di Roberto Bugliani
[Anche i confini culturali talvolta hanno l’aspetto di muri, e sono respingenti come le frontiere geografiche. Con queste schegge ho provato ad aprire dei piccoli varchi che danno su un paese “lontano dagli uomini e dagli dèi”, come mi scrisse la editor d’una nota casa editrice rifiutando la mia proposta di tradurre un romanzo ecuadoregno].
Oswaldo Guayasamín
“Un popolo senza memoria è un popolo senza libertà”, mi disse don Oswaldo durante l’intervista realizzata nel suo studio a Quito. Era l’agosto del 1993 e questo indio “anfitrione di radici”, così lo definì Neruda, aveva appena terminato la sua terza serie (o “sinfonia”) pittorica, il ciclo di quadri Mientras vivo siempre te recuerdo (“Finché vivo, ti ricorderò sempre”), omaggio alla propria madre e a tutte le donne che non hanno mai smesso di lottare come le Madri di Plaza de Mayo, nei quali a campeggiare sono la tenerezza e, appunto, la memoria.
Don Oswaldo è stato un personaggio scomodo, e in più occasioni ha fatto irritare i vicini a stelle&strisce (o a “sbarre e stelle”, canta Ricardo Arjona) del piano di sopra, che mai hanno smesso di considerare l’America Latina alla stregua del loro cortile di casa. Come la volta che diede scandalo per aver donato duecento dei suoi quadri a Cuba assediata dall’embargo. O la volta in cui poco mancò che provocasse un incidente diplomatico tra il suo paese e gli Stati Uniti perché nel mural di trecento metri da lui donato nell’agosto del 1988 al parlamento ecuadoregno c’era un teschio con l’elmetto nazista e la scritta CIA.
Anche la serie di quadri Riunione al Pentagono, appartenente al ciclo La Edad de la Ira dipinto tra gli anni ’50 e gli ’80 del secolo scorso, che ritraggono in primo piano volti di generali, uomini politici e d’affari riflettenti la bramosia e la crudeltà di cui il Potere si nutre, è stata mal tollerata dal Dipartimento di Stato statunitense, che già nel 1960 gli aveva negato il visto d’ingresso nel paese a causa del suo precedente viaggio in Cina dove aveva stretto amicizia con il presidente Mao.Mao
“Il ciclo dell’Età dell’Ira non può ancora avere una fine –, aveva osservato nell’intervista don Oswaldo – perché nel mondo abusi, crimini e violenze continuano a essere all’ordine del giorno”. A coronamento del suo impegno civile e plastico insieme, don Oswaldo mi parlò d’un “progetto ambizioso” che aveva in animo di realizzare: la Capilla del Hombre, ovvero la costruzione d’un edificio a pianta circolare dedicato alle lotte, al dolore, ai sogni, all’eroismo e al sacrificio dell’uomo latinoamericano a partire dall’epoca precolombiana, con 2500 metri di murales e un museo al suo interno.
Alla presenza di Fidel Castro e d’Hugo Chávez, la Capilla del Hombre è stata inaugurata nel novembre del 2002 nel quartiere quitegno di Bellavista, ma per una di quelle beffe di cui è maestro il destino, il suo ideatore non riuscì a vedere realizzato il progetto.
A oggi sono passati diciotto anni dalla scomparsa d’Oswaldo Guayasamín. Il suo lascito artistico è inseparabile dagli ideali di dignità, giustizia e libertà che hanno accompagnato il viaggio esistenziale di questo cittadino della Nuestra América (José Martí) nel “tempo che ci è toccato vivere”, come lui diceva.
- Pedro Jorge Vera
– Chi sono oggi gli scrittori italiani più importanti? – mi chiese a bruciapelo Pedro Jorge Vera quando andai a fargli visita nella sua casa quitegna. Preso alla sprovvista, esitai. Sapevo che Pedro Jorge apprezzava molto le opere di Cassola, di Moravia, di Pasolini, di Calvino, ma sapevo anche che a quei nomi la sua conoscenza della letteratura italiana del Novecento s’era arrestata. Dopo averci pensato un po’, provai con Tabucchi. I suoi occhi interrogativi mi fecero capire che quel nome era per lui un Carneade. Allora tentai con Consolo. La sua fronte pensosamente aggrottata mi disse che era meglio lasciar perdere. Ostinato, buttai là il nome d’Eco. Quello lo conosceva, o meglio, ne aveva sentito parlare. Quanto al resto, nessun altro scrittore italiano del secondo Novecento era arrivato fino in Ecuador.
Conobbi Pedro Jorge attraverso la sua compagna, Eugenia Viteri. Nel 1990 avevo acquistato in una libreria di Quito l’Antología básica del cuento ecuatoriano da lei curata, una rassegna di cuentistas ecuadoregni compilata a partire dall’Indipendenza repubblicana (1832) del paese, che lessi al mio rientro in Italia. Tradurre alcuni di quei racconti mi parve una buona occasione per promuovere la conoscenza della letteratura ecuadoregna, una cenerentola nel nostro paese, così scrissi a Eugenia per chiederle il permesso di tradurre un paio di quei cuentos, destinati a una rivista letteraria. Il consenso non tardò. E l’agosto successivo tornai in Ecuador.
