di Arnaldo Éderle
Once upon a time c’era una strega
grigia e sola che viveva in un angolo
d’un bosco là in fondo
sulla punta della penisola,
in una brutta capanna attorniata
da altissimi tronchi che pendevano
attorno al tetto e ne accarezzavano
i quattro lati con le loro foglie
quasi marrone.
La strega, con il solito naso
appuntito e piegato in giù e il solito
brufolo sulla punta, viveva quasi in pace
trastullandosi con veleni e altri scherzi
che preparava in vasetti trasparenti
e colorati.
Non la disturbava nessuno, anche perché
la sua casa rimaneva appoggiata
su un’appuntita sporgenza in cima
alla roccia, difficilissima da raggiungere.
Ma che cosa racconta l’Ederle? Che storia è mai
questa? Un poeta come lui non dovrebbe, credo,
riesumare le favole della fanciullezza i tristi
paurosi fantasmi della pubertà senza l’inficiatura
della malattia mentale dell’arretramento critico
della banale perdita della luminosità della mente.
Chi lo conosce sa che i suoi poemetti, finora,
mai sono stati banali, o proprio banali,
o sciocchi o fanciulleschi o stupidini,
non vi sembra?
Mah! Voglio proprio vedere come va a finire.
La strega era sciocca, era rimasta al tempo
di secoli fa e non dava segno di ravvedersi
di aggiornare i suoi propositi, le sue
passioni.
Un giorno si mise in testa di scherzare con
il sole e s’inventò un’accozzaglia di nubi
che imbrunirono improvvisamente la terra
a mezzogiorno.
Di colpo gli uomini caddero nel grave imbroglio,
smisero di zappare, smisero di raschiare il ferro
di lisciare i bronzi di tornire le gambe dei tavoli
di guidare i taxi
di studiare i libri di aggiustare le macchine
insomma smisero di vivere nella solita
maniera. I loro occhi smisero di luccicare
non videro più nulla.
Nessuno sapeva spiegarsi la ragione di una
così improvvisa catastrofe, che cosa
inspiegabile era successa. Nessuno
nemmeno il pàpa nemmeno il presidente
della repubblica nemmeno il maggiore
scienziato del mondo.
Ma un piccolo uomo, non era un nano era solo
minuscolo mingherlino fragile ed anche un po’
zoppo, però si vede che era sapiente
e soprattutto furbo. Quest’ometto si mise a
pensare seduto su un masso e la mano aperta
gli chiudeva gli occhi e il naso, sembrava
avesse deciso di non respirare più.
D’un tratto si alzò e posò il suo sguardo
sulle fittissime nuvole, era lo sguardo
d’un ometto fragile e indifeso, uno sguardo
pacifico e quasi sorridente,
uno sguardo solamente umano, e pensò pensò
come poteva e sapeva alla sua casa alla sua
strada alla sua porta. Pensò pensò intensamente
ma senza fretta senza ansia senza turbamento
poi si rimise a sedere.
Intanto le nere nubi cominciarono a diradarsi
l’azzurro del cielo a ricomparire di qua e di là
e un vento lieve a spingerle
sempre più lontano e a fare che il sole ricomparisse
sulla faccia della terra, di tutta la terra
e i colori a pitturare i campi e i mari
e tutte le nostre bellezze e a ridonare ai monti
il fascino delle loro splendide guglie.
Ma allora i miracoli esistono! pensarono
le moltitudini della terra, allora non è
tutto brutto tutto irrimediabile, allora
non è vero che le catastrofi, come dicevo,
sono davvero invincibili, e i ponti, le valli
i boschi, le fabbriche, i campi dove si gioca,
sono più forti delle streghe e gli uomini
più resistenti.
Chissà se tutto questo è vero
e chissà se la strega non sia che una pallida
invenzione dei nostri cervelli o soltanto
una strenua bizzarria delle malattie della vita.
Chissà.
Forse le catastrofi ce le immaginiamo, forse
le vediamo soltanto nei nostri pensieri malati
forse la realtà non è così cattiva
strana e inverosimile.
Le nostre paure i nostri terrori, forse, sono
semplici e scritti nell’aria ma sono solo
fantasmi inconsistenze strani fenomeni del cosmo,
forse sono davvero soltanto immaginazione.
Ma poi nei deserti, nelle strade negli alti monti
si trovano dei corpi inanimati tronconi di
persone stese a terra senza vita
e ormai senz’anima e sopra di loro si odono
canti di morte, infinite litanie singhiozzi
trattenuti e si vedono genti in ginocchio
che pregano qualcuno e forse sono
già morti anche loro e non lo sanno.
