di Donato Salzarulo
1. – Mi sembrava strano!…Lunedì 20 e martedi 21 febbraio, ho visto su Raiuno la docu-fiction sul tragico naufragio del 26 dicembre 1996, avvenuto al largo di Portopalo. Vi persero la vita 283 immigrati e sembrava che una fitta coltre di silenzio (mediatico e delle istituzioni), avesse avvolto la drammatica vicenda.
Stando alla trama, a lacerarla avrebbe provveduto, roso da dilemmi di coscienza e lottando coraggiosamente contro l’omertà dell’ambiente e di varie autorità, il pescatore- protagonista (Fiorello nella fictio, nella realtà storica Salvatore Lupo), entrando in contatto nel 2001 con un giornalista di “Repubblica” (Battiston nella fictio, nella realtà storica Giovanni Maria Bellu).
La trama è stata convalidata da Bruno Vespa a “Porta a Porta”, lunedì sera, al termine della prima puntata…
Mi sembrava strano che “Il Manifesto”, il giornale che leggo dalla sua nascita e che, in un certo senso, rappresenta il mio vero “partito”, dal 26 dicembre 1996 al 2001 avesse taciuto e avesse bucato (in gergo giornalistico, così si dice) una notizia tanto importante. Infatti, non bucò un bel niente. Oggi, 23 febbraio, in ultima pagina, documenta (riproducendo le copertine) che cominciò a parlarne il 5 gennaio 1997. Titolo di copertina: “I fantasmi del Mediterraneo”. Nel sommario si spiegava che «Due navi con a bordo centinaia di clandestini indiani e pachistani si scontrano nel Canale di Sicilia. 283 uomini spariscono nel nulla. I loro compagni arrivano in Grecia e denunciano il fatto.» Mobilitati diversi suoi giornalisti, nel gennaio 1997, ne parlò a lungo, fino ad arrivare alla pubblicazione di un primo elenco dei dispersi e dei superstiti. Titolo di copertina del 10 gennaio: “I nomi dei fantasmi”.
Commento finale di Massimo Giannetti sul “Manifesto”: «Questa è la verità storica e giornalistica sul “presunto naufragio” di Portopalo, frettolosamente archiviato come tale dalle istituzioni e dal disinteresse generale dei media, “La Repubblica” compresa. Alla quale “Repubblica” però Raiuno ha voluto tributare l’esclusivo merito di aver “riportato a galla” una strage che invece aveva ignorato per ben sei anni, fino alla metà di giugno del 2001, quando il giornalista Giovanni Maria Bellu (dal cui libro è tratta la fiction), contattato da un pescatore di Portopalo, ne ratificò in un reportage la tragica esistenza corredata da un filmato del relitto abbandonato in fondo al mare con tutto il suo carico di morte.»
2. – Cosa si può imparare da questa vicenda?
a) Certi giornali, anche quelli che predicano il diritto e dovere d’informazione, quando accadono tragedie come quelle di Portopalo, stanno, comunque, dalla parte del potere e del silenzio istituzionale. E se rompono il silenzio, lo fanno soltanto quando i buoi sono scappati.
b) I veri giornali che fanno inchiesta sono pochissimi. In Italia molto meno delle dita di una mano.
c) Il lavoro di chi effettivamente fa inchiesta non viene riconosciuto, viene subdolamente espropriato e i giornali (tipo “La Repubblica”, ma non solo) recitano, come si suol dire, tutte le parti in commedia…Così funziona il sistema mass-mediale. E poi ci vengono a predicare il merito, il merito, il merito…
d) Dopo la vittoria di Trump, nelle ultime settimane, si è parlato in lungo e in largo di “post-verità”. Come si possono definire queste scelte editoriali e questi comportamenti?
3. Indignarsi non basta. Forse da questa consapevolezza nasce il seguente finale in dieci versi.
Spesso vivo in attesa della sera.
Porta via con sé tutte le ore.
Forse anche il mio dolore, la fitta
che mi prende dopo l’allegria.
Non sei solo al centro della scena.
