Tabea Nineo, Vecchio e giovane donna, feb. 2017 olio su tela 50×50 cm
di Ennio Abate
Prendo da un articolo di Pietro Bianchi su “Le parole e le cose” del 1 feb. 2017 (Al di là dei nostri occhi. Il Reale dello sguardo lacaniano ) questo brano:
“Che cosa vuol dire guardare un’immagine – si chiede implicitamente Lacan ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi? Per molto tempo si è pensato che guardare volesse dire mettere in contatto un agente percipiente con un oggetto percepito, un polo attivo con un polo passivo. Tale descrizione dell’esperienza visiva secondo cui la percezione non è altro che una freccia che collega un punto a un altro in uno spazio neutro e astratto non è troppo lontana da quell’implicito empirista che fa da sfondo alla stragrande maggioranza degli studi sul cinema. Ogniqualvolta siamo messi di fronte a un’immagine non supponiamo tacitamente che tutti stiamo guardando più o meno lo stesso oggetto?
Lacan imposta la sua argomentazione sull’oggetto-sguardo in due passaggi. Nel primo mette in discussione l’implicita oggettività dell’immagine con un assunto fenomenologico: contrariamente a ciò che si pensa, quando guardiamo un’immagine stiamo tutti facendo un’esperienza minimamente differente. Non solo perché le condizioni della percezione sono sempre diverse come assicurerebbe qualunque studioso della percezione o scienziato cognitivo, quanto perché guardiamo sempre con un corpo. E il corpo, insegna la psicoanalisi, è innanzitutto corpo pulsionale. Uno psicotico che soffre di allucinazioni visive vedrà un’immagine completamente differente, ma anche i sintomi di un qualunque nevrotico definiscono il campo visivo secondo modalità che sono sempre singolari.”
Vi chiedo di dirmi cosa vedete in questo mio quadro. Poi vi dirò perché. Grazie.
E’ come guardassi bassorilievi dell’antico Egitto; m’interrogo sulle loro esistenze, l’organizzazione sociale, le credenze religiose e quale il loro senso della bellezza.
In questa tua rappresentazione, trovo dolorosa la figura centrale, perché nuda, arrossata e come senza pelle. Ma la posa è quella di una pattinatrice o di qualcuno che danza o corre; verso cosa o perché, non si sa: son tutti profili, rimandano a qualcosa che sta fuori dall’immagine. Due terzi dell’opera sono in rosso, le figure vanno a destra. In altro guardano a sinistra. Le figure in alto sembrano andare in controcorrente.
Quello che Ennio propone può essere un gioco come un altro, con implicazioni serie, se lo si vuole interpretare seriamente. Innanzitutto mi sembra ovvio che il «vedere» è un’attività complessa che implica una marea di problemi e aspetti. Se così non fosse, non esisterebbero i numerosi test sul vedere (clinici, metrici di misurazione, psicologici cognitivi e proiettivi come il test di Rorschach e così via). Gli studi sulla visione hanno dimostrato che il vedere non è una capacità congenita già formata, ma congenita è solo la facoltà di imparare a vedere nelle circostanze “normali”. Ci sono casi di persone nate cieche che hanno recuperato la vista dopo anni (a seguito di operazioni chirurgiche o per altri motivi). Per tutti il “vedere” è stato un trauma difficile da superare, l’apprendimento del vedere è stato lungo e in alcuni casi non ha mai portato ad una capacità definibile normale. La deprivazione subita per anni non è stata recuperata interamente e in qualche caso, addirittura, queste persone hanno chiesto di essere operate di nuovo per farsi accecare e così recuperare l’equilibrio sensitivo e cognitivo che avevano raggiunto prima nel loro mondo buio ma significativo, esploso e perduto con un vedere non appropriato.
Detto questo, è chiaro che l’operazione del vedere è anche sempre un’operazione di organizzazione di elementi fisici, neuronali e intellettuali e di interpretazione degli stessi. Operazione complessa che, se scendiamo al dettaglio, è sempre diversa da individuo a individuo. È pertanto soggettiva, ma di un soggettivo che dipende da una serie di elementi oggettivi, che non è quindi un soggettivo libero, che è possibile scegliere con un semplice atto di volontà.