Forse sarà meglio ringiovanire le streghe
e lasciargli i loro veleni le loro pentole
panciute coi gas turchini che bollono
con i loro palloncini allegri e leggeri
che fanno festa nelle loro stamberghe
e che fuoriescono dalle porte di legno
a festeggiare l’aria con le loro sinistre
risate e con i loro falsi colori.
Che storia sbilenca e incredibile! Chissà,
forse l’Ederle è diventato matto.
Meravigliosa favoletta, intrisa, come sempre ogni vera favola, di cruda realtà. Ottimo il ritmo del poetare. Ma, se posso permettermi, caro Arnaldo, io avrei cassato la terza stanza, non solo perché vagamente autocelebrativa, se pur per antifrasi e litote, ma più semplicemente perché nuoce al flusso narrativo e nulla aggiunge all’incanto del poetare.
Un cordiale, partecipe saluto,
Paolo
… Ovviamente, secondo il mio sentire, andrebbero cassati anche i due versi finali…
Non concordo con Paolo Ottaviani. La terza strofa esclude che la poesia vada ricevuta con:
… l’inficiatura/della malattia mentale dell’arretramento critico/della banale perdita della luminosità della mente. (L’Ederle non è diventato matto.)
Si tratta di aggiornare la strega, la dea madre-nascita-morte capace di imbrunire la terra a mezzogiorno.
Il pensare del piccolo uomo (che si chiuse gli occhi e il naso: il particolare del naso dice, fra l’altro, che non respira, che nega l’origine materna, i mitocondri della respirazione cellulare) riportò cieli azzurri, bellezza e ottimismo.
Tuttavia la morte violenta pervade deserti strade e alti monti, tronca i corpi e toglie anche l’anima, rendendoci morti anche in vita.
Meglio virare sulle giovani streghe odierne, ariose e malignette.
Poesia sulla fine del patriarcato e realista quanto al femminismo.
Ovviamente si può non esser d’accordo con le mie osservazioni… ma mi sarebbe piaciuto ascoltare argomenti che non fossero la mera ripetizione in prosa di quanto già detto in poesia… così invece le mie convinzioni si rafforzano…. e mi gusto il bel poetare di Arnaldo Ederle saltando la lettura della terza stanza e concludendo con “a festeggiare l’aria con le loro sinistre / risate e con i loro falsi colori”. Provateci. Potrete continuare a sostenere di non essere d’accordo con me… ma leggerete certamente un miglior poetare!
Ho apprezzato altre volte la maestria di Ederle nel verseggiare. In particolare apprezzo, dei suoi ultimi lavori, la scioltezza discorsiva del testo, la limpidezza delle immagini, la complessità del ritmo, la (solo apparente) facilità con cui arriva a compiere l’argomento del testo.
Per questo ho inteso mostrare che la terza strofa e i due versi finali fossero molto importanti nel discorso complessivo che, nella mia lettura, il testo propone.
Caro Arnaldo Ederle,
spero tu voglia perdonare il mio ardire. Ma è solo l’amore per la poesia che mi spinge a questi interventi. E allora, ti prego, dimmi solo se tu sottoscriveresti o meno il tuo stesso testo così come io l’ho emendato. Non importa se non vorrai dilungarti in spiegazioni… intelligenti pauca.
Con i miei più profondi sentimenti di stima,
Paolo
La strega e il boccone
Once upon a time c’era una strega
grigia e sola che viveva in un angolo
d’un bosco là in fondo
sulla punta della penisola,
in una brutta capanna attorniata
da altissimi tronchi che pendevano
attorno al tetto e ne accarezzavano
i quattro lati con le loro foglie
quasi marrone.
La strega, con il solito naso
appuntito e piegato in giù e il solito
brufolo sulla punta, viveva quasi in pace
trastullandosi con veleni e altri scherzi
che preparava in vasetti trasparenti
e colorati.
Non la disturbava nessuno, anche perché
la sua casa rimaneva appoggiata
su un’appuntita sporgenza in cima
alla roccia, difficilissima da raggiungere.
La strega era sciocca, era rimasta al tempo
di secoli fa e non dava segno di ravvedersi
di aggiornare i suoi propositi, le sue
passioni.
Un giorno si mise in testa di scherzare con
il sole e s’inventò un’accozzaglia di nubi
che imbrunirono improvvisamente la terra
a mezzogiorno.
