Dialogando con il Tonto (8)
di Giulio Toffoli
Quando, qualche mese fa, venne reso noto che a Robert Zimmerman era stato conferito il premio Nobel 2016 per la letteratura avevo cercato di discuterne con il Tonto.
Lui però aveva tagliato corto:
“Ne parleranno tutti, ne parleranno troppo, si divideranno, perché così vuole il copione, in esagitati amanti e sdegnosi critici. Lasciamoli ai loro esercizi di stile …
Ti ricordi – aveva poi aggiunto – qualche decennio fa, la parabola dell’artista era poco più che all’inizio, il giovane Zimmerman era infastidito da un suo esegeta che, per cercare di scoprire non si sa quali segreti, andava a rovistare anche nella spazzatura. Quando il cantante se ne accorse, stufo di essere oggetto di continui attacchi alla sua privacy, mise in un sacco della spazzatura uno spazzolino da denti nuovo, neanche estratto dalla confezione originaria. L’esegeta rimase perplesso e iniziò a interrogarsi: “spreco”, “crisi morale e esaurimento della capacità critica del cantautore”? Fino a quando un qualsiasi altro Tonto gli fece capire l’arcano: “Lavati i denti …” – gli voleva dire molto semplicemente lo Zimmerman – o se si vuole in modo più chiaro: “togliti dalle scatole e lasciami in pace …”.
Robert Zimmerman, pur con gli inevitabili alti e bassi di una inesauribile carriera, ha sempre cercato di essere fedele a questa sua linea di condotta.
Forse gli altri non lo faranno, ma noi rispettiamolo”.
Non ne abbiamo più parlato ed immaginate il mio stupore quando qualche giorno fa mi è giunta una sua lunga lettera – il Tonto, quando scrive qualche cosa, ha ancora il vezzo di usare la posta – che vi trascrivo:
“Ho letto di recente un interessante articolo di Marco Gaetani su Zimmerman (qui) e ho pensato che proprio per la serietà dell’approccio e per il suo valore meritasse di essere discusso. Forse per maggior chiarezza sarà il caso di rammentare, ove a qualcun altro tu volessi far leggere queste righe, che Robert Zimmerman, quando all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso cominciò la sua carriera, scelse come nome d’arte Dylan richiamandosi esplicitamente all’autore di Ritratto dell’artista da cucciolo.
Insomma Robert Zimmerman rinacque come Bob Dylan e tale è rimasto.
La tesi di Gaetani mi sembra essere racchiusa nelle righe finali del suo scritto: “Un primo essenziale discrimine tra ciò che è letteratura e ciò che non può essere considerato tale risiede … nella potenza autonoma della parola, nella sua capacità di suscitare emozioni, pensieri, fantasie, conoscenza. È la parola che prende in carico su di sé soltanto l’universo del senso …”.
Una parola che – riprendo ancora le parole dell’autore – “regge la sfida del silenzio (e del rumore), cui basta anche un solo lettore ‘oculare’ e ‘mentale’ per dire quello che ha da dire, che è autonoma e autosufficiente, che dice cose altrimenti indicibili …”.
Queste righe sollevano almeno tre domande e senza rispondere ad esse non si può poi rispondere al quesito finale ovvero se la scelta di Dylan sia stata azzeccata o no.
La prima è forse quella fondamentale ovvero cosa si intenda in generale per letteratura, la seconda è se sia ragionevole considerare la letteratura solo una esperienza a cui basti un lettore “oculare” e “mentale” e la terza si basa proprio su quel: “un solo lettore” … e se questa formulazione non nasconda invece un pericoloso esito solipsistico e autoreferenziale che spesso appare caratterizzare certa letteratura laureata d’oggi.
Gaetani inizia la sua analisi domandandosi se Svetlana Aleksievic, premio Nobel 2015, visto che è una giornalista prima ancora che scrittrice, ha poi davvero meritato un così ambito riconoscimento. La risposta più ovvia mi sembra si possa trovare nella storia stessa del Nobel e dimostri che nel corso del XX secolo gli accademici svedesi hanno dimostrato almeno in qualche caso un coraggio intellettuale e una lungimiranza che tanta accademia non riesce ad avere.