Nel quadro di Ennio (che ora, scrivendo qui sotto nel format apposito, non posso vedere perché non ci sta nel monitor del pc), imbeccati dal titolo, ci si vede subito due figure, un viso in alto a destra, che dovrebbe essere la «giovane donna», e una figura a corpo intero, seppure stilizzato e deformato, al cento, che dovrebbe essere il «vecchio». Ma le figure non indicano chiaramente la loro condizione di giovane e vecchio, per cui potrebbe anche non essere così, per Ennio o per altri.
Si vede poi una terza figura, solo una testa, alle spalle della figura centrale. Le tre figure, tuttavia, non sembrano gli elementi più pieni e visibili del quadro, dal punto di vista del “vedere”, e non dell’estetica o comunque dell’interpretazione di senso. Ciò che al primo sguardo caratterizza il quadro è l’insieme di reticoli bianchi che contornano e delimitano degli spazi colorati. Si potrebbe pensare a strade, o canali, e a campi o terreni più o meno coltivati e colorati di verde o marrone o altri colori in tono. È solo all’interno di queste aree che le figure umane emergono, come formazione spontanea, fra il casuale e il voluto, derivata dalle rughe e righe e altri elementi dei campi (campi di colore, campi come parti del quadre delimitate e riconoscibili).
Righe e campi, a loro volta, possono essere interpretati come un grafico complesso a sé, tipo le famose linee che in alcune zone dell’America del Sud sembrano tracciare scritte e simboli leggibili solo sorvolando il tutto in aereo o elicottero. Sono dunque interpretabili come simboli che rimandano a significati non precisati ma individuabili.
A questo punto si può passare a percepire una struttura prospettica nel senso dell’estensione della profondità o altezza. La figura umana centrale giace sul territorio articolato in campi e in parti bianche separatrici, ma pur giacendo si innalza su di essi e si muove in essi e sembra l’unico disegno dotato di individualità, corpo e movimento e, dunque, di volontà. Le due teste svolgono un compito meno importante, più di contorno e più inserito nello sfondo, che però non è solo sfondo perché è capace di cogliere il primo sguardo, emergendo in primo piano.
Se si volesse scendere nei dettagli, si potrebbe cercare di vedere altro, ad esempio i tratti fisici delle figure (età, colore della pelle, tratti etnici, elementi di abbigliamento o di nudità ecc.) e il rapporto fra di esse e con la natura in cui sono immerse.
A questo punto il quadro tende a diventare un racconto. E ognuno potrebbe raccontare il suo. C’è anche un leggero effetto di trompe-l’œil , di inganno dell’occhio. Infatti, se si fissa la figura centrale dopo averla individuata in tutti i suoi contorni, questa emerge in primo piano, mentre al primo sguardo essa giace in secondo piano. E più si guarda il quadro, più la figura centrale tende a emergere e a impoverire di senso e di dettagli ciò che gli sta intorno. La figura dell’uomo nudo al centro, in movimento, pur essa stessa composta da parti. quasi da corpo senza pelle o da collage di frammenti di carta o stoffa, a un certo punto domina, “imperializza” il quadro intero. Che significato ciò potrebbe avere, dirlo non è più compito del vedere ma del successivo passo di interpretazione intellettuale/culturale di ciò che si è visto.
Risposte lasciate su “Narratorio grafico di Tabea Nineo” (prima della mia proposta dell’esperimento):
Emilia Banfi
febbraio 13, 2017 alle 11:01
La giovane donna si porta via tutto . Il vecchio la segue. Nulla si trasforma forse solamente il ricordo di una figura materna, Anche il verde se ne sta andando. Costruzione di segmenti che portano il pensiero ad una ricostruzione della vita. Il movimento di Abate è quasi sempre una fuga. Inquietante ma soprattutto desiderio di rivoluzione.
