, su diciamocelo.
Il Natale fa male
mi dice la donna
vicina di scala
Fammi capire perché
Te lo dico io perché
mio figlio
si è scordato di me.
Ma è lei che non ricorda
L’ha visto ieri mattina
sono certa
insieme bevevano un caffè
Ma non basta quando il caffè
è solo una bevanda
e la sua mano abbandonata
stringeva una mano che non c’era.
Buon Natale
venga da me che ne dice di un caffè?
Abbracciarla era normale
abbracciarla forte era normale
Buon Natale!
Se ne va con un sorriso appena nato
si gira
fra qualche minuto
avrà tutto dimenticato.
Auguri! dalla Emy
Calano sguardi
negli atomi capovolti.
Aprono le guance e si posano.
Uno sull’altro uniti.
Prima sognanti poi addormentati
Arrivati.
Finché li separi il tempo.
L’aria si rinnova.
La luce riprende a correre.
Tornano droni ubbidienti
come renne al richiamo
dei pixel.
… il titolo è “Aleppo Christmas “
Mi complimento per gli scritti proposti, di Balestriere Mannacio e Tagliavento (che piacere ritrovare quest’ultimo su Poliscritture). Prose e poesie che parlano da sole, come le altre del resto; ma un complimento lo voglio fare a Emilia perché mi sembra in questa poesia abbia ritrovato la verve di qualche anno fa, ma ora più – cerco un aggettivo – più bello l’albero di Natale!
La zattera della Medusa
E’ un’attesa senza alba
il giorno della luce,
l’attesa del riposo
dalla stanchezza d’essere viventi
sopra la zattera di Gèricault,
persi, smarriti, confusi
accendiamo antiche luci
sulla soglia di speranze oscure,
taluni s’aggrappano
ai bordi annaspando
dentro le acque di scolo
ma resistono, ancorati
ai dubbi, pavoni culturali
inebetiti dagli specchi
che riflettono vecchie idee
baldracche che furono e sono,
mentre tutto oggi induce
alla domanda : se Tu non sei nato
perché ci danniamo il respiro ?
natale 2016 in presa diretta
Una storia vera.
Mio padre lavorava alla Scala
era direttore di sala
poteva far entrare chi voleva
quando alle mezze luci si chiudeva
ogni ingresso e gli spettatori
paganti gran signori
erano già pronti nove in punto
davanti al sipario pesante
rosso cupo con frange lunghe
e lo spettacolo sfarzoso e sorprendente
cominciava.
Allora in fretta e nel buio
nei posti vuoti sistemava
gli amici i figli e parenti
lontani venuti a Natale.
Giungevano montagne di cassette
di liquori e vini pregiati
accumulati sotto i letti
e musica serena inebriava
le menti e fantasie di stare
vicini ai potenti e poi cenare
in ristoranti riservati
a notte fonda tra via Manzoni
via Bigli e Montenapoleone.
Allora in quegli anni ci sembrava
che i potenti erano arresi
che loro nobile cultura
era disponibile svelata
nel meccanismo padronale
di eccelse decorazioni.
Poi cominciarono gli anni
delle rivoluzioni proprietarie
e della rovina proletaria
tra violenza e eroina si sparava
a tutti e nessuno capiva
e intanto nel presente rifugiava
le sue competenze
di vita svelta e rabbia stolta e grama.
E chi sta in mezzo e non crede
a barriere di ferro di classe
è come mio padre che amava
l’Opera e voleva
che fosse per tutti.
Favoletta
La segue
con passo leggero:
palpiti d’ali di una sola farfalla.
Lei rallenta il cammino,
il calore sente venir meno:
ha bruciato l’ultimo bastoncino
la fiammiferaia
della fredda metropoli…
Ma lui, il piccolo migrante,
s’arresta,
e le porge, pescato
dal cestone di intrecciate
collanine e colorati braccialetti,
un luminoso accendino.
Una fiamma e due ali:
la farfalla di Natale
Mel Ferrer.