L’appartamento di calle Ulpiano Páez dove Eugenia e Pedro Jorge mi ricevettero era piuttosto piccolo, arredato con mobili di legno massiccio, d’una eleganza sobria e un po’ all’antica. Ma le pareti del salotto dove la coppia riceveva gli amici erano sfavillanti di quadri e di fotografie incorniciate che raccontavano momenti significativi della vita d’Eugenia e Pedro Jorge. C’era la foto di Fidel Castro che abbraccia Eugenia nel corso d’una loro visita a Cuba nel 1985; a fianco la foto di Pedro Jorge che parla con Mao nel corso d’un incontro di scrittori latinoamericani a Pechino nel 1960; quindi quella di Pedro Jorge accanto al poeta Nicolás Guillén; un’altra lo ritraeva assieme a Juan Rulfo; altre ancora di lui e d’Eugenia con Ernesto Cardenal, con Regis Debray, con Kruscev a Mosca nel 1961. Le foto s’alternavano ai quadri degli amici Oswaldo Guayasamín, Eduardo Kingman, Endara Crow, Oswaldo Viteri. Gran parte del Gotha pittorico ecuadoriano del Novecento s’era dato convegno sulle pareti di quel salotto che allo sfarzo degli stucchi e dei cristalli aveva preferito le testimonianze della Storia.
Accendendosi l’ennesima sigaretta, Pedro Jorge mi parlò della sua lunga amicizia, che fu parimenti un sodalizio politico, avendo entrambi militato da giovani nel Partito comunista ecuadoregno fino alla loro espulsione nel 1936, con Gallegos Lara, l’autore di Las cruces sobre el agua, uno dei romanzi più importanti della letteratura sociale ecuadoregna, che narra la strage dei lavoratori in sciopero compiuta dall’esercito il 15 novembre 1925 nelle strade della città portuale di Guayaquil. Secondo gli storici ecuadoregni la data di quella strage costituisce il discrimine tra l’Ecuador ottocentesco e quello novecentesco.
L’attività politica di Pedro Jorge è andata di pari passo con quella letteraria. La sua ferma opposizione alla politica populista del dittatore Velasco Ibarra, eletto per cinque volte alla presidenza del paese, gli costò il carcere. Anche la giunta militare golpista che governò il paese tra il 1963 e il 1966 lo arrestò appena sbarcato all’areoporto di Quito di ritorno da un viaggio a Mosca. Rilasciato, Pedro Jorge andò in esilio a Santiago del Cile assieme alla prima moglie gravemente malata che nella capitale cilena morì pochi mesi dopo. Lì conobbe Eugenia Viteri, in esilio come lui e come lui nata a Guayaquil, che sposò l’anno successivo, due anni prima della caduta della giunta militare e del suo rientro a Quito dall’Avana.
Di Pedro Jorge sono riuscito a tradurre e a pubblicare solo alcuni racconti su riviste. Più volte nel corso degli anni ho proposto a case editrici i suoi romanzi, soprattutto i suoi due a mio avviso migliori: Por la plata baila el perro (1987) e Este furioso mundo (1992), ma sono stati regolarmente rifiutati. Col senno di poi direi che il rifiuto avrei dovuto prevederlo, perché quello di Pedro Jorge non ha nulla a che fare col realismo magico che allora andava per la maggiore. I suoi romanzi appartengono alla corrente artistica del realismo sociale che l’industria culturale italiana ha stabilito essere “fuori moda”, forse perché non le assicura un sufficiente margine di profitto.
Pedro Jorge Vera è morto a Quito il 5 marzo 1999, poche settimane prima del suo grande amico e compagno di lotte politiche, il pittore Oswaldo Guayasamín.
III. Eduardo Delgado
L’ex sacerdote Eduardo Delgado è un esponente dei movimenti sociali che hanno preso parte alla rivolta cittadina dei forajidos, la “teppa”, così apostrofati dall’allora presidente in carica Lucio Gutiérrez (un po’ come la racaille di Hollande) spodestato nel 2005, ed è stato tra i fondatori del movimento “Ecuador Decide”, costituitosi nel 2004 in seguito all’alleanza tra 200 organizzazioni sociali, studentesche, indigene, contadine e di lavoratori, aggregate sulla base del comune programma di lotta contro il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti e per la costruzione d’un modello alternativo di paese.
