di Rita Simonitto
Vigilia di Natale 2016. Dopo una cena a base di Knődel (gnocco di pane vecchio, uova e speck) in brodo (di dado) e un fondo di carciofo (decisamente gustoso), ci è sembrato utile rispolverare un vecchio (e famoso) film di F. Zinnemann, “Mezzogiorno di fuoco” (1952) che, più che un western, è un minuscolo breviario sulle dinamiche e i rapporti di potere, e quindi chiama in causa la Legge, la difesa del proprio territorio e i ruoli che si istituiscono all’interno di una (sia pur piccola) comunità.
A seguire (in fondo il film durava poco, 84’, sufficienti a dire l’essenziale), siamo incappati nel finale del 40° Festival del Circo a Montecarlo, con le mirabolanti esibizioni degli Sokolov, gli strepitosi acrobati russi, e la ‘ballerina dell’aria’, sempre russa, Anastassiya Makeeva con il suo tango aereo.
Poi siamo finiti in un Documentario molto avvincente e molto ben fatto – e che consiglio a tutti, quasi più ai grandi che ai piccini. Si tratta di “Bears”, di Keith Scholey, Alastair Fothergill, Canada, 2014, girato in Alaska all’interno del Katmai National Park and Preserve, dove si narra di un’orsa chiamata Sky ma soprattutto dei suoi due cuccioli, Amber e Scout, che devono da subito imparare delle lezioni molto importanti per la loro sopravvivenza.
Insomma, la nostra ‘veglia natalizia’ da ‘impoveriti dal sistema’ ci ha permesso di entrare in contatto con tre modelli di approccio al ‘mondo’: quello naturale, quello della cultura (la Legge, nello specifico) e quello artistico, nella particolare accezione della estetica della precisione, ars come téchne allo stato puro.
1) Se partiamo dal primo modello, quello cosiddetto naturale, in primis dobbiamo riconoscere un merito ai registi del documentario “Bears”: si sono tenuti fuori da un facile antropomorfismo con le sue rischiose derive di attivare e sollecitare sentimenti di identificazione e compassione. Hanno cercato invece di istituire una specie di interfaccia animale-uomo, al fine di permettere la comprensione di dinamiche comportamentali a partire da modelli di esperienza – i nostri – che sono – lo si voglia o no – più strutturati ed evoluti.
Anche se ‘mamma’ Sky (così è stata chiamata l’orsa) ripercorre con i suoi cuccioli le strade che la sua stessa madre precedentemente le aveva insegnato quando era piccola, si deve comunque scontrare col fatto che il territorio è cambiato – a seguito di eventi atmosferici imprevedibili – e l’uso del solo istinto si dimostra una risorsa parziale di fronte ad una capacità progettuale ad ampio spettro che l’animale non ha. Anche la collaborazione tra specie animali diverse (il corvo e l’orso) è funzionale soltanto al qui ed ora dell’esperienza: il corvo utilizza la sua capacità di individuare da più lontano dove si può collocare una preda, ma ha bisogno dell’orso per spostare i grandi sassi sotto la quale essa è depositata. Poi, ognuno per la sua strada.
Dal filmato vediamo che vengono messe in atto strategie comportamentali diverse e che sono guidate da due irrinunciabili spinte: la ricerca del cibo e la protezione dei cuccioli. Nel momento in cui si tratta di affrontare l’orso potente che non vuole intrusi nel suo territorio, allora bisogna trovare altre praterie. Mentre quando si deve difendere la propria prole dalle mire ‘affamate’ del prepotente di turno, allora si passa ad avvertimenti minacciosi di vario livello senza mai esporsi se non necessario.
Le difficoltà provengono quindi da ogni dove, altro che Natura idilliaca, anche se esteticamente splendida!
Provengono da dentro: la necessità al nutrimento, in primis, perché se la mamma non si nutre non ha abbastanza latte per far crescere Amber e Scout fino al prossimo letargo, e quindi rischia di fermarsi il corso evolutivo. Viene adombrata anche una necessità ludica per favorire l’apprendimento alla caccia da parte dei cuccioli – scene molto gustose che beneficiano, ovviamente, della interpretazione della voce fuori campo, ma che, ripeto, non hanno il fine della captatio benevolentiae.