Il fatto è che non ho da dire
e vorrei evitare nelle parole gli iris
e tutti quei girasoli che sarebbero
per nessuno, adesso.
Domani qualcuno potrebbe pensare
che non era vero, che erano parole
da Facebook. E si finirebbe
nella discarica della memoria.
Allora bisogna cercare conforto
nei poeti russi; ma senza Rivoluzione
in un ammasso di ragnatele.
Più che aggiungere qui ci sarebbe
da pulire. Riavvolgere il tempo.
Suonare ai campanelli
fuggire via ma lasciarci lo sguardo
un pensiero immagine
di troppo zucchero a velo.
Porte chiuse nelle city
anche qui, a doppia mandata.
L’umanità vuole restare sola.
Per questo fan tanti complimenti
e auguri. Essere gentili costa niente
un sorriso anche meno.
Soli si va alle adunanze
menù di pesce e momenti
di strada. Gli specchi di casa
sono tutti invecchiati.
Ne comprerò uno nuovo
e per l’occasione
anche un paio di scarpe.
Buon Natale bimbi fantasmini.
Che la notte vi sia adeguata
gli angeli sappiano tenersi sulle punte
le mamme svengano d’amore sulle porte
i cani vi lecchino sulla bocca
le banche almeno a Natale si facciano il bidé
tutti gli aeroplani vadano inutilmente a Las Vegas
le bombe cadano giù dalla sfera terrestre
gli aguzzini s’ingozzino fino a scoppiare
i vostri amori andati piangano sul balcone
pensandovi persi e derelitti senza di loro.
Qualcuno gli offra una tazza di zabaglione
mentre si gioca a “Chi l’ha detto”.
I poeti si mettano le dita nel naso
starnutendo sulle torte; poi
sbattano le porte mettendosi a piangere
e invocano il Dio dei cammelli.
Che faccia una strage.
Le porte del Paradiso si aprano
puntuali alle 9:00 am
in TV mostrino finalmente le acrobazie
di un aeroplanino al di sopra delle Alpi
mentre combatte per consegnare
una lettera.
Il vicino di casa si rompa una gamba
la vicina novantenne vinca un viaggio
per due persone in capo al mondo
( a mio fratello che gli tornino i capelli
e siano scuri).
Vi auguro che stanotte vi tremino le labbra
per le stelle che si sono date appuntamento
nel vostro corpicino: centomila miliardi
se ne escano, centomila ne entrino
e altrettanti ne restino ( se regge il verbo)
scatenati.
Che i morti vi portino un fiore.
24 dic 2016
Giorgio Mannacio mi ha fatto stare meglio , e con altri autori capita di rado .
Lo ringrazio sinceramente .
leopoldo –
Non so che faremo a natale quest’anno
in quale bar fiutare le orme scansare
transenne accarezzare confini
come lame bere
caffè amaro cercare
stazioni per discutere mercatare
idee lungo binari aspettare che tornino
i denti smarriti
poi leggersi in foto
bambino a dicembre il tempo
che si tende ad arco da schiena
a costola ora padre figlio in fila impilato
ancora c’è gente
ancora c’è una fetta da tagliare
RIORDINADIARIO
26 dicembre 1977
Il dialogo, il dialogo/ pensò Ennio
Mentre Lella leggeva con la sua voce di bambina attenta
La favola a Radio popolare.
Bella aveva concluso la presentatrice
E nulla più.
Non ti hanno allisciato la vanità
Pensava Rosa.
Più dialogo, più dialogo!
C’ero già quasi nel sessantaquattro/sessantacinque
Quando cercai di recuperare i morti e i vivi
(adesso tutti morti o lontani o dispersi)
Di Baronissi e della latteria in via Spontini
E di parlare con loro ripetendomi
Le stesse parole allora usate assieme.
Vedi anche Fo ed Eduardo.
(La sera alla TV “Natale in casa Cupiello”).
Con quel dialetto
Che ti dava il tempo in cui eri attentissimo alle parole.
(Ragazzi ci studiavamo il parlottio dei vicini
E dei parenti adulti).
