di Luigi Paraboschi
Con questa raccolta edita da “Pietre vive”, Polvani, già noto per numerose altre pubblicazioni poetiche di valore, ha espresso tutta la sua filosofia di vita dentro il titolo stesso : il mondo è – a suo parere – il frutto di una serie di colossali sbagli, e attraverso poco più di una trentina di testi, tenta di convincere il lettore della validità della sua affermazione, dalla cui concretezza siamo talvolta tutti persuasi a seconda delle nostre formazioni etiche, politiche o religiose.
Confesso che la lettura delle poesie mi ha coinvolto moltissimo, sia per la loro forma espressiva, sia e soprattutto per i contenuti, dai quali è difficile prendere le distanze senza lasciarsi troppo coinvolgere emotivamente, delusi, come spesso siamo tutti noi non più giovanissimi, dall’andamento della vita che stiamo vivendo spesso in deciso contrasto con quelle che sono state le speranze o le aspirazioni delle frequentazioni giovanili.
Qualcuno di noi, come Peschechera Vincenzo, contadino produttore di vino, ormai in pensione, che divide l’esistenza con la moglie, signora Rosa, afflitta dall’artrosi, avrà forse riflettuto così, tirando le somme del proprio vivere:
Gli anni del sindacato./La sofferta gioia del partito. /La tessera storica e i figli /che non hanno l’epica nel sangue e trovano/patetica la commozione /e anche l’Internazionale.
Ma non lasciamoci confondere da questi versi che potrebbero indurci a sentimentalismi gratificanti ma inutili, e proseguiamo nella lettura cercando di tenere presente che Polvani osserva, ma osserva con il cuore e ci costringe a distaccarci da una lettura asettica degli avvenimenti come ci vengono presentati dai media, ed a prendere posizione, come in questo stralcio che ci rimanda ad immagini che quasi quotidianamente ci vengono sottoposte spesso con indifferenza:
Sembrava una cosa abbandonata, un lembo/di camicia sollevato, le scarpe d’incerta/qualità, ma non era una cosa era/un uomo ucciso. Il telegiornale ha acceso /una terribile domanda. Campo lungo/su folla e idranti, blindati e assetto/da guerra. Siria. Una strada del mondo.
o in questo altro pezzo:
Forse importa alle banche un uomo che brucia ?/Una grossa fiammata non ammorbidisce il/ruggito degli autobus/e i semafori/perseguono nel loro muto ammiccare.
e ancora questo breve stralcio di un’altra ci costringe a chiederci quante volte siamo incorsi nell’errore di cui il poeta parla riferendosi ad un “ vu cumprà “ incrociato per strada:
Hai una valigia/con la pancia gravida di cianfrusaglie, forse/borse contraffatte, sarà per questo/ che nessuno ha l’ardire di sederti accanto/e stila un inventario delle seguenti colpe:/
essere nato dove la povertà non è solo un concetto;/portarsi appresso un odore che dice: al tuo albergo/manca tutto tranne le stelle; in special modo/la più disdicevole delle colpe: hai fame.
Ma la conclusione da trarre può essere solamente la condivisione, lo scoprirci abitanti di una stessa terra, e condannati dallo stesso destino di esseri viventi:
Pane si dice m’buru/in uno dei dialetti della terra/ma parla di una stessa fame/e fame ha tanti nomi/nei dialetti della terra/ma fame è la stessa fame/e porta lo stesso vuoto nello sguardo/e la stessa attesa.//
Si attraversano i deserti, si attraversano/i mari, per quel pane, per quella fame/che ha tanti nomi nei dialetti/della terra.//
La morte che viene a prenderci/ senza bussare/porta lo stesso gelo/e morte ha molti nomi e gelo/ ha molti nomi.