Annamaria Locatelli
febbraio 13, 2017 alle 8:16 pm
…il dipinto sembra rappresentare un paesaggio alluvionato: rivoli d’acqua tra gli alberi e uno sgretolarsi di forme. Al centro, la donna si muove in fuga tra acque dirompenti e detriti, come per divincolarsi, e il vecchio la segue o insegue. Sul corpo di lei sottopelle traspaiono fasci di nervi, un geografia variegata e intrecciata, lui, esile, veste un copricapo importante di foggia araba. i loro sguardi convergono in un punto, ma non si incontrano. Un volto di donna sopra la scena guarda altrove e perde pezzi…Sembra in corso una metamorfosi
Vedo una indecidibilità tra figura e sfondo, tra il bianco che cela la vegetazione sottostante e la vita corporea quasi scorticatA, e le figure dinamiche che si sforzano di aprire, squarciare in modo stabile, il bianco che le affonda.
Come in molti altri quadri di Ennio Abate è sempre la geometrica, deterministica corrispondenza dei profili e delle linee a trionfare. Se non ci fosse il titolo – “Vecchio e giovane donna” – a condizionare la lettura si potrebbe parlare della rappresentazione di una umanità prigioniera di se stessa. Qui infatti nessuna Bella tenuta per mano potrebbe mai librarsi in volo (Chagall). Tutto è già determinato da una forza superiore che domina ogni dettaglio: alla punta di un naso corrisponde la sommità dell’arco di una schiena, all’inclinazione di un gomito la stessa piegatura della linea sottostante, e così via. L’ansia di liberazione – le figure umane sono o in spasmodico movimento (in basso) o in estatica, contro-tendente e vana contemplazione (in alto) – si paga con il sangue: i corpi rossastri, spellati vivi. A vincere è l’assurdità di una geometria predeterminata.
…in effetti quel bianco che si insinua a rivoli freddi nei contorni di persone e cose può sembrare una rete che unisce e distanzia. Solo l’albero e l’alberello in alto sono uniti nel verde sottostante, come in un rapporto protettivo madre-figlio…Gli altri personaggi vivono soli i loro drammi, nella molteplicità di rapporti contrastati. I corpi sono vivi, caldi e avvampano di passioni tali da scorticarli, renderli trasparenti, ma non raggiungibili agli sguardi…
Figura centrale di spalla. Profilo di testa protesa verso destra: accennati occhi, naso, labbra. Collo quasi incassato sulle spalle. Il volto appare “giovanile”. Non mi sembra “una giovane donna”. Una testa di donna di profilo si vede, invece, in alto a destra del quadro. Dal punto di vista del genere, la figura centrale non mi appare definita. Ha il corpo leggermente piegato in avanti, braccia lunghe sbilanciate: all’indietro quella sinistra, in avanti quella destra. Visibile coscia destra e metà gamba piegata. Appena visibile una frazione di gamba sinistra. La figura è in “movimento”: forse corre, forse no. Suggerisce anche la posizione di un corpo impegnato in un gesto di scherma. La campitura dei colori mi fa venire in mente Boccioni. Come se si volesse mettere in evidenza il movimento dei fasci muscolari. La figura non appare vestita: è nuda o indossa una tuta molto aderente.
Alle spalle di questa figura, appare, leggermente proteso in avanti, il profilo di un uomo. Collo evidenziato, naso aquilino. Sembra avere in testa un berretto di carta come quelli che si fanno gli imbianchini.
Dentro l’arco disegnato da braccio-corpo-coscia della figura centrale, s’insinua una figura non ben definibile: sembrano tre tronchi di rami, poi la coda di una balena che accompagna il movimento del braccio destro. Comunque, sono frazioni di figure che continuano o s’innestano sul collo o sulle spalle di un’altra figura. Definirla umana è impossibile. Può ben essere, però, un corpo mostruoso…Un’altra massa di colore si trova sulla sinistra sotto la coscia.
È come se le figure (a volte indefinibili) emergessero dallo sfondo lattiginoso del quadro e dialogassero con la figura centrale, evidenziandone i movimenti, sottolineandoli.
