di Ennio Abate
Mi è capitato oggi di leggere un impegnativo saggio di André Tosel, «Althusser e la storia» (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/608/559). Tratta dell’ultima fase dell’attività di pensatore del filosofo francese «dopo l’ uccisione della moglie nel 1980 e dopo il suo ingresso nella notte dei morti viventi». Tosel ragiona su un testo postumo del filosofo, «La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro», che faceva parte di un dossier di materiali per un’opera non redatta». Ho pensato di proporre questo lungo brano per due motivi: – avere, attraverso il dramma di Althusser, un quadro più vivo di quanto sia stato tragico il prendere atto del tracollo di un mondo teorico (marxista) che non riesce più a pensare le trasformazioni del mondo e del suo tentativo disperato di continuare a pensarlo; – dare profondità alla nostra discussione su Trump e il trumpismo. Leggerei lo stralcio dal saggio di Tosel, che intitolerei “Limiti della teoria marxista e globalizzazione come «mondo senza centro»”, anche in riferimento al punto 1 del mio commento (qui), dove ho scritto: « Se è venuta meno tutta una cultura marxista (o quantomeno laburista) e il politichese o il sindacalese degli anni ’70 del Novecento è diventata *lingua morta*, che senso ha fare « il mea culpa per aver abbandonato un intero universo sociale, quello del lavoro e dello sfruttamento»?». [E. A.]
Invece «oggi sappiamo che questo era un errore». La teoria marxista non ha saputo analizzare nei tempi opportuni quelle mutazioni che erano occultate dalle vittorie sull’imperialismo americano (Vietnam, Cuba) o dalle esplosioni dell’insurrezione del 1968. La politica dei partiti comunisti si decomponeva. «C’è voluto l’effetto della decomposizione e della disfatta del movimento operaio sotto i colpi di una “crisi” totalmente imprevista e di una gigantesca disoccupazione» per prendere coscienza della potenza delle «mutazioni», tanto prodigiose quanto incomprensibili, che andavano formandosi negli anni ‘50-70 e che sarebbero esplose negli anni ‘70-80. C’è voluto anche l’emergere delle rivoluzioni su basi religiosa (Iran), i giganteschi cambiamenti tecnologici nell’informazione e nella comunicazione, la costituzione di ampie classi medie di consumatori, la scomparsa del ceto contadino, l’incapacità del campo socialista di trasformarsi, la comparsa di un capitalismo all’insegna di una speculazione demente, l’instaurarsi di estremismi religiosi che si legavano ai terrorismi, «affinché l’esaltazione marxista dell’intelligenza e dell’azione cedesse a poco a poco e poi brutalmente il passo. La prodigiosa fascinazione del marxismo, la fascinazione di un’intelligenza e di un’azione rivoluzionaria possibile svanisce, almeno da noi, dall’oggi al domani»
Questa analisi non è una spiegazione teorica, ma una descrizione allarmante di ciò che bisogna comprendere e che Althusser nella sua lucidità stupefacente chiama «globalizzazione», indicando anche il luogo che ogni teoria della storia attuale deve occupare.
Althusser prende la misura di quei rivolgimenti che costituiscono un’epoca e apre un cantiere di-sperato, non disperante ma urgente. Niente di simile si manifesta in quegli anni da parte dei fautori della dialettica, i quali sono incapaci di questa analisi della situazione storica. Questo cantiere ha come problematica un’analisi della globalizzazione […] La “globalizzazione” e l’inverosimile intreccio dei monopoli di ciascun ordine (industriale, commerciale, finanziario, di servizi, di ricerca, marketing, comunicazione, etc.) rende assolutamente impossibile decidere dove si situi il suo “centro”»
Come pensare questo nuovo mondo senza centro, «questa stupefacente congiuntura»? Non è che la teoria marxista sia svanita: è che essa è impotente e inerte.