Romain Rolland fra il 1914 e il 1915 pubblicò in Svizzera una serie di articoli che poi vennero raccolti in un volume: Au-dessus de la mêlée. Rolland era già allora musicologo, romanziere e drammaturgo di riconosciuta notorietà ma la sua fama assunse un nuovo volto proprio con la pubblicazione di quegli articoli di giornale in cui ebbe il coraggio di opporsi alla guerra, allo sciovinismo nazionale, a quell’intollerabile massacro che avrebbe segnato la storia successiva. E’ proprio per quei suoi articoli che Rolland merita quella memoria che gli è stata garantita dal Nobel.
Ciò avviene proprio nel primo scorcio del XX secolo quando sempre per il nostro autore chi “ non (è) disposto a rimescolare le carte” vede la storia della letteratura occidentale giungere al suo inveramento, ovvero la storia precedente si presenta come un: “percorso che ha condotto la funzione letteraria a cristallizzarsi nella forma “pura” ai moderni più consueta; in un certo senso a divenire se stessa, ciò che doveva essere”.
Come non vedere in questa formulazione l’espressione di una teleologia della letteratura che giungerebbe al suo compimento perfetto nella forma della poesia del XX secolo. La naturale evoluzione della letteratura sarebbe così pervenuta alla sua estrema espressione “inverando il destino della parola nella sua forma propriamente letteraria”.
Non si può che provare una qualche forma di sconcerto di fronte a una impostazione di questo tenore che tende a fare della parola non uno strumento plastico e costantemente soggetto a rinnovarsi nell’inesausto dialogo che si instaura fra gli uomini ma una qualche forma astratta, destinata a giungere alla pienezza di sé nell’età classica della borghesia.
Appare quasi inevitabile porsi una semplice domanda: su quali basi fondare una simile affermazione, forse come sembra suggerire Gaetani sul parallelo, tanto per fare un esempio, fra i testi di un Tenco e quelli di un Sereni? Si dice che le parole di Sereni “dicono di più e meglio”. Sarà pur vero, ma Tenco ha suscitato in moltitudini di persone che spesso nulla sapevano della poesia “emozioni, pensieri, fantasie, conoscenza” che gli sarebbero stati probabilmente altrimenti preclusi. Come non rammentare che la parabola di Tenco è durata solo cinque anni, fra il 1962 e il 1967, e in quegli anni ha costruito con il suo pubblico un colloquio intenso, non privo di note critiche e mai supino alla moda. I suoi testi si possono leggere anche oggi benissimo, forse fanno arricciare il naso a qualche accademico, non avranno quell’elemento di raffinatezza formale che fa la poesia laureata ma è necessario ricordarsi che erano rivolte a un pubblico popolare e hanno svolto una funzione di stimolo a ragionare su di sé di cui la gente aveva bisogno.
Stesso discorso si potrebbe fare per Dario Fo.
Ci viene chiesto: “Si può leggere Dario Fo come si legge Shakespeare”?
La risposta non potrebbe essere più semplice. Se Shakespeare è letteratura allora bisogna rammentarsi, è davvero un obbligo, che le sue opere sono state pubblicate solo dopo la morte. Shakespeare non aveva come finalità della sua attività di scrittura di giungere a realizzare una astratta perfezione formale né si rivolgeva a un pubblico futuro, “oculare” e “mentale”, ma al suo pubblico del Globe. Scriveva per quella gente, i suoi testi erano soggetti a continue revisioni, vivevano di un intenso rapporto con il pubblico e non avevano senso senza quell’elemento splatter, sangue e violenza, che piaceva tanto al pubblico elisabettiano.
Dario Fo è figlio di quell’Italia che ha mirabilmente descritto nella canzone sigla di Canzonissima 1962: Su cantiam … dove tramite un abile uso delle parole si rivolgeva non a una raffinata élite di intellettuali ma a una massa crescente di individui che cercavano forme espressive nuove capaci di dare voce a un bagaglio di “emozioni, pensieri, fantasie, conoscenza” a cui stavano lentamente accedendo dopo essere uscite dalle tenebre di una condizione di secolare minorità. Sono i prodromi di quella critica della società di consumi e della violenza di stato che Fo rappresenterà in un’altra opera destinata a restare nel patrimonio di questa nostra bistrattata umanità: Morte accidentale di un anarchico.
D’altronde come non notare che proprio quel modello “perfetto di letteratura”, a cui Marco Gaetani sembra fare riferimento, non sembra sia mai sostanzialmente esistito se non in una idealizzazione intellettualistica che ha ben poco a che fare con la realtà della storia.