Non so se corre o sia impegnata
in una seduta di scherma,
la figura centrale sbilanciata
Ha in testa una donna e forse
ha dimenticato a casa la spada.
Alle spalle, il vecchio padre lo guarda
preoccupato. Resterà impigliato
fra i rami del mostro o adagerà
il suo braccio sulla coda di balena
che gli colora di sangue i muscoli
e scalda le vene?…
Il cavallo verde vola
in alto a sinistra. S’intravede appena.
È senza parola. Ma galoppa galoppa
sul fondo lattiginoso del tempo.
Penso sia utile tener presente anche il processo che ha portato al quadro definitivo. Ecco in miniature le 6 tappe precedenti:
1 AL 3 GEN 2017
2 AL 5 GEN 2017
3 ALL’11 GEN 2017
4 AL 16 GEN 2017
5 AL 19 GEN 2017
6 AL 6 FEB 2017
La figura centrale non ha mai cambiato posizione e movimento, e nemmeno il colore, anche se più o meno intenso, del corpo nudo e scorticato. Quello che man mano deperisce nei passaggi è il tentato abbraccio con la figura femminile più alta, forse inizialmente più adulta, alla fine solo una testa, dominante per dimensione, ma lontana. Mi chiedo se il soggetto fenomenologico lacaniano del testo di Bianchi non sia impersonato proprio dal personaggio del quadro, a cui l’intorno cambia e si definisce/allontana progressivamente.
…ricordo che il dipinto di Ennio, in una delle sue prime versioni, era già comparso su facebook, con il titolo, se non erro, di: “Vecchio e giovane donna”, per cui sembrerebbe che la figura centrale femminile(?) si sia divincolata dall’abbraccio di un vecchio uomo, dalla fluente capigliatura, che la sosteneva e teneva stretta e che progressivamente si fa evanescente diventando infine una sola testa che si sgretola…lasciando tuttavia profonde diramazioni e radici…Non so se è lo stesso personaggio che si concretizza alla sinistra del dipinto e segue la fanciulla, che ora sembra muoversi in una sostanza liquida e forse barcolla, pronto ad accorrere in suo aiuto. Ora lui può sembrare Orfeo invecchiato che perennemente insegue Euridice, l’eterna giovinetta
Così come in poesia si possono raccogliere più immagini e situazioni in un unico istante, unendole nella narrazione, altrettanto si può fare con un dipinto; ma grazie alle parole, anche le più astruse e rarefatte, normalmente il senso lo si riesce a cogliere. In questo dipinto, l’aver riunito più immagini nell’unico spazio non trova immediata giustificazione; l’impressione, la prima , è che nulla di quel che si vede abbia senso: i volti non hanno lineamenti, espressioni, i gesti non sono rivolti a oggetti o altre persone, un colore bianco separa ogni cosa, toglie qualsiasi relazione… a meno che non si tratti di simboli, significanti… ma il bello della pittura, anche della più astratta, sta proprio nell’impatto che dà una comprensione, seppure non ancora meditata! Qui qualcosa accade, accade qualcosa. Qualcosa accade. Se è l’accadere quel che conta, lo si dica. Accade un volto, accade una figura, accade un albero…
Questo ‘esperimento’ di Ennio ci richiama ad altri esperimenti, sempre su Poliscritture, in cui si è tentato di connettere, di far colloquiare, le forme pittoriche con quelle poetiche (poesia) o narrative, tout court.
Ed effettivamente l’immagine, forma espressiva primaria per entrare in contatto con il ‘profondo’ si presta, proprio per le sue proprietà sincroniche e sincretiche, diversamente dal linguaggio, a rappresentare quelle dinamiche emotive relazionali che collegano interno-interno e interno-esterno. Però, mettersi ‘in contatto’ è una cosa, ‘comunicare’ è un’altra. Per comunicare abbiamo bisogno di sciogliere e dilatare in una narrazione quello che è stato rappresentato in una raffigurazione iconica (esito di procedimenti di condensazione e spostamento, come diceva Freud parlando del sogno).