[…] Chi tenta, in effetti, in Francia di «concepire il movimento d’insieme dei grandi mutamenti contemporanei nella loro totalità complessa e contraddittoria e nelle loro tendenze ed effetti? Quasi nessuno, come se vi fosse oggi un compito al di sopra dell’umana intelligenza» (515). Questa diagnosi è senza appello e riguarda tutta la cultura, la quale soffre di questo «prodigioso degrado», di questo «vuoto incredibile di pensiero che sia un minimo coerente e rigoroso». Questo vuoto fa tutt’uno con l’incapacità di reagire del movimento popolare e con il fallimento della politica istituzionale. «È il deserto» che nemmeno l’arrivo sulla scena di un avvenimento inedito può popolare. Il deserto di una «generazione miserabile e senza autentica immaginazione, senza alcun ricorso alla teoria, alla riflessione e anche all’esperienza, addirittura alla semplice esperienza»
Althusser sembra toccare qui il fondo dell’abisso di un negativo irriducibile, sotto la pressione del nichilismo attivo della congiuntura. Ma c’è ancora di peggio. Non solo manca una teoria d’insieme per capire ciò che in quegli anni giungeva come un lampo, ma soprattutto sembra che in questo stesso tempo sia sparito il desiderio di capire, il nostro, sia da parte degli intellettuali che dei politici che dei giovani, delle masse intellettuali, operaie, piccolo-borghesi e studentesche. […] Non si vuole più comprendere ciò che accade e questo non per qualche avversione ideologica contro il marxismo ma perché il mondo è diventato troppo complicato, perché non si può più capire ciò che accade sulla base di nessuna teoria, compresa la teoria marxista. La lotta delle classi stessa, anche se dappertutto visibile, diventa una luna vecchia»
Potremmo certamente considerare unilaterali queste analisi che, non bisogna dimenticare, non sono state pubblicate dal loro autore.[…] la globalizzazione viene caratterizzata in effetti come l’evento di un mondo senza centro. Ciò che sembra condurre all’impotenza e alla scomparsa del desiderio di comprendere e di agire può diventare così il terreno sul quale il naufrago mette piede per risalire alla superficie del mare, non per chissà quale evento sotto il sole di una riva ritrovata ma semplicemente per continuare ad esistere a cavallo delle onde.
Torniamo su questa qualificazione della globalizzazione come produzione di un mondo senza centro. […] Il centro non è né nelle Borse, né nelle direzioni d’impresa, né negli Stati Uniti, né negli antichi centri politici nazionali, né nelle nuove configurazioni spaziali sovranazionali dalla vocazione politica equivoca (l’Unione europea). Non sta da nessuna parte e questo è un enigma per la politica e per le teorie che hanno fin qui avuto per riferimento dei centri, come la teoria marxista. Nonostante il suo senso del mercato mondiale, la sua concezione dell’imperialismo, questa teoria si è rappresentata sul piano politico attraverso movimenti operai centrati su basi nazionali e strutturati in organizzazioni che sono esse stesse centrate attorno a un partito-centro, destinato a sua volta a occupare il centro nazionale, il centro del centro. Il centro dipende dalla dominante della totalità strutturale articolata. «Per “centro” bisogna intendere non un centro geografico e nemmeno più il paese più importante per la sua autonomia di risorse materiali e per il gigantismo della sua produzione, né il più imperialista, ma il centro unico di studi ricerche, di decisione e direzione, cioè il centro di una strategia unificata della produzione distribuzione»
In un mondo simile come è possibile una politica che fin qui si proponeva come centrata sull’anello più sensibile? Questa domanda sembra invalidare il riferimento a Machiavelli, il quale, come Gramsci aveva sottolineato, legava la politica a un centro strategico, il Principe o il Partito, questo principe moderno. «Dove si potrebbe cercare di collocare in politica l’equivalente di un centro assegnabile che possa essere reperito e identificato come centro?».
Si può rispondere che la politica è dappertutto, ma allora da quale parte pensarla e farla muovere? Come pensare una strategia senza centro? «La politica è dappertutto, nella fabbrica come nella famiglia, nella professione come nello Stato». Se la politica non è da nessuna parte, ne deriva una depoliticizzazione delle masse. La politica migra dal lato dell’attività economica, che bisogna intendere come composta dalle imprese, classiche e nuove, dalle banche e dalle comunicazioni come dall’ideologia. È l’accresciuta libertà di intraprendere che diventa allora centro senza centro.