Non chiedi comprensione al portinaio
per gli ideali smarriti. Gli alberi,
se cercano il cielo, respirano
un’altra aria. Il comunismo è linfa,
più che mai necessaria.
Apprezzo molto questo stile così particolare di Salzarulo che sa tenere insieme prosa e poesia. Sulle inchieste sappiamo quanti dubbi quanta indifferenza…ne abbiamo accumulate di esperienze soprattutto al sud. Complimenti per l’acutezza
“Cosa si può imparare da questa vicenda?”
Userò l’espressione latina *post festum* ma non voglio credere che significhi dopo la festa, (nel senso comune, passata la festa gabbato lo santo). Vorrei, in una etimologia fantastica, che festum si collegasse a *fari* latino e a *femì* greco, una pronuncia solenne, divina, di ciò che deve e può esistere. Voglio credere che post festum significhi: dopo che è stata sancita autorevolmente, divinamente, l’esistenza di un fatto.
Allora faccio questo ragionamento, in forma di sillogismo ipotetico (se P comporta Q, e se Q comporta R, allora P comporta R).
1 se certi giornali (post festum, dopo che è realmente accaduto) stanno dalla parte del silenzio;
2 e se chi ne scrive (post festum, dopo che si ammette che sia realmente accaduto) fa due parti in commedia: scrive e depreca;
3 la post-verità come si può definire? POST.
Dopo, si può dire tutto quello che si vuole. Il vero è testimoniato, o non è.
Nell’era del virtuale la realtà scompare e con essa la verità. Baudrillard lo aveva anticipato nelle sue visioni.
@ Marino
Preciserei che scompare soltanto dai *nostri occhi*, dalle *nostre* TV, dalla *nostra* mente. Tant’è vero che si ripresenta, sia pur camuffata. Certo la capacità di camuffarla e di aumentare lo spessore delle ideologie è cresciuta di molto anche rispetto al passato.
…sì, davvero: il bombardamento, come il silenzio mediatico, in questo caso, nascondono la verità, in aggiunta, la confondono…Donato Salzarulo ce lo illustra molto bene: il fatto terribile viene prima taciuto, tranne che da pochissimi giornali, poi recuperato anni dopo per farne uno scoop proprio dalla testata che l’aveva ignorato…Tanti passaggi che ci arrivano già impacchettati e aspettano solo di essere digeriti da parte nostra…Anche se noi non siamo del tutto innocenti: quando si tratta di stragi nel Mediterraneo la”nostra” indignazione (o dolore) è diseguale rispetto a quella che rivolgiamo alle “nostre” sciagure e il silenzio dei media ci corrisponde perchè “insieme” circoscriviamo quello spazio rassicurante, benestante, protetto (non importa se fa acqua da tutte le parti), del “nostro” occidente, dove la morte è stata in qualche modo esorcizzata…
Metto tra parentesi i sentimenti di rabbia e impotenza rispetto al terribile dramma umano della vicenda, non per negarne la portata ma per tentare di rispondere ai quesiti posti, senza interferenze emozionali eccessive:
a) Cosa si può imparare da questa vicenda?, si chiede Salzarulo, così come se lo chiede pure Cristiana.
Rispetto al fatto che facciamo esperienza solo ex post.
In questi casi di ‘rivelazione’ – dopo che *una fitta coltre di silenzio (mediatico e delle istituzioni)* aveva avvolto la drammatica vicenda del tragico naufragio del 26 dicembre 1996 avvenuta al largo di Porto Palo, con la perdita della vita di 283 migranti -, la domanda che sempre mi pongo è: “Come mai a questa notizia viene data ‘libertà’ adesso?”. Cui prodest? Può essere solo un “dixi, et salvavi animam meam”? O ci può essere dell’altro?
Perché il più delle volte è quell’adesso che getta una luce ‘funzionale’ a quell’allora, ma non nel senso del perché *Dopo, si può dire tutto quello che si vuole* (in quanto i Fatti si sono già conchiusi), ma nel senso che serve a qualcuno, o a qualche cosa, che quella notizia (che pur c’era) venga tirata fuori proprio adesso.