E quindi si dà il via alla interpretazione. Che sarà sempre parziale. O ad una narrazione, appunto.
Quindi mi torna utile:
a) quanto afferma Ennio (14.02, h. 22.34) rispetto al *tener presente anche il processo che ha portato al quadro definitivo*;
b) l’osservazione di P. Ottaviani (14.2 h. 14.03): * Se non ci fosse il titolo – “Vecchio e giovane donna” – a condizionare la lettura si potrebbe parlare della rappresentazione di una umanità prigioniera di se stessa*.
Sì, perché, mettendoci di fronte a delle specie di geroglifici, Ennio ci ripropone dei quesiti che tormentano l’essere umano. Il senso dell’esistenza: chi è l’uomo nudo e perché fugge (e da chi e da che cosa?) e verso dove?
Quello che è interessante nelle produzioni pittoriche di Ennio è la prevalenza di figure viste di profilo unitamente alla presenza di elementi che figurano il movimento. Come se l’artista si destreggiasse tra un modello arcaico di rappresentazione (i disegni rupestri e le antiche decorazioni di vasi e urne) e uno ‘futurista’. Comprensibile l’accostamento a Boccioni: *La campitura dei colori mi fa venire in mente Boccioni* (Salzarulo 14.02 h. 21.oo).
Il punto a) mi parla dell’esistenza di un percorso di costruzione-decostruzione.
Infatti, nell’osservare i singoli passaggi – fino a quello ‘frammentato’ del finale – l’andamento del processo mi richiama alcuni ‘studi’ di Picasso quando, nelle sequenze di certi suoi schizzi e disegni, dava prima ‘figura’ alla realtà e poi via via la scomponeva, la frammentava.
Mentre il punto b) mi parla del ‘tradimento del linguaggio’.
Mettendo a confronto il lavoro n. 6 e l’ultimo, verrebbe da titolare “L’uomo nudo e la realtà”.
Spazialmente, la raffigurazione in alto a sinistra sembra rappresentare una specie di introibo al discorso che verrà fatto più oltre. Vediamo la sottolineatura di una separazione all’interno di un piacevole scenario naturale; una cesura che ci richiama quella ratificata nel giardino dell’Eden, tra l’Assoluto (l’unione con il Dio) e il mortale. La separazione tra l’Albero della Conoscenza, che istituisce la differenza tra il Bene e il Male, e l’Albero della Vita (eterna, dove non ci sono conflitti).
Per sfuggire alla realtà – impersonificata dal rigido e incombente profilo faraonico alla sinistra (anche Mayoor fa associazioni con i bassorilievi dell’antico Egitto) – non rimane che rifugiarsi nella pancia accogliente della Grande Madre? (Fig. 6).
A quanto pare, sembra che questa non possa essere una soluzione. La Grande Madre che accoglie tutti!
Il ‘grembo accogliente’, palesato nel disegno n. 6, infatti, si trasforma nell’ultimo quadro in una separazione della testa dalla pancia, là dove si evidenziano ‘aculei’ respingenti, o ‘denti lunghi’ a sottolineare una fantasia divoratrice già presente in “Seni petrosi”: ti accoglierò ma ti divorerò. Una situazione esplosiva con dispersione di frammenti.
Si tratta solo di una fantasia infantile o è anche un monito?
Ovviamente, questa è una mia lettura ‘di contenuto’, una delle tante possibili.
Resta comunque da sottolineare positivamente il forte impatto visivo che hanno i lavori di Ennio e che trascinano in un turbinio di sollecitazioni e di risposte, come sta accadendo in questo post, creando una esperienza corale.
R.S.
Figure di animali e umani/oidi scorticate, rappresentate nella loro sostanza muscolare, fluttuano scomposte in uno spazio liquido di consistenza marmorea. Dall’alto e da sx a destra intravedo un essere equino in metamorfosi, il capo di un essere femminile, il capo squadrato di un essere maschile che incalza con lo sguardo una donna, a sua volta in procinto di essere sbranata da un lupo, di cui sono visibili le fauci.