«L’ideologia prende il posto della politica, praticamente»ed essa ha bisogno de «l’illusione della politica» politicista come centro strategico al fine di meglio realizzarsi in questi apparati ideologici che costituiscono le forme d’organizzazione allargate della produzione. Questa ideologia, surrogato della politica, questa politica-ideologia, è «il liberalismo» rinnovato. Il quale «non ha che un senso, la libertà d’intraprendere; per chi? Per i trusts e i subappaltatori, cioè le forme più vergognose di sfruttamento contemporaneo, ma assolutamente non per i lavoratori, che attraverso la flessibilità del lavoro stiamo spogliando ufficialmente delle loro garanzie sociali conquistate con lotte secolari assai lunghe e dure».
La perdita di centro non esaurisce cioè lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Anche svanendo, la lotta di classe rimane una realtà strutturale in questa congiuntura di congiunture che si chiama globalizzazione del capitalismo e che forma una struttura che si rivela paradossale quando la si analizza.
La difficoltà si approfondisce e il secondo movimento sembra definitivamente differito. Si mette in opera, in effetti, una nuova e ultima dislocazione della questione del centro, verso l’ideologia e il potere. Innanzitutto, l’ideologia. «Questa ideologia, almeno, ha un centro e una strategia che possano rimpiazzare il centro e la strategia politiche? Si e no. Si: perché il suo vero centro è fuori di essa, nell’economia; ma l’anarchia dell’economia è tale, la sua assenza di centro assegnabile è tale, che tutti i fatti smentiscono le pretese di questa ideologia. E su questa realtà che le è totalmente estranea, essa rappresenta solo l’illusione di un discorso falsamente politico, buono solo per arrivare al potere».
Ma, nuova difficoltà, quale potere? Il potere con la maiuscola è sparito e non può costituire un centro. Bisogna allora ricorrere ai micropoteri di Foucault per definire questo movimento verso la politica? No. Foucault ha studiato solo società caratterizzate dalla struttura dominatrice di un potere centrale, che si ramificava in micro-poteri ma che non spariva. Rimane dunque da affrontare l’enigma di un effetto di società che liquida i centri producendo un potere economico-ideologico diffuso e onnipervasivo che riproduce uno sfruttamento crescente delle masse.[…]
Non esiste un «“centro strategico” capace di disegnare delle prospettive d’azione, un “progetto di società” di cui tutti parlano senza mai poterlo definire, una strategia in grado di definirsi in tattica e azione politica. Dove stiamo andando? Nessuno lo sa».
È in questo «mondo totalmente sconosciuto» che bisogna rassegnarsi a rimanere e lottare. È in esso che bisogna «comprendere le sue strutture sconosciute». La lezione di Machiavelli non serve praticamente a nulla, né quella di Gramsci, il più sottile dei marxisti del XX secolo.
[…] Althusser chiude provvisoriamente questa analisi incompiuta – di cui conosce il carattere descrittivo, empirico, storicistico e che non presenta mai come una teoria della congiuntura –, non abbandonandosi allo scetticismo ma con uno stupefacente atto di fede ragionata: «Ecco perché in fondo non sono pessimista». Althusser richiama al «grande principio dei movimenti popolari sulle forme d’organizzazione», alla trasformazione degli apparati d’organizzazione delle lotte e a uno sforzo teorico collettivo in grado di proseguire la decostruzione di Marx, uno sforzo che implica però l’uso di quegli elementi indispensabili che Marx fornisce. […]
Althusser conclude la sua analisi riprendendo l’ingiunzione letterale che formulava all’inizio della propria parabola. Questa ingiunzione è un programma di lavoro: attraversare il deserto tentando di pensare da sé e di fare del vuoto una chance. «Il marxismo ha l’immenso vantaggio che tenta di tener conto di tutto del processo mondiale e della sua tendenza evolutiva e attraverso le sue contraddizioni con le sue tendenze e controtendenze». È aperto alla propria trasformazione e cioè all’incontro con altri elementi. Lo scopo del materialismo dell’incontro è di rendere possibile l’incontro nel mondo di quegli elementi che rendono possibile «l’intelligenza approfondita di ciò che sta muovendo il nostro mondo, rinunciando radicalmente a ogni a priori di qualunque sorta sia. Bisogna mettersi a studiare i fatti, come diceva Marx, a conoscere positivamente i fatti, pur sapendo che nessuna conoscenza è possibile senza la luce di una concezione teorica scientifica e filosofica d’insieme»