Ci sono poi le aggressioni di ordine esterno, un territorio vasto che può nascondere pericoli in ogni momento, come una valanga o una alta marea improvvisa e veloce che può prendere di sorpresa e mettere a rischio la vita di un cucciolo che deve apprendere la dura legge del rischio: non c’è sempre la mamma che ti può salvare se ti metti nei pasticci!
Oltre ai pericoli che possono venire sia da altri orsi (affamati, potenti o randagi) e sia da altre specie le quali, pur vivendo in un terreno vastissimo, tendono ad ammassarsi per utilizzare gli stessi bacini di ricchezza alimentare preesistente, tipo la presenza dei salmoni, cibo privilegiato per l’orso. Ma anche doppiamente vitale: è importante che lui se ne rifornisca abbondantemente per la sua andata in letargo con garanzia di risveglio per sé e per la prole.
E ai poveri salmoni, chi ci pensa? O ai poveri mitili saccheggiati a migliaia dalle rocce che emergono dalle basse maree? Chi tutela i salmoni impedendo loro di intrupparsi nella massacrante salita alle acque dolci per deporre le loro uova, laddove saranno decimati non solo dai loro sforzi per vincere la forza di gravità e superare l’altezza delle cascate, ma anche dalle fauci affamate degli orsi che li aspettano là, al varco?
I salmoni sembrano obbedire ad un istinto di gruppo che li conduce anche al sacrificio di massa pur di andare a depositare le uova e a dare continuità alla specie.
Mamma Sky invece introduce un rapporto più individuale e trasmette un insegnamento più complesso che non è soltanto quello della ripetizione di un istinto riproduttivo.
2) I condizionamenti della natura: il corpo, i suoi limiti.
L’addomesticamento. A che pro?
Seguendo lo spettacolo circense a Montecarlo, all’entusiasmo di un tempo a fronte di questo mondo ‘parallelo’ alla realtà quotidiana – da piccola il mio sogno, come quello di molti bambini, credo, era quello di scappare con il circo – si era aggiunto qualche cosa in più, una emozione diversa, straniante.
Un non meglio precisato senso di sfida e di compiacenza e dove lo stupire il pubblico, l’eccitazione del pubblico non erano più in rapporto alla meraviglia (quegli incantevoli ‘gattoni’ delle tigri che, addomesticati così, ti veniva voglia di fargli le grattine nel sottogola, o i trapezisti che, pur sorridenti e vittoriosi, lasciavano trapelare la fallacia della natura umana), ma si entrava in una zona ‘feticcio’, dove il ‘feticcio’ deve rispondere ai bisogni onnipotenti del suo investitore: arrivare ad un godimento parossistico, di più e di più, non basta mai, non c’è mai fine.
L’onnipotenza che viene servita non passa più attraverso la magia – che adombra comunque l’umano da cui deriva e da cui cerca di sfuggire – ma si muove attraverso un calcolo, un controllo ossessivo delle infinitesimali segmentazioni del tempo e dello spazio. L’esito finale sarà creare un istante spaziotemporale in cui ‘qui’ ed ‘ora’ coincidono perfettamente senza residui: il triplo salto acrobatico in terza fila deve cadere proprio in quel luogo lì e in quel momento lì “contestualmente”, non è previsto l’errore, lo scarto: è come se l’uomo dovesse obbedire alla ‘macchina’ che ha computerizzato i movimenti. Ne va quindi non solo della vita, ma di un certo tipo di vita.
Non che ‘prima’ non ci fosse tutta questa ricerca, ma essa veniva ‘coperta’ dalla soddisfazione condivisa con il pubblico per il risultato raggiunto, c’era più ‘calore’, perfino il cavallo sorrideva felice, gratificato dallo zuccherino che, con una carezza, il domatore gli infilava in bocca.
La scienza ‘esatta’ introdotta nell’arte? La cosalizzazione della bellezza?
Sulle prime certamente stupisce, affascina, ma introduce un vago senso di sfida, un voler chiedere ancora qualche cosa di più: il sacrificio deve compiersi davanti a me, spettatore. E’ questo l’aspetto tribale che inquieta.
Alla emozione per la bellezza si associa l’emozione per l’orrore (sempre scampato!). Il passo verso la crudeltà è breve: si possono tagliuzzare le ali ad una farfalla e trovare ancora aggraziato il suo volo?
