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di Ennio Abate + Uno scampolo del dibattito nato dalla critica di Abate alle poesie del n. 12 a cura di Marcella Corsi
Questo post – avverto i lettori – è fluviale. E’ il rendiconto di una discussione interna alla redazione di Poliscritture avvenuta nella prima quindicina del giugno 2016 in preparazione del suo n. 12 cartaceo dedicato al tema della guerra e per varie complicazioni non ancora pubblicato. Nella prima parte trovate un mio intervento e la replica, suddivisa per temi, alle molte obiezioni e critiche ricevute per i sintetici giudizi critici che avevo dato sulle poesie pervenute per il n.12. Nella seconda parte – più di documentazione e non esente da ripetizioni – trovate l’incalzante scambio di mail che ne è seguito. Nella terza ci sono i testi poetici ai quali mi ero riferito. Un ideale lettore che scorresse o a salti o (eroicamente!) dall’inizio alla fine queste righe, potrebbe avere un’opinione precisa di come redattori e redattrici di questa rivista – praticanti di poesia e di critica fuori dagli specialismi e diversi tra loro per formazione, gusti letterari e orientamenti politici – abbiano affrontato, non senza attriti e impuntature polemiche, il tema della guerra, quasi del tutto trascurato o abbandonato invece dai loro coetanei o dai più giovani alle prese con le loro carriere universitarie o giornalistiche. [E. A.]
PRIMA PARTE
I poeti – scrissi nel 2004 in una poesia (Cfr. Appendice) – «in tempo di guerra non tremano abbastanza». Aggiungo adesso, sapendo di risultare antipatico: non pensano abbastanza la guerra. Quasi tutti ormai praticano una poesia che non scava a fondo nelle cose (nelle attuali guerre “democratiche” e “umanitarie” poi!). Al massimo le costeggiano con un “pensiero poetante” (ben poco leopardiano però) dove invariabilmente il “vissuto personale” prevarica; e dell’incubo orrendo delle guerre reali riflette a stento qualche lampo da spettacolo televisivo; oppure si alimenta di notiziole già accomodate al modo di pensare occidentale. In più negli ultimi decenni, crollata la critica marxista alla poesia, è venuta meno anche la consapevolezza dell’ambivalenza della forma-poesia. E di fronte al caos (e la guerra è caos in parte programmato in parte imprevedibile) la poesia ancor più che in passato – io penso ad un Brecht – fatica a sporgersi su di esso. In un gioco che si sa rischioso e arduo, dovendo tale caos da una parte tentare di conoscerlo nella sua realtà d’oggi e dall’altra ritrarsene quel tanto per sopravvivere e non farsene disgregare.
Di fronte alla Guerra del Golfo (1990), Asor Rosa prendeva atto in «Fuori dall’Occidente» (1992) che essa spegneva la secolare contraddizione interna del pensiero occidentale (tra «Cristo e Cesare, Francesco e Bonifacio, Lutero e Carlo, Moore e Enrico, Machiavelli e Spinoza, Amleto e Fortebraccio, Kant e Pietro il Grande, Hitler ed Erasmo, Macbeth e Lenin»); e che «bene e male, essere e non essere, volere e potere, non si combatt[evano] più come un tempo» (p. 12). La «nostra storia» era esaurita, il pensiero “progressista” del tutto oltrepassato e inefficace, il nichilismo era prevalso. «Unico specchio di verità», ora che «i nostri libri, anche quelli del passato, si [erano] tutti rinchiusi» (p. 32) e ci si ritrovava senza più la capacità di leggere il processo storico e d’interpretarlo (p. 32) poteva essere l’Apocalissi di Giovanni, col suo fecondissimo pessimismo e il suo sguardo metastorico teso verso una prospettiva plurimillenaria. Una risposta a quella guerra, dunque, andava cercata soltanto «in interiore homine». Poiché l’Impero si era imposto (p. 106) e la nostra sconfitta e «miserabilità» non potevano più essere eliminate «né per via politica né per via ideologica (le due strade che portavano o alle riforme o alla rivoluzione»(p. 106). «Il pensiero [era] solo» (p. 107) – (io ci metterei anche la poesia, almeno una certa poesia che non vuole distogliere lo sguardo dall’orrore della storia) – e poteva allora solo pensare se stesso e obbligare l’Occidente a «pensarsi» (p. 107), per ricostruire «del tutto mentalmente» un principio di contraddizione «che non esiste[va] più nella realtà». E dalla rilettura dei testi religiosi Asor Rosa ricavava un’etica della responsabilità «per tutti», che doveva essere «cristiana e post-nichilista».
Al di là dell’enfasi idealistica sul ruolo del pensiero e del discutibile abbandono di una riflessione più storico-politica, la posizione di Asor Rosa testimoniava comunque lo sconcerto e la resa di chi aveva avuto una visione progressista della storia ed era posto ora di fronte alla tragicità del suo fallimento.
Persino Fortini – mi sento di dire – ebbe un momento di scoramento. E lo ricordai sempre in quella poesia: «tremante ascoltò. Invece di una poesia/ scrisse sette amare canzonette e poi morì». Se le rileggiamo oggi le «Sette canzonette del Golfo», in «Composita solvantur» (1994), vi si ritrova riaffermata – mi pare – l’intrinseca incapacità o impossibilità della parola poetica (e forse anche del pensiero) a essere da solo contro la guerra: «Potrei sotto il capo dei corpi riversi/ posare un mio fitto volume di versi? // Non credo. Cessiamo la mesta ironia./ Mettiamo una maglia, che il sole va via».
Un senso tragico era però presente in queste riflessioni saggistiche e poetiche ancora a ridosso dell’evento eccezionale della Guerra del Golfo, evento che Asor Rosa giudicava persino più fondamentale dello stesso disfacimento dell’Urss (o della «caduta del comunismo»), perché svelava in tutta la sua crudezza che il modello occidentale, fondato sul dominio di una Potenza «sempre più sovrumana» (p. 7) era ormai incontrastato, aveva superato ogni limite e finiva per coincidere con la natura umana, imponendo e legittimando tutte le diseguaglianze: sociali, biologiche (p. 6), nazionali, razziali.
Col passar degli anni ci siamo tutti assuefatti di più alla prosecuzione della «guerra permanente» e perciò anche alla nostra servitù; e quel senso tragico, ancora vigoroso in Fortini,[1] mi pare sia andato sempre più stemperandosi. Leggo l’ultimo pezzo su Maggiani presentato da Marco Gaetani per il n. 12 di Poliscritture, «Felice alla guerra». È, sì, un diario scritto a ridosso della Guerra del Golfo, ma è imparagonabile ad esempio a «I cani del Sinai» di Fortini. Posso anche riconoscere, come scrive Gaetani, che registra e in maniera non dissimile forse dalle «Canzonette del Golfo» il senso di impotenza dell’«uomo della strada». Mai mi sentirei di dire, però, che questo «individuo ritratto e defilato, che pota il suo uliveto sul terrazzo mentre la radio gli rimanda i borborigmi di una storia globale agitata e ostile» sia «in prima linea nel conflitto, molto più che gli “inviati in zona di guerra”». Né mi sento di condividere il suo «sentimento straziante di una “storia d’Italia” (la patria grande quindi, di cui la piccola è componente irrevocabile) che si [sarebbe] esaurita nel momento stesso in cui le massime istituzioni dello stato repubblicano hanno tradito, con infamia e nell’indifferenza generale, la volontà di una nazione che si era voluta ri-fondare contro la guerra». Trovo in tale affermazione un errore grave di valutazione storica. Quell’esaurimento è, in verità, di decenni precedenti. E risale, per la precisione, all’amputazione e alla deviazione quasi immediata della Resistenza. Il libro di Maggiani, perciò, mi pare un ulteriore esempio di questo adagiamento diffuso nella normale (e ottusa) quotidianità provinciale italiana «con le sue meschine paturnie, i cocci del matrimonio, le miserie personali e le assurde fantasticherie».
Non voglio fare la lezione a nessuno, ma non posso celare il disagio che provo a leggere certa poesia d’oggi (e spesso anche quella che si vuole “poesia civile” o tocca in vari modi proprio il tema della guerra). Sì, innanzitutto per l’assenza del senso tragico della storia di cui ho appena detto.
Qualcuno potrebbe pensare che il mio atteggiamento sia ipercritico o venga addirittura da un immaginario affascinato dalla guerra. Lo escluderei. Vorrei anche sottolineare che non presumo di saperne di più di quelli a cui rivolgo il mio discorso. Tutti noi (me compreso, dunque) siamo in difficoltà nel pensare e scrivere sulla guerra. Perché non l’abbiamo mai vissuta o fatta; e anche la nostra conoscenza libresca è, credo, occasionale e limitata. Dico di più, anche se un poeta fosse sul campo di battaglia o più vicino a certi tragici eventi, va ricordato, come ho detto all’inizio, che è la stessa forma-poesia a fare da filtro e a volta da necessario scudo contro questa Medusa orrorifica. È quest’ultimo un aspetto della questione che i poeti non possono trascurare. Se perciò un suggerimento sento di dare a me stesso e agli altri è quello di tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che di loro impassibili si servono. E di non cedere mai alla tentazione di una poesia che si rivolge agli “inesperti della guerra” o ai “pacifisti naturali”, perché ci si adeguerebbe quasi in automatico al senso comune di un pubblico che la guerra l’esorcizza, non la vuol vedere e pensare. Perché il deficit derivante dell’ambivalenza della forma-poesia rischierebbe di cedere al desiderio di lettori che alla poesia si rivolgono proprio per non essere scossi dal loro stato di torpore più o meno ovattato.
[1] Ne avevo scritto in « Fortini, la guerra, la pace», Punto Rosso, Milano 2004.
APPENDICE
I poeti in tempo di guerra non tremano abbastanza
Io questa mattina mi sono ferito a un gambo di rosa, pungendomi il dito. Lontano lontano si fanno la guerra Il sangue degli altri si sparge per terra [2].
Era qui a Milano una volta il poeta
coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.
Le grida nelle nostre piazze e gli spari
di botto erano cessati.
Altrove i guerrieri ammazzavano torturavano ora
sempre lasciando una vittima viva
una donna di solito che piangendo narrasse.
Il poeta tremante ascoltò. Invece di una poesia
scrisse sette amare canzonette e poi morì.
Ma voi poeti, che dopo Auschwitz
Ruanda, Afghanistan, Irak, eccetera
declamate poesie nel sublime immobile
ditemi: non sanguina mai la vostra rosa
nel bicchiere? tremano almeno
i versi quando li deponete nelle plaquettes?
Uno ha detto: non si sentano in obbligo i poeti
di scrivere versi contro la guerra. Giammai!
In democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Nessuno pretenda di più da loro.
Facciano bene quel che sanno fare, le poesie.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri.
Pur essi quello che sanno fare, ben fanno.
Addetta l’una al massacro permanente
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato
maîtresses entrambe di democrazia
– oh strano accoppiamento! – guerra
e poesia assieme dunque procedano?
Ma di una cara inerme offesa bestiola
che in noi vive sotto anestesia
voleva la salvezza il filosofo
quando dopo Auschwitz ammonì i poeti:
non scrivete, tremate!
È quella che ancora oggi si dibatte sul tavolo operatorio
tra le mani di ossequiati chirurghi della cultura.
Ma barcollanti fantasmi di speranza ancora approdano
da barconi sulle coste di questo Paese
che in immonda puttanesca televisiva democrazia
guerreggia fuori e tramortisce dentro
donne, lavavetri e rumeni
e annegherebbe in uno sputo tutta la loro carnale poesia.
Oh belle statuine di poeti, via le pose civili.
Altrove, in macabra pirotecnia
uomini-bomba esplodono
ma non raggiungono l’altezza della poesia
che voi melliflui e solerti adagiate
sull’opulento divano occidentale che l’accoglie.
Se potete ancora, tremate.
Non come già fate
per la minaccia che i poveri giustamente
portano ai ricchi coi quali trafficate.
Tremate di fronte all’orrore
da voi cancellato in nome della poesia.
[2] Franco Fortini, Sette canzonette del Golfo in Composita solvantur, Einaudi 1994, Torino.
Ho fatto circolare questa prima parte del mio scritto fra amici e amiche, che mi hanno rivolto una serie di obiezioni (Cfr. Seconda parte). Provo a ripensare quelle che mi paiono le principali ordinandole per temi.
UNA FRASE UN PO’ CONTORTA?
Nel 2010, commentando una raccolta di poesie di Patrizia Villani, Cronaca nera [ Qui] avevo scritto: «Proviamo a immaginare poetica-mente come reagiscono all’orrore vero (fatto di bombe, schiene spezzate, uccisioni a freddo) gli abitanti di Gaza o gli immigrati, ad es. quelli cacciati tempo fa da Rosarno. Stenteremo a farlo. Annasperemo. Verrà meno “l’ispirazione”. Nel tentativo così puerile (per i cinici) di immedesimarci con le vittime, di fingere un loro possibile discorso (o lamento o urlo) rivolto a noi – italiani, europei, occidentali – o almeno a quella parte di noi, che sa di essere complice inquieta o passiva e ridotta a un’impotenza politica malamente coperta di umanitarismo, scriveremo probabilmente cosucce eticamente ambivalenti ed esteticamente discutibili. Ma, in quanto singoli e come possibile “noi”, inizieremmo a riprenderci le nostre capacità critiche e a sbarazzarci delle ninne nanne che ci cullano: Ahi noi! Ahi noi! Capire il mondo reale (e l’orrore reale, storico) è ormai impossibile!».
Oggi, nel 2016, in continuità con quei miei pensieri, ho scritto: «Se perciò un suggerimento sento di dare a me stesso e agli altri è quello di tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono»?
È davvero così contorto questo mio modo di pensare o scrivere, come qualcuno l’ha definito? È evidente che non ho alcuna intenzione o possibilità di fare la predica o la lezione o tirare per la giacca generali etc. O, figuriamoci, di essere ascoltato dai Potenti (e prepotenti). Non voglio né posso, dunque, smuovere la coscienza dei responsabili (diretti o indiretti). E non mi sono rivolto ad altri lettori comuni quasi irraggiungibili , ma ancora una volta (come nella poesia del 2004) ai più vicini, poeti e poetanti, per chiedere un ripensamento del lavoro che facciamo con le parole. Che potrebbe essere più rigoroso, se fosse più alta la nostra consapevolezza «di stare sotto il tallone di questi oppressori e assassini di professione». Immaginarmi di dover parlare di guerra davanti a dei generali è un modo per dire il mio rifiuto netto della poesia come capriccio, evasione o «vino dei servi» (Fortini). O per respingere le false consolazioni delle parole elegiache, dolci, speranzose, che non mancano nelle poesie che mi trovo a leggere di tanto in tanto. E che critico non tanto perché non indagherebbero abbastanza sui meccanismi reali dei conflitti e sui responsabili di essi. No, non voglio poeti che parlino delle cause delle guerre . O che debbano dimostrare al lettore di avere ottime conoscenze da storici, da politologi o da strateghi ( anche se ritengo che tali conoscenze non guasterebbero in poesia). Pretendo dalle poesie sulla guerra un certo grado di efficacia? Certo. Ma non quella “pratica”, come se la poesia potesse fermare o frenare una guerra, cosa – ho scritto – «del tutto impensabile o poco accertabile, anche quando particolari situazioni storiche proiettassero certi versi sullo scenario del conflitto e alimentassero i pensieri dei suoi attori».[3] Ho parlato proprio di efficacia poetica, che viene raggiunta quando una poesia è in grado di scuotere il nostro torpore, renderci più inquieti, più esigenti, più radicali nel pensare e nell’usare la stessa poesia come strumento di conoscenza alla pari o migliore di quelli che ci vengono da altri saperi (filosofici, scientifici, politici, ecc.).
[3] Fortini: “Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Hsun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni. E tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo. Appunto a questo proposito sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta alla poesia di Leopardi di non essere sufficientemente animatrice di generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la forza . Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi”. ( Intervista a RAI Educational)
UNA PLURALITA’(ET ET) DI VOCI O ANCORA IL CONFLITTO (AUT AUT)?
Si dice che oggi in poesia ci sia una pluralità di voci che meritano comunque ascolto. Avendo tenuto in piedi dal 2006 al 2012 il «Laboratorio Moltinpoesia» e cercato di riflettere e persino teorizzare un poetare costruttivo né populistico né elitario da parte della massa dei poeti e dei poetanti, l’ascolto da parte mia è stato massimo. Ma il problema irrisolto e che produce un’oscillazione di opinioni e di sentimenti contrastanti sorge quando si tratta di giudicare appunto il valore o l’efficacia poetica dei testi in circolazione: quelli che si vogliono di poesia o di poesia civile o che affrontano il tema della guerra. E l’oscillazione avviene tra un atteggiamento più conciliante e lasco, che chiamerei dell’et et, e un atteggiamento più severo e esigente, quello dell’aut aut. Domande più pressante c’è da farsi come poeti di fronte a queste guerre d’oggi: è possibile scrivere poesia in tempi come questi? e che poesia dovremmo scrivere? e quelle che scriviamo (comprese le mie) sono appropriate a questa sfuggente e caotica “realtà”? È un problema che mi sono posto e pongo. E nasce dal disagio procuratomi dall’assenza – nella vita sociale e non solo nella poesia che si fa o nelle poesie che trattano di guerra – di quel senso tragico che la situazione a me pare richiedere. Poi, scendendo all’analisi dei testi che vado leggendo, mi chiedo ancora: con quale criterio un lettore d’oggi dovrebbe valutarli? Me ne vengono in mente tre: quello estetico che distingue «bello/brutto»; quello etico-estetico ; e quello «estetico-politico». Sono criteri che oscillano tra il poetico come campo specifico e l’extra-poetico. Sono in fondo solo diversi tra loro e possono convivere (et et) in tutti i casi o a volte (o spesso)? Oppure cozzano tra loro in modo più o meno evidente e, prima o poi, bisognerà scegliere (aut aut) o l’uno o l’altro? Qui entrerebbe in gioco la funzione della critica. Che è presente comunque. Più o meno esplicitata e più o meno argomentata. La critica è sempre irritante, se no, che critica è. Ma serve o no? È bene farla fino in fondo o velarla o rinunciarvi? Permette di riflettere, correggere, confermare o abbandonare una posizione, una convinzione? O fa solo perdere tempo, mette zizzania e andrebbe magari riservata ai Nemici (possibilmente lontani e che non se ne curano)?
AUTONOMIA E SPECIFICITA’ DELLA POESIA. SI’, MA…
È vero, la poesia e le arti in genere hanno una loro autonomia e specificità che non può essere trascurata. Com’è vero che a volte il giudizio negativo su determinati aspetti della vita può essere manifestato in poesia anche attraverso l’ostentata indifferenza verso di essi. Ed è sempre vero che a volte il non parlare delle cause di un fenomeno non significa sempre e comunque essere disinteressati ad esse o non conoscerle. Attenzione, però, a non esagerare in questa difesa dell’autonomia. A me pare che quella che sta in fondo più a cuore è sempre l’autonomia del singolo poeta. Temo però che oggi non abbia più senso difenderla contro un avversario che pretenderebbe che si scriva una poesia “impegnata” o sottoposta a qualche “regola”. Tale avversario non esiste più. Nessuno vuol tornare alla poesia “impegnata” ( e ai suoi equivoci); e personalmente io ho criticato chi ha tentato questi “ritorni”(qui). C’è invece un’esigenza più alta e urgente: spingerci oltre i confini della poesia (sia quella fatta dai poeti “impegnati” sia quella che va a caccia della Bellezza e della Forma); accorgerci – lo dico senza veli – dei limiti del far poesia. Specie oggi e specie rispetto agli sconvolgimenti mondiali. E con quest’affermazione forse sono più vicino alla posizione di Adorno del “non è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz”, che riproporrei nella sua radicalità.
Vedere se la poesia, nella sua autonomia e specificità, raggiunga sempre l’obbiettivo di misurarsi con l’orrore della storia, di risvegliarsi e risvegliare dal torpore e dalla rimozione che prende la gente comune ma anche i poeti (o i filosofi, o gli scienziati) di fronte a quell’orrore: mi pare un compito poetico e critico fondamentale. Chiedersi: scrivere poesia (in autonomia!) ci fa aprire gli occhi o invece non fa che aiutarci a chiuderli (nel sonno della ragione)? Si deve pur rimettere in discussione questo strumento a cui ci siamo assuefatti, sia che l’abbiamo ricevuto in dote sia che ce lo siamo faticosamente conquistato. E a volte pensando allo scarto tra l’esperienza del «Laboratorio Moltinpoesia» e quella di «Poliscritture», mi chiedo se le nostre poliscritture non debbano andare proprio in direzione di un ridimensionamento critico del valore della poesia; e se anche la mia idea di ‘poesia esodante’ non sia un distacco dalla Poesia o da una certa poesia.
Riecheggiando idee non solo di Fortini ma di tutta una tradizione marxista antielitaria e antipopulista, ho scritto che «l’autonomia e la specificità della poesia può essere anche uno scudo (a volte necessario, altre volte no) di fronte alla realtà». E ho posto già altre volte l’esigenza di una critica della poesia, poiché non credo che essa (compresa quella “impegnata”) abbia una funzione sicuramente positiva o illuminante. In altri termini, l’ambivalenza del linguaggio ( e di quello poetico in particolare) a volte aiuta ad uscire da quello superficiale e opaco del senso comune (e dei mass media) stracciando il velo della “realtà” (e dei suoi orrori), ma altre volte si riduce, proprio alla poesia della parola innamorata di sé, che induce al sonno (e non certo dei giusti). Certamente, tra i poeti che non hanno sfuggito il tema della guerra o dell’orrore storico, i modi di affrontarlo sono vari; e tra questi modi c’è anche quello di chi parla apparentemente di rose – ad esempio Celan – ma quelle rose sono state davvero bagnate nei veleni della storia, sia pur attraverso l’ostentata indifferenza dell’autore verso di essi. Da questa mia posizione che considero in mezzo al guado, perché non è ancora del tutto rinuncia alla poesia, ho contrastato l’idea (che comunque mi rode e inquieta), che non ci possa essere uno spazio autentico fuori dalla partecipazione reale ad un conflitto. Il poeta che andasse a combattere in Afghanistan o in Siria dovrebbe smettere con tutta probabilità di fare il poeta.