Althusser è stato uno degli ultimi pensatori in ambito marxista. All’epoca, leggendolo, condividevo le sue posizioni anti-umaniste, sulla lotta delle classi come soggetto della storia, ecc. Avevo solo una perplessità, non capivo come un pensatore marxista potesse condividere il discorso lacaniano (poi, sull’ultimo, Althusser si corresse, confessando di non aver capito Lacan). Se oggi Althusser è “superato” (come s’usa dire con un termine apodittico che in realtà non spiega niente), è perché la mancanza d’analisi successive d’impostazione marxista e insieme l’accantonamento del marxismo da parte della stessa “sinistra” (termine oggi vuoto politicamente, ma tanto per capirci) ha reso il suo pensiero un fatto d’archeologia. Chi ci ha fatto i conti, ma mi pare in modo ancora inadeguato e anch’esso apodittico, è qui da noi l’ex althusseriano La Grassa, che dopo aver sostenuto la necessità d’uscire da Marx partendo da Marx. ha indirizzato la sua analisi critica verso la dialettica monopolarsimo/multipolarismo. Quindi a mio avviso Althiusser è stato dapprima oscurato a causa della sua tragedia personale che l’ha umanamente travolto, quindi sepolto troppo sbrigativamente da quegli stessi che non hanno mai avuto intenzione di fare i conti col suo pensiero perché aprioristicamente “superato”. Erano rimasti, almeno anni fa, ora non so, nella ridotta althusseriana, pochi orfani a celebrare anniversari (Turchetto, ecc.). E l’orizzonte del pensiero marxista oggi è sconsolatamente deserto, ogni tanto qualche Badiou vi compare, accompagnato magari dal sodale ed eclettico Zizek, ma ormai gli acciacchi congiurano contro di lui.
PS.: A mio avviso non si tratta per la “sinisra” (sul cui concetto vedi sopra) di fare il “mea culpa per aver abbandonato un intero universo sociale, quello del lavoro e dello sfruttamento”, ma di fare una autocritica. Qualcuno l’ha fatta, Cremaschi, Marco Rizzo, a loro modo D’Attorre e Fassina, ma si tratta di personaggi politici e sindacali minoritari, che mai riusciranno a far ravvedere i sinistri artefici della follia che viviamo, anche perché non si tratta di battaglia delle idee, ma sono gli interessi delle élite dominanti dietro questa follia.
PS.2: Non ho commentato l’articolo qui proposto, lo so, e mi sono fermato allo Zeitgeist che fa da cornice.
L’articolo di A. Tosel sugli scritti di Althusser pubblicati dopo la sua morte vuole identificare una parabola che colleghi la riflessione su Marx degli anni ’60 con i nuovi pensieri, mai pubblicati in vita, scritti dopo gli avvenimenti degli anni ’80 (l’omicidio della moglie e i soggiorni psichiatrici). Tosel esamina due testi centrati sulla politica per affermare che: “Questi testi chiariscono come Althusser pervenga alla conclusione relativa della sua parabola trasformando il proprio pensiero, senza necessariamente rinnegare se stesso.”
Ho letto l’articolo di A. Tosel insieme a quello di V. Morfino, su Quaderni materialisti, feb. 2012: “Il materialismo della pioggia di L.A., un lessico” (si trova facilmente in rete). Le due analisi sono molto diverse, anche se Morfino ritiene, come Tosel, che “si può rilevare senz’altro la presenza di alcuni temi che denotano una forte continuità con le opere degli anni Sessanta”. Morfino è uno dei due traduttori degli scritti postumi di Althusser: Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000.
L’articolo di Morfino è centrato sulla filosofia, e precisa i concetti di vuoto, di incontro, di fatto, di necessità e contingenza. Le idee di fondo riguardano come la realtà viene ad essere.
Il vuoto: “Epicuro ci spiega che prima della formazione del mondo un’infinità di atomi cadevano parallelamente nel vuoto. Essi cadono sempre. Il che implica che prima del mondo non c’era nulla e, nello stesso tempo, che tutti gli elementi del
mondo esistevano dall’eternità prima che vi fosse alcun mondo. Il che implica anche che prima della formazione del mondo non esisteva alcun Senso, né Causa, né Fine, né Ragione, né follia. La non anteriorità del Senso è una tesi fondamentale di Epicuro” (dallo scritto: La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro). La realtà è impensata, ha senso quando avviene, non ci sono cause o ragioni precedenti.