L’acrobata, i cui arti inferiori sono fasciati in un unico trampolo, e che riesce a fare il triplo salto mortale e a cadere dritto sul punto preciso designato, sollecita l’entusiasmo per la ‘vittoria’, ma lascia una specie di amaro in bocca.
Società condannata al massacro! Dover produrre e stupire di più, sempre di più fintantoché il pubblico applaude! E’ la legge del Circo, mi si dirà. Ma fin dove l’uomo può attentare alla sua vita – intesa in senso ampio – per soddisfare il piacere del pubblico? L’Arte può farsi ruffiana di questa richiesta?
3) Ma veniamo al pezzo forte. E al più complesso. A quello che tocca anche alcuni temi importanti trattati recentemente in questi post.
La trama del film “Mezzogiorno di fuoco” è presto detta.
1898. Hadleyville, New Messico.
Lo sceriffo Willy Kane si dimette dal suo incarico il giorno delle sue nozze con Amy, una ragazza quacchera la cui religione è avversa ad ogni genere di violenza, sia pure a titolo difensivo. Nel mentre si prepara alla partenza, avendo saputo che sta per tornare in città (con il treno di mezzogiorno) un pericoloso fuorilegge, Frank Miller – un uomo da lui arrestato e condannato all’ergastolo cinque anni prima e ora sorprendentemente graziato in un altro Stato –, invece di partire con la novella sposa, decide di rimanere ed affrontarlo.
Mentre ad attendere Miller alla stazione ci sono altri tre banditi che lo aiuteranno a portare a termine la promessa vendetta e a riappropriarsi del potere perduto, in paese, lo sceriffo cerca di formare una squadra di agenti giurati per affrontare il delinquente ma, con vari pretestuosi motivi, tutti i cittadini preferiscono abbandonarlo al suo destino. Anzi, molti gli chiedono di lasciare la cittadina per evitare la sparatoria che darebbe a Hadleyville una cattiva reputazione: “perché chi vorrebbe fare investimenti nella nostra cittadina si allontanerebbe. Non si può investire dove c’è turbolenza!”. Così si esprime un cittadino il quale, dopo aver lodato il lavoro di Kane, lo esorta ad andarsene.
Ma non solo. Qualcuno, come il titolare di un albergo-saloon, arriva a rimpiangere i tempi in cui Miller spadroneggiava spavaldamente in città prima che Kane lo arrestasse e ponesse fine all’anarchia ed alle prepotenze del malvivente e della sua banda.
Così Willy Kane si ritroverà da solo – la stessa moglie in un primo tempo lo lascia a causa del suo credo religioso antiviolenza – a confrontarsi con il dilemma legato alla sua scelta di rimanere: lo fa per orgoglio (una questione personale), oppure in virtù di quel ruolo che gli è stato conferito di tutelare la comunità e che va oltre la mera scadenza del mandato? O invece è perché, se la comunità gli revoca quel mandato, ci sono dei valori individuali che devono prevalere al di sopra di quelli espressi da una collettività non capace di orientarsi? E di che ‘comunità’ si può parlare se essa è così divisa nel perseguire interessi diversi?
Il film si conclude amaramente: dopo aver eliminato i banditi, Kane se ne va via per sempre con la moglie – che lo ha infine aiutato nella difficile impresa -, non prima di aver gettato nella polvere, davanti ai cittadini di nuovo osannanti, la sua stella di sceriffo.
L’inquietante attesa del treno da parte dei malviventi nella stazioncina deserta e, di contro, la disperata e solitaria ricerca da parte dell’ex sceriffo di una solidarietà cittadina a fronteggiare l’esperienza della negazione di quanto era stato costruito e salvaguardato fino a quel momento, danno allo spettatore la misura della difficoltà a contenere le forze del ‘male’ unitamente a quelle del ‘bene’ quando queste vacillano.
E, poiché l’impianto non è di stampo manicheo (tutti buoni o tutti cattivi), fa vedere invece l’esistenza dell’opportunismo insito nei cittadini i cui interventi oscillano pro o contro l’esigenza di stabilire l’ordine in città – e che rischia di essere minacciato dall’arrivo dei fuorilegge -, perché sono combattuti tra quello che è l’interesse individuale e quello della collettività.
