di Alberto Mari
Piccoli marciatori (A Luigi Pasotelli)
Sciabolate accostando
a guance a vele
la dimensione si lancia
orizzonte accorciato
il vetro neutrale
libera il respiro
l’esercito riflesso
il taglio dei sotterranei
radiografie di muri
prigionieri dei libri
in fasci di nebbie solventi
strada mobile
uscir pensare
dalle teste alle torri
sfuggenti imitazioni
all’attenzione alle ombre
non più descrizioni.
Mea rosa
Maree d’erba, discese di rugiada,
pioggia di petali dal soffitto
e il canto del vino s’affaccia
al cielo e innalza i calici.
Mea rosa, sub rosa, rosa amata,
rosa segreta, alle labbra, alle labbra
unite immerse negli occhi, custodia
degli occhiali del tramonto,
del giardino rosseggiante
dell’invisibile re dei nani,
profumo, attesa recisa dall’amata
che il poeta non sa insultare.
Il giardino di marmo
Nell’ acqua l’incanto dello scoglio
di casa, acqua del soffitto del fondo.
Il rumoroso silenzio chiude l’idea
del mare, il rubinetto del respiro.
L’uomo pesce non vuol risalire,
va oltre il traguardo. Non ode
i richiami da terra e butta
la corona fra gli applausi
inesprimibili del giardino
di marmo che nasconde le novità.
Prospettive d’amore
*
Donna ombra
quadro vivo
della finestra
sorpresa
dalla doccia
prova a dire:
“ti amo”.
La donna
del lampione
su e giù
dallo sguardo
è gialla e nera
nelle facce del corpo.
**
La stanza chiede
amore e arriva
tra le gambe
col respiro
e si stacca
dalla porta
e mi lascia
così sul letto
a prender tempo
con le gambe
sul pavimento.
***
Se la bacio
tra il collo
e il sedere
sviene la mano
e il tocco di lei
si volta
con le dita,
le labbra
da riempire.
Cade sorpresa
la testa china,
il buio
saltella
con la campanella
del negozi.
*****
L’amore
non chiede
dice di si
col dito
e si nasconde
in fondo ai baci,
baci in fondo
al corridoio,
ventre
della balena
che si fa strada.
******
E scrivo col cuore
le cose che
non abbiamo fatto
per far durare
l’incontro.
E più parlo
al corpo
lei si apre
e mi lascia
la meraviglia
dell’addio.
*******
È il film del cielo
con la guancia
e le labbra
accosto allo specchio
non ancora
lei, lui, uno di noi
col sorriso in trionfo,
il seno appannato,
le gambe aperte,
accennate,
la discesa dei piedi
sull’asciugamano.
*********
Il giudizio delle
gambe
perso
l’equilibrio
sul sedile
dell’autobus.
Leggeva,
leggevo
le sue calze
e i tacchi
a dondolo,
per cominciare
ad aprire e forzare
la gonna
e i calzoni
finalmente assieme.
Il tempo dei desideri
1
L’albero accosta l’orizzonte,
la fronte, l’alto del quadro
rimanda i rami a portata di mano,
riflessi inquieti dei pensieri.
Nell’incontro della stanza
che resiste fuori entra
l’unica vetrina possibile
per gli ultimi passanti.
2
L’aria dei libri si apre
affacciandosi alla grandezza
incontenibile che sta sopra
la casa caduta dalle nuvole.
Il cielo assoluto rimane
nello sguardo che respira
i colori trascorsi delle pagine,
il volto Impresso nella scrittura.
3
Il mondo di sotto
distribuisce stelle
in equilibrio e trascina
i numeri che scendono
dalla ruota al polso.
4
Il tempo dei desideri è scaduto.
Il vento si ferma sulla porta
di mezzo davanti e dietro,
camicia di carta sottile
di pochi giorni che diventano
anni irriconoscibili, le stagioni
della pelle dipinta trattenute
dal cuore al passo con la notte.
5
Dagli oceani, abissi tumultuosi
del tempo, riprendono il faticoso
ritorno, incontro fatale
tra gli abitanti sconosciuti.
Nello sguardo superstite
va a finire la previsione,
confine della fiaba nella
dimensione della piazza
che porge la tempesta.
6
L’ascolto risponde
al legno che cede
alla sedia della locanda
delle ombre, nel vapore
umido che avvolge la fronte
la parola data resta,
pronuncia interdetta
nella schiuma della birra.
7
Il meteorologo si confida
sulla mappa aperta.