OH, COME ZOPPICA LA POESIA ESODANTE! PONE IL PROBLEMA PERO’…
Negli ultimi anni ho avanzato un’idea di poesia che ho chiamato « esodante» (qui). Non ho certo la pretesa di dire che è un’ipotesi del tutto solida teoricamente o che la pratica poetica che ne ho derivato non zoppichi (da uno o l’altro dei tre criteri che ho prima nominati). So pure che gli orrori della storia sono una caterva, che la storia è da secoli un mattatoio. Ma allora non è lecito chiedersi a cosa serva la poesia o tutto questo nostro Sapere o questo nostro «modo di pensare occidentale» che pur ha saputo coltivare una sua coscienza infelice, se non frena le guerre che i nostri connazionali o governanti fanno anche in nostro nome? E che pensare di buona parte degli omini occidentali che le rimuovono o le approvano? Si dovrà pur ricominciare a scuotere una situazione o una mentalità che è sempre più paludosa e spappolata e condiziona anche noi che tentiamo di ragionare. Anche rischiando di passare per superbi, sapientoni o “ottocenteschi”. O vogliamo assecondarla e giustificarla? Sui motivi per cui siamo arrivati a questa situazione m’interrogherei ancora più testardamente. A meno di non pensare che gli omini occidentali non rimuovano affatto, non sono ciechi, non amano le finzioni e capiscano tutto. Ma allora perché non si muovono, non protestano? Dobbiamo concludere che è impossibile qualsiasi movimento o pensiero fuori dalla «mentalità occidentale»? O ammettere la profonda saggezza, sia pur impotente di questi omini? Importante è porre il problema e affrontarlo invece di scansarlo o edulcorarlo.
SECONDA PARTE
Uno scampolo del dibattito nato dalla critica di Ennio Abate alle poesie del n. 12 a cura di Marcella Corsi
1.
(Da Ennio Abate/ 31 maggio) Vi mando in allegato la bozza di questa critica dialogante. Ho lasciato in alcuni casi molte citazione di versi solo per documentare le mie asserzioni, ma penso di ridimensionarle successivamente. E di correggere il tiro alla luce delle obiezioni che mi farete (spero).
Non voglio fare la lezione a nessuno, ma non posso celare il disagio di fronte a questo venir meno del senso tragico della storia. E di questa scomparsa – ahimè mi tocca dirlo! ‒ risentono anche le poesie sulla guerra presentate per questo numero.
Nella poesia di Di Salvo noto che ha già in mente un’astratta figura di combattente da condannare («E mai/ chiarore alcuno s’aprirà per te»), se non da ridicolizzare: (« sempre furioso di dare a altrui battaglia/ sempre fuggendo te nel tuo incalzare intento») o a cui affidare in modi che mi paiono consolatori compiti utopici («finché Custode fattoti non ti sarai/ perciò fin d’ora [e sempre e tardi ormai]/ della soglia ch’è ovunque venatura//della compagine che solitaria s’avventura/ del coro in bosco d’irriducibili meticci») per riaffermare un suo ideale “ecologista” («e intanto impara/ che seppure sempre cede il passo mai non muove a guerra … l’albero»).
In quella di Dell’Aquila il fiume è la vita che scorre anche «in tempo di Guerra». Lo fa parlare. E vediamo scene quotidiane che evocano il brulichio della gente che vive nelle nostre città o nelle nostre periferie («la semplicità di mani che lo stesso applaudono/ gambe che sciamano tornando alle stanze pomeridiane/ bambini che fanno i compiti prevedendo dolci e figurine»). Poi il poeta s’immerge in un dialogo serrato con un suo alter ego («tentavo di capire su cosa ragionavi/ tu che metti in versi le mie ore»). S’identifica col fiume: «stiamo dunque nel tempo e come fiumi lungo fiumi/ andiamo incontro a estuari che non immaginiamo/ di fronte al mare che vedo danzare lungo i chiari golfi». Dà spazio alla dolcezza dei ricordi d’infanzia:«la luce che ritorna e rischiarando riveli i lineamenti/ controluce il lago chiaro alle spalle di mia madre/ un giorno antecedente o sincrono all’esordio/ della vita». Parte con l’introspezione:«carta assorbente sono stato e sono/ regolarmente incerto così da non sapere/ se sia reale o immaginata e scritta/ questa canzone che di mattina ascolto/ sempre più impreparato più irrisolto». Si spinge nella cerchia degli affetti familiari per rivedersi nel figlio ( «l’espressione bruna di ragazzo a viso aperto/ che ombreggia il volto di tuo figlio quando gioca la vita»). Pensa ai morti («Se finissi di elencare le persone morte»). Accenna ai rimpianti per le cose non realizzate («la posa scura dell’irrealizzato») o al sogno dei piaceri possibili («la carne tremi esulti dando infine argomento/ alla vita risposta alle domande oscure/ ché il tamburo del cuore traduca/ il mistero dei giorni in bianche aurore»), all’ innamoramento ( «esasperando la domanda se possa un uomo/ essere sciocco da sentire la mancanza/ del dispiacere di chi ama mentre le melagrane/ si occupano soltanto di essere sospese/ di oscillare al vento ignare delle proprie radici/ né domande né affanno di fallire»). Solo alla fine, come incubo incombente ma lontanissimo, compare la guerra: «droni volano invisibili e catalogano itinerari umani/ la via della seta sostituita da topografie di sangue/ eserciti di respiri in fuga affidati al mare». La guerra sfugge o sta nella coda dell’occhio. Lo sguardo è tutto immerso nel fluire della vita “occidentale”.
Di Stefano nei suoi versi in romanesco direi che non si misura con la guerra, la «guerra permanente» d’oggi in particolare. Perché ha un’idea astorica, quasi archetipica di guerra. L’attinge da un sapere popolare scettico, ad essa ostile, ma in fondo rassegnato a subirla come evento “ naturale” quasi come accetta “naturalmente” la propria esclusione dal potere, presentato moralisticamente e sempre malvagio in sé. Nelle sue poesie usa immagini arcaiche e religiose di un passato mitico. E perciò la guerra è sempre e solo la contesa tra padroni «che fanno e che disfanno a sto monno». Passa – incomprensibile e fatale – sulla testa dei servi. E ad essi è concesso al massimo l’invettiva impotente contro i potenti («che ciànno propio rotto li cojoni») o la preghiera «ar Padreterno ogni sera/ p’esortallo de dasse na sbrigata:// o mette a posto tutta sta masnata,/oppuro, p’estirpà pe sempre er male,/ mannasse giù er Giudizzio Univerzale».
Mayoor mi pare si limiti a una generica denuncia e ad un richiamo dottrinario a… Arjuna.
Lo stesso senso d’impotenza sciolto in narrazione o nel mito con qualche tocco femminista (ribaltamento della figura di Penelope, che rimprovera il guerriero Ulisse invece di accoglierlo: «Lei pensa angosciata agli altri, alle «città in fiamme» che Odisseo si è lasciato dietro, ai morti che ascolta nei suoi incubi, ai compagni di lui» ) in Wilner, commentata in modi fin troppo elogiativi e tranquillizzanti da Mormile: «Il punto sembra quindi non tanto denunciare, quanto saper vedere e testimoniare. Per questo anche la poesia che nasce in risposta all’orrore (come nel caso dell’infelice Radnóti, vittima della brutalità nazista) ne costituisce comunque un superamento e può essere vista con ottimismo[1]. In tutte le sette raccolte pubblicate Wilner combatte a colpi di penna il drago della tentazione di irrealtà che oggi più che mai ci assedia».
Zunica e Ferramosca si concentrano sulla rappresentazione del dolore delle vittime.
E infine Corsi fa suo il punto di vista pacifista, ribalta fin troppo facilmente il valore guerresco o l’etnocentrismo in disvalori («ragioni della nostra stupidità guerresca, codardìa»; « uno sguardo etnocentrico che risente dell’immagine/angusta che l’occidente ha del mondo arabo odierno».). E propone l’esigenza del diritto: « anche la guerra abbia almeno leggi, vorrei gridare» riallacciandosi anche lei a istanze ecologiche e femministe. La nostalgia per un mitizzato Stato di diritto mi pare simile alla visione astorica di Di Stefano. La novità tremenda della guerra permanente e le cause profonde (lo strapotere Usa almeno chiaro in Asor Rosa e Fortini) non mi paiono neppure sfiorate.
Qualcuno potrà pensare che queste mie critiche vengano da un mio immaginario affascinato dalla guerra. Lo escluderei. E vorrei anche sottolineare che non presumono di sapere di più: tutti noi (me compreso, dunque) siamo in difficoltà nel pensare e scrivere sulla guerra. Perché non l’abbiamo mai vissuta o fatta; e anche la nostra conoscenza libresca è, credo, occasionale. Dico di più, anche se un poeta fosse sul campo di battaglia o più vicino a certi tragici eventi, va ricordato, come ho detto all’inizio, che è la stessa forma-poesia a fare da filtro e a volta da necessario scudo contro questa Medusa orrorifica. È un problema che i poeti non possono trascurare. Se un avvertimento mi sento di dare a me stesso e agli altri é quello di tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono; e di non cedere alla tentazione di una poesia che finisca per rivolgersi agli “inesperti della guerra” o ai “pacifisti naturali”, adeguandosi quasi in automatico al senso comune di un pubblico che la guerra l’esorcizza. In questo secondo caso il deficit del poeta si somma a quello del pubblico che non vuole essere scosso dal suo stato di torpore più o meno ovattato.
[1] Cfr. E. Morante, Pro o contro la Bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987, pp. 99-102; p.108.
2.
(da Cristiana Fischer/ 1 giugno)
E’ indubbio che le poesie di cui scrivi coinvolgano la guerra in un effetto di allontanamento, guerra quasi fato astorico e incomprensibile, insensatezza, orrore di cui l’umanità è capace e che bisogna condannare, mysterium iniquitatis da esorcizzare richiamando la vita che continua nella sua umile e irriducibile pochezza.
Ma non capisco cosa significherebbe scrivere come “davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono”: interrogandoli? Per metterli davanti alle loro responsabilità o per svergognarli davanti agli altri?
Costoro la guerra la conoscono già, il generale Mini scrive di “gusto della guerra, il piacere del combattimento, della conquista e della razzia”. La grave persona del generale Tricarico incarna la sua triste consapevolezza… I banchieri i mercanti di armi (i vari primi ministri), i produttori (le nostre più importanti industrie) direbbero che così va il mondo, che le armi sono grossi affari che servono a far vivere la gente… e morire qualcun altro.
In realtà la guerra riguarda i civili, che ci campano e ci muoiono, si sa che ormai le vittime civili in una guerra superano quelle militari. E se si osserva che le guerre in corso sono portate contro la popolazione: Siria e Ucraina, e coinvolgono interi popoli: Curdi, Ceceni.
La guerra è affare di tutti non solo dei militari e degli affaristi.
Forse bisogna che chi scrive una poesia parta dall’esaminare prima di tutto come, egli o lei che scrive, sta in un reale rapporto con la guerra che intanto è in campo.
La poesia che ho postato ieri su PoliscrittureFB dice che nel rapporto amoroso donna uomo la guerra è implicata per la rivalità insita intermaschile, la guerra la fanno gli uomini, e tutti hanno donne , madri mogli sorelle e figlie. Di solito esse non partecipano se non come sostegno – esternando perfino la loro estraneità come le infermiere di prima linea di Simone Weil. Ma, in questi crudeli tempi in cui l’uguaglianza è diventata ideologia maligna e perversa, cominciano ad arruolarsi anche le donne.
Che non sono le curde che combattono, come sono state le donne nella resistenza, ma sono soldate di mestiere. E questo è un grande fatto da interrogare.
La tua poesia provoca tutti a sentirsi oggettivamente in guerra, ma è anche solo “moralista” nei confronti di chi pensa che la guerra sia degli altri.
Scriviamo invece di come siamo in guerra tutti noi, all’insegna dello specchio necessario.
3.
(da Ennio Abate/ 2 giugno ore 10)
Una precisazione. Ho scritto: « tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono». Quindi mi rivolgo *ai poeti e poetanti* non per fare la predica o la lezione o tirare per la giacca generali etc… L’invito è a pesare le parole sapendo di stare sotto il tallone di questi oppressori e assassini di professione. Sapete quante parole elegiache, dolci, speranzose, si seccherebbero in bocca? Sapete quanta pulizia drastica verrebbe fatta nel nostro modo di pensare ( e scrivere) l’*orrore* della storia?
4.
(da Cristiana Fischer/ 2 giugno ore 15)
D’accordo per la pulizia e che si secchino in bocca le parole dolci elegiache e speranzose. Perché questo avvenga occorre che il poeta accetti di essere personalmente coinvolto nei fatti correnti di guerra e di migrazioni, nella vita personale, nella vita sociale, nella vita politica. Ma non basta dire che stiamo sotto il tallone, non è vero in questo modo generico, molti stanno chissà come e dove. Quando uno sceglie come sta nel conflitto, allora si possono anche accusare le poesie dolci di essere mistificazioni. Altrimenti, senza severa consapevolezza, il rifugio nella vita privata, nelle condanne morali, negli affreschi antropologici, espressi nelle dolci poesie, sono solo un astratto riflesso del tallone.
5.
(da Annamaria Locatelli/ 3 giugno)
…nel dialogo tra Cristiana e Ennio sembrano emergere due vie possibili per la poesia (o similpoesia) in tempo di guerra:”…tendere ad una poesia capace di immaginare se stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono” (Ennio).
” Scriviamo invece di come siamo in guerra tutti noi, all’insegna dello specchio necessario” (Cristiana).
Mi chiedo: sono solo queste le vie possibili? Immaginarsi, interpretarsi e/o immaginare, interpretare? In quale ruolo? A quali destinatari?..nell’area del mondo dove viviamo, “senza pace” in quanto manipolato, sottomesso, impoverito e/o in quanto al bivio di più mondi dal volto devastato?
Secondo me potrebbe starci una pluralità di voci, che spaziano dalla denuncia rivolta a smascherare nomi illustri e fatti che hanno macchiato di sangue la nostra storia contemporanea (Ennio), alla testimonianza, di chi sente il peso secolare della guerra imposta dai potenti (Di Stefano), di chi si sente, in quanto donna, coinvolta in guerre da sempre guidate da dinamiche maschili di sopraffazione (Cristiana)… e nella quotidianità di una vita che scorre come un fiume impetuoso e sorprendente, l’irrompere di bombardamenti aerei… Se per immaginare, si può pensare anche ad un albero che testimonia, magari al mondo vegetale, la sua tragica impotenza davanti alla guerra degli uomini…
Così se parla il guerriero, il partigiano, la donna o il bambino siriano, il punto di vista cambia, non la tragicità… Parliamo ai potenti per “intimidirli” o anche tra vittime, per condividere stati d’animo?… non ho le risposte, ma desidero esporre dubbi.
6.
(da Giorgio Mannacio /4 giugno)
[…] riscontro sempre o quasi sempre che Ennio ( quale che sia l’argomento della discussione ) ha la caratteristica di mettere “ in stato di accusa permanente sé e gli altri “.
L’elenco degli imputati è fitto. In politica : marxisti e post-marxisti; democratici moderati e socialdemocratici; democrazia tout-court e totalitarismi; economia di mercato e economia centralizzata …Certo è un modo che determina una inquietudine permanente, ma – come Ennio dice espressamente in altro suo testo – egli preferisce l’inquietudine della ricerca alla pace del benessere interiore. Anche in questa risposta si manifesta, peraltro, il suo radicalismo che non ammette l’alternanza tra inquietudine e beatitudine e sembra sottovalutare i gradi che tali stati d’animo possono assumere.
Nel testo sul quale intervengo i bersagli sono altri. Alcuni sono le poesie sulla guerra e sono bersagli del tutto legittimi perchè sono inseriti nel libero esercizio di una critica; sono individuati; sono argomentati e non aggressivi; sono coerenti con lo spirito di ricerca di Poliscritture. Forse un po’ troppo sbrigativo quello su Mayor Tosi. Ma non è su tale particolare che intendo soffermarmi.
Gli obbiettivi sembrano allargarsi e spunta fuori l’espressione : “ notiziole già accomodate al modo di pensare occidentale “ Ecco, dunque, messo sotto accusa – o così pare ‒ il modo di pensare occidentale. Ma quale sarà mai questo modo ? Nella mia bibliotechina ho trovato alcuni volumi della Collana Bompiani titolata Il pensiero occidentale che – si legge nell’elenco annesso – comprende ad oggi oltre 150 opere. Si va dall’antichità ai giorni nostri e, si badi bene, non vi sono compresi ancora alcuni scienziati che di questo pensiero sono stati esponenti importantissimi.
Da queste indicazioni – e ancor più dalle “ lacune “ dell’elenco – dobbiamo ricavare, meglio: io ricavo, che non esiste alcun pensiero ( non uso il termine civiltà perché nel politicamente corretto esso si presta ad equivoci ed è bandito ) che si sia autocalunniato più di quello occidentale. Ricordo Nietzsche e, in campo religioso ( penso ad Overbeck, quasi sconosciuto in Italia ) quei teologi che sono arrivati – con la teologia – ad una religione senza dio.
Anche solo nella mia misera bibliotechina Ennio troverebbe armi in abbondanza per criticare “ il pensiero occidentale “ e – dunque – bisogna dare alle sue parole un senso ben più ristretto e specifico di quello ricavabile da un atteggiamento polemico nei confronti della formula usata. Ma poiché la polemica non mi interessa cerco di capire. I bersagli della formula sono davvero eterogenei ma il collegamento sembra essere questo. I poeti di cui si tratta sono condizionati dalle notiziole occidentalizzate dato che non tendono “ ad una poesia capace di immaginare sé stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia,ai torturatori di professione, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono “ ( sic nel testo di Ennio ).
Poiché ho premesso che per me “ lealtà “ significa semplicemente esporre la mia opinione, seguo tale criterio.
La formula usata da Ennio ( che trovo un po’ contorta ) pare che alluda non tanto alla sostanza del problema ( è possibile parlare di guerra in presenza di guerre reali ed orribili come quelle che ci circondano? ) quanto alle modalità del loro manifestarsi cioè alla c.d. forma. Si allude, infatti, nelle parole usate da Ennio ad un parlare di guerre davanti a…… dunque comunicazione a destinatari ben definiti i quali non potrebbero essere tali se non investiti da una modalità visiva ed auditiva ( la poesia appunto ).
Allora quel che viene rimproverato è una sorta di insufficienza delle poesie analizzate non tanto riguardo alla conoscenza del problema e alla coscienza del suo orrore totale ( non è questo mi pare il senso complessivo della critica ) quanto riguardo al modularsi del messaggio poetico come testo che non renderebbe abbastanza giustizia alla necessaria indagine sui meccanismi reali dei conflitti e sui responsabili di essi. Ma sempre di forma si tratta.
Credo che la poesia e le arti in genere abbiano una loro autonomia e specificità che non può essere trascurata. E allora proseguo su questa strada.
Non credo affatto che la poesia debba rifiutare “ il pensiero cioè la meditazione sull’esistenza “ e che debba limitarsi a quella che viene chiamata “ la poesia della parola innamorata di sé “.
Ma – nello stesso tempo – credo che la meditazione del poeta, il suo pensiero, possano atteggiarsi in modi differenti entro i quali si realizzano non solo i diversi modi che ciascuno ha di meditare su un dato aspetto della realtà ma anche i diversi strumenti tecnici della poesia ( metafore, similitudini,allegorie…). Del resto – e più in generale – lo scarto tra ciò che è la persona ( e quindi ciò che è il suo pensiero ) e ciò che costituisce il suo modo di esprimersi è un dato tutt’altro che infrequente nella poesia e nelle arti. E’ stato osservato che a volte il giudizio negativo su determinati aspetti della vita può essere manifestato in poesia anche attraverso l’ostentata “ indifferenza “ verso di essi. Il non parlare delle cause di un fenomeno non significa sempre e comunque essere disinteressati ad esse o non conoscerle. Può, ad esempio, significare, anche, che le cause si danno tanto per conosciute che è “ inutile “ parlarne anche in poesia quando tante altre discipline, con maggiore profondità e precisione, se ne occupano.
Questa osservazione mi porta ad esaminare un aspetto particolare del testo di Ennio e precisamente il punto ( già ricordato ) in cui egli invita la poesia ad essere capace di parlare di guerra ai generali… etc…
Che Ennio con questo inciso intenda pretendere dalle poesie sulla guerra un certo grado di “ efficacia “ ? Mi spingono a tale conclusione i riferimenti a quelli che senza mezzi termini vengono indicati come i responsabili di essa. Perché,se no, dovrebbero essere chiamati in causa costoro oltre e forse prescindendo dagli altri lettori “ comuni “ ?
Tale conclusione – se corretta – si presta ad alcune obbiezioni.
Si vuole smuovere la coscienza dei responsabili o provocare reazioni ulteriori rispetto a quelle che già sono provocate da altri tipi di comunicazione ?