Mi rendo conto che forse agli occhi di qualche lettore innamorato esclusivamente della forma letteraria i testi che ho sottoposto non siano molto gratificanti sotto questo profilo, però a me che sono da sempre appassionato del modo con il quale un poeta osserva il mondo e l’umanità che lo abita, sembra che nell’insieme lo sguardo di Polvani non sia semplicemente quello del poeta politicamente schierato e di conseguenza “ politicamente corretto “, ma sia anche quello dell’osservatore appassionato alla nostra umanità spesso toccata dalla sofferenza, condizione nella quale anche la fede (quella con la maiuscola ) spesso non è sufficiente e spiegare il dolore, come in questa poesia intitolata “ Lettera a Dio “ :
Buon giorno Signore, sono Samir, quello/della bicicletta rossa nei vicoli./Avevo la mia mamma, avevamo/un cavallo a dondolo, il gatto/dormiva vicino alla finestra.//
Buon giorno Signore, sono Samir, quello/che dice: sia fatta la tua volontà,/quello che ha visto le pietre, ha visto/la mamma portata in piazza, legata,/ha visto le pietre che volavano, ha visto/la crudeltà negli occhi della gente, ha detto/sia fatta la tua volontà. Buongiorno/Signore, sono Samir, che una volta aveva/la minestra calda, la mamma/l’inverno, quando c’è la neve, e non sapeva/il sangue sulla terra, le pietre, e il colpo/di pistola, sulla testa, la mamma/ha avuto un sussulto, un sussulto/tutte le notti e i giorni e tutte/le notti e i giorni. Sono Samir/quello che dice: sia fatta la tua volontà./Quello che tutte le notti, che tutti i giorni./Buon giorno Signore, sono Samir.//
E lo sguardo del poeta non è soltanto di denuncia ma sa anche essere affettuosamente vicino alle persone che egli ritrae con scrupolo quasi fotografico, come in questa :
Guardate con quale foga impazza/il signor spazzino re della ramazza,/con quale santa lena scrosta pulisce spazza/lascia lucida e linda ogni via, ogni piazza.//
Tratta la scopa come fosse la sua sposa,/con quale maestria, che tocco di energia, pare ci danzi/Sospetto che di notte, in segreto, ci balzi/in groppa e voli, come i poveri nel film/Miracolo a Milano. Spazzino votato alla santità,/che il tuo modo d’amarci, di trasmettere bontà,/è far volare quel ruvido cuore di saggina/ per tutta la città, per tutta la mattina
Anche di fronte a soggetti umani che potrebbero indurci a trarre conclusioni giustificate ma non inclusive della generosa comprensione verso le debolezze umane, egli scrive, forse conscio che il dare giudizi definitivi di condanna non possa prescindere dalla comprensione per certe colpe spesso dovute solamente “ agli imperativi della produzione:
Fuori dal supermercato la nomade promette: /ti porto Madonna di Romania. Ma è lei una madonna della sporcizia/ e delle botte, dei topi che rosicchiano nel buio, del freddo/ che assedia il vecchio magazzino abbandonato,/naufragato in mezzo a grandi vigne. Svernano qui, lei, la sua tribù di figli./All’arrivo delle rondini preparano i bagagli. Evaporano/ col caldo. Sospendere il giudizio, far tacere gl’imperativi/della produzione, le parole d’ordine dell’efficienza e del profitto./ Qui c’è una piccola madonna del dolore, forse innocente, forse no. //
C’è sempre un risvolto dietro ogni atteggiamento, sembra dire Polvani, quasi a volerci aiutare a comprendere meglio e con minore cattiveria interiore, ciò che avviene sotto i nostri occhi di passanti nella vita.