L’idea lascia il segno,
un nome scelto,
l’apparizione
che vuole uscire
al posto giusto.
Lupo verde
Cane del divano che sorvegli
la bistecca di plastica.
Cane dei cani, sciacallo
delle stelle fredda
della sera, del manto
del bosco nel ricordo
della strada che sfuma
e si ricompone geometrica
nella stoffa, col muso
del cane appoggiato.
Cane perso nella montagna,
ritrovato, perso di nuovo,
azzannato, replicato. Cane ancora,
cane d’erba e del salotto,
dalla vita troppo corta.
Ogni tanto la morte interviene,
la morte coi suoi drappi
di rugiada sconfitta,
e la vita riprende
automatica, col cane
del sollievo, riprende
l’inizio del tramonto
consolatorio. Cane,
sempre cane dagli occhi
accorati che ti guardano
uscire, occhi sempre
in attesa, del tuo ideale
lupo verde, unico
lupo verde, essenza
dei cani tuoi, degli altri,
del salto avido
di altezze, passato,
presente che si esprime
nella cagnetta che rievoca
l’ululato al suono
dell’armonica di Dylan.
Arianna
… qui sta il più grande segreto che nessuno sa (qui l’intima radice e bocciolo e cielo Di un albero chiamato vita che cresce Più alto di quanto anima speri e mente Cieli) e questa meraviglia regge le stelle Io porto il tuo cuore(lo porto nel mio cuore) E.E. Cummings
Arianna, venere, le gambe tornite, prova di forza sotto la gonna. Una pioggia di rose sui capelli scompigliati. Col compagno lanciatore formavano una bella coppia di segreti.
Pura, santa, luminosa… tra pittura e scultura, dalla cintura della borsa la sintesi del filo.
Il braccio proteso di lui alla ricerca del senso perduto. Come se potesse afferrare il tragitto del lancio, unione nel prato, ricordo del labirinto.
… la dea negli occhi folgorar vedresti
Lo spettatore ammirato, restava in sospeso, in cerca di appartenenza, di un’invidia che non provava.
Un cane dietro l’altro, corse separate, trascorse.
L’oggetto preciso nell’aria sembrava una preda per l’apparizione in volo.
Inutile richiamare il proprio cane se sta per decidere quando ti correrà incontro.
Che cosa separa le vite?… Che cosa allontana l’incontro?…
Un brontolio di un tuono, un lampo… Chiedere di esprimere una distanza, se la sorgente del buio si allontana e cerca d sfuggire, di non restare più nascosta.
Un oasi abbandonata. Un astro d’acqua, specchio dai piani alti.
La porta scenario del campo di calcio si proiettava nella partita di fronte.
Si rinchiudeva in una nuova notte d’afa. Un’asta incapace di ricevere le offerte del caso. La stagione di tutti i numeri.
Affacciati al visibile gli incerti uomini di Arianna seguivano il misterioso caso della luce.
Invano l’avevano cercata. Il cellulare perduto, vegliava la via uscita nell’erba.
Continuava a perdersi nel cammino del dispaly. La linea interrotta da seguire, il suono remoto, l’ascolto impreparato.
Il fiore inaccessibile della memoria. Cantina di vecchi fumetti.
Poteva concedere come esperta delle occasioni, poche parole scelte dal suo distacco.
La segretaria dell’estate cercava le definizioni ideali nel cruciverba, nel sogno indiziato del ricordo.
Colta sul fatto nel delitto di distrazione, cercava la salvezza in uno dei pulsanti disponibili.
Rebus d’ogni sorta sulle impronti digitali della banca. La frase e le immagini preferite.
Cercava aiuto il cliente rapito dalla porta girevole.
Aspettava il suo turno dietro i numeri sottratti al suo destino.
Ogni sguardo, una decisione, una donna, un io tutto per lei, la ricerca della bellezza da sentire.
“Voglio andarti incontro, realizzare il tuo momento. Voglio ricordarti, impararti a memoria… Voglio, voglio, voglio!… Voglio parlare col direttore!”
Come un qualsiasi essere speciale, voleva scegliere, essere scelto, una possibilità di scelta.
Numeri e maglie. Pillole di Dio. Preparavano un incontro acceso, dai cassetti alle finestre in cerca di vento.
Tutti i giocatori possibili si rincorrevano sui tetti del tempo.
La carta blu cobalto del cielo, arricciata come un fuoco sull’altare enigmatico.
Arbitrava un prete impassibile.