Si vuole “ dimostrare “ di essere più attenti o sensibili degli altri ?
Con uno spunto “ provocatorio” – ma penetrante e degno della massima attenzione – Cristiana sembra voler dire ( se non traviso il suo pensiero ) che non ci può essere uno spazio autentico fuori dalla partecipazione reale ad un conflitto e – aggiungo – tutte le parole dei poeti sulla guerra possono subire distorsioni deformanti. Le poesie in cui la guerra viene per certi versi onorata possono essere lette come guerrafondaie e il coraggio e l’onore dei cavalieri antichi irrisi come fole celanti l’elogio della forza bruta. Rispetto alla poesia dobbiamo vedere in essa non il tentativo di salvare l’ abusata entità della Bellezza, ma la manifestazione irriducibile del pensiero umano, manifestazione che non è mai inutile.
7.
(da Lucio Mayoor Tosi/ 5 giugno)
Le Monde Verde è il colore della pace. Un albero per ogni soldato ucciso, tre per le loro ragazze. Martirio e brivido di foglie per le notti in terrazzaper i tavoli in cucina. Alba e la lanterna dei giorni. Basterannoal funerale dei boschi, delle spiagge e delle case distrutte?Capovolto in un angolo parla silenziosamente il grado massimodella delinquenza, il ministro degli invasori; capovolta sul piatto la carnedi una scatoletta cingolata, senz’altro appetito nemmeno il cane. Sui muri la deflagrazione dei comandi, l’arrivo di camionetteal vicolo deserto di una decisione: croce nel mirino del killer. Preghiera di colpi e tracciati sulla pelle del cielo capitano, sullo spaventoche dilaga. Il cronometro dell’impresa indietreggia il tempo.Sfavilla all’orizzonte del mare una stella nemica; intermittentesi sposta, ora morta ora ferita. Linea tratteggiata che s’avvicina.Morte al microfono dei gatti in torretta. Corse di cadaveri in trinceaLettere bucate e mani che scrivevano – Amico, nessuna decisione.Polvere in frigorifero, signora McCarthy, signora Mohammed.Mussolini in pelliccia escono dalle tane; abbiamo denti a colazionefemori da abbracciare, notti disperate sulle tenute in campagnapiscine divelte, autunni fuori stagione, inverni sul balcone: fiorid’arancio e travi di letizia. Amplesso di ventri distaccati e catenesottocoperta. Viali di sassi vomitati da cause ed effetto. Giustol’insegna rimane: un minimarket pieno di sugheri e finalmentequalche castagna senz’acqua, seccata. Pozze di champagne. In mezzo al mondo senza sapere cos’altro fare il bambino dei Bianchiscava una buca, finge di metterci una moneta e la ricopre. MonsieurLe Monde si spacca la schiena. Potrebbe andare?
8.
(da Cristiana Fischer/ 6 giugno)
Cerco di essere più chiara. Che vuol dire per me, nella formulazione di Giorgio, “non ci può essere uno spazio autentico fuori dalla partecipazione reale ad un conflitto”?
Chi mi paga la pensione? Lo stato, reparto previdenza e assistenza della spesa pubblica. Da chi è alimentato il fondo? Da rapporti politici raffinati, in alleanze, in una divisione internazionale del lavoro, secondo cui i movimenti finanziari mantengono in relativo equilibrio i paesi collegati al potere principale, cioè agli USA. Basta poco: i favori reciproci tra Berlusconi e Putin hanno scatenato le potenze nel campo finanziario, hanno fatto salire lo spread, hanno messo in crisi l’equilibrio economico del nostro paese, e hanno portato Monti e Fornero, basta poco per far saltare l’equilibrio.
Sarò solo io pensionata così dipendente dai rapporti dell’Italia con la UE e con gli USA? No, il crollo delle banche venete per il crollo delle imprese straccione venete, ha seguito analoghe direttrici che l’Italia ha subito. La crisi economica, da ormai otto anni, è anche una ristrutturazione economica dei capitalismi europei. La vita personale di tutti poggia, per le proprie risorse, in questo c. d. equilibrio di poteri.
Ora vengo alla guerra. Alla posizione dell’Italia tra USA e UE, per cui si trova abbandonata alla sua posizione geografica nel mediterraneo. Cosa può fare perché non si scarichino sul nostro paese le peggiori conseguenze del conflitto tra USA e Russia per la ridislocazione delle alleanze nel vicino e medio oriente? Ci viene chiesto un maggiore impegno militare, soprattutto una maggiore iniziativa che il “pacifismo” costituzionale e popolare non sottoscrive. Le immigrazioni hanno a che vedere con questo pacifismo? Molti lo sospettano.
Si potrebbe chiedere: o fai la guerra o la subisci? Molti lo sostengono.
Oggi leggo una analisi di Sapelli: “gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa, ma hanno tuttavia un disegno imperiale mondiale: l’accordo transpacifico che hanno già realizzato (ma che il Congresso non ha votato) e l’accordo transatlantico con l’Europa, che francesi e tedeschi osteggiano ma che ora l’Italia, soprattutto grazie al nuovo ministro degli Affari economici, Carlo Calenda, caldeggia … rendiamo agli Usa ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni orsono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale”; e anche ” quel grand’uomo, non solo di finanza ma anche di intelletto, che è George Soros, ha liquidato tutti i suoi valori mobiliari e ha comprato lingotti d’oro”. http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2016/6/5/FINANZA-Sapelli-arriva-lo-tsunami-istruzioni-per-salvarci/709363/
Finora sapevo che Soros è uno squalo e che Calenda ci svende. Mi devo occupare meglio di politica, quella reale, è necessario, mi ricordo che gli ebrei scappavano nella 2 GM avendo convertito tutto in oro: potrei comprarmi un mezzo lingottino?
La poesia di Mayoor frammenta il quadro della vita associata e dell’immaginazione agreste del nostro presente. Mi viene spontaneo contrapporre il sangue e la merda di Churchill (o era solo la politica per Formica?).
A questo punto che poesia posso scrivere o sono disposta a prendere in considerazione? Solo quella che mi colloca nel quadro globale e complesso in cui so di essere collocata, e che contemporaneamente esponga i rischi che corro, le scelte che posso fare, la politica che devo affrontare o sostenere, il sangue e la merda in cui comunque ci stiamo muovendo, più o meno immaginati – nelle foto e in tv – o fisici, personali o, per ora, su altri.
La mia impostazione, per cui la guerra è maschile, e la parte femminile è di “oggettiva” complicità, sia in maggioranza come vittime o ausiliatrici, o, ora, come soldate e perfino ministre (e se Hillary vincerà, come comandante in capo) la mia impostazione sessuata mi consente, è la mia convinzione, di affrontare il tema della guerra in modo globale e unitario, e correlato alla vita – da continuare – e non solo alla morte.
Vuol dire che ragionando sulla guerra ragiono insieme sulla educazione pubblica, sulla gravidanza in affitto, sul velo islamico in Turchia, sul femminicidio dei nostri maschi, usw.
9.
(da Salvatore Dell’Aquila/ 7 giugno)
Mando in allegato un breve scritto che, lo confesso, è scaturito da una certa irritazione per la critica di Ennio. Oggi l’irritazione è completamente svanita lasciando spazio, al contrario, alla constatazione della bellezza del fatto che ognuno di noi (e ognuno al mondo) sia sanamente diverso da tutti gli altri. Il testo lo mando lo stesso perché ormai esiste, prima di tutto, e perché qualcuno potrà apprezzarlo o, almeno, trovarlo divertente.
Leggere i racconti di Jorge Luis Borges è tra le cose che più mi piace fare nella vita. Conosciuto quando avevo circa diciotto anni e divorato, letteralmente, tutto quanto mi riuscisse di trovare scritto da lui, non ho mai smesso di rileggerlo e tuttora indulgo alla stessa mania; è un autore non realistico, anzi fantastico, se non addirittura fantascientifico.
Tra quei racconti, alcuni sono talmente impressi nella mia immaginazione che difficilmente capita che io passi più giorni senza che qualcosa che mi succede, o vedo succedere, non solleciti il riaffiorare dalla mia mente qualche parte di essi.
Pierre Menard, autore del Chisciotte, per esempio, è tra quelli che maggiormente mi hanno suggestionato. Vi si narra dell’impresa tentata (e in parte riuscita) da parte di un poeta simbolista francese (Menard) di (ri)scrivere il Don Chisciotte. Non semplicemente ricopiandolo, naturalmente, ma compiendo una spericolata operazione di straniamento di sé stesso e, nel contempo, da una profonda immedesimazione con Cervantes, con la sua lingua, il suo pensiero, la sua vita, tale da metterlo in condizione di riuscire a scrivere di nuovo quel capolavoro, identico, ma come fosse la prima volta.
Il fascino di una simile operazione letteraria, fin dalla prima lettura, mi ha attratto, ma anche turbato. Si trattava solo di una storia assurda o vi si poteva ravvisare, oltre che una metafora dell’eterno ripetersi delle ore e dei giorni umani, una vicenda reale? Era davvero possibile che fosse stato tentato un esperimento del genere? E, nel caso, si poteva considerare plausibile tentare di ripeterlo?
In cuor mio ho deciso di cimentarmi in una prova dello stesso genere. Un po’ per le scarse mie attitudini, un po’ per il tempo a disposizione, non potevo però farlo con un’opera della mole del Chisciotte. Avevo bisogno di un autore meno lontano da me nel tempo e di una sua opera breve, molto breve; Giuseppe Ungaretti mi è sembrato giusto per epoca e per opere.
I tempi del mio studio sono stati lunghissimi. Conoscere la vita di Ungaretti (seppure solo per i suoi primi vent’anni) è stato estenuante, e assorbire l’ambiente sociale, politico e culturale in cui si muoveva lo è stato ancor di più. Sono rimasto colpito dalla decisione del poeta di tradurre alcuni racconti di Poe (peraltro, amato da Menard), mi sono lasciato abbacinare lo sguardo nel disvelarsi dell’Italia, di Brindisi, di Roma, di Firenze, dopo più di vent’anni da lui (e da me) vissuti ad Alessandria, in Egitto. E di seguito Parigi, di nuovo l’Italia, infine Milano, dove iniziò (iniziai) a scrivere poesia. E poi la tempesta della Prima guerra, la potente pulsione interventista; mi ritrovai in trincea, nel Carso.
Solo attraverso la perdita di controllo, lo smarrimento nel labirinto di uno sforzo insensato, dunque, in un risveglio antelucano o in un sogno sonnambolico di luglio, ho infine scritto le seguenti parole:
Soldati
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
P.S.: per gli amici della redazione, confidando che possano comprendere la dimensione autentica di “mia personale esperienza di guerra”.
10.
(da Marcella Corsi/ 8 giugno)
[…] sento l’esigenza di rispondere anch’io alla sollecitazione di Ennio. Ho la sensazione, tra l’altro, di averla indirettamente provocata.
Per non escludere dal numero la poesia di X, che non aveva avuto consensi in redazione, ho infatti proposto ad Ennio di affiancarle una critica dialogante a sua cura, in cui fossero esplicitati i principali motivi di critica appunto, con riferimento anche alle sue 14 tesi per una poesia esodante. Questo avrebbe permesso di accogliere un’autore che per la prima volta si avvicinava alla rivista, utilizzare uno strumento come la critica dialogante che ci caratterizza e riprendere anche un argomento interessante già trattato (non ricordo se nel n. 9 o nel 10). Avremmo posizionato testo, critica ed eventuali repliche (ipotizzavo/auspicavo anche qualche replica alle argomentazioni portate da Ennio a partire dalla poesia esodante) nelle Riprese.
Come spesso accade, Ennio ci sorprende con qualcosa di diverso: un passaggio a volo d’uccello, forse un po’ troppo veloce, su tutti i testi in versi (ma hai dimenticato il Dittico di Toni Maraini), notandone la distanza da quel che connota la sua idea di poesia esodante (le 14 tesi non sono mai nominate, e sarebbe bene invece, se lo scritto è proposto per la rivista, fare un esplicito riferimento ad esse). .
Ci chiede di dire quel che ne pensiamo e di proporre eventuali aggiustamenti. Oltre a quanto appena notato, direi che questo approccio mi sembra meno utile alla rivista di quello consistente nell’affrontare criticamente l’insieme dei versi proposti da un autore e notarne tutto quel che si riesce a notarne. Anche meno generoso in fondo (e forse decisamente ‘respingente’ nei confronti dei collaboratori). Fatta salva naturalmente l’assoluta liceità – e condivisibilità della tesi principale ‒ dei contenuti che sono espressi nella critica di Ennio. Prendendo in considerazione tutti gli autori (in uno scritto necessariamente breve) c’è anche il rischio, a mio parere, di fare un’analisi troppo veloce e condizionata dalla ‘tesi’ che si intende dimostrare, di estrapolare in modo troppo rude e magari in parte fraintendere. Faccio un esempio riguardante una citazione dai miei versi. Premetto che sono convinta del fatto che un testo si completi nella percezione di ogni singolo lettore, e dunque non ho da replicare nulla alla percezione che Ennio ha avuto delle poesie che ho proposto per il numero sulla guerra (pur sperando che si possano leggere anche diversamente o almeno che vi si possa leggere pure altro). Tuttavia tagliare la prima citazione a “codardìa” ne falsa, mi sembra, il senso, giacché quella nei miei versi è una “codardìa d’impegni continuativi”. Si tratta dell’incapacità di perseguire con continuità la composizione dei conflitti evitando il ricorso alla guerra, scelta definita stupida giacché incapace di condurre a soluzioni reali e durature. Nulla a che vedere, mi sembra, con il valore guerresco, rilevato nella critica. Il significato di questa citazione (“ragioni della nostra stupidità guerresca/ codardìa”) si coglie situandola nel complesso dei 4 versi dal terzo al sesto della poesia a cui va aggiunto l’ultimo (Che rifletta il cielo questo liscio chiaro continuo/ raccogliere d’acque d‘ uccelli che rifletta le molte/ ragioni della nostra stupidità guerresca, codardìa/ d’impegni continuativi/ […] Che rifletta il cielo lo sguardo di chi guarda). Converrebbe forse anche dire (ma forse anche no) che, a parte i primi due versi, questa poesia è stata scritta nel 1991.
Questo è quello che mi sembra utile dire della critica dialogante di Ennio, con l’occhio alla rivista.
11.
(da Ennio Abate/ 9 giugno, ore 8)
[…]
@ Giorgio: giustificare (chi mi suggerisce un modo, se c’è, per farlo non rigo per rigo?)
Se faccio una critica ad altri (in questo caso ai testi di poesia per il n.12), penso di stare dentro un genere di scrittura che implica fin dall’inizio il conflitto, la divergenza, il dissenso. Alla pari, però.
Parlare del mio “modo” di criticare come di una messa « in stato di accusa permanente» fa slittare il discorso su un piano diverso, giuridico forse, dove da un parte ci sarebbe un accusatore e dall’altra degli imputati. Questo non è del tutto vero e non aiuta il confronto. Poliscritture non è un tribunale, ma un laboratorio di ricerca, come tu stesso riconosci. E
nella ricerca le divergenze vanno giudicate la norma, non l’eccezione. Possono diventare anche acute e frontali, ma allora vuol dire che il dialogo è impossibile o quasi. E si impongono altri tipi di scelte.
Vediamo la divergenza tra noi due. Ho già detto in una mail cosa non intendo per « poesia capace di immaginare sé stessa come se dovesse parlare di guerra davanti ai generali, ai boia,ai torturatori di professione, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e ai banchieri che se ne servono». E non ci torno. Mi concentro sulla questione dei testi poetici per il n. 12 e – lo dico ora con le tue parole – ribadisco che non rendono «giustizia alla necessaria indagine sui meccanismi reali dei conflitti e sui responsabili di essi». Di più: avevo già aggiunto nel mio intervento che è la poesia stessa ad avere un deficit strutturale quando arriva ad affrontare l’orrore reale della storia. Il che non significa che non debba affrontarlo o che nei suoi tentativi non riesca – magari raramente – a render conto con un certo vigore di questo orrore. Quindi io riconosco in pieno l’autonomia e la specificità della poesia (come di ogni altro sapere), ma non riconosco che di per sé tale autonomia o tale specificità raggiunga sempre l’obbiettivo: misurarsi e dar conto di quell’orrore, risvegliarsi e risvegliare dal torpore e dalla rimozione che prende la gente comune ma
anche i poeti (o i filosofi, o gli scienziati) di fronte a quell’orrore. e la specificità della poesia può essere anche uno scudo (a volte necessario, altre volte no) di fronte alla realtà. Da qui l’esigenza di una *critica della poesia* e nessuna attribuzione ad essa (da parte mia)
di una funzione, che essa avrebbe in quanto poesia, sicuramente positiva o illuminante. Detto in altri termini, l’ambivalenza del linguaggio ( e di quello poetico in particolare) può servire a volte ad uscire da quello superficiale e opaco del senso comune ( dei mass media) e a “stracciare il velo della realtà” (e dei suoi orrori), ma altre volte si riduce, proprio come tu dici, alla « poesia della parola innamorata di sé». Che resta fuori dal mio discorso e considero irrilevante (anche quando è poesia o passa per poesia).
Tra i poeti che il tema della guerra o dell’orrore storico se lo pongono o l’hanno presente i modi di affrontarlo sono vari. C’è anche quello di parlare apparentemente di rose ma bagnandole nei veleni della storia sia pur « attraverso l’ostentata ” indifferenza ” verso di essi». Già altre volte ho fatto il nome di Celan. Non mi pare però sia il caso di questi versi
presentati per il n. 12.
Aggiungo – per rispondere puntualmente alle tue singole obiezioni – che non pretendo in assoluto un poeta che parli delle «cause» delle guerre o dimostri di avere ottime conoscenze da storico, da politologo o da stratega. Anche se tali conoscenze non guastano la poesia. Né pretendo un'”efficacia” pratica della poesia. Che è del tutto impensabile o poco accertabile anche quando particolari situazioni storiche proiettassero certi versi sullo scenario del conflitto e alimentassero i pensieri dei suoi attori[*]. Io parlerei proprio di *efficacia poetica* raggiunta o non raggiunta. Ma in base al criterio di misura che ho detto ( realtà, orrore della storia) e non a criteri solo estetici o letterari. Se raggiunta, vuol
dire che la poesia s’è avvicinata a quell’orrore storico. Se no, è rimasta nel brodo della sua «parola innamorata di sé». Come a me pare accada per buona parte di questi versi. E, dunque, non perché «non ci può essere uno spazio autentico fuori dalla partecipazione reale ad un conflitto». Il che comporterebbe che il poeta andasse a combattere in Afghanistan o in Siria, ma smettendo con tutta probabilità di fare il poeta, dovendo combattere. Lo spazio autentico si può creare anche in poesia (o in filosofia, etc…), ma in
queste poesie non s’è creato o a me pare del tutto insufficiente.
[*]Fortini: Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Hsun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni. E
tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo. Appunto a questo proposito sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta alla poesia di Leopardi di
non esssere sufficientemente animatrice di generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la forza . Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi. ( Intervista a RAI Educational)
@ Salvatore
In tutta sincerità: cosa o quali passaggi del mio scritto hanno prodotto in te «una certa irritazione»? E non capisco, pur sforzandomi, perché sotterrarla adesso nella forma letterariamente mediata di questo tuo scritto invece di esplictarla e ragionarci su insieme. Su Borges e Ungaretti ho tante riserve e tirarli in ballo a me dà l’impressione di una elegante elusione dei problemi che credo di aver posto nel mio intervento. Sulla lode della diversità ripeto: cosa ce ne facciamo delle nostre diversità, se non dialogano o s’irritano o smettono il confronto o rimandano il chiarimento a tempi indeterminati?
@ Marcella
Le citazioni erano puramente indicative. E vanno bene tutti gli aggiustamenti necessari. (Ho dimenticato la poesia di Maraini e vedrò quanto cambierà la mia valutazione delle poesie di questo numero). No, non ho voluto misurare i testi proposti alla luce di quelle mie tesi sulla poesia esodante e non mi pare opportuno riprenderle nel numero 12. Né – ripeto – ho voluto fare un confronto tra poetiche, ma ho scelto come criterio di misura *extraletterario ed extrapoetico* la necessità di misurarsi con l’orrore storico della guerra. Lo si può accettare o meno. Ma è un discrimine. Un aut aut non un et et. A me interessa che i poeti (se ne sono capaci, se vogliono, se arrivano a sentirne l’esigenza) pesino le loro parole di fronte a questo orrore (e perciò – per indicare un immaginario contesto “stringente – ho accennato al parlare davanti ai generali ecc… che di quell’orrore sono gli attori e i gestori). Se risulto “respingente” verso i collaboratori e gli amici anche della redazione è per mettere in primo piano questo aspetto, per me – ripeto – discriminante. E, comunque, anche se approfondissi di più l’analisi dei testi (condotta finora in modo veloce ma non sbrigativo), non credo che muterei di molto la mia valutazione. Che poi, più che nei singoli giudizi, è centrata sulla denuncia dello slittamento *generale* da una coscienza tragica (Asor Rosa, Fortini) di fronte alla guerra ad una coscienza “semintimistica” e “provinciale” (e ho fatto pure l’esempio di Maggiani).
12.