E’ come se dietro tanti gesti violenti dei quali la cronaca è densa siano nascosti i segreti di tante frustrazioni delle quali siamo talvolta tutti vittime, come in questa :
Il giovane rom aveva il sangue dello stesso colore/del suo, e questo al ragazzo rasato dava molto fastidio./All’altezza dello zigomo, scorreva lento, denso, sembrava/il suo, forse voleva imitarlo, si diceva,/tutta una messinscena, evidente, una finta,/anche le urla, sembravano le sue da bambino, quando/il padre gridava per casa e il terrore/era quella cinghia brandita. Ma il giovane rom/rubava, era programmato per quello, punirlo/un dovere sociale. Il ragazzo rasato affondava/la punta degli anfibi, sentiva le costole cedere,/le ossa sembravano di essere umano ma/anche questo rientrava in una strategia precisa/nella manovra di impietosirlo, bastava insistere, solo/un poco ancora, e il giovane rom/avrebbe smesso di respirare, avrebbe finalmente smesso di somigliare a lui.//
L’occhio del poeta sa essere anche bonariamente generoso, traboccante di quella comprensione indispensabile a chi vuole rendere il mondo meno pieno di quel “ clamoroso errore “ del titolo, come leggiamo in questa :
Forse è il sorriso la maniera più saggia/di stare al mondo. Lei si chiama Mihaela./Il suo sorriso non nasce dal rotolarsi/in un letto con un fidanzato, gridando/di gioia, o dall’estenuarsi nelle discoteche/barcollando con un bicchiere in mano,/oppure dal cicaleccio fitto di compagne,/o dallo spiare con commozione una ruga nuova sul volto/della madre, in una casa calda, ed è Natale,/no, lei sorride e fa la badante a una vecchia pazza/che le rinfaccia il suo essere rumena, che hanno dovuto/mentirle, dirle che viene dalla Russia,/perché lei non l’avrebbe presa una rumena, con tutto quello/ che si dice in giro. Mihaela sorride, ed è Natale.//
E mi sembra giusto concludere con i versi che seguono perché la bonomia e la tolleranza che ho cercato di rintracciare nei testi ultimi elencati, mi sembra cedano il posto ad un sottile sarcasmo e a una cattiveria quasi indispensabili per bilanciare nell’animo dell’autore le tante delusioni derivanti dall’osservazione delle nostre debolezze e meschinità :
Che il mondo vada a scatafascio, le guerre inaspriscano il pianeta,
i barconi facciano naufragio, i migranti a picco, i padri accoltellino
nel sonno, s’impennino i femminicidi, l’acqua scarseggi e tutta
sia di pochi, la crisi spiazzi, che l’ultima goccia di petrolio schizzi,
tutto questo per te non fa una piega, purché si vada avanti
con la liga, purché si faccia il coro, purché la curva ostenti
lo striscione, purché si salti sugli spalti, purché
il gregge veneri il pastore, purché viva la Giuve, purché risplenda
quella fede antica, la divinità più amica, purché viva la fica,
che il mondo scarti, scivoli, cada a precipizio, la bomba
faccia un’ecatombe, a Gaza i razzi squarcino i bambini, il paese
deragli, affoghi alluvionato, ma non si tocchi il campionato, purché
viva la Giuve, resti alto il vessillo del credo che anestetizza,
favorisce il sonno, confonde il senno, ottunde, vaneggia, mistifica, purché
viva la fica. Il mondo crolli, si sfracelli, ma che la curva
urli, il delirio deliri, il fanatismo scrosci e rimpiazzi
i residui sprazzi di lucidità, tutto finisca, si esaurisca il mondo, purché vinca la Giuve.
Un libro urticante nel suo insieme, che ci costringe a riflettere su noi stessi e sul nostro modo di osservare e giudicare il mondo, e ci obbliga a confrontarci con molte delle nostre convinzioni o pseudo tali, e svolge quindi egregiamente il ruolo che a me sembra spetti alla poesia quando non voglia essere considerata autoreferenziale.
grazie mille a Luigi Paraboschi per questa generosa nota di lettura! e a Ennio Abate per l’ospitalità! è per me un grande onore e un grande piacere essere qui, scoprire attenzione e affetto nei confronti dei miei versi, grazie!
Le immagini che vediamo nei telegiornali, anche nei notiziari online, a pensarci bene son senza parole. Notizie senza parole.
Non so quali possano essere le parole più adatte ma certo quelle della poesia svolgono un campito di primaria importanza, più della filosofia e della politica, perché sono come il pane quando si ha davvero appetito – a meno che non si creda davvero al linguaggio e alle trovate della cuisine. Ma per fortuna queste cose molti le sanno, infatti lo si nota in quelli che magari rifiutano l’offerta di un vucumprà ma dicono ” scusami” e non gli negano lo sguardo, oppure non maledicono i ragazzi che lavorano ai call center se rompono le scatole a ogni ora, perché lo sanno; sanno che si fa di tutto per cercare di restare a galla.