Gran parte dei romanzi del XIX secolo venne pubblicata in una serie infinita di puntate sulle pagine di giornali e riviste, solo in una seconda fase come volumi autonomi. Basti pensare a un solo nome quello di Dickens. Come dimenticarsi che fra i profluvio delle sue pagine c’è la descrizione di una forma di lettura che allora doveva essere di moda all’interno della borghesia e probabilmente anche fra alcuni settori del popolo, la lettura da parte del padre agli altri membri della stessa famiglia, lettura che poi diventava lo spunto per discussioni e commenti.
Come non pensare alle fluviali storie di Thackeray senza un universo di uomini e donne che, se riuscivano a non essere schiacciati dalla durezza abbruttente del lavoro, dialogavano fra loro, si contendevano le pagine dei giornali, se potevano le leggevano in comune e poi costruivano a loro piacimento i possibili esiti futuri della narrazione all’interno di un cicaleccio senza fine. Un poco come si fa oggi per i serial televisivi su internet.
Ed ancora ci si chiede come si faccia a ridurre il Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte a un semplice elemento di un’arte ibrida giudicata con accondiscendenza: “ammirevole opera d’arte, capolavoro nel suo genere: vale a dire dentro una caratteristica forma estetica ibrida”. Ci domandiamo infatti se sia anche solo pensabile il Don Giovanni di Mozart senza quelle parole? Avrebbe Mozart trovato l’ispirazione se non avesse avuto fra le mani un testo di valore tale da stimolare il suo spirito? Ed ancora, secondo quale struttura categoriale si può stabilire che il melodramma è opera ibrida e non ad esempio opera letteraria che ha trovato il sostegno di un accompagnamento musicale, l’una e l’altra ineffabili nel loro specifico e ineguagliabili nella loro sintesi.
Per concludere, se la letteratura ha la finalità a cui abbiamo più volte accennato, ovvero di suscitare “emozioni, pensieri, fantasie, conoscenza”, e rivolgersi a una platea che con il passare del tempo si è immensamente ampliata rifiutando di trasformarsi in un esercizio estetizzante riservato a pochi esponenti di un “herrwolk” della parola, ha dovuto necessariamente mettere in discussione il suo status. Si potrebbe quasi aggiungere che è stato necessario tornare in qualche modo a quell’età dei troubadours da cui è partita la storia della letteratura occidentale. Gli accademici che hanno deciso a chi offrire il riconoscimento del Nobel nel 2016 ne hanno semplicemente preso atto.
I testi elaborati da Dylan per Freewheelin e The Times They Are a-Changin’ da soli bastano per porlo fra gli autori che hanno lasciato un segno indelebile nella cultura letteraria della seconda metà del XX secolo. Né vale affermare che la musica si impone su quei testi fino a trasformare quelle parole in qualche cosa di ibrido. Dylan, almeno ai suoi inizi, si avvaleva della chitarra classica che non svolgeva se non un ruolo di puro sostegno. E’ la parola che domina indiscussa la scena. Bastano due suoi titoli Blowin’ in the Wind e Masters of War per asseverare questa affermazione.
Un discorso similare si potrebbe ben fare nel nostro caso per De Andrè, Guccini e Gaber. Pur con le loro peculiarità hanno prodotto forme espressive mirabili e letterariamente degne della più grande attenzione.
Sai – ha scritto il Tonto nella sua conclusione – ogni volta che mi capita di leggere ragionamenti di questo tenore mi vengono alla mente le parole di Imagine, poi mi sembra di sentire sullo sfondo le semplici note di un pianoforte, infine mi pare di intravvedere un volto che, con un sorriso mesto sulle labbra, mi invita a sognare in un mondo migliore.
Quel testo ancor oggi mi commuove come forse mai mi è successo di fronte a una poesia e sono portato a credere che quella sua promessa prima o poi si potrà realizzare …”.
Le canzoni sono fatte per emozionare – Sarà la musica che gira intorno… –
Di solito le poesie neanche ci pensano. Se si vuole premiare l’emozione, allora è giusto che si pensi a un cantautore. Forse gli accademici di Svezia han pensato di voler dare un messaggio all’umanità divenuta ormai preda degli automatismi. Si trattava di scegliere tra gli istinti primari quello che avrebbe potuto scuotere gli animi; la fame, il sesso, per non parlare della morte, sono stati anestetizzati da tempo.