APPUNTI SU “UN ESPERIMENTO”
1.
Secondo me, quattro sono nel quadro le figure più facilmente decifrabili o chiare. Dall’alto verso il basso e da sinistra a destra: boschetto, testa di donna, testa con copricapo (di «foggia araba» o «berretto di carta come quelli che si fanno gli imbianchini» o cappello militare?), torso di figura con braccia spalancate, una sola coscia e mezza gamba (in equilibrio instabile – trattenuta dalle altre figure? – più che in movimento o in corsa…non si vede dove poggia, se poggia; sembra abbracciare o misurare o perché no disegnare uno spazio… ). Nove (all’incirca) le forme – rossastre (e residuali?) – meno decifrabili.
I profili delle due figure in basso sono rivolti a destra. Quello della figura femminile in alto è volto a sinistra. Non direi che «guardano». Si può parlare di occhio solo nella figura con le braccia spalancate. L’occhio dell’uomo con il copricapo si intuisce. Ancora più difficile mi pare scorgere un occhio nel profilo della testa di donna in alto a destra.
2.
È « dolorosa la figura centrale, perché nuda, arrossata e come senza pelle» (Mayoor) o «scorticata» (Fischer) o “spellata viva” (come pare a Ottaviani) o forse indossante una « tuta molto aderente» (come pare a Donato) o comunque mostrata nel suo «sottopelle» con « fasci di nervi, un geografia variegata e intrecciata» ( Locatelli)?
È maschile o femminile? È un vecchio o un giovane o la fanciulla del titolo, che avevo suggerito all’inizio e ha orientato o condizionato alcune delle interpretazioni? È in movimento? È in fuga ( Banfi: «Il movimento di Abate è quasi sempre una fuga»)? Sembra «divincolarsi» (Locatelli)?
Non saprei. Mi paiono interpretazioni possibili. Dolente o remissivo o intorpidito mi può parere il volto. Se fosse il «sottopelle» ad essere mostrato, esso comunque non rispetta o non richiama se non vagamente le fasce muscolari o i nervi o le vene che conosciamo da certe raffigurazioni anatomiche. Mi colpisce di più (e su questo lavoro di più) il contrasto netto fra l’interno di questa forma e l’esterno, il fondo (bianco stavolta). Per analogia mi viene da accostare la figura centrale a un barattolo di vetro trasparente che svela al suo interno delle “cose” colorate disposte in modo disordinato. Nettezza della forma contenitore o del profilo e casualità o caoticità del contenuto. (Sono tentato di cercare in queste forme indecifrate – placche? scaglie? – interne alla figura centrale – torso di figura con braccia spalancate – ulteriori immagini anche correndo il rischio di rimettere in discussione il lavoro ultimato).
Resta – in questo quadro – che la figura centrale, affiorata subito nella prima tappa di lavorazione non ha subito trasformazioni di rilievo (Fischer) ed è sicuramente dominante. Anzi ho finito per isolarla ancora di più, mentre nelle prime quattro versioni sembrava calamitata e quasi abbracciata o sostenuta da quella ridotta poi a profilo di testa donna in alto a destra.
3.
Il bianco è semplice sfondo o forma un «insieme di reticoli bianchi che contornano e delimitano degli spazi colorati» e fanno pensare « a strade, o canali, e a campi o terreni più o meno coltivati e colorati di verde o marrone o altri colori » (Aguzzi) o ad «un un paesaggio alluvionato», ad « acque dirompenti e detriti» ( Locatelli)?
Io tendo a vedere il colore (compatto o sfrangiato o “sporcato” o spatolato in alcuni dei miei ultimi quadri) come sfondo o contenitore che dà maggior risalto o leggibilità alle immagini (decifrabili o meno decifrabili). Ne avevo parlato su “Poliscritture FB” con Cristiana Fischer, dichiarando che nella teoria dei colori stentavo ad orientarmi, malgrado volenterose letture dei libri che la Feltrinelli aveva pubblicato su Klee, Itten e Kandiskij e che inseguivo « figure *attraverso il rimescolio e i contrasti di vari colori* (più complesso e vario rispetto al b/n che ho per lunghi anni praticato)».