Quindi queste poesie son benvenute in partenza. Poi si dirà della forma, che se non altro avrebbe il merito di scansare certi sentimentalismi. Ma qui non si sa. La presentazione di Paraboschi aderisce ai contenuti, e fa bene, lo capisco.
Grazie.
«Il mondo come un clamoroso errore». Sto rileggendo, in questi giorni, «Corporale» di Paolo Volponi. Scritto fra il 1965 e il 1974 (e pubblicato all’inizio di quell’anno) è il romanzo che più esprime la crisi, personale e sociale, a quell’altezza cronologica. Dopo le speranze e i progetti degli anni olivettiani, della milizia nel Pci, delle dichiarazioni d’essere comunista, delle ambizioni e dell’orgoglio della giovinezza, tutto ora sembra, a Volponi, in disfacimento. Il mondo (con la paura dell’atomica e del dissolvimento sociale), il tessuto sociale imborghesito e prostituito, il padre baffone Stalin colpito da freccette sarcastiche, i riti ripetitivi delle riunioni di partito inconcludenti e sempre in ritardo rispetto al sapere (tecnico e organizzativo) del mondo industriale, le rivalità nelle corse alle carriere, le invidie, le lotte intestine, le masse indifferenti e contente del piccolo benessere quotidiano, la rivoluzione che non c’è o che, dove c’è, cade dall’alto causando più danni che bene. Il tutto espresso in un romanzo che è un antiromanzo, con le strutture narrative dissolte, smembrate, disperse come brandelli di carne dopo un’esplosione, dove l’io narrante si perde, si moltiplica e non diventa mai personaggio, dove mancano centro e periferia, dove il flusso ininterrotto di coscienza non è un flusso ma una tribolata e disperata costruzione letteraria che non trova il tempo e lo spazio in cui contenersi e i confini di inizio e di fine. 650 pagine di tessere di un puzzle apparentemente disposte a caso, che potrebbero riassumersi in dieci o dilatarsi in diecimila, senza che nulla cambi.
Forse è quanto di meglio, di più simbolico e anche di più ardua lettura abbia prodotto la crisi di una generazione.
Ogni generazione ripete la sua crisi: dalle speranze alle delusioni, includendo il personale e il politico. E ogni crisi ha la sua produzione letteraria.
Ciò avviene da oltre due mila anni. Tanto che verrebbe voglia di dire che l’uomo, da sempre, ha considerato il mondo un errore. O almeno una parte degli uomini l’ha fatto.
Ma io mi chiedo, per non correre il rischio di ripetere in eterno questa vecchia osservazione e lamentazione, di cui rintracciamo le radici anche nei più antichi testi, quelli sacri o meno sacri, dalla Bibbia alle prime testimonianze letterarie sumero-babilonesi, indiane e cinesi.
Mi chiedo: di che tipo di errore si parla? Sociale, politico, economico, psicologico, antropologico, religioso, ontologico, metafisico? Perché la diagnosi decide della terapia. Senza diagnosi non c’è terapia e non c’è guarigione. Se c’è diagnosi si può formulare una terapia, se la malattia è curabile; altrimenti è anche inutile lamentarsi e tornare a ripetersi. L’unica terapia (placebo) diventerebbe l’accettazione di un destino incurabile.
E allora ci lamentiamo dissolvendo il tessuto narrativo (e sentimentale) o costruendo narrazioni melodrammatiche che sollecitano lo sdegno lacrimevole dei buoni sentimenti feriti? Ci lamentiamo mettendo da parte le lamentele per costruire quello che di buono, nel nostro piccolo, riusciamo a costruire, o ci lamentiamo dimenticandoci di tutto il resto? Ci lamentiamo con il linguaggio tradizionale della lamentela, o con quello della contro-lamentela? E infine, siamo sicuri che parlando di giustizia e di ingiustizia, di fame e di non fame, la «fame è la stessa fame/e porta lo stesso vuoto nello sguardo/e la stessa attesa», e non sia invece anche la fame un plurale che ha diverse facce storiche, sociologiche, politiche, economiche ecc.? E che, se la fame non è sempre colpevole, non è nemmeno sempre innocente? O storicizzare la fame è di cattivo gusto?