In Rousseau il vuoto è la foresta in cui hanno luogo incontri che possono o no durare: “La foresta è l’equivalente del vuoto epicureo nel quale cade la pioggia parallela degli atomi: è un vuoto […] nel quale degli individui si incrociano, cioè non si incontrano, se non in brevi congiunture che non durano. Rousseau ha voluto con ciò rappresentare ad un prezzo molto elevato (l’assenza di figli) un niente di società anteriore ad ogni società e condizione di possibilità di ogni società, il niente di società che costituisce l’essenza di ogni società possibile. Che il niente di società sia l’essenza di ogni società, è una tesi audace, la cui radicalità è sfuggita non solo ai contemporanei, ma a numerosi commentatori successivi” (id.).
In Epicuro, l’incontro: “Perché la deviazione dia luogo ad un incontro da cui nasca un mondo, occorre che duri, che non sia un ‘breve incontro’, bensì un incontro durevole, che diventa allora la base di ogni realtà, di ogni necessità, di ogni Senso e di ogni ragione. Ma l’incontro può anche non durare, e allora non c’è mondo” (id.)
Rousseau, l’incontro e la società: “Cosa ci vuole perché si dia effettivamente una società? Bisogna che lo stato di incontro sia imposto agli uomini, che l’infinito della foresta, come condizione di possibilità del non incontro, si riduca al finito per ragioni esteriori […] Una volta costretti all’incontro e ad associazioni durevoli di fatto, gli uomini vedono svilupparsi tra di loro dei rapporti obbligati, che sono dei rapporti sociali, dapprima rudimentali, poi ripetuti in seguito per gli effetti prodotti da quegli incontri sulla loro natura di uomini […] La società è nata, lo stato di natura è nato […] Si noterà che questo incontro potrebbe non durare affatto se la costanza delle costrizioni esteriori non lo mantenesse in uno stato costante contro la tendenza alla dispersione, se non gli imponesse letteralmente la sua legge di ravvicinamento, senza domandare il loro parere agli uomini, la cui società nasce in qualche modo alle loro spalle, e la cui storia nasce come la costituzione dorsale ed inconscia di questa società” (id.).
Tralascio altre citazioni su Faktum e contingenza per non allungare troppo.
Tutti questi elementi, idee, lasciano intuire in modo oscuro eppure forte che si riferiscono anche all’atto compiuto dal filosofo e alla follia di cui è stato imputato e da cui viene giustificato (Althusser ha beneficiato del non luogo a procedere).
E’ difficile nel testo di Tosel capire, nel lavoro di Althusser, i collegamenti tra la filosofia (il materialismo aleatorio del titolo in italiano delle opere postume: “alea, come dice giustamente Negri, è la parola nuova attraverso cui si annuncia una nuova filosofia”, scrive Morfino) e la riflessione politica: dove e come i due piani si intersecano, nelle stesse opere e negli stessi anni. Tosel trattiene il suo discorso su capitalismo e marxismo, ma senza le analisi filosofiche non si avrebbero le idee di incontro, di fatto, di *necessità della contingenza*. E’ con la filosofia che Althusser pensa il nuovo del reale e del sociale, non il solo momento storico centrato sul capitalismo-globalismo.
E’ una coincidenza molto interessante che la crisi del comunismo e del marxismo, e le vicende della vita privata del filosofo, avvengano contemporaneamente, che la “svolta” nel suo pensiero sia storica e biografica insieme. Osservo che questo accostamento lo faceva il femminismo negli stessi anni, con la frase che veniva ripetuta “il personale è politico”. Il femminismo non si è fermato qui, il personale non è im-mediatamente politico, è proprio la ricerca delle mediazioni che può fare del personale qui e ora un fatto politico.
Il personale allarga l’analisi di Althusser dalla filosofia alla politica. Questo dovrebbe impedire una generazione del pensiero politico come auto-generazione interna alla riflessione politica stessa.