Soffermarsi su una sera qualsiasi presa in prestito dagli alberi all’erba, sassi scelti, collane di esempi, allusioni inafferrabili fino all’approssimarsi delle meraviglie.
Il cammino del corpo uscito dalla scatola di costruzioni. Ombre infinite aggrappate alla scenografia, ai disegni dei cancelli.
Episodi fulminanti sul momento inevitabile, il sonno rimandato alla curva della grande pagina. Pedoni, lampioni, mosse della regina delle attese.
Una delle lune del quadro fra serenate imbarazzanti, scoperta nel taglio della tela, nuda identità nel fondo azzurro, fioretto baffuto, chioma di vernice nello strappo nero, innumerevoli risvolti della canzone.
Lo spettatore cercava un cauto risveglio sulla scollatura della cantante, carezza sospesa sul barboncino ai piedi del letto.
“Non hai paura, qui da solo, a quest’ora?”
Il mitomane mostrava il calcio sporgente della pistola, complice il chiaro di luna, teneva a bada le ipotetiche minacce delle ore inoltrate.
Non era del tutto incredibile.
- Le poesie qui pubblicate sono tratte da “Il tempo dei desideri” di Alberto Mari, New Press Edizioni, 2016 >www.newpressedizioni.com
Il tempo vitale è espresso dallo scorrere e compenetrarsi delle immagini nella mente. Esse non si succedono linearmente in ordine temporale, o secondo una logica inconscia, ma si offrono come accumulazione: plurali e compenetrate, segnalano la rottura culturale in cui il pensare ha cominciato a strutturarsi in frames, isolati, equivalenti e multipli.
Testi molto godibili perché offrono a chi legge un lavoro di decifrazione, in pratica mai esausto, infatti la produzione dei frames è collettiva, attiva, del general intellect, guidato da tradizione, tecnica e sviluppo.
Dire “non più descrizioni” prima che il lettore entri in sintonia con esse o le abbia in uggia è una accattivante astuzia di comunicatore poetico, così poi si potranno descrivere cose e azioni e luoghi e tempi senza che il lettore si debba preoccupare di discernere una logica nella loro successione e possa quindi abbandonarsi alle emozioni suscitate dai pungoli della sintassi fuori ordinanza e delle figure retoriche in veste acrobatica. Poi c’è l’erotismo filtrato dalla nostalgia (“E scrivo col cuore /le cose che/ non abbiamo fatto / per far durare / l’incontro”) che è un ritrovato degno di ammirazione, dopo che quello postmoderno si è risolto in kitsch, perché discende inaspettatamente dai canzonieri di fedeltà petrarchesca. E poi, visto che “il tempo dei desideri è scaduto”, non ci resta che raccogliere l’invito a riflettere sulla realtà che giace incomprensibile sotto i nostri sensi, e che non appartiene all’umano perché il suo descrittore la smaterializza e la disumanizza a colpi di metafore e di allegorie e di allucinazioni lessicali piene di una suggestività da tenere a mente.
Milena Tagliavini
“Il tempo dei desideri ” si presenta con una scrittura spezzata, maschile, filtrata dal corpo della città. Una scrittura deviata di continuo dai mille input del contesto cittadino. Essa è un occhio, però, consapevole e ferito dalla distrazione che porta ad allontanarsi dalla vera visione intima del reale. Molti, ma non il poeta che scava imperterrito. Scava attraverso porte, scale, ascensori, stanze, corpi di donna, visioni. Il ritrovamento è la mancanza di un disegno che abbia un senso, sono frammenti da cui tutta la raccolta è composta. Di essi il poeta si proclama re. “L’inchiostro appuntito/ scorre nella mappa vuota del disegno opaco./ Pieno come un tesoro…/ Mi ritrovo figlio del foglio rigido, agitato/…signore dei frammenti,/ del distacco…(p.79) “Sono ancora qui, tra voi,/ morti apparenti, segni, tratti, brandelli, onde,/ scritture, a declamare…” (p.79).
Chi parla è costantemente un uomo che cerca di non farsi illusioni. Anche l’amore, pur con gli slanci da innamorati “Maree d’erba, discese di rugiada, / pioggia di petali dal soffitto..” o con le pulsioni del desiderio fisico “per cominciare / ad aprire e forzare / la gonna/ e i calzoni/ finalmente assieme (p.41) è sempre disilluso.
Un “mezzo amore” che non crede più all’ “altro mezzo amore” che provoca solo scompensi perché “si sporge spesso da una parte sola”.