(da Giorgio Mannacio/9 giugno, ore 16)
In linea di massima non sono affatto contrario alle osservazioni generali svolte da Ennio a proposito della poesie sulla guerra. Le mie riguardavano e riguardano l’atteggiamento che il lettore può avere verso questo tipo di poesia, atteggiamento che è largamente influenzato dal gusto personale, a sua volta condizionato dal clima sociale. Non so quali argomenti siano stati sviluppati da Herzen e Mazzini a proposito di Leopardi. Condivido il giudizio di Herzen, ma lo condivido perché condivido, in termini generali, la permanenza di valori civili che nella poesia All’Italia si esprime attraverso l’ammirazione per i Greci che ricacciano Serse dall’Ellesponto. In quel testo – se non sbaglio – è sotteso il concetto valore di Patria con tutte le implicazioni che tale richiamo comporta. In che termini, a quali condizioni può essere richiamato oggi ? Sono pronto a scommettere che qualcuno rifiuterebbe il testo leopardiano dicendo tra sé e sé: ma che Patria, ma che Nazione ma che coraggio civile….e così via. Dunque l’accettazione di un testo poetico non prescinde da una mediazione personale e dal vissuto di ciascuno ma in una certa misura la presuppone.Qualcuno più radicale di me potrebbe dire: mi piace quella poesia perché mi piace Leopardi, e basta. Anche su tale punto il mio metodo aut –aut si dichiara pronto a mettersi in discussione.
13.
(da Cristiana Fischer/9 giugno, ore 18)
[…] voglio intervenire su alcune critiche di Ennio che, a mio parere, rimandano a temi di una discussione che, in caso, dovrebbe farsi più allargata.
Nel rispondere a Giorgio, Ennio scrive: “Io parlerei proprio di *efficacia poetica* raggiunta o non raggiunta. Ma in base al criterio di misura che ho detto (realtà, orrore della storia) e non a criteri solo estetici o letterari.” Efficacia poetica e criterio di misura mi sembra che siano però criteri propri della critica letteraria e dovrebbero valere per ogni tema su cui si scrive. Ennio li mette in campo in rapporto alla guerra e all’orrore, ma quello che è implicato è il rapporto tra letteratura e realtà in tutti gli aspetti.
A meno che non si ritenga possibile individuare un livello di realtà fondante tutti gli altri.
Giorgio scrive: ”Rispetto alla poesia dobbiamo vedere in essa non il tentativo di salvare l’ abusata entità della Bellezza, ma la manifestazione irriducibile del pensiero umano, manifestazione che non è mai inutile.” Per lui, mi pare di capire che su ogni manifestazione umana si faccia poesia senza privilegiare alcune manifestazioni su altre.
Nel rispondere a Salvatore Ennio scrive: “perché sotterrare (la tua irritazione) adesso nella forma letterariamente mediata di questo tuo scritto invece di esplicitarla e ragionarci su insieme … Tirare in ballo (Borges e Ungaretti) a me dà l’impressione di una elegante elusione dei problemi che credo di aver posto nel mio intervento”.
Anche qui in realtà, secondo me, è coinvolto il rapporto generale tra scrittura e realtà. Lo scritto di Salvatore è una risposta letteraria – una mediazione – sull’argomento poesia-guerra ma per me è una mediazione valida. Con l’ironia del “P.S. confidando che gli amici della redazione possano comprendere la dimensione autentica di ‘mia personale esperienza di guerra’” sostiene che: a) attraverso la letteratura conosce gli avvenimenti (Ungaretti nella I°GM); b) con Borges accerta che la funzione mediatrice della letteratura… non esce dalla letteratura. (Che è forse quello che anche Giorgio sostiene, se ho inteso bene.)
Comunque quella di Salvatore è una vera risposta a Ennio, una “messa a punto” dei temi implicati dalla critica dialogante di Ennio sul rapporto tra poesia e realtà. Anche quando la realtà è guerra e orrore. Il testo di Salvatore quindi non lo leggo come una elusione, e neppure come rimando a tempi indeterminati del chiarimento.
Certo quando si leggono i reportages di Quirico sulla Stampa dagli Stati dell’Africa sahariana, l’orrore pervade, in parole lussuose e crudeli, stile Flaubert della tentazione di sant’Antonio. Quella è scrittura –efficace – che mette in rapporto all’orrore, e così la scrittura di Cuore di tenebra.
Ma è scrittura della coscienza infelice borghese, che ha gli strumenti culturali per comprendere il capitalismo e anche la scissione da esso introdotta tra uomo e natura (Preve).
Chi siamo noi, che abbiamo gli strumenti per comprendere e criticare quello che ci circonda ma non ancora una Scrittura all’altezza della nostra coscienza?
Ed è ancora una coscienza infelice la nostra, se stiamo dentro il neocapitalismo (per il “dentro” rimando al discorso sulla mia pensione di qualche giorno fa), e insieme anche sull’orlo costante di un declassamento? Invece che una coscienza infelice, mi pare che Ennio voglia una coscienza sferzante e di maggiore portata di conoscenza, una coscienza tragica, così scrive.
Ma la domanda è: per farne cosa? Sollevare un giorno le masse? O, per ora, allargare e diffondere la coscienza?
Siccome il tema è la guerra: abbiamo chiaro il nemico, ma non i suoi alleati e quelli degli oppositori, non abbiamo una strategia, e nemmeno una tattica che non sia o quella del riformismo in speranza di graduale logoramento dei poteri, o quella della critica, più dura e più cruda.
Come già ho dichiarato, per mio conto immagino concretamente alleanza con (quasi) tutte le donne in quanto prosecutrici di vita naturale e spirituale (cioè emotiva e razionale, orientata alla gestione costruttiva della vita nell’ambiente terra).
14.
(da Andrea Di Salvo/ 10 giugno ore 14)
Ringrazio Ennio perché si assume un irrinunciabile, scomodo compito che spesso per pigrizia disdegnamo. Porre problemi. Provo perciò a parlare del quesito generale, restando però nel ridotto nel particolare, anche perché non credo di poter spiegare (neanche a me stesso) in cosa si differenzi (ma è così) il mio, generazionale, culturale per formazione, fin anche politico punto di vista (che è poi quello che si esprime in quel poco che si fa). E i problemi si pongono (altro poi è quel che segue: provare a scioglierli) sempre da un punto di vista. Ma questo già conta … quasi tutto. Allora il filo è il punto di vista. E, anche se i testi conservano sempre la loro bella libertà di circolazione, qui vale l’occasione: “… per il lettore di Poliscritture monografico 12” (sempre meglio richiamare il contesto d’origine). Nel testo (qui si seguito poi riportato con le riserve di Ennio) il combattente, quello reale (il generale, come pure il fantaccino che per ora almeno qui da noi più nessuno ci obbliga a essere) come pure quello metaforico, siamo soltanto tutti noi. Non altri (non alcuni). Mentre chi non condanna, né ridicolizza ma, dalla canopea alle radici, chi in prestito per noi guarda e parla in terza: è l’albero. Certo meglio sarebbe stato allora risalendo per li rami (e che rami) dichiaratamente rileggere la favola “teatrale” di Calvino, Foresta-radice-labirinto o richiamare l’ispiratore Prévert e il suo poemetto Alberi, Guanda, 2010 (se interessasse qualcuno, rispettivamente, la parte finale di
e
Dove gli alberi non sempre cedono il passo.
Anche per rassicurare tutti che allora come oggi di ecologisti, tranne per qualche benemerito scienziato, non se ne vede ombra. Come pure, e qui a mio avviso, purtroppo, ombra non si vede davvero neppure di un rivoluzionario (meccanicamente inteso) sguardo in interscambiabile divenire tra i diversi punti di vista di abitanti e organismi in relazione della terra, finché dura – guerre comprese. Allora? tutto questo ben poco cos’è? Un narcisistico gioco deresponsabilizzante? Un’ennesima variazione del mille volte visto ribaltamento che cerca la radicalità di uno sguardo straniato? Ancora, meglio, un modo strabuzzato di altrimenti porre problemi? Forse, tutto questo assieme. Approcci, linguaggi, retroterra diversi assieme convergono nel polipuntodivista di poliscritture (con la maiuscola e senza) e me ne compiaccio. Cari saluti alla redazione che c’è. Andrea (10 giugno)
15.
(da Ennio Abate/10 giugno, ore 22)
Ed io ringrazio Andrea per queste sue considerazioni. Come ho scritto le mie riserve sui vari testi ( e sul suo) andrebbero inquadrate nel discorso generale che ho svolto sul « disagio di fronte a questo venir meno del senso tragico della storia». Discorso che in verità non vedo ripreso, perché finora i vari commenti mi pare stralcino soprattutto alcuni punti particolari (ad es. la mia frase sui generali etc…) o si limitano a dissentire su questo o quel giudizio veloce che ho dato sui singoli testi. Mi ha interessato, comunque, molto il retroterra culturale (Calvino, Prevert) che Andrea ha messo in luce a sostegno della sua poesia. E accetto di buon grado le sue precisazioni che mostrano un certo travisamento da parte mia di alcuni punti del suo testo. E tuttavia, anche se esso non è riconducibile, come io schematicamente ho fatto, ad un «ideale “ecologista» abbastanza generico, non mi pare ancora adesso convincente (sempre alla luce delle mie esigenze però) identificare il «combattente» con «tutti noi» ( cioè, se ben capisco, un ‘noi umanità’ contrapposto alla natura). Mi pare un eludere la storia e i conflitti storici. Che fu poi anche l’atteggiamento – alquanto “deresponsabilizzante” sempre secondo me ‒ del “secondo” Calvino, quello appunto “labirintico”, al quale fa riferimento. Anche affidare all’albero, che «non condanna, né ridicolizza» (come siamo costretti a fare noi poveretti che stiamo dentro i conflitti), se non un ruolo salvifico una sorta di funzione “supplente” della nostra incapacità di vera rivoluzione, continua a parermi soluzione utopica e, sì, un po’ “deresponsabilizzante”.
16.
(da Ennio Abate / 10 giugno, ore 12)
Appena pubblicata su “Poliscritture FB”:
DEGLI ORRORI D’IERI E D’OGGI
In albe inferme giovani sentinelle
appostate su piramidi rilucenti
freddarono di servi un sogno
e restarono cervici da corpi divelte,
muschi d’organi squarciati
torcigli di visceri in stracci raccolti.
Ma i tranquilli occidentali omini
sull’oscuro pavimento di anni
color carbone uno sgorbio vedono.
E, per assenza di grida, fingono
che di miti bestie in autunno macellate
non d’umanità percossa il sogno fu.
Mente che indaghi, quel tempo
grumoso è lo stesso che i freezer
televisivi ogni giorno surgelano
a Sabra, Beslan, Bagdhad.
Orridezze certe. Che gustano
gli immemori in sugo d’angoscette.
[1983 circa/ 9 giugno 2016]
17.
(da Donato Salzarulo/ 10 giugno, ore 19)
Questa poesia mi respinge. Mi respinge, innanzi tutto, sul piano sintattico: “freddarono di servi un sogno”. Si. E perché non scrivere “freddarono un sogno di servi”, visto che “sogno” non deve far rima con nulla? …E così: “cervici da corpi divelte”, “visceri in stracci raccolti”, invece dei più attesi “cervici divelte da corpi” e “visceri raccolti in stracci”… Iperbati, inversioni, costruzioni indirette alla latina (sogg. + compl. indir. + compl. ogg. + verbo…cfr. terza strofa: “Ma i tranquilli occidentali omini / sull’oscuro pavimento di anni / color carbone uno sgorbio vedono.”) mi respingono. Lo so, è un problema mio. Ma, avendo fatto una fatica boia per liberarmi da una lingua che sento ottocentesca, “letteraria”, irrimediabilmente scolastica, non riesco a sottrarmi a una sensazione di fastidio nel vedermela riproposta. È una lingua adeguata a parlare degli orrori di ieri e di oggi? È la lingua adatta ai droni e agli F35? Ai pickup armati di mitragliatrici? Alle squadre speciali? Agli uomini e donne corazzati di giubbotti antiproiettili? Ai tagliatori di teste e ai corpi imbottiti di candelotti dei terroristi suicidi? Ai civili dilaniati in mille pezzi dalle bombe?…In tutta sincerità, penso di no. Ma lascio aperta la questione. Mi respinge la sintassi, ma mi respinge anche la voce poetante. Ben nascosta nell’alter-ego della “mente”, non si rivolge a me col tono fraterno baudelairiano (“— Hypocrite lecteur, — mon semblable, — mon frère!”), tono empatico che amo e che vorrei presente nei poeti, ma con quello “indagante” di chi pensa che la verità non sia posseduta anche dai “tranquilli occidentali omini”, ma, in esclusiva, dalla voce stessa. Convinta e consapevole di sé, s’attesta prevalentemente su un registro alto, con un dettato serio, smascherante, rivelatore. Salvo il capitombolo finale degli “immemori in sugo d’angoscette”. Cominciare una poesia “in albe inferme” e terminarla “in sugo d’angoscette” è come precipitare dal cielo al piatto domestico. Povera voce. È vero che gli “omini” non possono che nutrirsi di sughi d’angoscette (o di coscette? Magari, di pollo!…); però lei non ha niente di meglio da fare che passare il tempo a schernirli?…Perché prendersela con degli omini occidentali che se ne stanno tranquilli (davvero?) a vedere sgorbi, invece, che sogni di servi freddati da giovani sentinelle? E perché lo fanno? Rimuovono? Sono ciechi? Amano le finzioni? Capiscono fischi per fiaschi? Credono alle favole televisive?…Questa poesia mi respinge per la sua genericità, per la sua astrattezza. Gli orrori di ieri e di oggi sono una caterva. Le albe della storia sono sempre inferme. Il tempo storico è sempre grumoso di sangue più o meno innocente. Non bisogna aver letto Hegel per convincersi che la storia è un mattatoio. Non c’è omino che non lo sappia (occidentale o meno)…Il problema è: si può scrivere una poesia su questa tragica verità?…E se sì, come?…La strada di questo testo non mi sembra quella più efficace. Negli ultimi anni ho letto spesso ai ragazzi “Gli alberi” di Fortini. Il tono è serio, alto, rivelatore. Ma c’è il colloquio educativo, colloquio che non deve svolgersi necessariamente tra padre e figlia.
Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a metter fuori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.
18.
(da Cristiana Fischer/ 10 giugno, ore 19,30)
a Donato:
Gli alberi di Fortini, di Milano di via Legnano e del parco Sempione, sì, si ammalano: la terra non respira abbastanza, agosto li strozza di polvere e ottobre di fumo, sembrano identici ai miei alberi attorno alle finestre, invece sono “portati via”. “Portati via”? Dove, da chi? Non importa: molto lontano. Non c’è genericità e astrattezza anche in questi alberi portati via (una volta segati? caduti per marciume interno?). E che imparerà la povera figlia (o chi per essa), dagli alberi portati via, molto lontano, su chi è suo padre? Qui la voce poetante non si nasconde, anzi si propone, magistrale e autorevole. Ma la prosopopea è la stessa. Ahimè.
19.
(da Ennio Abate/ 10 giugno, ore 23)
A Donato
- È sicuro che a respingerti di questa poesia siano soprattutto gli aspetti formali («Iperbati, inversioni, costruzioni indirette alla latina», la sintassi, l’attrito tra «albe inferme» e «sugo d’angoscette», ecc.)? E ci si può fermare solo agli aspetti formali?
- « È una lingua adeguata a parlare degli orrori di ieri e di oggi?».
Rispondo trascrivendo un passo di una mia replica a Mayoor (su “Poliscritture FB”):
« Indicata la malattia [il poeta d’oggi (e il linguaggio poetico d’oggi a cui si è assuefatto) «certe cose» (le tragedie in particolare) « non può e non le sa dire adeguatamente».], non pretendo d’esserne io il medico o il guaritore. Né, constatato nella poesia il limite (non riuscire ad andare « oltre la rappresentazione e la constatazione del dramma»), credo però debba precludere a me o ad altri i tentativi anche fallimentari o incerti di affrontarlo. La mia riflessione sarà «sentenziosa» (o «moralistica») ma non scontata. (Basta dare un’occhiata alle poesie per me goffamente e tranquillamente “tripudianti” che leggo sui blog e qui su FB). Che il mio tentativo sia riuscito o meno è – ripeto – secondario. Importante è porre il problema e affrontarlo invece di scansarlo o edulcorarlo. E quando vedrò che altri – su questa strada però ‒ faranno meglio di me, non esiterò a riconoscerlo».
3.« mi respinge anche la voce poetante».
Legittimo da parte tua preferire un «tono empatico». È un’obiezione critica che in diversi (non solo tu) mi fecero anche per quella del 2004 (i poeti in tempo di guerra non tremano abbastanza). Ma non mi sento di accettarla. Politicamente intendo. Credo davvero che bisogna prendersela con buona parte degli omini occidentali che rimuovono le stragi. Né mi pare poi che “prendersela” equivalga a schernire. Per me “prendersela” sta per scervellarsi sulla questione e in tutti i modi possibili. Qualcuno dovrà pur cominciare a scuotere una mentalità sociale che davvero mi pare paludosa e spappolata e condiziona anche noi che tentiamo di ragionare. Anche rischiando di passare per superbo, sapientone o attardato (“ottocentesco” etc…). O vogliamo assecondarla? O giustificarla? Sui motivi («E perché lo fanno? Rimuovono? Sono ciechi? Amano le finzioni? Capiscono fischi per fiaschi? Credono alle favole televisive?…») m’interrogherei seriamente. A meno di non pensare che gli omini occidentali non rimuovano, non sono ciechi, non amano le finzioni e capiscono. Ma allora perché non si muovono? E siccome i lettori di Hegel sanno già che la storia è un mattatoio e tutti gli omini che non l’hanno letto lo sanno lo stesso, che si fa? La strada di questo mio testo non è «efficace»? Torno al punto 2: « Importante è porre il problema e affrontarlo invece di scansarlo o edulcorarlo. E quando vedrò che altri – su questa strada però ‒ faranno meglio di me, non esiterò a riconoscerlo».
20.
(da AnnamariaLocatelli/ 10 giugno, ore 23,45)
…nella poesia di Franco Fortini, i versi:
” Gli alberi sembrano identici
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo mi arriva”
mi ricordano la deportazione muta di popoli resi schiavi in varie epoche…così come gli alberi del tutto inermi davanti alla volontà distruttiva dell’uomo sono “…portati via/ molto lontano.”. Il poeta, in questo caso, sa essere efficace sollecitando a guardare oltre ( proprio per) quel silenzio, la immane tragedia delle vittime….,
21.
(da Giorgio Mannacio/11 giugno, ore 12)
La risposta che Ennio ha dato a Donato rende problematico ogni rilievo formale sul testo poetico in questione. A me o a qualunque altra persona che manifestasse perplessità di tipo “ estetico “ Ennio dovrebbe per coerenza porre la stessa domanda che pone e Donato: Siete sicuri che …… ? Mi astengo, dunque, da mettermi su questo cammino. La mia risposta ( “sono sicuro “ ) esigerebbe da Ennio un atto di fede nella mia parola , atto che non si può pretendere. Posto che il corno del dilemma si pone – a questo punto – tra dimensione estetica e dimensione etico-politica, tolta di mezzo la prima, resta la seconda sulla quale ho detto la mia mille ( iperbole ) volte. Non pretendo che essa sia quella giusta ma è il punto d’arrivo di una discussione che si ha con me e che quindi segna un confine discriminante con quella di altri, del tutto legittima, ovviamente. Ripeto. Si può prendere coscienza della guerra, delle sue cause, dei suoi responsabili, dei suoi orrori anche con la riflessione personale allorquando questa conduca a scelte coerenti con la prima. Fondare la necessità o l’opportunità di una “ poesia impegnata “ rispetto a quella che dà la prevalenza ai valori formali è opinione ardua da sostenere. Se“ i potenti e cattivi “ sono indifferenti all’esercizio di virtù civiche oggettivamente rilevabili, perché dovrebbero essere influenzati da una poesia impegnata che non conosceranno mai? Mi sorprende e non dal punto di vista “ estetico “ che ho bandito da queste riflessioni, la chiusa del testo di Ennio che parla di sugo di angoscette. Perché non aggiungere “ sugo di indignazioncine “ ?
22.
Da Salvatore Dell’Aquila/12 giugno, ore 12,30)
Per Ennio
La mia iniziale irritazione credo fosse dovuta alla sensazione claustrofobica di dover rimanere, scrivendo poesia, all’interno di una, seppur minima, “regola”; di veder esprimere un giudizio di “appropriatezza o meno” seguendo criteri che non conosco. La stessa irritazione è evaporata al pensiero che la bellezza di Poliscritture sta proprio là dove a volte sembra di vedere un difetto: cioè nella varietà dei pensieri che si pongono “l’uno al fianco dell’altro”, anche distanziandosi considerevolmente tra loro. Io vedo solo et et, mai aut aut. Non trovo affatto la tua idea di valutazione, pur diversa dalla mia (che è la semplicissima: bello/brutto), un ostacolo alla prosecuzione del mio lavoro. Col racconto che ho pensato e scritto (nella forma, nel genere, nella scelta degli autori citati) volevo in qualche modo esporre la mia visione della letteratura e del suo ruolo. Trovo molto appropriato quanto ha scritto Cristiana al proposito. Il mio intento era agli antipodi dell’eludere. Ho abbastanza meditato prima di scriverlo. Ho coscienziosamente riletto Sette canzonette del Golfo (trovando, come sempre, Lontano, lontano… bellissima e davvero vicina al mio sentire), ma anche quanto Fortini disse, in una fase della discussione seguita alla pubblicazione di Composita solvantur: “[…] Sono stato esageratamente esigente, e in modo spesso sofistico. Un atteggiamento di aggressività, di sadismo, volto a pretendere, soprattutto dagli amici, capitolazione e conversione in nome di un qualche cosa che si pretende essere la verità.” La redazione esiste e, recentemente, a me è apparsa più viva che mai.E’ certamente un’entità con le sue caratteristiche, tra i suoi pregi non si possono certo elencare la rapidità e l’uniformità di pensiero, ma possiede doti di intelligenza, varietà e profonda onestà intellettuale. E’ uno spazio in cui si può respirare liberamente. Non è poco.