Come ha scritto lo scrittore uruguayano Raúl Zibechi, agli inizi del XXI secolo i movimenti sociali latinoamericani hanno attraversato un periodo particolarmente delicato, in quanto l’iniziativa era “sbilanciata” a favore dei governi progressisti che stabilivano l’agenda politica della regione. Sia per i notevoli aspetti di discontinuità con il passato che ha presentato la situazione politica latinoamericana di quegli anni, sia per la forte legittimazione che hanno ricevuto i governi nati a ruota delle proteste popolari, i movimenti sociali si sono trovati in una fase di riposizionamento e di ripensamento delle lotte, e il loro prendere atto del nuovo scenario politico è avvenuto spesso con una certa difficoltà a causa delle loro contraddizioni e dei conflitti interni.
Da sempre di natura complessa, il rapporto tra governi progressisti e movimenti sociali corre ogni volta il rischio di “risolversi” con la perdita della capacità d’incidere di questi ultimi sui programmi governativi e con l’esaurimento della pressione dal basso, che è la loro caratteristica più qualificante. Ovvero, per dire con Wallerstein, il rischio è che le forze antisistemiche finiscano per legittimare l’ordine esistente, ritenendo concluso, nella fase progressista, il loro mandato sociale.
Per evitare ciò, osserva ancora Zibechi, è necessario che i movimenti che hanno promosso le rivoluzioni democratiche in America Latina conservino la loro identità originaria e la loro autonoma capacità di mobilitazione sociale, seguitando a controllare dal basso l’opera di mediazione politica dei governi con le forze di destra al fine di varare le riforme sociali e istituzionali di cui i rispettivi paesi abbisognano.
In un’intervista concessami nel novembre 2005, Eduardo Delgado, riferendosi al rapporto tra movimenti sociali e potere politico, osservava: “l’ambito d’azione dei movimenti sociali è la democrazia, una democrazia effettiva che non si fonda solo sul suo aspetto formale, attraverso la quale i movimenti sono riusciti ad ampliare e ad estendere i diritti sociali e le libertà. Ma sono stati in grado di farlo proprio in quanto movimenti”. E, passando a criticare il “doppio discorso” e le “incoerenze di noi movimenti che in qualche modo siamo utili al potere, allineati al modello economico da cui traiamo vantaggio, anche se lo neghiamo”, Delgado riteneva indispensabile per “la rifondazione politica del paese, uno sforzo d’integrazione dei diversi settori sociali al fine di ricomporre dal basso il frazionamento di forze esistente”.
Oggi la reazione elettorale che ha mandato al potere governi di destra in molti paesi del subcontinente latinoamericano, dal Brasile all’Argentina, ha mutato il panorama politico della regione e, conseguentemente, sono cambiati i rapporti di forza istituzionali in quei paesi. Ma per quanto riguarda la “democrazia effettiva” che i movimenti sociali devono perseguire senza limitarsi al suo “aspetto formale”, e “l’integrazione dei settori sociali”, allo scopo di ricomporre dal basso l’unità delle forze popolari, mi sembra che siano compiti estremamente attuali.
Le schegge sulla vita delle tre persone mostrano la continuità, in Equador ma non solo, tra terzomondismo e perseguire oggi una linea di democrazia effettiva e di ricomposizione delle forze sociali.
Nel diffuso modo di pensare liberista e globalista qui da noi, le coalizioni centriste si presentano come il solo terreno democratico, puntano a scarnire tutti i tipi di opposizione, a unificarli con la confusione ideologica sulle loro posizioni, proiettano indefinite ombre di “terrorismo”, ma sicurezza sulla loro disastrosa incompetenza economica.
…interessanti queste schegge di Roberto Bugliani sull’ America Latina, in riferimento a persone che in Ecuador si sono prodigate per promuovere cultura e progresso popolare. Facile toccare con mano la propria ignoranza, dato che di questo subcontinente in genere in occidente si conoscono esclusivamente i nomi dei nobel, di alcuni personaggi che hanno fatto la storia e poco piu’…Mi sono permessa di chiedere ad una signora dell’Equador che conosco e che vive in Europa da molti anni con la famiglia se conosce queste persone…Del pittore Oswaldo Guaysamin ha imparato qualcosa sui banchi di scuola(istruzione elementare), di Edoardo Delgado sa della sua partecipazione al movimento Ecuador Decide, mentre dello scrittore Pedro Jorge Vera nulla. Ma la signora mi ha parlato con molto entusiasmo di due atleti del suo Paese di fama mondiale: Rolando Vera e Jefferson Peres ( in suo onore ha chiamato Jefferson uno dei suoi figli), entrambi di origine poverissima, il primo vinse la sua prima gara a diciotto anni marciando denutrito e con le scarpe rotte…Mi ha aggiunto poi molti particolari su come la madre di Rolando Vera facesse la lavandaia e come la sua famiglia numerosa e senza padre, vivesse sulle rive di un fiume in una capanna con il tetto di plastica. Gli atleti sono poi diventati due veri miti nazionali, in una sorta di riscatto sociale valido per l’intero popolo dell’Ecuador…Allora le ho chiesto: e gli altri senza questi talenti? Povertà e migrazione…Ma l’orgoglio conta comunque molto di dimostrare un valore negato in qualsiasi campo