Fuorilegge. Tutto quello che ‘viene da fuori’, può essere percepito come fuori-legge dalla comunità. E pertanto pericoloso. Mina la stabilità.
Lo sceriffo Willy Kane era stato preposto per stabile l’ordine. Ma per conto di chi? A quanto pare di una certa fascia di popolazione che desiderava alcune tutele: le donne che possono circolare per il paese senza paura di aggressioni; la limitazione di soprusi gratuiti; la garanzia di una vita tranquilla senza sparatorie. Mentre un’altra fascia di cittadini, quella più dedita al commercio (l’albergatore) o agli investimenti produttivi (c’è chi vede la cittadina di Hadleyville come luogo di frontiera appetibile agli investitori) percepisce le regole di Kane come limitanti e antisviluppo.
La religione stessa sembra essere, di fatto, strumentale al potere emergente, anche se ‘teoricamente’ afferma di essere super partes ed antiviolenza. Infatti, nella chiesa presbiteriana, dove Kane si presenta a chiedere aiuto ai fedeli, l’officiante, dopo averlo rimproverato per il fatto di essersi sposato con un altro rito – i quaccheri rappresentano un’ala del protestantesimo più radicale soprattutto per il rapporto tra potere politico e religioso – , gli fa capire che il suo ‘uffizio’ non gli permette di orientare i cittadini verso una opzione (quella di difendersi dai malviventi) contro un’altra. Ognuno deciderà secondo coscienza.
Ma, scrive Marx, “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza”. Solo che, a Hadleyville, la coscienza dei potenti, quelli che hanno interessi da difendere, ha già deciso e trascinerà gli altri, i più deboli, nella scelta di non volere noie. Tanto, il giorno dopo arriverà l’altro sceriffo e prenderà lui le decisioni.
Allora? Chi e che cosa va cercando l’ex sceriffo nel suo passo stralunato lungo la strada deserta che attraversa il paese? Una ragione suprema che non sia soltanto espressione di egoismo e che giustifichi la sua scelta di rimanere lì, nonostante tutto?
O pensa ad una Legge superiore, giusta per tutti, a cui appellarsi? Ma quali sono i criteri che la regolerebbero? Perché mai Frank Miller, condannato all’ergastolo in quella cittadina, viene graziato da un altro Stato?
Se il ‘nomos’ (la legge dell’uomo) diventa espressione di interessi di parte e oggetto di contese tra fazioni, non rimane che confidare nella legge superiore della ‘physis’ (la legge naturale), regolatrice dell’armonia dell’universo.
Può esistere una umanità universale la cui legge suprema contempla il diritto dell’uomo a venire considerato soprattutto come essere umano, al di là delle connotazioni di religione (o di razza)? Sì, idealmente sì.
Ma nella contingenza Willy Kane non può aspettare: è costretto a scendere sullo stesso terreno del fuorilegge, mors tua vita mea. E’ costretto ad uccidere per non essere ucciso.
Ma chi lo costringe? Quale senso di giustizia lo porta ad affrontare l’esiziale duello finale?
La moglie che lo vuole dissuadere, lo fa soltanto perché è ligia ai precetti della sua religione? O non anche perché pensa che il compito di sceriffo svolto da suo marito si è concluso e ora spetta agli altri farsi carico della loro vita?
Lo spettatore è trascinato a coinvolgersi positivamente nell’etica superiore che sembra muovere il protagonista, orientata com’è nella difesa dei deboli contro i soprusi dei più forti.
E’ facile e comprensibile che ciò accada.
Non ci si accorge di entrare invece a piè pari dentro l’ambiguità del personaggio.
Per quanto sbandieriamo a destra e a manca la ‘bellezza’ dell’integrazione, dimentichiamo quanto è difficile e doloroso, a volte disumano, integrare delle parti di noi che rifiutiamo e che pure ci appartengono – “c’è una parte di me in ognuno di voi” dice il personaggio di Hitler nel recente film “Lui è tornato” – .