per Luciano Aguzzi :
stralcio queste righe dal suo commento che trovo decisamente profondo e meritevole di un ulteriore intervento . Lei dice :
“Senza diagnosi non c’è terapia e non c’è guarigione. Se c’è diagnosi si può formulare una terapia, se la malattia è curabile; altrimenti è anche inutile lamentarsi e tornare a ripetersi. ”
E mette così il dito nella piaga.
Infatti, come lei scrive, da qualche millennio, l’uomo non fa che ragione sull’assurdità della sua condizione, ed ogni uomo trova la sua risposta : chi si auspica la rivoluzione, chi sogna il comunismo, chi si accontenta della socialdemocrazia, chi pensa a fare quattrini, e chi si spende per aiutare gli altri. chi accetta una visione trascendente del vivere ( è il mio caso ) e invece chi pensa che siamo destinati solo ad essere polvere.
Credo sia stato Albert Camus a far dire al dottor Rieux nè ” la peste ” che : quando si è scoperto che non si può essere né santi né eroi, tanto vale accontentarsi di un satanismo modesto e caritatevole “.
E a questo punto ognuno di noi cerca di trovarsi una risposta al fatto che ” il mondo è un clamoroso errore ” .
Personalmente lo credo anch’io ma non mi dispero, so per fede che un giorno avrò le risposte che ho cercato in vita, e per ora mi devo accontentare di leggere la storia come una continua evoluzione, conscio che agli occhi di Dio : “mille anni sono come un giorno”, e quindi non voglio domandare alla poesia le risposte che non so trovare nella vita.
Mi accontento, la leggo, mi lascio sedurre e se condivido i suoi contenuti la giudico favorevolmente, come ho fatto con questo libretto di Polvani.
Grazie per essersi fermato a discutere.
Cordialità.
…”Il mondo come un clamoroso errore”, cioè qualcosa che all’inizio dei tempi forse era solo una dissonanza, un rumore in sordina, ma poi s’è fatto assordante, impossibile da ignorare…La Bibbia ci ha riferito di un “peccato originale”, ( diagnosi: la superbia?) che l’uomo avrebbe commesso, come imboccando da allora e per sempre il sentiero sbagliato… E nonostante il ricorso a figure salvifiche siamo qui a dirci che ormai l’errore non solo non è rientrato ma s’è fatto madornale, da stordirci…Le “urticanti” poesie di Paolo Polvani, come ben dice L. Paraboschi, ce lo presentano piuttosto nell’aspetto delle vittime, di coloro che di quell’errore subiscono le conseguenze…Poesie dove la forma è assolutamente congeniale a un contenuto che squarcia orecchie e coscienze. L’autore non è l’osservatore distaccato, come si capisce bene dall’ultima poesia presentata, egli stesso, emotivamente coinvolto. esplode in una serie di dichiarazioni che sembrano dirci: se siamo a questo punto, affrettare la fine per staccare la spina è meglio. Una provocazione, credo
Non pensavo che i miei versi accendessero una così viva e interessante e autorevole discussione! senza dubbio merito delle parole di Luigi Paraboschi più che delle mie poesie. La diagnosi decide della terapia. Si tratta di un concetto molto bello, e preciso, e giusto, ma non so se diagnosi e terapia competano alla poesia. Credo che la poesia abbia (forse) il compito di tenere la luce accesa, o la finestra spalancata sugli errori del mondo, sulle ingiustizie, sulla globalizzazione dell’infelicità; di interrogarsi, di fare domande, non credo le competano risposte. O forse la risposta è la poesia stessa. Nei versi della ragazza Carla c’è tutto il disagio dell’Italia che ricostruiva sulle macerie della guerra e la solitudine, lo sperdimento cui si andava incontro negli anni del boom economico. I versi finali recitano: (cito a memoria e potrei sbagliare) non c’è risoluzione nel conflitto storia esistenza fuori dell’amare altri, anche se amore importi amare lacrime…Ora non credo che amare altri costituisca