Credo dunque che serva di poco alla verità: dobbiamo sempre tenere presente del potere di chi la usa.
Né più né meno di quello che era successo con Mani Pulite. O con il Caso Moro: come, a quel tempo, ali della DC e del PC vi fossero pesantemente implicate e di cui solo oggi qualche luce (?) emerge. Perché fu tacitata quella informazione che pur era stata fatta circolare?
Esiste sì un “Post Festum”, nella valida osservazione di Cristiana, e a cui mi permetto di aggiungere i seguenti versi di Shakespeare, Giulio Cesare, Atto V, Scena I. Bruto:
“Oh, se un uomo potesse sapere
la fine delle vicende di quest’oggi prima che essa arrivi!
Ma è sufficiente che questo giorno finisca,
e allora si saprà la fine”.
Sì, ma non sarà sufficiente a sapere il senso di quella fine se non si terrà conto delle forze in campo.
Allora passo alla seconda domanda.
b) Come si possono definire queste scelte editoriali e questi comportamenti?”
Mi viene in mente il personaggio di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI a partire dal 1919 (il periodo degli attentati anarchici in America) il quale sosteneva:
« L’informazione è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919 e da allora la nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e custodirla. »
Giocando sulla paura del nemico (i comunisti e i loro presunti attacchi al dominio USA) Hoover fu legittimato ad introdurre l’uso delle microspie , ottenendo un potere non costituzionale che gli permise di tenere sotto controllo anche i suoi superiori. Ogni singolo segreto, ogni singola situazione non eticamente corretta, venne catalogata all’interno del suo archivio personale per essere utilizzata a tempo debito.
Quindi, anche se le false informazioni, oppure le informazioni pilotate, ci sono sempre state, oggi, con la velocità garantita dai mezzi di comunicazione, le fake news hanno più facile presa sul cittadino il quale deve ancor più attrezzarsi di capacità critica.
Un impegno non facile.
R.S.
E’ questione del Tempo: viviamo in un presente assoluto, che è in realtà, rifiuto del Futuro (uso le maiuscole perchè sia chiara la differenza tra vivi e morti) avveniente, vogliamo dominare un futuro che quindi sarà identico al presente che viviamo, e in esso giostrare il Tutto che crediamo di possedere.
Il progetto di Hoover (Rita usa le espressioni “a tempo debito” i.e. quando io che lo possiedo deciderò; e poi “con la velocità garantita dai moderni mezzi di comunicazione” i.e. nell’assoluto presente di cui io sono attore dominante) dimostra che tutto quello che raccogli, ora e del passato, imprigiona il futuro. Viviamo un presente onnicomprensivo del passato (postmodernismo), e in esso ci illudiamo di bloccare il futuro.
Perciò, prima o dopo, quello che si racconta del naufragio a Portopalo, non cambia. Perché la verità non è NEL tempo, ma fuori dal tempo, è del mio Soggetto universale, e solo per ciò vero falso e finto coesistono.
Ho segnalato riflessioni che vanno in questa direzione in un posti su “Poliscritture FB” in occasione della presentazione a Cologno Monzese del libro di Renato Curcio, “L’egemonia digitale”. Riporto il resoconto dell’incontro, dove quelli/e che non frequentano su “Poliscritture FB” trovano anche il link con notizie sul tema più ampie:
SEGNALAZIONE
Renato Curcio, L’egemonia digitale, Sensibili alle foglie, 2016
* Ieri sera, alla “Casa in Movimento” di Cologno Monzese, Renato Curcio ha presentato questo suo libro. Ha sottolineato con forza le modificazioni antropologiche indotte dalle nuove tecnologie, che stanno costruendo una “società artificiale” che impone un altro tipo di esperienza; ma anche la forbice crescente tra la velocità d’implementazione di tali tecnologie e il ritardo della percezione che ne abbiamo. Ha fatto l’esempio di un lavoratore che esegue le mansioni assegnategli non più da un capo in carne ed ossa ma tramite un bracciale della Motorola, che gli impone un tempo per ciascuna di esse: se le esegue in minor tempo viene premiato, se supera la media stabilita perde punti.