23.
(da Ennio Abate/ 13 giugno, ore 19)
(a Salvatore) […] Io ho fatto dei veloci commenti critici alla tua poesia e a quelle degli altri. Da dove è nata la tua «iniziale irritazione»? Lasci intendere che io avrei con queste mie critiche inteso imporre una «seppur minima, “regola”» al tuo far poesia, il che ti avrebbe prodotto una «sensazione claustrofobica». No, ho posto solo un problema (a me, a te, agli altri): di fronte a *queste* guerre che poesia dovremmo scrivere e quelle che scriviamo (comprese le mie) sono appropriate non alla “regola” (di Ennio o del “marxismo”) ma alla “realtà”? Quindi nessuna “regola” preliminare da suggerire o imporre, ma una valutazione a posteriori dei testi che ciascuno di noi produce alla luce di un criterio. Il tuo – dici – è quello estetico («bello/brutto»). Il mio è/vorrebbe essere estetico-politico e si fonda su un’idea (più o meno precisa, più o meno scientifica, più o meno argomentata) di “realtà” e di “poesia” che mi sono costruita negli anni. Sono idee solo diverse e possono convivere (et et) in tutti i casi o a volte ( o spesso) cozzano e bisogna scegliere (aut aut)? Donato ha criticato la mia poesia «Degli orrori etc…». Mi ha “irritato”, ma ha fatto bene. Mi permette di riflettere, correggere, confermare o abbandonare le mie scelte di poetica. Quando parli della «bellezza di Poliscritture» grazie alla « varietà dei pensieri che si pongono “l’uno al fianco dell’altro”, anche distanziandosi considerevolmente tra loro», tu non solo continui ad affermare la tua filosofia dell’ et et ma non consideri a sufficienza quel che ne dovrebbe conseguire per Poliscritture: tutte le poesie presentate “vanno bene”? vanno bene solo quelle che rispettano il tuo criterio estetico o il mio estetico-politico? A me pare che si debba decidere quali poesie vanno bene, quali possono anche essere accolte e quali respinte. E la stessa cosa va fatta per tutti i testi presentati per il n.12. Se essi rappresentassero ancora una volta solo una « varietà dei pensieri che si pongono “l’uno al fianco dell’altro”, anche distanziandosi considerevolmente tra loro», cioè se prevale il criterio dell’et et , non ha nessun senso che io o altri sprechiamo tempo a produrre una qualsiasi critica ( “dialogante”, cioè mirante ancora, tramite correzione, ad una inclusione, o “respingente”, mirante in modo argomentato e non prevenuto, all’esclusione). Per me solo nel caso di un lavoro redazionale fondato criticamente la ««bellezza di Poliscritture» sarebbe confermata. […]
P.s.
- Concordi con Cristiana, perché approva la tua visione della letteratura. E va bene. Però anche lei mi pare che ponga (implicitamente) un aut aut tra «riformismo in speranza» e «critica più dura»: «non abbiamo una strategia, e nemmeno una tattica che non sia o quella del riformismo in speranza di graduale logoramento dei poteri, o quella della critica, più dura e più cruda».
- Riferimento a Fortini. No, nel porre problemi a Poliscritture, non credo di essere «esageratamente esigente» né «sofistico». Una redazione o c’è o non c’è.
24.
(da Cristiana Fischer/ 13 giugno, ore 21,30)
Io vorrei che Ennio concordasse con me […] per quel discorso che ho fatto il 9 giugno a proposito[…] del rapporto tra scrittura e realtà. Anche qui si tratta di vergare brevi cenni sull’universo, lo so. Ma anche Ennio in questa ultima ha continuato a spingere avanti quella parola: realtà. Prima di tutto si può dire che la realtà non è un pezzo compatto di ferro o di piombo, non solo, ma non è neanche un tutt’intero, come a volte si intende sotto le etichette di materialismo o di idealismo. Non è tutta intera, e non è solo solida. Non per questo è un insieme di punti di vista, e neppure una gerarchia di strati che, o diventano l’uno l’altro (terra acqua aria fuoco p. es. nei filosofi ionici vicini al mito), oppure un mutare di stati (solido liquido gassoso), neppure nel caso in cui uno stato della realtà, facciamo l’ipotesi… una struttura (modo di produzione-con-forze produttive, oppure il linguaggio) determina la sovrastruttura, o la psiche. Come si capisce, se la realtà è comunque un intero si sbocca facilmente nella “contraddizione”, all’aut/aut, nella scelta per cogliere il senso di questo intero. Se invece questo intero è visto come rapporto da realizzarsi tra il tutto e le parti, come sviluppo storico in chiave religiosa, o progressiva, funziona meglio l’et-et, come dire: in fondo siamo tutti sulla stessa barca, e remiamo! Oppure… si rimane su un piano sociologico, ideologico, etico: comechessia riguardo la storia umana in generale, ci atteggiamo con coscienza tragica di fronte alla coscienza infelice. O, come scrive Ennio, riformismo in speranza o critica più dura. Il che io lo intendevo appunto solo come una scelta “etica”, con una buona dose di ironia e di sarcasmo. Implicita? No, per me, esplicita. Perchè la mia consistente dose di pessimismo mi fa intendere che riformismo e critica lasciano ugualmente il tempo che trovano, cioè durano fin che, l’uno e l’altra, ciò che domina (l’inarrestabile allargamento del capitale, o l’Impero USA fin che ne è il principale portatore) li fa durare. No, non vedo nessuna opposizione consistente tra riformismo e critica dura, e per consistente intendo che una delle due scelte sarebbe capace di svuotare il capitale e l’impero. Allora, quello che si tratta di fissare, è: rispetto a che cosa vale l’et-et piuttosto che l’aut/aut o viceversa? Rispetto a che cosa Salvatore trova piacevole discutere (“uno spazio in cui si può respirare liberamente”) e loda la redazione? E rispetto a che cosa Ennio vuole che si scelga? Rispetto al rapporto scrittura-realtà. Per vederne anche gli aspetti tragici. Piano etico. Per me, la dico tutta: sì, è giusto non mettere la testa sotto la sabbia o chiudersi in casa davanti al caminetto. Però c’è qualcosa di importante che si può fare anche parlando di una rosa, ed è parlare della necessità umana di grandezza d’animo, di amore per la bellezza del mondo, di un senso che vede oltre, che non si arrende neppure agli orrori più crudeli e più stupidi. Perché, per tutto il fango che si è accumulato nella storia umana, c’è sempre chi ha visto oltre per il meglio, e lo ha scritto per farlo vedere anche agli altri. Se no, da quanti forse milioni di anni, e quante e quante volte, ci saremmo estinti? Invece no. Allora anche la “vaga” bellezza ha una funzione, non solo la critica dura e la coscienza tragica. Anzi la coscienza tragica non si arrende, anzi ribadisce testardamente la vaga ma nutriente bellezza. Insomma, filosoficamente, l’opposizione tra et-et e aut/aut non ha più ragione di essere perché non pensiamo più nel sol dell’avvenire.
25.
( da Marcella Corsi/ agosto 2016)
Non mi sembra un caso che il minidibattito via mail nato dalla critica di Ennio si sia sostanzialmente interrotto dopo questo intervento di Cristiana. Forse non solo io condivido la sua conclusione.
Rispetto alla questione posta da Ennio in questa sua critica, potrebbe essere utile sottolineare alcune annotazioni già avanzate nel corso dei commenti. Mi si fa strada invece una domanda: per chi scrive un poeta?
La risposta che mi si propone indica forse una direzione di ricerca per conseguire qualche efficacia ai versi.
Per chi scrive dunque un poeta? Per chi soffre ora, magari senza averne consapevolezza, le contraddizioni che lui stesso avverte e per chi come lui vuole un futuro diverso (non solo per sé).
Dunque i suoi versi dovrebbero, partendo dall’intensità e dall’onestà del suo sentire, essere in grado di ‘parlare’ a chi legge o ascolta, di toccare nel profondo e provocare modificazioni. Aumentare consapevolezza? Anche, a partire dalla propria (se pensiamo a quanto spesso un lapsus nella scrittura costringa ad interrogarsi sulla realtà del proprio pensare o desiderare). Provocare dubbi, mettere in crisi presunzioni e pregiudizi? Sicuramente, come punto di partenza per arrivare ad acquisire provvisorie ‘verità. Prospettare possibili – utopiche ‒ soluzioni? Magari. E così via.
Penso che la poesia dovrebbe individuare contratture e ferite, indicare direzioni di ricerca, intuire possibilità di risanamento (anche del corpo sociale).
Come può ottenersi questo? Al di là di quanto accennato, non lo so bene. Ma credo che chi scrive versi possa, interrogandosi, arrivare a provvisorie risposte, almeno sul singolo testo preso in esame.
Ogni poeta onesto è, ne sono convinta, consapevole della maggiore o minore efficacia di un suo testo (in questo aiutato anche dalle critiche spassionate, costruttive che ha la fortuna di ricevere).
I meccanismi della creatività individuale sono poi molteplici e, sebbene si potenzino attingendo a competenza linguistica e conoscenza dell’altrui scrittura in versi, rimangono patrimonio soggettivo e, soprattutto oggi, soggettivamente rilevabile e fruibile.
Certo il rapporto con la realtà del proprio tempo, pur soggettivamente elaborato, non è eludibile e impone ulteriori oneri a chi scrive versi. In primis, non facilmente raggiungibile, quello di una profonda onestà intellettuale ed emotiva, poi quello di una soggettività espressiva che si apra ad ampie possibilità di condivisione.
TERZA PARTE
I testi citati nella discussione:
1.
Non muove a guerra
di Andrea Di Salvo
e ancora ogni volta stupefatto
ti guardo arrampare fin quassù
di rama in rama
sempre in affanno d’orizzonte
sempre furioso di dare a altrui battaglia
sempre fuggendo te nel tuo incalzare intento
sgranare secoli di sopraffazioni inflitte
e a te ritorte contro
eppure in quell’infinitesimale sbattaglio
riprecipiti ogni volta ai piedi
delle mie radici
di te facendo campo d’insepolte irrilevanze
fossa comune d’etnie presunte
sgrammaticato rimpallo di mille diffidenti appartenenze,
scempio indistinto d’anime e corpi apparecchiati
da irrinunciabili blasoni, confini, prevalenze
E mai chiarore—— alcuno s’aprirà per te,
contagio d’insane cortesie, a fischiar via
fin tra le foglie in cielo
lo scaravento dei mali che ti getti contro
né spirerà radura di tregua alla risacca ostile
d’indrappellati scambiatori d’odio che avviticchiando
il tronco e il cuore, l’ossa levigan solo
d’apocalissi sempre in atto permanenti
finché—– Custode fattoti non ti sarai
perciò fin d’ora ——-[e sempre e tardi ormai]
della soglia ch’è ovunque venatura
della compagine che solitaria s’avventura
del coro in bosco d’irriducibili meticci
in tintinnabolo d’inseguite consonanze
e intanto
avanguardia di bontà
disseminate a risalir tra mille rigagnoli di linfa
gemme in ricaccio di senno, fracasso di polloni solidali
e intanto-—– impara
che seppure sempre cede il passo mai non muove a guerra … l’albero
2.
Rapsodia liquida (in tempo di guerra)
di Salvatore Dell’Aquila
———————————A Roma, tuttavia
Io sono lungo un fiume
io sono un fiume limpido e limaccioso
l’angusto mio me stesso da cui vorrei fuggire
maneggiando solo focali estreme
veleggio sui fondali che la mia vita intera
hanno osservato giustificato accolto
fino all’ammainare in questa sera
scorro lungo il Fiume sul quale fluiva
la piena umanità con le sue malattie
la scoria distillata dell’idea del Potere
del possesso la brama dell’abbandono dell’indolenza
argentee trombe Seisettecento scorrono nelle orecchie
favolose da farsi toccare autore esecutore adespoti
il crollo della mischia irreparabile
scorto sotto un cerchio di cielo nella sua inconsistenza
ho anche visto la semplicità di mani che lo stesso
———————————————–[ applaudono
gambe che sciamano tornando alle stanze pomeridiane
bambini che fanno i compiti prevedendo dolci e figurine
il crepuscolo mai giunge a compimento
tuorlo inchiodato all’orizzonte
assiste assorbe tutte le scelte evitate
abbandonate nelle complanari avanzando
nella gola sempre più buia che l’esercito
di vaganti calpesta fiutando odore di sangue
i versi sfumati consegnati alla nebbia dei dormiveglia
sfuggiti per non lasciare il manubrio
stracci d’anima che abbandonati nello scarico
lasciano il sentore d’essere stati importanti
canti sublimi per non essere mai nati
Ti penso e ripenso ai tuoi occhi di luce che brilla da sola
che il buio non spegne
aspettavo senza sapere leggevo ruminavo
i cavalli normanni frangon la biada
ore carenti tiepide serene poi il fortunale
vento che apre e scardina le ombre
il porfido luccica le idee sbiadiscono
cade un dente smagliante in un lavabo
la punta della radice mostra il sangue
vi siete ammirati a lungo trovati del tutto tollerabili
lo specchio sa mentire occorreva saperlo
mettere nel conto la leggenda del morto che cammina
in certi sfondi i caseggiati
si fingono deserti nell’ora ancora incerta
intanto che la strada scende nel parco e lo ferisce
fiorisce il proponimento di confezionarne il verbale
la corsa delle idee e constatazioni
volontà di capire passare a maglia fitta
il fantasma di sé in sella a un ronzinante
che è qui e altrove e quando è solo
raggomitola il filo senza trovarne il capo
vedendosi dall’alto potrebbe chissà decifrare
l’intrico delle traiettorie come avessero un senso
ma a starci dentro il viaggio non ha mèta né principio
dopo la curva occhieggia il precipizio
un alto muro di prigione
Nondimeno l’aria è fresca
l’asfalto splende della nuova pioggia
nel paesaggio s’intersecano esodi di gente mattiniera
domestici con cani anime senza fissa dimora
corridori diversi elastici e pesanti
la città finge un accoglimento cui nessuno crede
allarga le braccia mattutine lascia passare
la buccia millenaria di pachiderma
finge una tolleranza che non sente
strade da impiegati di genti esperte a commerciare
artisti inariditi terziario indifferente pensionati
respingono le ruote e vado a case più basse
semplici architetture dove possa annusare odore di reale
in cerca di qualcosa che si possa vantare
dell’etichetta scarna di non particolare
che sia di gente viva non che lo sia stata
tintinnano nell’aria i finimenti e appare
della bellezza priva d’antichità umile d’intonaco
una chiesa disadorna cinta soltanto dall’opera
di mani utili di partecipazione sorta per essere
quel che occorreva e accontentava
ragazzi donne uomini dalle camicie azzurre
storie e non Storia ché ormai il respiro è corto
Mi guardavi e tacevi perché non esisteva
un concetto che desse una consolazione
tentavo di capire su cosa ragionavi
tu che metti in versi le mie ore
vedevo le correnti al lavoro nel tuo pensiero
augurando che tu trovassi ciò che io non trovavo
che riaffiorassi incolume e respirassi un bacio
che un vento di tempesta spostasse noi di là
nel tempo breve dei nostri occhi serrati
alla piazza barocca alle fontane ai platani dei viali
Bernini e Borromini quanto noi intenti
a fermare la macchina del tempo a scavalcare
il recinto del finito che come il fiume scorre
e nessuna cosa umana riuscirà a fermare
stiamo dunque nel tempo e come fiumi lungo fiumi
andiamo incontro a estuari che non immaginiamo
di fronte al mare che vedo danzare lungo i chiari golfi
raccolgo la negazione di ogni pentimento
pur avendo assai fallito mentito
aggiustato talvolta le scommesse
l’intenzione non affievolisce la violenza del dolo
il giudice non riconoscerà
l’attenuante di ricerca della felicità
L’aria morta trattiene il cuore cessa di battere trasuda
tiepidamente la mente intorpidita tende la mano
senza sfiorare solo attesa resta solo attesa
della mano che prenda la mano e accompagni
sopporti durante la salita e affretti di gioia
la luce che ritorna e rischiarando riveli i lineamenti
controluce il lago chiaro alle spalle di mia madre
un giorno antecedente o sincrono all’esordio
della vita che ancora adesso reggo nelle mani
laghi acqua umori molto di liquido descrive
amore sudore dentro le estati che si susseguono
Orde d’eroi rimasti dentro e al fianco di
questo tragitto in nulla rilevante
tutte di foglio e inchiostro prosciugato
carta assorbente sono stato e sono
regolarmente incerto così da non sapere
se sia reale o immaginata e scritta
questa canzone che di mattina ascolto
sempre più impreparato più irrisolto
seduto al margine di una delle feste
che attraverso distolto dalla gioia scaduta
malgrado mi sia accorto dell’allegria che esiste
tanto attesa quanto inaspettata
come la via persa nel bosco e ritrovata
il conforto ogni giorno del ritorno all’amata
l’espressione bruna di ragazzo a viso aperto
che ombreggia il volto di tuo figlio quando gioca la vita
che ti lancia e che regala al cielo
e piega il collo indietro quando ride
Se finissi di elencare le persone morte
costringessi a tenere lo sguardo fermo avanti
a respirare speranze chiudendo senza scampo in un
——————————————————[ cassetto
rammarichi delusioni assenze
osservassi meglio quei due
che a vederli paiono allegri o lo sono
(ma è nelle pause brevi di silenzio
che risale dal fondo del bicchiere
la posa scura dell’irrealizzato
bruna s’arriccia s’imbastisce e resta
nell’acqua chiara dei loro sorrisi
microscopici gesti poco dopo
dicono quello che non si può dire
scintillano e pur senza alfabeto
la vera storia riescono a narrare)
Nefertiti indugia e molti dubbi
la tengono afferrata al bivio secolare
tra il dovere e il piacere così
guardandola di fronte vedi che grave
considera le cose e le ragiona scovando
alla materia migliori scioglimenti
il cuore batte regolare
ma vista dal profilo destro o sinistro
lascia la briglia lenta alle emozioni
le cavalca lasciandosi portare
il vento impetuoso del corpo e della tenerezza
rompe l’esile brezza della geometria sicura
la ragionevolezza ridotta a sinecura
perché il diaframma s’infranga
sole musica vento riescano a forzare
la carne tremi esulti dando infine argomento
alla vita risposta alle domande oscure
ché il tamburo del cuore traduca
il mistero dei giorni in bianche aurore
Passaggi di stato tanto repentini
non lasciano che il cuore nello sguardo
possa seguirne l’onda alta che travolge l’affanno
fanno ruvido sotto le scarpe il suolo
si sente lo stridìo il respiro pesante
l’ansia del salire ma la discesa
al ciclista consumato è volo
il vento strina le tempie e crea tepore
dal solido al gassoso è un paradiso
ma il trasloco contrario moltiplica
alla schiena le atmosfere
la danza è tanto colorata e vivaci le vesti
che il rimpianto compare prima ancora
dei baci di saluto e il fumo grigio suo
prima sottile sale s’addensa si fa pece
aspettandosi pioggia pellegrinando infine
alle finestre del retro della vecchia casa
supponendo le nuove vite che le alitano i vetri
esasperando la domanda se possa un uomo
essere sciocco da sentire la mancanza
del dispiacere di chi ama mentre le melagrane
si occupano soltanto di essere sospese
di oscillare al vento ignare delle proprie radici
né domande né affanno di fallire
di non saper farti sorridere ché questo
è il mio mestiere per ascoltare dalle labbra
e dagli occhi scrosci di perle lucide
la luce arrotolarsi nel cristallo del bicchiere
Scruto rimugino rimbalzo
sulla crosta dell’arancia blu
Sykaos di ricordo Oitariano
la pianta del piede recepisce
la vibrazione della sciagura che grava
droni volano invisibili e catalogano itinerari umani
disumani colpiscono arrestano le pulsazioni
di cuori che automatici vivevano e speravano
al Raqqa o l’Île de la Cité buoni o cattivi
(solo Dio sa ché è grande) il fuoco dell’inferno
teleguidato o impresa d’esplosione umana
brucia e gasifica le realtà ed è guerra
in piazze teatri televisori
futuri inconsistenti negati da strofinìo di moneta
la via della seta sostituita da topografie di sangue
eserciti di respiri in fuga affidati al mare
bambini con scarpe da casa sprofondare
a un metro dalla mèta
per sempre come palloni perduti in mezzo ai rovi
sfuggiti alle madri che confidavano solo nella fuga
volati in alto nell’ardesia del cielo
Allinearsi in battaglia è l’occorrenza
tra le linee si muore
l’aria mefitica è la tua vita
dal lato tuo della rete è quanto ami
3.
Guerre
di Francesco Di Stefano
Er Celo a pecoroni
So’ come le cerase queste guere
che si n’assaggi una più ne magni
così che a girà er monno in tante tere
s’ammazzeno fratelli co compagni.
St’orore te scavarca le frontiere
che sempre ‘n po’ t’encazzi e ‘n po’ ce piagni
vedenno strazzi de perzone vere
legate pe le mani e a li carcagni.
Nun ostante er progresso è annato avanti
so’ sempre uguali ste crocifissioni,
da li tempi più antichi e distanti
fino a oggi so’ lunghe processioni.
A ribbollisse quaggiù semo in tanti
mentre er Celo sta zitto a pecoroni.