Non entrerò in polemica, quel che potevo dire l’ho già scritto.
Vorrei solo ricordare al Tonto – quasi scherzosamente – che il nome di battesimo di Dylan è Robert Allen Zimmerman, che non ha mai suonato una chitarra classica (o quasi), che la derivazione dello pseudonimo “Dylan” dal poeta è quanto mai dubbia, e infine che anche dopo gli anni ’60 qualche bella canzone, o bel testo, Dylan li ha scritti!
Un saluto a tutti,
Ezio.
…l’ibrido non dovrebbe essere male anche in relazione alla letteratura, se soddisfa i criteri di di etica e di estetica con cui solitamente ci accostiamo alla lettura dei testi…oggi più che mai, se non si vuole relegare i suoi cultori a “…un solo lettore “oculare” e “mentale”…”. Il Tonto, nella sua lettera, solleva un altro problema, secondo me. Al di là dell’influenza propagandistica negativa, al servizio del capitale, e spesso distruttiva delle capacità critiche, i mass media hanno potuto assolvere anche un compito divulgativo popolare di contenuti validi? Il Tonto riporta molti esempi a proposito, dalle canzoni d’autore, ai testi teatrali che hanno raggiunto un vasto pubblico…E sì, oggi bisogna fare i conti con la realtà dei mass media, non tutta da demonizzare, anche se purtroppo imperversa la televisione-spazzatura, in mano ai consueti centri di potere. A quelli che erano i romanzi d’appendice di una volta oggi corrispondono le serie televisive, seguitissime.. E che fine ha fatto la lettura? Siamo caduti in basso? Non credo, in tutti i modi bisogna tenere conto di questi cambiamenti, altrimenti ci chiudiamo in una torre d’avorio
Prendo spunto dallo scritto di Giulio Toffoli per intervenire a mia volta su Fo e Dylan. Lo faccio, in particolare, riflettendo su due passaggi del suo intervento che cito brevemente qui di seguito.
“Dario Fo è figlio di quell’Italia che ha mirabilmente descritto nella canzone sigla di Canzonissima 1962: Su cantiam….”
L’accenno al ’62 è importante perché Fo e Rame hanno sempre praticato una sorta di teatro di movimento che sapeva stare nelle sedi più paludate e borghesi (il Manzoni per esempio), compiere incursioini nel sistema mediatico nazional popolare che Canzonissima rappresentava benissimo e poi naturalmente le forme più militanti del teatro di strada, le fabbriche e le università occupate, la palazzina Liberty ecc. Non so se le loro scelte furono sempre pienamente coscienti della portata di questo modo di muoversi, ma esso ebbe un effetto dirompente perché rompeva la sacralità dei luoghi dall’alto come dal basso, ma senza rinunciare e fare compromessi sui testi e sul linguaggio che andavano a proporre in ogni contesto. In sostanza, l’ibridazione dei luoghi era ed è a mio avviso importante quanto l’ibridazione dei linguaggi, delle forme, del prestiti reciproci. Oltre alle opere che anche Toffoli cita, poi Mistero Buffo e gli stralunati dialoghi-monologhi di Oggi parliamo di donne, penso sia questo uno dei lasciti più preziosi della loro esperienza.
… Né vale affermare che la musica si impone su quei testi fino a trasformare quelle parole in qualche cosa di ibrido. Dylan, almeno ai suoi inizi, si avvaleva della chitarra classica che non svolgeva se non un ruolo di puro sostegno.
La citazione riferita a Dylan mi riporta invece a un discorso che si può definire di poetica e ancora una volta è l’ibridazione fra i generi che mi sembra importante sottolineare; ma se penso all’esempio fatto da Toffoli – Don Giovanni – mi verrebbe da pensare che è sempre esistita un’arte che ha fatto dei prestiti reciproci il proprio centro (il melodramma ne è un esempio), accanto a un’arte che invece preferiva canonizzare i generi in modo più rigido. Credo che ci si debba muovere laicamente fra le due ipotesi. Nel caso di Dylan concordo che la chitarra e anche la sua particolarissima voce, abbiano svolto nella maggioranza dei casi una funzione di sostegno alla centralità della parola.