L’effetto è quello testimoniato da un lavoratore dell’ACEA di Roma nell’Introduzione al libro: “il tablet personale mi comanda come un robot; nel senso che mi sento un automa, gli presto le mani è vero, ma per il resto quasi non decido più nulla; nel senso che questi ci pilotano: ‘va qua e vai là’, ‘inserisci il tuo numero di matricola e poi segui i comandi’; nel senso che il tablet attivato mi geo-localizza e mi programma la giornata; nel senso che ogni spostamento è controllato e se mi ferm oa prendere il caffè o a urinare in un luogo non previsto il tablet lo registra; nel senso che è il tablet che mi porta in giro e ho paura!”.
Non abbiamo più dei lavoratori che usano degli strumenti di lavoro ma sono gli strumenti che utilizzano i lavoratori. Un ritorno alla schiavitù?
Ma le nuove tecnologie non controllano e sfruttano solo i lavoratori, ma tutti noi, che usiamo smartphone o ci connettiamo a FB per chattare con gli “amici” o a Google per ottenere una qualsiasi informazione. Così facendo produciamo dei documenti, dei dati che però diventano di proprietà di FB o Google o altri social; e vengono venduti a imprese interessate a fare marketing o pubblicità o lavorano alle campagne elettorali di Tizio o Caio.
Curcio ha fatto anche altri interessanti esempi: l’introduzione obbligatoria di dispositivi digitali nelle scuole (ci sono già scuole che usano esclusivamente questi, impedendo di fatto l’esercizio della scrittura manuale o del calcolo mnemonico); l’utilizzo dei Tom Tom che ci permettono, sì, di arrivare nel tempo previsto a destinazione in un luogo di una città, ma incoraggiano un’atrofia delle nostre capacità di orientamento e di esplorazione (pensavo al *flaneur* di Benjamin!); le varie forme di autismo digitale, specie adolescenziale, con la riduzione o l’eliminazione ( il caso di adolescenti giapponesi) dei rapporti reali con la gente in carne ed ossa.
E cosa ne faranno di questa immenso bottino di dati le oligarchie costituite da FB, Google, Microsoft ecc. ? L’uso più comune è quello selettivo. Curcio ha fatto l’esempio – riprendo da un articolo di “Sinistra in rete” – delle università americane dove “non si può più entrare soltanto sulla base del reddito e del merito, che erano i due criteri essenziali, ma ne è stato istituito un terzo: la reputazione digitale. Vale a dire che se tu, Filippo, chiedi di entrare nella mia università, io vado a vedere chi sei nel mondo, e scopro che non hai Linkedin, non sei su Facebook, non utilizzi Twitter e non metti le tue fotografie su Instagram, e mi chiedo: chi sei, un terrorista? Ti tieni fuori da ciò che a me consente di profilarti? E allora non ti prendo. L’assenza dai media, dalla produzione sistematica e continuativa di informazioni, quindi l’assenza di tracciabilità, è oggi diventata una penalizzazione sociale. C’è quindi una pressione a essere sempre più presenti. Ma questo non vale solo per le grandi università americane, anche per le imprese che assumono. Esistono programmi che fanno la lettura del profilo digitale, e sono in vendita normalmente, quelli più economici non funzionano particolarmente bene ma già con un costo medio si può avere in mano qualcosa di buono, oltre a esserci intere agenzie che fanno questo lavoro per le aziende. E non filtrano le assunzioni nell’esercito o nei servizi segreti, ma per normali lavori.” (http://sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/8815-renato-curcio-capitalismo-digitale.html).
Ma l’uso può essere anche preventivo e repressivo: è il caso di un giovane che mandava messaggi ritenuti pericolosi per la sicurezza a cui la magistratura ha imposto un periodo di astinenza dai social. C’è stato forse poco tempo per discutere tutti questi interessanti spunti, ma il seme è stato gettato. [E. A.]