Er monumento che nun c’è
S’io fussi propio un mago d’architetto,
t’innarzerebbe ar celo un monumento
come nun s’è mai visto in un proggetto
co più de mille colonne de vento
legate inzieme dar continuo getto
de li raggi der zole coll’intento
de formaje na cuppola pe tetto
Allora sarei l’omo più contento
nell’entrà in que le mura splennenti
fatte d’aria e d’aurore boreali
e sentì ‘n coro d’agnoli ridenti
che canteno co voci celestiali
a onore de li martiri innocenti
ch’en guera effetti so’ collaterali.
Un battito d’ali
Si un battito d’ali de farfalla
in Brasile te forma un fortunale
in Florida capace de concialla
come doppo er Diluvio Univerzale,
li gridi de dolore de Ramalla,
der Tibbette, d’Iracche e in generale
dell’Africa, dovrebbero da falla
sprofonnà nel’inferno più abbissale
tutta sta Tera in mano a gente infame.
Ma invece er Padreterno e la Natura
se scajeno addosso a chi cià fame
mannannoje pe premio na sciagura
o tolleranno che in quarche reame
s’enzedi na feroce dittatura.
Peccato origginale
Che ce potemo fa’? Semo impotenti
si doppo un sacco d’anni in Palestina
c’è ancora n’antra stragge d’innocenti
che manco Erode uguale la combina.
Stanno a guardà da sempre li Potenti
che co le mani dietro de la schina
mai t’hanno smosso paja ch’antrimenti
da mo ch’era finita sta ruvina.
De resto nun ce so’ interessi in gioco.
Pell’Usa nun c’è odore de benzina,
l’Europa de ventotto conta poco,
la Russia sta impicciata in Ucraina
‘ndo’ c’è chi a n’aroplano ha fatto foco.
Ciavemo tutti l’anima assassina.
Tera Santa
Lo scontro fra Isdraele e Palestina,
ch’enfiamma tutta quanta la Reggione,
nun è certo un probbrema de dottrina
benzì de spazzio a disposizzione.
E nun ce vò na mente sopraffina
pe fassene de questo na raggione
perché basta conzurtà na cartina
e carcolà quant’è la variazzione
de tera ch’è finita come gnente
da na parte a quell’antra a mano a mano.
Mentre er monno se ne frega artamente
là c’è’n popolo che sarà sovrano
si l’area che je resta finarmente
misura come a Roma er Vaticano.
Tutti zitti
Li curdi come li palestinesi
so’ un popolo de pori disgrazziati
che de cazzotti e carci n’hanno presi
e che nissuno certo j’ha scontati.
Je dànno addosso un sacco de paesi
pe tenelli da sempre confinati
e che cor gasse a vorte l’hanno stesi
rischianno de finicce sterminati.
Ce sta n’accordo mo dell’urtim’ora
de americani inzieme co la Nato
pe tollerà li turchi a falli fora
si vanno puro contro ar Califfato.
E nun c’è n’omo che se n’addolora
né manco che na voce cià sprecato.
C’è prepotente e prepotente
Seconno li servizzi americani
bombardà bisognava l’iracheni
e puro a que li cazzo d’affegani
se doveva spezzaje un po’ li reni.
Siccome je rodeveno le mani
in Libbia ce so’ iti senza freni
e mgara fra poco li siriani
saranno ner mirino de sti geni
com’è già capitato a li Barcani.
È sempre svejo e pronto l’Occidente
a sguinzajà la muta de li cani
pe mozzicà le chiappe an prepotente.
Ma pe la Palestina quer domani
ner calendario nun ce sta pe gnente.
Er gran casino
L’avemo visto quer che l’Occidente
in Libbia e nell’Iracche ha combinato
intervenenno assai pesantemente!
Saddamme co Gheddafi ha sotterato
lassanno come erede prepotente
quell’Isis che proclama er Califfato
e ch’ariverza in fuga tanta gente
sur Vecchio Continente impreparato.
P’aricucì sto sgaro a tutto spiano
nun trova gnente più d’origginale
che n’antro po’ de bombe d’aroplano.
Ma mo le cose stanno propio male
ché co la Russia ar fronte in primo piano
er rischio è che la guera viè globbale.
4.
La guerra delle Nazioni
di Lucio Mayoor Tosi
Le Nazioni si dividono in macchine pesanti e macchine leggere. Le macchine pesanti consumano Più delle Altre; Quelle leggere consumano poco, vivono di niente, camminano nell’etere e non sprecano Un colpo.
La guerra pesante distrugge tutto Quel che incontra, PERSONE Cose o alberi non ha importanza; la guerra leggera solo le persone, Che Siano donne Uomini o bambini non ha importanza. Chi uccide non ha futuro, chi uccide non ha Passato.
Il presente è saliva e respiro, Il presente è agonia. Così non Si Può Andare avanti. Chi Crede Nella morte Avrà il Suo paradiso, chi non Crede alla morte Vedrà la terra.
Arjuna Pensò “E’ un mondo di pazzi”, ma non lo Disse.
5.
In tempo di guerra: tre poesie di Eleanor Wilner
di Fiorenza Mormile
All’epoca, la chiamavamo “La Guerra”
E pure se da allora ho letto molti libri,
seguito la traccia di fumo di infiniti pensieri
saliti dalle librerie in fiamme;
pure se ho indagato nelle rovine di varie città,
nelle scritte sui muri crollati,
nello sguardo fisso dei crani nei campi di sterminio,
in luoghi aperti e nascosti:
ciononostante, io non capisco.
Perché, pure se da bambina guardavo i notiziari srotolarsi
al cinema: il fumo e i cannoni, l’esaltante musica sinfonica
che rimescolava il sangue, le legioni in bianco-e-nero in marcia
nel filmato, il bagliore improvviso dell’artiglieria antiaerea, i piccoli aeroplani avvitarsi
in lente spirali precipitando in fiamme, i bombardieri
dal ventre carico aprire i portelli, e le bombe cadere,
e dove ciascuna cadeva, alzarsi una colonna di fuoco; e pure se
la voce fuori campo era virile e sicura di sé, le notizie
sempre buone, noi stavamo vincendo, stavamo senza dubbio vincendo,
e tutti erano così orgogliosi, e facevano scorta di scatolette, e andavano avanti senza
calze di nylon, gomme da masticare e burro, e si assembravano intorno a radio
che parlavano sottovoce come in un luogo sacro:
ciononostante io non capivo.
E pure se, da allora, ho seguito la pista di Freud, e quella di Adler,
rintracciato cattivi genitori, batteri, la coltura che marcisce nella piastra di Petri,
seguito Nietzsche fino al coltello nella mano di Raskolnikov, visto
con Pip il piede di Dio sul pedale del telaio, guardato capre leccare
la colonna di sale che è l’intera storia del dolore; pure se
ho seguito Socrate dentro le terme di Atene, osservato
come beveva il veleno che la certezza decreta al dubbio;
pure se ho visto 10.000 Iago esercitare l’abile commercio
del tradimento; pure se ho guardato nel mio cuore,
trovandomi non migliore dei più, e peggiore di molti,
ciononostante, io non capisco.
Perché oggi, quando seguo i segnali di angoscia
fino alla loro fonte, vedo solo persone in lutto
piangere nel cimitero che abbiamo reso
quella che un tempo era casa loro.
E giocare tra le macerie, una bambina
che non capirà mai, che
ciononostante
sta raccogliendo pietra dopo pietra,
e cerca di riattaccarle insieme.
Sindrome da Spopolamento degli Alveari (SSA)
… nel declino della salute delle api … l’interazione tra pesticidi, malattie, acari varroa e il virus israeliano della paralisi acuta (IAPV) recentemente identificato sono probabili concause.
L’unica cosa certa è che ci svegliammo
la mattina dopo (era un sogno?) allo
stesso ronzio, mentre i bombardieri volavano,
denominati con una A, una B o una F, più un numero –
———————————————come se le lettere
dell’alfabeto sacro e i numeri arabi
(tanto più adatti a misurare le stelle
e i moti giocosi della materia
dei rozzi numeri romani, sebbene
fossero perfetti da incidere sulle fondamenta) –
———————————————–come se questi segni
somigliassero a locuste che, una volta liberate dal guscio,
sillabavano solo morte, la distruzione del grano…
davvero, non possiamo dire niente di più preciso
al momento (sarà stato un sogno) – per un’ora
tornammo bambini, i cuori
così in alto – come esultammo
—————————————quasi a sommergere
il lamento, il gracchiare dei corvi, il suono
orfano del vento che soffiava sulle mura in rovina,
gli F-16 che continuavano le loro incursioni,
e i ronzii dall’arnia ammalata …
quando vengono gli apicoltori per accudire le api
in primavera, gli alveari sono collassati,
le api morte ruzzolano fuori come pedine di
un vecchio gioco, il favo disseccato si sgretola
al tocco, niente più latte e miele …
nei solchi dei tronchi spezzati, l’uliveto
(cosa pensavamo?) abbattuto, il ronzio,
ora un vento più forte tra gli alberi
spettrali – api morte
nei fiori fosforescenti
gettati in una tomba aperta.
La ragazza con le api nei capelli
arrivò in una busta senza mittente;
era minuta, portava un vestito stropicciato di cotone
fantasia, lungo fino ai piedi, con un bottone
d’osso alla gola, un colletto di pizzo lacero.
Era ferma davanti a una casa maestosa
come se ne vedono in certi film inglesi:
urne, viali curvi, leoni di pietra, e un’entrata
troppo grande per qualunque casa. Non era del posto,
perché aveva un’aria forestiera, e capelli neri arruffati
e un medaglione, pesante e strano, che pendeva da
un’enorme catena attorno al collo, sembrava che
un uomo alto se la fosse levata dal suo,
e l’avesse appeso là come un amuleto per proteggerla
da un mondo infinitamente malvagio che presto
l’avrebbe allontanato da lei, lasciandola
là, come ora – scalza, lo sguardo
perso nel vuoto, lontano
dalla grandiosità della casa, i suoi sentieri
di ghiaia e i giardini scolpiti. Portava un cesto
pieno di fiamme, ma se di fuoco o di fiori
dai petali cremisi che sfumavano verso un centro d’oro,
era difficile dire – anche se certo, bruciava,
e la luce all’interno non aveva altro posto
dove andare, e così si nutriva di se stessa, intensificando il suo bagliore
rosso acceso, l’unico colore della scena.
Il resto era in toni di grigio, luci ed ombre
si alternavano lungo il vestito, sul viso,
e fra i suoi capelli di mezzanotte, brulicanti di api.
Dapprima sembravano solo macchie d’ombra vaganti,
finché il ronzio si fece troppo forte per essere negato
quando le api presero a volare dentro e fuori, come eseguendo
una danza campestre tra i campi di sole
e il nero groviglio dei capelli.
————————————–Senza preavviso
una finestra ai piani alti si spalancò –
il vento aveva afferrato l’imposta, una lunga tenda di seta
si gonfiò come una vela al vento – le api
cominciarono a uscire fuori dai capelli, dirette
all’unica apertura sull’alta facciata. Dentro,
un attimo dopo – il suono di urla.
La ragazza – che in tutto questo era sembrata
indifferente – a un tratto guardò in su.
Scosse la testa, liberando la massa di capelli
dal peso delle api, e se ne andò,
fuori dalla cornice, ben oltre
i confini della busta che aveva portato qui la sua
immagine – qui dove ora si allungano i giorni,
l’aria comincia a scaldarsi, il terrore diventa
paura in mezzo a noi, e le api sciamano.
6.
Anatomia del massacro
di Giovanna Zunica
Dov’è Ibrahim?
La testa
ricoperta di polvere e cenere
non ha più il collo, e gli occhi
hanno sbarrato la porta al nemico,
l’ultimo che hanno visto.
Dov’è Asiya?
Il braccio,
sinistro, è decorato
di rosso cupo in rivoli,
e terra in grumi, il dito puntato
verso l’ultimo nemico.
Gli occhi neri dei vivi
spalancati o socchiusi nel pianto
non hanno tregua.
Ahmed, seduto in terra,
tra rovine di corpi,
chiama Asiya, e Ibrahim,
Asiya, e Ibrahim,
e non ha pace.
7.
luce che declina
di Annamaria Ferramosca
non vedo più il cammino
brancolo sul mio profilo
non mi riconosco
non ti riconosco
arrivi a me dal mare
senza giustizia né perdono
approdi in un recinto dove
tuo figlio non riesce a giocare
ha negli occhi domande raggrumate
e il pianto del ritorno
padre perché questa rete
padre voglio tornare
non m’importa morire
per fame o guerra se qui
più feroce della morte è l’indifferenza
coltelli sulle gole ancora e
furia suicida
dileguano le vie del sogno
fermano il gesto semplice assoluto
scrivere su scie di pensiero
lasciare immagini di nuova bellezza
nuove inimmaginabili condivisioni
(lasciavamo graffiti sulle rocce
i nostri cerchi i fuochi le impronte di mille mani )
scrivere ora è per un ultimo grido
prima del nuovo diluvio¬
respiro cenere
piove dal cielo
dove va in fumo l’uomo
piove dal suo fumo
cenere di boschi e d’anima
piove insistente l’errore
luce che declina
Non credo che questa poesia basti a smuovere nessuno, come non credo che l’esàlogo che aggiungo apra luci di speranza. Sì, resto pessimista. Ma vorrei che qualche consiglio-lume, sia pure espresso in rozza semplicità, resti come minimo stimolo di riflessione e come testimonianza di pensiero. Grazie per comunicarlo.
Roma, 10 gennaio 2016
Contro la tendenza dell’ homo insipiens insipiens all’autoestinzione
Esàlogo per rinsavire:
1-abolire i conflitti armati
(sostituirli con arbitrati internazionali)
2- contrastare la fame e la povertà
(creare reti collaborative internazionali solidali per lo sviluppo di ogni paese )
3- ridistribuire ricchezze per uno sviluppo sostenibile a livello planetario
(ridurre o fermare il livello di benessere dei paesi ricchi)
4 isolare potentati , lobbies e governi non collaborativi con azioni non violente
(far crescere e lasciar agire la pressione dell’opinione e volontà collettiva internazionale)
5- fermare l’inquinamento del pianeta
(firmare accordi internazionali per l’uso di tecnologie non inquinanti)
6- istituire tavolo supremo di discussione per ogni tema e contesa
8.
(regole chiedo per il più crudele dei giochi
di Marcella Corsi
——————–dovunque sotto un cielo infinito
—————-finitissimi uomini tramano di morte
Che rifletta il cielo questo liscio chiaro continuo
raccogliere d’acque d‘ uccelli che rifletta le molte
ragioni della nostra stupidità guerresca, codardìa
d’impegni continuativi
non escluso lo sguardo che viene portato sui popoli
spesso poco capace di coglierne le reazioni differenziate
o la diversità in termini di categorie conoscitive
in definitiva la piena umanità. E’ in buona parte
uno sguardo etnocentrico che risente dell’immagine
angusta che l’occidente ha del mondo arabo odierno.
Vittima illustre della guerra sembra essere per prima
la verità della guerra, ridotta a numero a questione
di tecnologia. Nei suoi effetti reali essa rischierebbe
di rendere il conflitto socialmente inaccettabile
e questo, in paesi dove il consenso è alla base
del perpetuarsi delle classi dirigenti, finisce per
togliere ai cittadini la condizione prima del loro
potere di condizionare chi li governa. Coinvolta
emotivamente ma non resa veritieramente partecipe,
l’opinione pubblica non è più in grado di esercitare
sugli avvenimenti politici quell’attenzione critica
quella pressione che questi meriterebbero…
Che rifletta il cielo lo sguardo di chi guarda
*
(regole chiedo per il più crudele dei giochi
anche la guerra abbia almeno leggi, vorrei gridare
mentre un re in maschera
recita la sua parte e chi la legge dello Stato
ha condannato all’ergastolo viene dallo Stato uccisa)
Di questa morte che da giorni mi brucia
nelle sue sordide sbarre – e l’arancio non ha più
la sua luce – quel che forse maggiormente
morde confonde atterra
è il pensiero che di lei hanno concepito – la sua vita
da subito disprezzata usata per
morendo dare morte e giocata in una partita
dall’inizio truccata, asso lei di uno scambio del tutto
impossibile – e il successo ottenuto
nel far derogare dal più chiaro degli imperativi di civiltà
(portato fino in fondo il disprezzo della donna è loro
ma il gioco in rete per decidere in quale arancio
uccidere è tutto nostro
[6 febbraio 2015/ dopo l’uccisione del pilota giordano da parte dell’ISIS – il modo della sua morte deciso in rete – e quella della donna che, fallito un attentato suicida, scontava l’ergastolo nelle carceri giordane]
*
del tutto arresa all’odio la mente
rimane abbracciata al tuo corpo
adolescente, immaginato
di vivi colori avvolto, sicuro
nel passo – il piede che frequente
si scalza, il capo che frequente si china –
non t’inchinasti però all’abuso
che di te per mesi fu fatto, osasti il no
donna finalmente, tu più di quella
che vide la tua morte per fuoco e
non poté, né potranno forse le molte
che chiedono per te giustizia e per le altre
pagherà il tuo assassino una colpa
per cultura e per legge destituita di peso?
Donne, diamoci corpo comune
diamoci peso diamoci forte pensiero…
(ora del tutto arresa all’odio la mente
rimane abbracciata al tuo corpo
agonizzante
.
[ 11 maggio 2015/ ieri una quindicenne indiana, che subiva stupri da mesi, si è rifiutata al suo stupratore e per questo è stata cosparsa di benzina e bruciata viva. Questo è accaduto davanti alla moglie dell’uomo. In tutta l’India le donne scendono in piazza a chiedere giustizia non discriminatoria nei loro confronti]
*
diceva la poesia è la lingua del mio dolore
– è pure credo la lingua del ricercare più duro
dell’inaudito desiderare e inaspettato e immondo
dell’intuito profondo o a fior di pelle avvertimento
del farsi terra e cielo e trasparente anima del mare
soffrire del volo prendere peso ridere nella terra
quando mai un uomo ha riso dentro la terra?
diceva, forse voleva risposte non facili
“Il sonno della ragione genera mostri”
E’ di Francisco Goya, 1797, epoca del nascente illuminismo.
Goya non parlava della guerra, bensì dell’inquietudine (oggi si direbbe dell’inconscio).
Lo spiega lo stesso Goya: « La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie »
Perché tirare in ballo Goya se non c’entra nulla?
Dico solo questo:
Nessuna guerra è mai stata fatta in nome della poesia. Di poesia non è mai morto nessuno. Ma in nome della ragione quante guerre si son fatte di guerre, e ancora se ne fanno?
Stiamo ancora all’illuminismo?
Lo dico senza mezzi termini: potremmo scrivere poesie di gran lunga più efficaci se solo scegliessimo da che parte stare.
Ma ai poeti, come d’altronde alla gente, gli va di schierarsi da una parte o dall’altra?
A mio parere sarebbe più utile discutere di forme, fattibilità e finalità del pacifismo.
Majakóvskij seppe scrivere con parole chiare e forti perché sapeva da che parte stare. Majakóvskij era contro, era in guerra. Era per il comunismo. Ma un’idea su cosa fosse il comunismo ce l’aveva.
Essere pacifisti è scegliere uno schieramento, che è quel che serve per poter scrivere poesie chiare, utili, socialmente impegnate. E’ essere contro la guerra, per la pace. Ma noi sappiamo cosa sia la pace? Ne abbiamo una qualche idea oppure siamo assuefatti alla guerra al punto da sentirci paralizzati e non capirci più nulla?
Ennio scrive: «disagio di fronte a questo venir meno del senso tragico della storia». Io toglierei il termine “tragico” perché la “modernità” ha portato a un affievolirsi del “senso della storia” nel suo insieme.
La storia è piena di guerra e di poesia che parla di guerra. Dai testi più antichi, di quasi tremila anni fa, ad oggi, la guerra è stato uno dei temi principali della poesia. La poesia ha incitato alla guerra, ha esecrato la guerra, ha santificato gli eroi di guerra, ha pianto i morti in guerra ecc. ecc. In genere, di questa marea di versi, oggi se ne ricorda meno dell’uno su diecimila. Una infima parte. E questa infima parte non la si ricorda perché parla di guerra, ma perché con la sua bellezza, con la sua verità, tragica o comica (ma forse ha ragione chi dice che il comico è una radicalizzazione del tragico), è capace di dirci ancora qualcosa, e questo qualcosa che ci dice non rientra nel tema della guerra, ma nel tema dell’esistenza dell’uomo e delle sue radici.
Fra queste radici c’è anche la guerra; l’istinto di aggressività. Poi la guerra, di volta in volta, ha anche delle proprie e specifiche ragioni contingenti. Ma se l’istinto di aggressività fosse inferiore, le ragioni contingenti (espansione territoriale, conquista di materie prime, supremazia commerciale, e così via) probabilmente non sarebbero sufficienti a trasformare il conflitto in guerra senza quartiere. L’uomo si fermerebbe prima.
Molti hanno per secoli, e ancora oggi, addirittura considerato la guerra una necessità, un elemento vitale, e persino un’avventura affascinante adatta ai veri uomini e un divertimento. Perversioni umane? Forse. Ma intanto è così.
L’uomo è diviso fra l’inclinazione alla guerra e quella alla pace. Nessuno è mai del tutto pacifico o del tutto bellicoso.
Sono sempre state poche le voci che considerano la pace la condizione normale e la guerra una condizione eccezionale. Il primo a teorizzare la faccenda (dopo le illuminazioni religiose, ma solo di alcune religioni, non di tutte, perché i testi “sacri” contengono spesso incitazioni alla guerra) è stato, probabilmente, Kant, che propone di rovesciare la tradizione e quindi di considerare la pace, e non la guerra, come condizione naturale dell’uomo, e la guerra, non la pace, come pausa, interruzione, eccezionale della condizione naturale.