4.
Questi geroglifici (più chiari e meno ) delineano o no una storia? Se sì quale?
Rimuginerò, senza aggiungerne una mia, tutte le interessanti ipotesi emerse di:
– Mayoor: « rimandano a qualcosa che sta fuori dall’immagine»; « l’aver riunito più immagini nell’unico spazio non trova immediata giustificazione; l’impressione, la prima , è che nulla di quel che si vede abbia senso: i volti non hanno lineamenti, espressioni, i gesti non sono rivolti a oggetti o altre persone, un colore bianco separa ogni cosa, toglie qualsiasi relazione»; sì, « Qui qualcosa accade, accade qualcosa. …» ma « Accade un volto, accade una figura, accade un albero…»;
– Aguzzi « La figura umana centrale giace sul territorio articolato in campi e in parti bianche separatrici, ma pur giacendo si innalza su di essi e si muove in essi e sembra l’unico disegno dotato di individualità, corpo e movimento e, dunque, di volontà. »;
– Locatelli: una donna « si muove in fuga tra acque dirompenti e detriti, come per divincolarsi, e il vecchio la segue o insegue» o in altri termini « lui può sembrare Orfeo invecchiato che perennemente insegue Euridice, l’eterna giovinetta»;
– Fischer ( sullo spunto delle miniature che documentano le fasi di lavorazione del quadro): il deperimento del « tentato abbraccio con la figura femminile più alta, forse inizialmente più adulta, alla fine solo una testa, dominante per dimensione, ma lontana»;
– Ottaviani: è la « rappresentazione di una umanità prigioniera di se stessa» e contraddittoriamente scissa tra movimento e contemplazione (le figure umane sono o in spasmodico movimento (in basso) o in estatica, contro-tendente e vana contemplazione (in alto)» determinata inesorabilmente « da una forza superiore» ( il fato?);
– Simonitto: “L’uomo nudo e la realtà”. (invece che il vecchio e la fanciulla!).. una sorta di cacciata dal Paradiso: il tentativo impossibile di « rifugiarsi nella pancia accogliente della Grande Madre» che dovrebbe accogliere tutti porta alla separazione per sfuggire al “divoramento”.
Credo che l’esperimento abbia dato buoni frutti e ve ne ringrazio.
Però… in che cosa consiste l’esperimento? Nell’accostare osservazioni focalizzazioni proiezioni? Se tu Ennio lo hai proposto, su un tuo lavoro, qualificandolo come “esperimento”, che risultato (dell’esperimento) ti aspettavi? E quali sono i buoni frutti ottenuti? Forse dovremmo chiederci quali frutti abbiamo ottenuto noi partecipanti: un arricchimento della visione.
@ Fischer
Sì, mi pare che hai già risposto tu alla domanda. L’esperimento sta proprio nel tentativo da parte mia di uscire da un solipsismo più o meno creativo e confrontare le mie percezioni/interpretazioni con quelle diverse degli altri.
Ad esempio, mai avrei pensato di vederci quello che ci ha visto invece Donato: “Dentro l’arco disegnato da braccio-corpo-coscia della figura centrale, s’insinua una figura non ben definibile: sembrano tre tronchi di rami, poi la coda di una balena che accompagna il movimento del braccio destro”. Le sei interpretazioni che ho segnalato aprirebbero un ampio discorso. Se ne potrebbe ricavare un saggio, perché rimandano alle rispettive enciclopedie mobilitate da ciascuno/a davanti a questo quadro.
P.s.
Vi ricordo che un primo esperimento l’avevo proposto nell’agosto 2016 qui: https://www.poliscritture.it/2016/08/11/donna-e-animale-9-agosto-2016/
E mi aspetto che altri/e ne propongano. Non mi è del tutto chiaro dove si possa arrivare e che rapporto essi possano avere con i post più politici o letterari di Poliscritture, ma qualcosa mi dice che bisogna insistere.