E, quanto ad ambiguità, mi è venuto alla mente un altro personaggio – di ben altra levatura, ovviamente – quello di Shylock, ne “Il mercante di Venezia” di Shakespeare. Il suo monologo (1), preso a ‘manifesto’ dalla cultura della tolleranza per rivendicare i diritti umani e civili a tutte le ‘minoranze’ e i cosiddetti ‘diversi’, in realtà mostra sì l’uguaglianza degli uomini ma pure nelle loro nefandezze, nelle loro malvagità. Dove si tende ad agire seguendo i propri impulsi personali e il vincitore è soltanto il più furbo o il più potente. E tutto ciò quando ci lasciamo prendere dal facile tranello della emotività senza farla rapportare alla ragione!
Gli aspetti ambigui li cogliamo nella lettura attenta dell’opera e in particolare modo nell’ articolarsi del processo in tribunale davanti al Doge di Venezia.
Da un lato, significativa è la domanda di Porzia che, avendo davanti sia Antonio che l’ebreo, chiede chi dei due sia Shylock (facendo subito intuire che più che trattarsi di antagonismo siamo in presenza di un doppio, dell’uno nell’altro).
Dall’altro, non ci sfugge quanto abili, spietati e implacabili siano i ‘gentili’ quando viene il momento della vendetta!
In effetti, Antonio non è che uno Shylock represso, che si maschera dietro una ipocrisia velata di misericordia. L’ebreo invece mostra allo scoperto il valore mercenario della libbra di carne (3000 ducati), mentre Antonio vuole coprire il valore mercenario della compravendita del corpo di Porzia, sempre per 3000 ducati.
Traspare dunque questa inequivocabile simmetria e reciprocità che governa il rapporto tra i cristiani e Shylock e dove Antonio e l’ebreo sono opposti soltanto in apparenza mentre in realtà sono simmetrici, doppi, speculari.
La grandezza di Shakespeare, dell’Arte, sta in questa capacità di entrare in contatto con l’ambiguo che ci appartiene e di mettere a nudo ciò che il nostro sguardo vorrebbe coprire o allontanare.
Per chi fosse interessato alla visione del film “Mezzogiorno di fuoco”, può soffermarsi sui discorsi che vengono fatti in chiesa, là dove ‘democraticamente’ sembra che ognuno possa dire la sua, ma poi alla fine il gruppo viene ‘catturato’ dall’oratore più eloquente. E fare un parallelo con il “Giulio Cesare” (sempre Shakespeare!) quando Bruto e Antonio si alternano nell’orazione funebre davanti alla plebe romana! Passerà la posizione di Antonio, non per i contenuti che egli porta ma perché più abile nel gioco ambiguo delle parole e nel gestire gli umori di una plebe disorientata dall’evento traumatico.
Nota
(1) «Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre degli stessi cibi, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie, non si cura con gli stessi rimedi, non è riscaldato e agghiacciato dallo stesso inverno e dalla stessa estate come lo è un cristiano? Se ci pungete, non facciamo sangue? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci oltraggiate, non dobbiamo vendicarci? Se siamo simili a voi in tutto il rimanente, vogliamo rassomigliarvi anche in questo. Se un cristiano è oltraggiato da un ebreo, qual è la sua mansuetudine? La vendetta! Se un ebreo è oltraggiato da un cristiano, quale può essere, sull’esempio cristiano, la sua tolleranza? Ebbene, la vendetta! La malvagità che mi insegnate la metterò in opera, e sarà difficile che io non abbia a superare i maestri».
“Ex malum”?!… Ma Agostino d’Ippona, se c’era bisogno di una citazione dotta per gli “impoveriti dal sistema”, aveva scritto in un corretto e fluente latino: “…utrum ex malo ad bonum, an ex bono ad melius…”… E la vigilia di Natale non era forse più salutare, per il corpo e per lo spirito, spegnere il televisore?
Con la mia immutata stima. Auguri di Buon Anno!
* Nota di E. A.
Ho corretto. Grazie.
*…utrum ex malo ad bonum, an ex bono ad melius…*
Eh, caro il mio S. Agostino, doctor Gratiae, magari così andassero le cose!
Agli ‘impoveriti dal sistema’, ciurlati dalla loro stessa conoscenza, non rimane che rimettere le mani nel torbido, avvicinarsi, dopo ‘secoli’ di lontananza a quel bussolotto catodico usato soltanto dai gatti come torre di vedetta (da qui si evince che non si tratta di una moderna apparecchiatura TV ultrapiatta). Perché non utilizzarlo per proiettare uno degli 8.000 film della biblioteca cinematografica messa su con gli anni?… ma perché vedere film, mi si dirà. Il mondo è là fuori… i tuoi ‘simili’ sono là fuori, anche se sei diventato un homeless, che importa? Ce ne sono molti con cui condividere l’esperienza!