Eduardo dicevo.
Vedi come s’adagia nel parlare della gente comune.
Che può solo parlare.
Qui non c’è l’afasia di cui dice Fortini
In «Giovanni e le mani».
…i volti coloriti di freddo
e di entusiasmo
per il saggio natalizio,
i bimbi cantano e recitano
nel cortile della piccola scuola
di un villaggio del Vaud:
le vetrofanie colorate
e i festoni luminosi
illuminano la precoce notte
e gli occhi estasiati di parenti
per quel miracolo irripetibile
di piccole vite promettenti…
Una nonna vi assiste,
è per lei l’ottava edizione
ma decine quel luogo
ne vide sfilare intrecciate
di sorrisi e di promesse,
ora è il turno del piccolo
ma avanti tocco’ al maggiore
che stretta al cuore
come tutto è ripetibile!
L’apice della gioia
riposta su chi intraprende
fresco il suo cammino…e poi e poi
sappiamo noi che siamo vecchi
la nostalgia senza radici
la parabola in discesa
il tempo furfantello…
Vorremmo che almeno per loro
il tempo si fermasse…
@ Attolico
Grazie dell’apprezzamento e buon 2017 ! Giorgio Mannacio
SEGNALAZIONE
SUL TAMBURO n.42: Giovanni Papini, “Soliloqui di Betlemme” & Luigi Pirandello, “La messa di quest’anno e altre novelle di Natale”
https://retroguardia2.wordpress.com/2017/05/21/sul-tamburo-n-42-giovanni-papini-soliloqui-di-betlemme-luigi-pirandello-la-messa-di-questanno-e-altre-novelle-di-natale/
Stralcio:
«C’è, difatti, in queste novelle natalizie, innanzitutto il disincanto riguardo allo scenario mitico della religione in formato familiare o paesano, quella delle belle consuetudini comunitarie, certificate dalla tradizione sempre uguale a se stessa, serena e serenante, per inconfessabile tornaconto fiduciosa in un “dio” tappabuchi, ma drammaticamente incoerente rispetto alle pieghe stropicciate dell’esistenza e alle piaghe sanguinolente della storia. Almeno tanto quanto lo sono le noci attaccate all’abetino assieme ad altri addobbi posticci, tra palle di vetro e lucine intermittenti. E quanto lo sono le nenie che nella notte bianca per eccellenza proclamano la pace universale mentre i cannoni mirano a fare dei confini fra le nazioni profondi fossati, ricolmi di cadaveri ammassati in un grumo di divise variopinte, con al collo però, tutti, l’identico piccolo crocifisso» (pp.75-76).
scrive Massimo Naro nella sua appassionata postfazione a questa raccolta “natalizia”.
Il mondo non rispetta più le consuetudini natalizie o forse non le ha mai prese in considerazione fingendo di considerarle una parte importante della vita. Di conseguenza, le infrazioni ai dettami del vivere associato e alla sua regolazione consolidata ne mettono in luce la profonda ipocrisia.
Pirandello rimuove ogni velo e ogni traccia di illusione sull’esistenza di un mondo autentico dove la Vita sia capace di liberarsi delle sue Forme e trovare la propria nudità originaria. Al posto di essa, tuttavia, si sovrappone sempre una Maschera esistenziale che la ricopre e non è possibile farci niente, neppure in nome di Dio (La Messa di quest’anno) o della fede nell’uomo (Un “goj”) o dell’amore come sentimento puro e primigenio (Natale sul Reno, Sogno di Natale).
Se a Natale gli uomini dovrebbero essere tutti più buoni, il loro amore reciproco non dura più dello spazio di una notte. E’ questo il destino della Modernità che si afferma con la “strage delle illusioni” (Leopardi) e la nascita delle “maschere” come sostanza prevaricatrice dei volti umani – ad essa non può sfuggire nessuno perché nessuno cerca di liberarsi dalla morsa di un destino forgiato dalle sue vittime (tragiche o ridicole che siano) con le loro proprie mani.