Sono pertanto convinto che la posizione di Ennio dovrebbe essere rovesciata: la poesia non dovrebbe parlare di guerra, nemmeno per condannarla. Non dovrebbe in nessun modo farsi complice di questa lunga tradizione di cultura di guerra. E se proprio l’ispirazione del poeta lo portasse a parlare di guerra, sarebbe meglio che esprimesse il senso tragico della pace, anziché quello della guerra. Che parlasse della pace, dei brandelli di pace, che si possono avere anche in guerra. Che scrivesse proprio versi elegiaci, dolci, speranzosi, consolatori. Così come, a un amico in lutto per la perdita di una persona amata, si cerca di parlare con frasi che aiutino a elaborare il lutto, non con frasi per renderlo più acerbo. E l’umanità in guerra non ci rende tutti in lutto?
A me piace anche la poesia d’occasione, a tema. Ma preferisco scriverne per occasioni conviviali e festose, non per la guerra. Per la guerra basta e avanza la prosa, saggistica, analitica, giornalistica.
Forse è per questo che tutte le poesie pubblicate in questa lunga (e interessante, ma soprattutto per gli spunti in contrario che fornisce) puntata di Poliscritture, mi risultano così noiose, illeggibili, spesso peggiori, anche in senso estetico, di tanti articoli che leggo tutti i giorni sui quotidiani. A eccezione, devo dirlo, delle poesie in romanesco. Ma forse perché, con lo scherzo, con la rima, col dialetto risultano più divertenti e consolatorie? E se anche così fosse, che c’è di male? Perché mai il lettore di poesia dovrebbe essere un masochista che subisce le stanche prove prosaiche di poeti sadici?
Il modo migliore di contribuire alla pace non è quello di preparare la guerra, secondo l’antico aforisma, ma di vivere la pace, di tenere a freno e ridurre al minimo la propria inclinazione alla guerra. Comprese le guerre cosiddette giuste e quelle cosiddette rivoluzionarie, di liberazione e via massacrando. La non violenza ha spesso in sé un’energia più forte della guerra.
Apprezzo anche le poesie che parlano di guerra, quando sono davvero ispirate e nascono dall’amore per la pace. Ma sono fiori rari che non fioriscono nelle aiuole tematiche e programmatiche, nelle aiuole del dovere o in quelle della militanza per partito preso. Ricordo che negli anni Settanta girava un’antologia di poesie di poeti/guerrieri palestinesi, esaltate da certi critici italiani, e da molti lettori (o finti lettori), come vera poesia. Ma si trattava perlopiù di pistolotti propagandistici malamente messi in versi, i quali, passata la moda, nessuno ha più ripreso in mano. E lo stesso destino è toccato e toccherà a simili antologie. Ne sono state fatte in molte occasioni anche nel corso dei secoli passati, almeno dal Seicento in poi. Oggi sono solo reperti per studiosi specialisti.
Insomma, l’ispirazione, se non c’è non c’è. Ed è bene che, per la guerra, non ci sia. Per chi ama la pace è più coerente non scrivere di guerra in quello spazio specifico e così radicalmente personale e legato all’io che è la poesia. Ne scriva in prosa, con articoli e saggi, se ha qualcosa di interessante e nuovo da dire che possa contribuire a combatterla. Sia militante della pace, e militante coerente, se vuole la pace.
La poesia, dico, è legata all'”io”, non al “noi”. Può capitare che qualche poeta senta il proprio “io” come un “noi” e il “noi” come il proprio “io”. È un caso raro, che però conferma la regola. Non scrive in quanto “noi”, ma in quanto “io”, sebbene lo senta come un “noi”.
Ebbene, in questo spazio personale non voglio che entri il mio nemico, la guerra. Ne difenderò i confini praticando e pensando la pace, e agendo per superare, nei limiti in cui mi è possibile, anche le altre tragedie umane che, anche nella pace, affliggono l’uomo. E anche di queste è piena la poesia: malattie, vecchiaia, morte, ricerca del senso della vita ecc. Ciò vuol dire indifferenza? Vuol dire rimuovere il tragico, vuol dire non avere il senso tragico della storia? No, vuole semplicemente dire che il senso tragico deve uscire dai propri confini, superarsi, e farsi comprensione e speranza. Ed anche azione, ma azione che corrobori la pace, non che rimastichi pensieri di guerra.
Altrimenti, il senso tragico diventa una prigione che annichilisce, o un sentimento che affascina, o una moda che si vive con finta poesia e vero cinismo, o altro ancora.
Concludo con questa riflessione: lasciamo il tema della guerra ai grandi, ai grandissimi poeti, che anche quando l’esaltano, riescono in qualche modo a trasmetterci un messaggio di pace (effetto Omero o, vista la citazioni qui ricorrente, effetto Leopardi della – non bellissima, anzi – canzone “All’Italia”). Chi invece frequenta la poesia con più umiltà scriva piuttosto versi che suscitino sentimenti di pace, magari anche in tono scherzoso e conviviale. Condivida la poesia quotidiana che la vita ci offre, anche nelle situazioni più tragiche (avete notato che molte poesie uscite dai lager non parlano di guerra, ma di sentimenti quotidiani di pace come se gli autori vivessero in tutt’altra condizione? Così facendo, hanno espresso il più radicale rifiuto dell’infamia subita, che nessuna parola diretta avrebbe potuto esprimere meglio).
1) Errata corrige: mi è sfuggito un «ha toccato» che va corretto in «è toccato».
2) Nel sonetto «Er celo a pecoroni» di Francesco Di Stefano il verso 11 è ipometrico e fuori ritmo: «da li tempi più antichi e distanti». Credo che ci sia un refuso di stampa e che il verso si debba integrare in «da li tempi più antichi e più distanti» o in altro modo equivalente.
3) Per curiosità, ho fatto una «anteprima di stampa» di questa puntata di Poliscritture: sono oltre 50 cartelle piuttosto fitte.
1. Ho corretto;
2. Nell’originale c’è:«da li tempi più antichi e distanti»;
3. Sì, nell’introduzione ho avvertito: “questo post è… fluviale”, proprio per documentare le varie e spesso contrastanti posizioni.
…penso che la poesia sia un’esperienza artistica, ma soprattutto umana, e, come tale, copre un ventaglio molto ampio di possibilità tematiche ed espressive, che variano, da soggetto a soggetto, in base a esperienze di vita, sensibilità, e a scelte di pensiero e di azione…Situazioni che ci avvicinano all’esperienza della guerra sono vissute anche in società apparentemente pacifiche come la nostra, attraverso l’emarginazione, la miseria, la immigrazione e suscitano reazioni o comunque un coinvolgimento tale da poter (dover) essere espresso in poesia…In qualche modo però bisogna aver “vissuto” la guerra sulla propria pelle, sentita nel suo orrore come esperienza personale o anche come pensiero che si ribella alla peggiore di tutte le ingiustizie: decisa sempre dall’alto, compresa quella così detta “umanitaria” ( a proposito, non si è mai ricorso all’uso del referendum!), decide della sorte di milioni di persone…Tuttavia le forme espressive della poesia sul tema della guerra possono variare molto e la loro efficacia può dipendere solo dalla forte convinzione di pensiero ed emotiva, che i versi sanno sprigionare…Non si possono stabilire paletti o regole: Brecht, Celan, Fortini sono riusciti nell’intento attraverso modalità diverse…Anche la poesia che affronta i temi prettamente pacifici giova alla causa, in quanto vede oltre l’orrore della guerra (la peggiore delle ingiustizie ma forse anche delle malattie di cui soffre l’essere umano) la natura umana nel segno della speranza…
APPUNTO 1
@ Mayoor
« Nessuna guerra è mai stata fatta in nome della poesia. Di poesia non è mai morto nessuno. Ma in nome della ragione quante guerre si son fatte di guerre, e ancora se ne fanno?
Stiamo ancora all’illuminismo?»
Ma spesso anche la poesia si è fatta portavoce della guerra, da Bertran de Born (http://samottafile.altervista.org/file/Bertran_de_Born_Il_piacere_della_guerra.pdf) a Marinetti e il codazzo futurista.
Guerre «in nome della ragione»? Non mi pare. Ho in mente le critiche alle guerre di Erasmo da Rotterdam, di Voltaire, di Romain Rolland…La valorizzazione dell’aggressività e della guerra («igiene dei popoli») è venuta sempre dalle correnti *irrazionaliste*:
« La guerra è un tema che ha una rilevanza particolare nell’immaginario futurista. Una rilevanza concreta perché i futuristi non si limitarono ad esaltare la guerra a parole, ma presero parte attivamente alla prima guerra mondiale. La guerra si presenta per loro come lo sbocco emblematico della conflittualità naturale che permea il mondo. Se tutta la vita è lotta, rischio, se i futuristi amano le sommosse e le rivolte che scuotono il vecchio ordine, per loro la guerra, scontro massiccio, collettivo, è il momento culminante di un dinamismo innovativo che investe e travolge interi popoli e civiltà. Le attribuiscono il potere di rinnovare radicalmente la storia e l’uomo, in modo quasi taumaturgico. Come già enunciato nel manifesto di fondazione del 1910: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo…” E quattro anni dopo, più esplicitamente: “La Guerra […] è una legge della vita. Vita = aggressione. Pace universale = decrepitezza e agonia delle razze. […] Soltanto la guerra sa svecchiare, accelerare, aguzzare l’intelligenza umana, alleggerire ed aerare i nervi…”, dice Marinetti nel manifesto “In quest’anno futurista” indirizzato agli “studenti d’Italia” e datato 29 settembre 1914, ripubblicato l’anno dopo nel volumetto Guerra sola igiene del mondo (Edizioni Futuriste di “Poesia”, Milano).
Per i futuristi la guerra, come legge profonda della vita, è anche festa, esuberanza vitale, profusione salutare di energie. Qui si situa l’attività interventista e l’adesione convinta alle guerre che scoppiano in quegli anni .
Quanto all’interventismo, in una prospettiva d’innovazione della società, i futuristi lo condividevano con gran parte della più inquieta giovane generazione europea; e in questo si trovavano sul medesimo versante della pur minoritaria posizione leninista, convinta della possibilità di trasformare la guerra imperialista in guerra civile contro la borghesia.
Questo e’ uno dei punti fondamentali di ambiguita` del futurismo. Infatti il rinnovamento sociale che i futuristi si augurano non è necessariamente quello auspicato dai rivoluzionari marxisti, ai quali comunque li unisce la radicalità e l’uso deliberato della violenza. I rivoluzionari perseguono la giustizia sociale, mentre il rinnovamento cui aspirano i futuristi è innanzitutto di natura estetica (“canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne”), movimento fine a se stesso, indipendentemente dai contenuti. “Noi affermiamo (…) come principio assoluto del Futurismo il divenire continuo e l’indefinito progredire, fisiologico ed intellettuale dell’uomo.” (Guerra sola igiene del mondo,cit.)
Il fatto stesso di porre su uno stesso piano, nel Manifesto del futurismo,” le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa” mostra che quello che sta più a cuore al futurismo è il dinamismo in quanto tale. Se le folle scendono in piazza per scontrarsi con la polizia o si scatenano nelle sale da ballo, da un punto di vista futurista in prima approssimazione è equivalente.
Così se i futuristi possono apprezzare tanto le guerre come le rivoluzioni, per il violento impulso che esse imprimono alla storia, i marxisti invece giudicano i diversi movimenti politici in funzione degli obiettivi proposti.
Il futurismo poté quindi avere esiti politicamente opposti in Russia e in Italia, saldandosi in un caso alle correnti più radicali di rinnovamento dal basso della società, nell’altro confluendo invece sulle posizioni del fascismo, anzi contribuendo a determinarlo.
Vedremo poi più approfonditamente come si articola la differenza tra punto di vista futurista e punto di vista marxista, in relazione alla guerra e allo scontro politico in generale.»
(http://chimera.roma1.infn.it/GIORGIO/futurismo/parole.html)
Davvero mal posta la domanda «Stiamo ancora all’illuminismo?». Nella storia nessun punto alto o risultato di civiltà è mai garantito. Non c’è progresso lineare. C’è contemporaneità contraddittoria di vari modi di vivere, pensare, produrre e riprodurre la vita sociale.
Il punto (per me) rilevante del mio commento verteva sul fatto che per scrivere poesie sulla guerra, o su temi sociali e politici, bisogna schierarsi per qualcosa o contro qualcosa. E ho fatto l’esempio di Majakóvskij.
Alcuni poeti futuristi erano interventisti: l’innegabile forza espressiva di Zang Tumb Tumb è dovuta alla scelta ben precisa di Marinetti.
Schierati, scegli dove stare, non vendere fumo e parla chiaro. E’ un principio, una considerazione. Che avrei mai detto di tanto strano o errato? Che significa ‘sta filippica sul Marinetti, mica son fascista o un fanatico della morte…
Hai fatto bene a chiarire, almeno per quello che avevo capito io. Prima scegliere dove stare poi non vendere fumo.
Io sarei felice se Ennio scrivesse da comunista, vere poesie comuniste. Giuro, le difenderei contro tutto e tutti. Oh, se andasse oltre i dubbi ragionanti dello stesso Fortini… che aspetta, la moltitudine? Ma i poeti sono sempre soli, hanno coraggio da vendere!
Ho la sensazione -ma una sensazione è cosa vaga, astratta…- che ci si stia preparando alla guerra. Con scongiuri apotropaici: noi siamo poeti e ci occupiamo solo di cose di poesia “Nessuna guerra è mai stata fatta in nome della poesia. Di poesia non è mai morto nessuno”, Mayoor; “con la sua bellezza, con la sua verità, tragica o comica (ma forse ha ragione chi dice che il comico è una radicalizzazione del tragico), è capace di dirci ancora qualcosa, e questo qualcosa che ci dice non rientra nel tema della guerra, ma nel tema dell’esistenza dell’uomo e delle sue radici”, Aguzzi. Per negare a noi stessi che la guerra c’è e ci stiamo vivendo in mezzo. Il problema è capire in che forme.
C’è anche idealizzazione: la guerra è “solo” la naturale aggressività umana, o addirittura un opportuno ricorso alla forza per affrontare la realtà fisica e storica, “l’uomo è diviso fra l’inclinazione alla guerra e quella alla pace. Nessuno è mai del tutto pacifico o del tutto bellicoso”, Aguzzi. E’ una notte di vacche tutte nere, futuristi e marxisti invece hanno fatto scelte politiche, da che parte stare. Sono in dubbio però che quella scelta tra le due parti si possa *ancora* definire in termini di ragione e irrazionalismo.
Un altro senso di “ragione” è quello che esprime Annamaria Locatelli (con cui sono d’accordo): “In qualche modo però bisogna aver ‘vissuto’ la guerra sulla propria pelle, sentita nel suo orrore come esperienza personale o anche come pensiero che si ribella alla peggiore di tutte le ingiustizie: decisa sempre dall’alto, compresa quella così detta ‘umanitaria’ ( a proposito, non si è mai ricorso all’uso del referendum!), decide della sorte di milioni di persone…”
Ragionare di reattività fisica, o di giuste rivolte, o di difesa… ma intanto e soprattutto per noi civili in occidente, godere in modo passivo dei frutti (anche miserabili) delle guerre intraprese dai nostri governanti, collega l’attuale poesia con il futurismo di cento anni fa, falsificazione e annebbiamento della guerra. Annamaria ricorda Brecht, Celan, Fortini, ma una “ragione della guerra” come la ebbero i russi cent’anni fa oggi bisognerebbe sapere dov’è.
APPUNTO 2
@ Aguzzi
1.
Che replicare a questo intervento? A me pare che travisi il senso del mio discorso: il mio invito – inchiodato nel titolo del post! – a pensare la guerra (anche in poesia), non un generico invito a «parlare di guerra» passa quasi per volontà mascherata di « farsi complice di questa lunga tradizione di cultura di guerra» o contributo a «preparare la guerra» o segno di incapacità a «tenere a freno e ridurre al minimo la propria inclinazione alla guerra».
2.
Senza neppure esaminare la varietà delle posizioni espresse nella discussione interna di Poliscritture, Aguzzi presenta la sua di posizione:
«Sono pertanto convinto che la posizione di Ennio dovrebbe essere rovesciata: la poesia non dovrebbe parlare di guerra, nemmeno per condannarla. Non dovrebbe in nessun modo farsi complice di questa lunga tradizione di cultura di guerra. E se proprio l’ispirazione del poeta lo portasse a parlare di guerra, sarebbe meglio che esprimesse il senso tragico della pace, anziché quello della guerra. Che parlasse della pace, dei brandelli di pace, che si possono avere anche in guerra. Che scrivesse proprio versi elegiaci, dolci, speranzosi, consolatori. Così come, a un amico in lutto per la perdita di una persona amata, si cerca di parlare con frasi che aiutino a elaborare il lutto, non con frasi per renderlo più acerbo».
Siamo all’antitesi del Brecht di «A coloro che verranno» : «Quali tempi sono questi, quando/ discorrere d’alberi è quasi un delitto,/ perchè su troppe stragi comporta silenzio!»
(http://www.roma1.infn.it/~anzel/brecht.html) a cui invece vorrei riallacciarmi.
3.
Bene, non resta che dire anch’io che non condivido la sua esaltazione di un atteggiamento che mi pare da struzzi e la sua volontà di costringere il discorso proprio nei recinti ideologici da cui tento di spostarlo:
– del privato: «Per chi ama la pace è più coerente non scrivere di guerra in quello spazio specifico e così radicalmente personale e legato all’io che è la poesia » (come se la questione fosse “psicologica”, un amare o odiare la guerra…):
– dell’estetismo ideologico: «Apprezzo anche le poesie che parlano di guerra, quando sono davvero ispirate [!] e nascono dall’amore [!] per la pace »; « il senso tragico deve uscire dai propri confini, superarsi, e farsi comprensione e speranza ».( Qui il “libertario” che accusa gli altri di propagandismo: « Ma sono fiori rari che non fioriscono nelle aiuole tematiche e programmatiche, nelle aiuole del dovere o in quelle della militanza per partito preso», si mette lui a propagandare la pace.
Non so quanto Aguzzi abbia letto di questo post, ma gli faccio notare che ho distinto la mia posizione da un certo tipo di poesia: «Nessuno vuol tornare alla poesia “impegnata” ( e ai suoi equivoci); e personalmente io ho criticato chi ha tentato questi “ritorni”(qui) e lui se ne esce con l’esempio dell’«antologia di poesie di poeti/guerrieri palestinesi, esaltate da certi critici italiani, e da molti lettori (o finti lettori), come vera poesia»);
– dell’adesione a una tradizione poetica sfacciatamente individualista: «La poesia, dico, è legata all’”io”, non al “noi”. Può capitare che qualche poeta senta il proprio “io” come un “noi” e il “noi” come il proprio “io”. È un caso raro, che però conferma la regola. Non scrive in quanto “noi”, ma in quanto “io”, sebbene lo senta come un “noi”.». E che – assolutizzando l'”io monade” difende il suo orticello di (falsa) pace: «« Ebbene, in questo spazio personale non voglio che entri il mio nemico, la guerra. Ne difenderò i confini praticando e pensando la pace». Come se pace e guerra non si implicassero vicendevolmente ….
POSTILLA ALL’APPUNTO 2
Non so se qualcuno/a avrà la pazienza di leggere il testo a cui rimanda il secondo link (https://www.poliscritture.it/2011/04/05/sullantologia-calpestare-loblio/) che ho indicato, ma da esso voglio stralciare questo passo a rirpova che il mio “pensare la guerra” non va confuso con un generico “parlare della guerra” da poeta o artista “impegnato”:
I veri nemici o i falsi amici della poesia (o di una possibile “poesia civile”) non sono mai solo i “nemici della cultura”, non sono mai solo televisivi e soltanto “mostri”. Gestiscono affabili e seri, da destra e da sinistra, al livello locale e globale, un sistema che opprime milioni di persone. Li individuereste, se nel vostro lessico quotidiano (e, perché no, nei ragionamenti e poi nei versi) agissero parole-concetti per dire la realtà: come ‘capitale’, ‘capitalismo’, ‘rapporti sociali capitalistici’, non a caso termini epurati anche dal lessico dell’attuale sinistra che vi ha sponsorizzati.
4. Ignorando o rinunciando invece agli interrogativi più ardui, le vostre poesie oscillano per lo più – questa l’impressione ricevuta leggendole – e oscilleranno tra un intimismo dell’io apolitico e una retorica indignazione mutuata dall’antifascismo di nonni e padri resistenziali, purtroppo diventato mito inerte e scheletro nell’armadio della cultura italiana, come già denunciò nel lontano 1965 Franco Fortini in «Verifica dei poteri».
5. Con tale mito in testa è fin troppo agevole – come si può vedere – scorgere reincarnazioni di fascismo e di Hitler, dove c’è forse tutt’altro. Un “tutt’altro” su cui dovremmo interrogarci seriamente, senza paraocchi. E che invece gli USA, l’Occidente e l’attuale cultura italiana non vogliono vedere né permetterci di vedere, preferendo seppellirlo in anticipo sotto le bombe “umanitarie” della “democrazia”.Con tale mito in testa e l’avallo dei grandi nomi della cultura e della politica – ieri di Norberto Bobbio, oggi addirittura del presidente della repubblica Napolitano – non si ripara lo sfascio dell’Italia, ma lo si prolunga, condannandola a partecipare – in subordine e paradossalmente in nome di una Costituzione che ripudia la guerra – a guerre non chiamate più con questo nome: dalla prima del Golfo del 1991, a quella per spartirsi la Jugoslavia e ora all’ultima in corso in Libia.