Rita Simonitto (16 febbraio. 1.56): “Ed effettivamente l’immagine, forma espressiva primaria per entrare in contatto con il ‘profondo’ si presta, proprio per le sue proprietà sincroniche e sincretiche, diversamente dal linguaggio, a rappresentare quelle dinamiche emotive relazionali che collegano interno-interno e interno-esterno. Però, mettersi ‘in contatto’ è una cosa, ‘comunicare’ è un’altra. Per comunicare abbiamo bisogno di sciogliere e dilatare in una narrazione quello che è stato rappresentato in una raffigurazione iconica (esito di procedimenti di condensazione e spostamento, come diceva Freud parlando del sogno).
E quindi si dà il via alla interpretazione. Che sarà sempre parziale. O ad una narrazione, appunto.”
Rita Simonitto distingue due piani nell’esperimento a cui su invito di Ennio Abate abbiamo partecipato: I. la lettura della “raffigurazione iconica” proposta (un dato *globale* che può anche contenere una evoluzione interna) e II. sciogliere e dilatare in interpretazione/narrazione quella lettura globale.
I commentatori avrebbero dunque fornito interpretazioni, letture che si muovono restando all’interno dell’immagine. (E’ tanto vero che tutti abbiamo segnalato una distanza tra chi guarda e l’opera, un vuoto che la avvolge: il bianco, le figure ridotte, scorciate, di profilo.)
Ennio però immagina un ulteriore livello, che comprenda anche le interpretazioni del quadro, ancora una narrazione, ma argomentata: “Le sei interpretazioni che ho segnalato aprirebbero un ampio discorso. Se ne potrebbe ricavare un saggio, perché rimandano alle rispettive enciclopedie mobilitate da ciascuno/a davanti a questo quadro.” Immagino che nel saggio si dovrebbe procedere su un terreno classificatorio, di analisi e comparazioni del materiale immaginario, con incursioni allegoriche e simboliche.
Riflettendo sulla ricca analisi di RS, e sull’apertura possibile di un saggio di EA, e al rapporto tra *interpretazione* e *critica* che ne segue, ho provato un più forte disagio nei confronti dei commenti che abbiamo lasciato nel post precedente: Europa 1970 e 2015, di Antonio Sagredo.
Come hanno osservato Mayoor, Annamaria Locatelli e Giulia Rispoli, i testi di Sagredo hanno un rapporto con il teatro, tuttavia non sono una messa in scena, sono linguaggio. Non è possibile formulare interpretazioni dei testi (non si può ricorrere alle condensazioni e spostamenti che valgono nel sogno), invece occorre rintracciare i meccanismi costruttivi linguistici.
Miti e allegorie sono solo contenuti, che Sagredo impiega come materiale di composizione in un lavoro “denso di metafore e rimandi”. I testi sono difficili “nulla viene risparmiato e malgrado il tono si capisce che non si sta viaggiando comodamente in lettiga”, anche per “quell’io superbo oltre misura che pare di un attore protagonista” (Mayoor, 17 febbraio 23.35).
Sagredo pone la questione del rapporto tra teatro e scrittura, come Abate la ha posta per il rapporto tra immagine e parola: “Non mi è del tutto chiaro dove si possa arrivare e che rapporto essi (esperimenti su parola e immagine) possano avere con i post più politici o letterari di Poliscritture, ma qualcosa mi dice che bisogna insistere” (19 febbraio 21.57).
E’ forse proprio del rapporto tra scrittura e teatro che emerga “quell’io superbo” di cui scrive Mayoor, che forse comporta quasi di necessità una ideologia di sostegno elitaria e narcisistica. Oltre quella ideologia vorrei arrivare. Ricordo che Gramsci giovane è stato critico teatrale sull’Avanti e dunque immagino esistano varie filosofie (ideologie) dell’interpretare. (D’altra parte raramente ho apprezzato il teatro e perciò non ne so niente.)