L’amore totale resta impossibile da afferrare. Eppure il sogno di arrivarci, continua a vivere nel poeta e da qui l’invocazione a una donna che può essere identifica con la poesia, la scrittura in generale o l’arte tout court “mezzo amore” (p.90).
Tutta l’opera è pervasa, come già detto, dalla disillusione, ma anche dal desiderio invincibile che viene proclamato anche nell’inno di p.80 ” Casa del calendario,/ sala della luce,/ ruota dell’esistenza/…./ oh cosa, mia casa, mio seno, mia anima, mio inconscio,/ mia immaginazione, mio cosmo, mia torre colpita / dal fulmine d’amore, apertura del cielo.”
Alberto Mari viaggia a bordo di un treno ad alta velocità. Un treno onirico. Ci vole come compagni di viaggio. Ci rende partecipi dei suoi scavallamenti erotici, delle sue visioni fugaci e profonde, eppure così ampie da meritare la nostra sosta. A ogni stazione abbiamo qualcosa da osservare. Qualcosa su cui riflettere. Una ridda di lampioni metropolitani accendono sensazioni e riflessioni. Stupimenti e domande senza risposta. Perché risposta non c’è. Il capomacchina è lui. E ci porta dove vuole. A un certo punto potremmo smettere di guardare le immagini che scorrono velocemente dal finestrino e chiudere gli occhi. Altre immagini scorrerebbero con efficace audacia e autonomia. Finalmente nostra. Non ha senso citare versi o periodi della prosa poetica di Mari. Non ha senso perché un senso non c’è. La direzione di marcia, il senso di marcia, dipende solo da noi. Alberto Mari ci consegna le chiavi per aprire le porte e potere scendere. Poi ognuno ne faccia ciò che vuole.
Rispondo ai quattro commenti sul mio libro in qualche modo legato al mio precedente “Pensieri, orologi” di dieci anni fa. ( A proposito del tempo che imperterrito passa. Per non parlare de “Il mondo d’un fiato” , “Scomparse”, Manovre”, altri mirabili “vecchi”).
Non siete ovviamente obbligati a sobbarcarvi il mio “curriculum” anche se un ‘occhiatina a almeno al precedente libro ve la consiglio. Sempre sul sito dell’amico Ennio Abate potrete trovare i riferimenti de “il poeta vola”, il mio cavallo di battaglia anche visivo, la mia anima che non vuol crescere e si trastulla un po’ alla Lewis Carroll.
Tornando al “tempo dei desideri”, già dalla rassegna abbondante elaborata da Ennio si possono trarre delle osservazioni (non conclusioni) che non si riferiscono alle imprese personali della mia vita, a quello che combino, le mie donne e via dicendo . E’ ovvio che mi riferisco al retroscena del mio vissuto più o meno accennato o illustrato dai miei quadri, questa un po’ è la traduzione al mio sentire . “ Vedo quello che scrivo”, questo potrebbe essere un indizio, una suggestione, ma ce ne sono tante altre che scorrono dal mio punto di osservazione, come cadere dall’alto e soffermarsi ad ogni piano d’un palazzo. “Cadere per conoscere”, la vertigine, il gorgo suggerito da Edgar Allan Poe (vedi “Vertigo” nel mio precedente libro).
Lo spirito di salire e scendere dal veicolo della mia mente può essere un suggerimento utile. In ogni caso non mi dispiace disorientare o essere difficile o almeno esser capito come si può capire la musica nostra amata parente. Per adesso accontentiamoci e vedremo, se stimolati abbastanza un eventuale seguito o una prossima puntata. A presto, spero.
Alberto Mari.
Ps.: I testi del mio libro sono maturati in diverse occasioni. Tipo quello sulla guerra e quelli scritti su collage del mio amico poeta sonoro( morto nel 93). Ricordo anche con piacere i testi autoconclusivi dei libretti editi dal pittore Claudio Granaroli(collana dei numeri). Questa naturalmente non è una confessione. Penso che più o meno in molti agiamo così. La suddivisione poesie e prose poetiche è necessaria ma per me fa parte di un unico discorso. E’ un po’ la storia delle” righe lunghe” , degli “a capo”che hanno intrigato molti scrittori. I modi poetici non mi turbano molto comunque.
Da voce al silenzio dando forma a tutto quello che di solito muove nell’ invisibile, che sottende ad azioni, a pensieri, alla vita. Sono frammenti, luccichii, che a lui non sfuggono, che traducono un senso prezioso che non ha bisogno di chiedere, di interpretazione alcuna. E’ quello che è…. una giornata intera notte inclusa.