Invece importa perché è fondamentale entrare in contatto e continuare a costruire una identità interiore, e ciò non avviene certo per ‘Gratia’. Ma avviene cercando di riattivare la Storia e la Memoria.
*“Ex malum”?!…*: si dice anche così. E, non a caso, questo ‘errore’ stuzzica un quid di interesse rispetto al classico del “ex malo bonum”.
Con reciprocità nella stima, un affettuoso augurio di Buon Anno.
R.S.
““Ex malum”?!…*: si dice anche così”. Non mi risulta davvero, se non come un marchiano errore che non “stuzzica” un bel niente. Perché insistere? Ennio, elegantemente e saggiamente, ha già ringraziato e corretto.
Sì, d’accordo! Mi scuso: era solo un giochino di parole che si faceva su una considerazione di Seneca!
Ennio ha fatto bene a correggere.
Grazie.
R.S.
Mezzogiorno di fuoco è un film che ho visto da bambina, come anche Maschere e pugnali. Trasmettevano una idea della vita estremamente interessante: si deve agire, nobilmente, per convinzioni valoriali ed etiche; ma non ci si creda onnipotenti: non solo ci scontreremo con la volontà di persone diverse da noi, pur vicine, ma forse anche in noi stessi le nobili ragioni rivestono motivazioni più “andanti” e quasi ovvie.
Il taglio psicologico di questi film è realista o filisteo? Tutti e due, direi, essere realisti rischia sempre la chiusura nel piccolo recinto.
E’ vero che con l’analisi di Mezzogiorno di fuoco si toccano “anche alcuni temi importanti trattati recentemente in questi post”. Seguendo l’esposizione dei personaggi da parte di Rita Simonitto si potrebbe dire che agiamo sempre in un contesto di motivazioni complesse e contraddittorie e quindi è forse necessario che ciascuno ritrovi anche in se stesso una condizione di ambiguità.
O piuttosto ci troviamo stretti in un pendolo che oscilla tra slanci idealistici e brutale accettazione di impotenza? Allora, nell’immediato dopoguerra, il realismo era naturale, inevitabile, non si correvano rischi di smarrirsi nella post-verità. Oggi invece la realtà è quella che viene presentata, rivestita e alterata. Per questo non siamo “ambigui” ma presi e lacerati tra due opzioni irrealistiche, eccessive, non-concretizzabili.
Era meglio la lezione del dopoguerra, di questa deportazione.
…tutti e tre i filmati visti per scelta, o per caso proposti in televisione, sono interessanti per parlarci della natura animale e, in particolare, umana, in relazione ai rapporti di sopravvivenza o di sopraffazione, ma anche ludici, che intercorrono tra soggetti della stessa specie o di specie diversa. Rita Simonitto con la sua presentazione critica vuole, credo, sfatare la tendenza a separare nel giudizio il bene dal male all’interno dei singoli comportamenti o stati d’animo…Molto, sembra dirci, dipende dal punto di vista preferenziale: ad esempio nel caso del documentario sulla famiglia di orsi, che suscita simpatia e partecipazione e per la quale il pubblico tifa, sembra chiaro che la loro sopravvivenza comporti il sacrificio di altre, come quella dei salmoni…Un equilibrio sempre da ricercare, senza pregiudizi, anche se nell’essere umano diventa più complesso compiere scelte che, oltre al tornaconto, tengano presente valori più universali…
ho letto con attenzione questo pezzo e non conosco la citazione da S.Agostino, ma a dire il vero mi sembra una questione di ” lana caprina ”
In ogni caso mi complimento con l’autrice per l’acutezza della sua analisi nella lettura dei tre pezzi di Tv andati in onda nei giorni scorsi. ( che ho visto in parte anch’io).
Sono osservazioni molto acute e profonde e non mi hanno fatto rimpiangere i ” pallosissimi ” giudizi critici di Aristarco su Cinema Nuovo negli anni 60.
Brava,complimenti