6. Date tali premesse – esplicite o implicite – del vostro calpestare l’oblio, nessuno dei vostri versi, nessun bello slogan (come quello che dà il titolo alla vostra antologia), nessun «osservatorio sulla questione culturale, scolastica, artistica, giornalistica», pur da voi auspicato, vi permetterà di osservare, fosse pure dalla condizione di testimoni secondari (Cesare Cases), l’orrore del presente – questo, sì, ideologizzato, spettacolarizzato e obliato, ancor più di quello del passato. Per responsabilità – ripeto – non solo delle élite culturali e politiche, ma dei milioni di io/noi atomizzati dalle nuova divisione mondiale del lavoro e che si spappolano ulteriormente tutte le sere davanti alle TV
ALTRA POSTILLA ALL’APPUNTO 2
E, per insistere, visto che su questa questione del rapporto poesia/realtà (e guerra) avevo già polemizzato a suo tempo con Leonardo Terzo, aggiungo questi stralci da un vecchio post del 3 febbraio 2011 apparso sul blog «Moltinpoesia»:
Stralci:
1.
Mentre a me pare che Terzo, quando dice: «Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto», propone come unico o prevalente obiettivo della comunicazione poetica o letteraria o artistica l’«originalità» della forma. Esenta così il poeta, il letterato, l’artista dalla preoccupazione o dal compito – attenzione! – non dell’impegno (o dell’impegno politico, di cui dirò più avanti), ma da ogni verifica della politicità che è intrinseca all’uso sociale e politico dei linguaggi (di tutti i linguaggi) compresi quelli poetici, artistici e letterari. Raggiunta una forma innovativa, ne discenderebbe per Terzo che il discorso letterario (o una poesia o l’arte) avrebbe in teoria le “carte in regola” per diventare «politicamente efficace». Poi, se non lo diventa, questo dipende più dai lettori che dall’autore. Per me no: il nuovo, l’originale in poesia o in arte non è di per sé automaticamente positivo o politicamente efficace. È semplicemente nuovo. È semplicemente originale. Non è detto cioè che novità o originalità o bellezza o autenticità raggiunte in poesia o nell’arte costituiscano un valore quasi assoluto che sfugga di per sé all’ambiguità strutturale della poesia. La poesia o ’arte non riesce a fare tale “miracolo”. Resta solo «promessa di felicità» e, come si sa, le promesse possono aleggiare nel vuoto per secoli e indurre effetti narcotici.
2.
Ecco perché c’è da insistere di più sull’ambiguità della forma. Non basta raggiungerla. Bisogna interrogarsi su che tipo di forma è stata raggiunta e che funzione ha e che uso essa stessa già induce o suggerisce. Perché non è neutra o univoca. Proprio perché ambigua e perché invia ai lettori un messaggio polisemico e – aggiungo con Fortini – contraddittorio. Proprio perché è un “assaggio” (promessa) di felicità ma non è felicità. E poi va considerata l’ambiguità degli stessi lettori, che comunque la percepiscono (quando effettivamente ci riescono) attraverso altri filtri distorcenti: quelli della loro ideologia di riferimento o dell’immaginario che hanno ereditato. Ideologia e immaginario dei lettori interferiscono parecchio con il processo conoscitivo “normale” previsto dagli specialisti. Normale non lo è quasi mai. In quanti casi avviene? Cosa vede in Guernica un professore di storia dell’arte e un turista di una comitiva di massa o un turista europeo o un turista giapponese o africano? Davvero, come sostiene Terzo, una poesia o un’opera d’arte è sempre capace di «rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva»?
2.
E allora preferisco chi, come Fortini, mi mette la pulce nell’orecchio. In maniera decisa egli insisteva sul fatto che la forma – anche quando è o proprio perché è forma (e quindi efficace, coerente con il contenuto, magari anche “bella”) – non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque essa stessa impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse, tutte da considerare e valutare. Per questo diffido soprattutto dei “formalisti puri” (Terzo non mi pare che lo sia davvero) così propensi ad autonomizzare in assoluto la forma (la poesia o addirittura la Poesia) dal resto, da ciò che forma non è, da ciò che non raggiunge la forma, da ciò che va messo da parte o cancellato o rimosso o dimenticato perché ci sia forma. Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto – due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti.
3.
A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:
4.
Mi chiedo a questo punto: la consapevolezza di un problema (non si tratta di un dovere o di un compito che dall’esterno viene imposto o proposto ai poeti, il riconoscimento dell’ambiguità radicale dell’arte e della poesia, è un vantaggio per chi la possiede (per esperienza e non per via libresca) o un’inezia trascurabile? È la stessa cosa per un poeta o un critico maneggiare un qualcosa (la poesia), che egli sa ambigua (perché permette di dar corpo a fantasmi, che però possono imprigionarci; perché ci fa sognare ma ci distacca dal mondo reale) o per chi la considera solo uno strumento per condurre un gioco che si presume solo piacevole, liberatorio o perfino “sovversivo”? La de-realizzazione della società dello spettacolo oggi pienamente affermatasi anche da noi Terzo pare sottovalutarla. I “nemici della poesia” per lui pare vadano cercati esclusivamente tra quelli che vorrebbero «ridurre la letteratura a diretta espressione degli interessi e delle ideologie» (che – bisognerebbe invece dire – vorrebbero spingerla verso la “realtà”, collegarla o tenerla in contatto con la realtà, la vita sociale o politica). Li vede soprattutto in quelli che “s’attaccano” ai contenuti e mai in quelli che privilegiano eccessivamente la forma fino a interrompere o minimizzare i rapporti tra poesia e “realtà”. Un atteggiamento che a me fa pensarer a don Chisciotte quando scambiava i mulini a vento per giganti. Anche perché non siamo più negli anni del neorealismo o della militanza sessantottesca, quando ci furono eccessi contenutistici che in parte potevano giustificare le sue attuali preoccupazioni.
5.
Ed, infatti, il discorso dell’”impegno in poesia” o del «ridare funzione politica alla poesia» è oggi appena un balbettio. Affannarsi come fa lui a somministrare «istruzioni» in merito appare davvero sospetto, quasi un fuoco di sbarramento preventivo contro una possibile prospettiva di ricerca che potrebbe sfuggire alle secche del formalismo. Pongo allora un problema: fosse in gestazione una tale prospettiva, essa dovrebbe prendere a modello o riallacciarsi ai vecchi discorsi dell’”impegno” (in poesia, o nell’arte) o alla tradizione della “poesia civile” o “politica” del passato? Rispondo subito di no. Non è più “l’impegno” a favore di un partito o di una ideologia che oggi possa essere rispolverato e riproposto. Semmai c’è bisogno di tener conto della rigorosa critica dei limiti e degli equivoci affiorati sia nelle esperienze sviluppatesi dopo il 1945 (neorealismo) sia di quelle attorno al ’68-’69 e, al contempo, di capire quale esigenza positiva fu allora affossata e se sia possibile e in che modo individuarla nel presente e farla maturare. Ma il balbettio prevale, purtroppo
6.
Consideriamo quello che a me pare un rigurgito improvvisato e arruffone della “poesia dell’impegno”, e cioè la recente iniziativa dei poeti di «Calpestare l’oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale,per la resistenza della memoria repubblicana» (i testi sono leggibili da questo link). Qui vedo il limite fondamentale che sembra perpetuarsi dalle esperienze di allora a quelle di oggi. Un certo numero di poeti, dopo lunghi anni di “sonno della ragione” anche poetica (orfismo, “parola innamorata”, minimalismo), si sono d’un tratto risvegliati dai loro giardinetti poetici corporativo-intimistici-formalistici e, ammucchiatisi attorno a un generico antiberlusconismo – già dimostratosi da qualche decennio del tutto succube a Berlusconi e al ben più complesso sistema di potere che a lui fa capo o che di lui si serve, anche quando sembra fargli opposizione – hanno scritto ciascuno per l’occasione, creata dai promotori “di sinistra” dell’iniziativa, una o due poesie (o ne hanno scelto tra quelle già scritte) e le hanno poi assemblate in un libretto. Non m’interessano qua i nomi, la qualità dei singoli testi, il genere più o meno “civile”. Mi colpisce l’assemblaggio muto dei testi. Nessuno si è interrogato o ha discusso sul senso politico dell’iniziativa o l’ha delineato, che so, in un documento o una prefazione. La spruzzata di “militanza” è ridotta al titolo. Tutto qua. C’è poco da esultare. Se in passato la “poesia dell’impegno” pretendeva una sorta di “mandato sociale” della classe o del popolo, che risultò poi al massimo un mandato di partito (o della Commissione Cultura di un partito), oggi l’adesione è più “libera”, individualistica e generica. Si aderisce a uno slogan e il pensiero politico dei partecipanti resta in ombra o abborracciato o comunque inverificato. Non si costruisce così nessun io/noi capace di pensare politicamente in modo autonomo e ragionato e d’indicare al contempo la politicità di un nuovo linguaggio della poesia.
(da http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html
SEGNALAZIONE
Inchiesta La Porta CHE COS’E’ LA LETTERATURA? 7 Romano Luperini
http://www.wikicritics.com/inchiesta-la-porta-che-cose-la-letteratura-7-romano-luperini/
La grande letteratura, come la grande arte (pittura, musica…), è dunque, si è detto, complessa, problematica, ma è anche doppia, ambigua: è uno splendore che copre un orrore. Non c’è documento di civiltà, ci ricorda Benjamin, che non sia anche documento di barbarie. L’inferno di Dante o quello di Rosso Melpelo sono anche documento di barbarie (e non solo perché, come ci ricorda Marx, i polpastrelli di Beethoven presuppongono i calli alle mani di chi lavorava per lui e per i suoi protettori, o perché, per restare alla letteratura, le grandi opere selezionano in partenza il proprio pubblico, escludendone una grande parte, ma anche perché rappresentano l’orrore della nostra civiltà). Il lettore (il critico o l’insegnante) può però guardare attraverso le rose di Saba e intravvedere l’abisso che esse coprono o nascondono, farcelo conoscere (è, questo, direbbe Benjamin, il “contenuto di verità” dell’arte): lavorando sullo splendore formale possono attraversarlo e portare alla luce il nocciolo d’orrore che esso porta in sé. La verità dell’arte sta in questa contraddizione. Il lettore e interprete può “disambiguare” il messaggio dell’arte, socializzandolo in un modo invece che in un altro e contribuendo così a quel complessivo conflitto delle interpretazioni da cui nasce la verità storica di una opera, di una società e di un’epoca. È per questa ragione che il senso di un’opera (la sua verità) non è mai statica, ma si dà nel tempo, cambiando di continuo insieme con esso.
Mi sono ‘pippata’ il ‘fluviale resoconto di Ennio e mi sono soffermata sullo stralcio riportato da Ennio il 23 febbraio 2017 alle 19:56.
E’ un pezzo di R. Luperini i cui passaggi sottoscrivo appieno. Qui, a mio parere, il critico letterario coglie nel segno definendo l’opera d’arte *complessa, problematica, ma [è] anche doppia, ambigua: è uno splendore che copre un orrore*.
Nello stesso tempo ci permette di dare delle risposte ‘aperte’ rispetto al tema proposto da questo post “ I poeti in tempo di pace non pensano abbastanza”.
Che cosa significa pensare? Entrare in un conflitto interpretativo per cui quella ‘realtà’ politica, economica che ci si presenta nelle varie forme (ammalianti o raccapriccianti che siano) non sempre corrisponde ad un ‘contenuto di verità’.
L’efficacia dunque di una ‘poetica’ non si raggiunge solo quando *una poesia è in grado di scuotere il nostro torpore, renderci più inquieti, più esigenti* (questo è l’effetto che può essere raggiunto anche attraverso altre metodiche), ma quando viene toccato lo sconvolgente nucleo di verità, una verità che ci appare e che nel contempo ci si nega. Questa è la tragedia.
Anche se è indubbiamente importante, ma non è il suo compito, non credo che la poesia *dovrebbe individuare contratture e ferite, indicare direzioni di ricerca, intuire possibilità di risanamento (anche del corpo sociale)*.(Marcella Corsi)
E’ piuttosto un apprendimento alla disambiguazione.
E nemmeno che *«Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto»* (in Ennio Abate che riprende questa affermazione di Terzo, 23 febbraio 2017 alle 17:27).
E, sempre Ennio: *I “nemici della poesia” per lui [Terzo] pare vadano cercati esclusivamente tra quelli che “s’attaccano” ai contenuti *.
Questa stessa spinta all’originalità, al raggiungimento della forma estetico/estatica tagliando fuori il reale e le sue contraddizioni (direi meglio, i conflitti) rischia di rappresentare la fuga dall’orrore della nostra civiltà.
Come dice Luperini, è importante *guardare attraverso le rose di Saba e intravvedere l’abisso che esse coprono o nascondono, farcelo conoscere… lavorando sullo splendore formale possono attraversarlo e portare alla luce il nocciolo d’orrore che esso porta in sé*.
Altrimenti si continua a vivere in un mondo scisso: o guerra o pace. E se il poeta accetta questa scissione, questa espulsione di una parte di realtà, anche il suo poetare ne risentirà.
Quanto alla ‘guerra’, il pensiero futurista aveva colto giusto individuando la guerra come esito finale di una conflittualità che permea il mondo in quanto la vita è lotta, rischio, desiderio di sovvertire la immobilità di un ordine costituito ormai vecchio.
E la poesia come fa a cogliere questa conflittualità e, senza demonizzarla, a *portarla alla comprensione, socializzandola in un modo invece che in un altro e contribuendo così a quel complessivo conflitto delle interpretazioni da cui nasce la verità storica di una opera, di una società e di un’epoca*? (R. Luperini).
Quindi bisognerebbe smetterla di aggirarci attorno a dei problemi surrettizi.
Da un lato Ennio ha ragione quando afferma che non può (e a che titolo? di poeta?) andare a parlare di guerra ai generali, bensì cercare di capire (e interagire) con quello che ognuno del ‘noi’ costituito da Poliscritture pensa al proposito (fantasmi compresi).
Ha buttato il sasso. Hic Rhodus, hic salta.
R.S.
AUTODAFE’
1.
Temo che questo post sia stato accolto con fastidio, non perché “fluviale” (ho spiegato le ragioni della sua lunghezza) ma perché il problema che ho cercato di porre è scomodo e di difficile soluzione.
2.
Mayoor, secondo me, se ne sbarazza con troppa disinvoltura. Scrive: «Nessuna guerra è mai stata fatta in nome della poesia. Di poesia non è mai morto nessuno». E toglie la poesia da questo mondo (di lacrime e d’orrori).La colloca in una sua sfera vergine, pura, platonica. Di più. Se la prende con l’illuminismo: in nome della ragione quante guerre si son fatte, e ancora se ne fanno? Stiamo ancora all’illuminismo?». Semplifica o non vede neppure il problema (punto 5) riducendolo a una scelta (ideale) di schieramento: o pacifisti («scrivere poesie chiare, utili, socialmente impegnate» contro la guerra) o bellicosi (Marinetti & C.). Ma la poesia (= i poeti) non c’entra, è “neutra” (aggiungerei: come la scienza). Tanto i futuristi mica facevano la guerra «in nome della poesia».
Simonitto accoglie la formulazione di Luperini che insiste sull’ambivalenza (benefica, in sostanza) della poesia. Essa permetterebbe di «guardare attraverso le rose di Saba e intravvedere l’abisso che esse coprono o nascondono, farcelo conoscere». E, costeggiando Adorno [1], accetta quello che a me pare un dogma dei poeti o degli artisti “non contenutisti”. Essi – ancora con le parole di Luperini – «lavorando sullo splendore formale possono attraversarlo e portare alla luce il nocciolo d’orrore che esso porta in sé». Chiedo: accade sempre? non è che anche la più eroica ricerca formale possa essere o diventare la maschera dietro la quale nascondere e conservare le proprie ambivalenze e che a guardare tra le rose non è detto che s’intravveda l’abisso? Forse sarò poco poeta o poeta troppo “sporcato” dalla critica dell’ideologia marxiana e rimasto nei dintorni di Franco Fortini, ma dichiaro tutto il mio sospetto per un lavoro incentrato sullo «splendore formale». Perché può diventare fine a se stesso, farci ammaliare dalla Forma e farci dimenticare di fare i conti con quell’orrore (storico). Arte come alibi, insomma.
Mi pare che il sospetto ce l’abbia anche Rita, quando dice « Questa stessa spinta all’originalità, al raggiungimento della forma estetico/estatica tagliando fuori il reale e le sue contraddizioni (direi meglio, i conflitti) rischia di rappresentare la fuga dall’orrore della nostra civiltà». Oggi poi che – Baudrillard docet (http://www.sinistrainrete.info/societa/9199-davide-gatto-jean-baudrillard-il-delitto-perfetto.html) – sarebbe quasi abolito dal virtuale, il danno non pare si limiti al poetare (« anche il suo poetare ne risentirà»). É la funzione “sociale” della poesia che è venuta o viene meno .
In verità, Rita, forse distanziandosi dalla formulazione alla Luperini e dalla lode dell’«ambivalenza [ sempre benefica] della poesia», pare accenni (ma troppo rapidamente) a una funzione possibile della poesia: quella della «disambiguazione». Tuttavia, subito dopo, prospetta una poesia capace di toccare « lo sconvolgente nucleo di verità, una verità che ci appare e che nel contempo ci si nega». Che io trovo vaga, astorica, troppo somigliante all’ “orfismo”. (Per intenderci sia pur approssimativamente: De Angelis & C.).
Non capisco comunque il merito che attribuisce o il credito che concede al pensiero futurista: «aveva colto giusto individuando la guerra come esito finale di una conflittualità che permea il mondo in quanto la vita è lotta, rischio, desiderio di sovvertire la immobilità di un ordine costituito ormai vecchio». A me pare che quel “pensiero”, debitore del vitalismo e del niccianesimo tra fine Ottocento e inizi del Novecento (e operante persino in Freud), ha il “demerito” di aver nobilitato la guerra come “spinta naturale”, originata dalla stessa “vita” più che dalla storia, cioè dai conflitti tra capitalisti, come pensava il povero e dimenticato B.B. ( Non capisco infine, nel suo commento, quali siano i «problemi surrettizi»…).
Ad Aguzzi ho già abbondantemete replicato con l’ Appunto 2 e le due Postille e qui non aggiungo altro. Resta (scoraggiante) il silenzio degli altri redattori di Poliscritture, pur implicati nella discussione documentata nella seconda parte del post.
3.
Non mi resta che riprecisare ( più a me stesso che agli altri, mi pare) il senso di questa mia polemica, che nella sostanza presuppone un “poeta-politico e critico della guerra e di tutta la poesia che parte da sé (e rimane nei dintorni di sé). Ho cercato finora non la Poesia ma «una certa poesia che non vuole distogliere lo sguardo dall’orrore della storia». Ma, a questo punto e di fronte a queste risposte, aumentano i miei dubbi. E mi chiedo: non è che, a fissare lo sguardo lì nell’orrore, forse passa la voglia di scrivere poesie e magari persino di scrivere? O magari col tempo si è fatta strada in me la convinzione che, ben più della «poesia, in grado di scuotere il nostro torpore, renderci più inquieti, più esigenti», ci siano «altre metodiche», come dice Rita; e cioè scienze, storia, geopolitica, filosofia, ecc. a cui rivolgersi? E che la poesia, specie oggi, è davvero un utensile “antiquato” e incapace di fare l’operazione che che ancora mi ostinavo a richiedere ad essa (cioè ai poeti), perché è nata lirica e lirica resterà, come dice Aguzzi? In realtà devo ammettere – e forse anche questo avrà aumentato le riserve verso il discorso che ho tentato di fare, perché non ho la *soluzione* e non posso dire a Donato [Salzarulo]: ecco questa è la poesia esodante che intendo proporre e fare. O rendere felice Mayoor scrivendo finalmente « da comunista, vere poesie comuniste.»).
[1]
Mio commento su Le parole e le cose”:
Ennio Abate
23 febbraio 2017 a 19:09
MEMENTO
« Prendendo spunto, come tutti i filosofi della scuola di Francoforte, dal marxismo, Adorno elaborò nel corso negli anni una teoria estetica che mirasse a liberare l’arte dall’idea che essa debba essere impegnata politicamente. Per Adorno, il problema non si pone, in quanto l’arte, se di vera arte si tratta, è intrinsecamente impegnata, è impegnata in quanto arte» ( Simone Giorgio)
A differenza di Adorno, che sembra voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico, per cui l’artista è più innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite dell’ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e non liquidava la problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società (oggi capitalistica) in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Adorno lo chiude enfatizzando unilateralmente la funzione della forma; e,dunque, il “privilegio” della comunicazione artistica. Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava tuttavia il loro “rozzo pregiudizio” contenutistico, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:
««Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 204)»
(da http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html)
Toh, un altro pirla quasi come te, Ennio:
– Tre: a lungo mi sono rivolto taciti rimproveri
per non aver sfiorato nemmeno con una parola
ciò che avveniva “ogni giorno”
con la mia scrittura: il trasferimento
di 400.000 profughi a Lesbo, un dramma che invece
ha posto Lesbo, per l’artista Ai Weiwei, sulla mappa del mondo.
Il suo Instagram lo mostra tra i profughi siriani
sullo sfondo di migliaia di salvagenti e gommoni bucati.
(da http://www.leparoleelecose.it/?p=26495#more-26495)
(lasciatemi divertire) Ennio Abate come Ai Weiwei? E tutti gli altri, ma da consumatori moderati, solo a bere vino, per immedesimarsi? 🙂