Di colpo gli uomini caddero nel grave imbroglio,
smisero di zappare, smisero di raschiare il ferro
di lisciare i bronzi di tornire le gambe dei tavoli
di guidare i taxi
di studiare i libri di aggiustare le macchine
insomma smisero di vivere nella solita
maniera. I loro occhi smisero di luccicare
non videro più nulla.
Nessuno sapeva spiegarsi la ragione di una
così improvvisa catastrofe, che cosa
inspiegabile era successa. Nessuno
nemmeno il pàpa nemmeno il presidente
della repubblica nemmeno il maggiore
scienziato del mondo.
Ma un piccolo uomo, non era un nano era solo
minuscolo mingherlino fragile ed anche un po’
zoppo, però si vede che era sapiente
e soprattutto furbo. Quest’ometto si mise a
pensare seduto su un masso e la mano aperta
gli chiudeva gli occhi e il naso, sembrava
avesse deciso di non respirare più.
D’un tratto si alzò e posò il suo sguardo
sulle fittissime nuvole, era lo sguardo
d’un ometto fragile e indifeso, uno sguardo
pacifico e quasi sorridente,
uno sguardo solamente umano, e pensò pensò
come poteva e sapeva alla sua casa alla sua
strada alla sua porta. Pensò pensò intensamente
ma senza fretta senza ansia senza turbamento
poi si rimise a sedere.
Intanto le nere nubi cominciarono a diradarsi
l’azzurro del cielo a ricomparire di qua e di là
e un vento lieve a spingerle
sempre più lontano e a fare che il sole ricomparisse
sulla faccia della terra, di tutta la terra
e i colori a pitturare i campi e i mari
e tutte le nostre bellezze e a ridonare ai monti
il fascino delle loro splendide guglie.
Ma allora i miracoli esistono! pensarono
le moltitudini della terra, allora non è
tutto brutto tutto irrimediabile, allora
non è vero che le catastrofi, come dicevo,
sono davvero invincibili, e i ponti, le valli
i boschi, le fabbriche, i campi dove si gioca,
sono più forti delle streghe e gli uomini
più resistenti.
Chissà se tutto questo è vero
e chissà se la strega non sia che una pallida
invenzione dei nostri cervelli o soltanto
una strenua bizzarria delle malattie della vita.
Chissà.
Forse le catastrofi ce le immaginiamo, forse
le vediamo soltanto nei nostri pensieri malati
forse la realtà non è così cattiva
strana e inverosimile.
Le nostre paure i nostri terrori, forse, sono
semplici e scritti nell’aria ma sono solo
fantasmi inconsistenze strani fenomeni del cosmo,
forse sono davvero soltanto immaginazione.
Ma poi nei deserti, nelle strade negli alti monti
si trovano dei corpi inanimati tronconi di
persone stese a terra senza vita
e ormai senz’anima e sopra di loro si odono
canti di morte, infinite litanie singhiozzi
trattenuti e si vedono genti in ginocchio
che pregano qualcuno e forse sono
già morti anche loro e non lo sanno.
Forse sarà meglio ringiovanire le streghe
e lasciargli i loro veleni le loro pentole
panciute coi gas turchini che bollono
con i loro palloncini allegri e leggeri
che fanno festa nelle loro stamberghe
e che fuoriescono dalle porte di legno
a festeggiare l’aria con le loro sinistre
risate e con i loro falsi colori.
Caro Paolo, sì, potrebbe andar bene anche così come la vedi tu. Ma quella stanza non
è assolutamente un’ autocelebrazione, anche se potrebbe sembrarlo. E’ soltanto un
alleggerimento, un intervento un po’ giocoso, nient’altro. Perciò va bene anche come la vedi tu, ma il gioco fa parte anch’esso della mia poesia. Grazie, comunque, della tua
analisi. Ti saluto caramente. Arnaldo
Grazie, carissimo Arnaldo.
Un saluto affettuoso,
Paolo
Grazie Cristiana, come al solito la tua analisi mi piace molto. Ti ringrazio e ti abbraccio.
Arnaldo
…trovo simpatico e autoironico questo intervento dell’autore come curioso osservatore esterno di se stesso e della sua opera…mi ricorda, in certi dipinti, l’autoritratto del pittore in posizione marginale e quasi casuale, nelle vesti di un personaggio minore…Anche in alcuni film, il regista è magari riconoscibile in un frettoloso passante…Una modo spiritoso per firmarsi? O per entrare in sintonia con i personaggi e la trama narrativa?