la terapia, è sicuramente un ottimo punto di partenza, un atteggiamento imprescindibile, ma la terapia va cercata altrove. Personalmente la trovo in alcuni filosofi, in alcuni sociologi, trovo per esempio che molte risposte su diagnosi e terapia siano nel bel libro di De Masi Lavorare gratis lavorare tutti, trovo illuminanti alcune opere di Franco Berardi (Bifo), per esempio mi piace citare un brano tratto da L’anima al lavoro, in cui parla della funzione terapeutica e risanatoria dell’arte: “Nel modello virtualizzato del semiocapitalismo l’indebitamento ha funzionato come cornice generale dell’investimento, ma al tempo stesso si è trasformato in una gabbia per il desiderio: ha trasformato il desiderio in mancanza, in bisogno, dipendenza che si trascina per tutta la vita. Trovare la via d’uscita da questa dipendenza è un compito politico la cui realizzazione non tocca ai politici. Tocca all’arte, modulatore-orientatore del desiderio e mixer dei flussi libidici, e alla terapia, intesa come rifocalizzazione dell’attenzione e come spostamento degli investimenti dell’energia desiderante”. Di qui viene fuori che l’arte, e quindi anche la poesia, in quanto orientatrice del desiderio, è parte della cura, ha il compito di spingere nel senso di una direzione, di prendere posizione. Forse la poesia è essa stessa denuncia dell’insorgere del male e cura. Forse è paragonabile alla febbre, che è insieme sintomo e rimedio. Forse è questo continuo cercare, non credo vi siano risposte definitive, e approdi certi, ma trovo molto bello, e utile, parlarne, discuterne, non fermarsi mai.
Cito Luciano Aguzzi (22.04 h. 4.15):
*Ogni generazione ripete la sua crisi: dalle speranze alle delusioni, includendo il personale e il politico. E ogni crisi ha la sua produzione letteraria.
Ciò avviene da oltre due mila anni. Tanto che verrebbe voglia di dire che l’uomo, da sempre, ha considerato il mondo un errore. O almeno una parte degli uomini l’ha fatto.
Ma io mi chiedo, per non correre il rischio di ripetere in eterno questa vecchia osservazione e lamentazione, di cui rintracciamo le radici anche nei più antichi testi, quelli sacri o meno sacri, dalla Bibbia alle prime testimonianze letterarie sumero-babilonesi, indiane e cinesi*.
E poiché è stato citato A. Camus (Luigi Paraboschi, 22.04 h. 15.42), mi piace ricordare qui un altro suo libro “Il mito di Sisifo” del 1942 (nel pieno della II Guerra Mondiale), che è anche in tema con il contenuto di questo post.
Come racconta il mito, Sisifo a causa della sua insolente superbia che non accettava il potere degli dèi, fu condannato da Zeus a trasportare per l’eternità un pesante masso fino alla sommità di un colle, da dove il masso sarebbe invariabilmente rotolato a valle, costringendo quindi Sisifo a ricominciare la fatica daccapo. Disperante ripetizione!
Lo scrittore nel raccogliere il mito di Sisifo, tralascia la parte, pur importante, della punizione divina nei confronti della superbia (tema che ritroviamo anche nel biblico racconto della Torre di Babele), ma sottolinea l’uscita da un destino a cui l’ira del padre degli dèi lo aveva condannato. Sisifo non può esimersi dalla punizione divina ma sperimenta un nuovo modo di viverla.
Camus vede quell’uomo “ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine […] In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dèi, egli è superiore al proprio destino” (p. 119); “Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua […] Egli sa di essere il padrone dei propri giorni” (p. 120).
Sisifo insegna la inesauribile speranza di riuscire a vincere la propria sorte: nel negare gli dèi solleva i macigni (dove “dèi” significa anche ideologie).
La presa di consapevolezza della pena che deve sopportare, nonché la causa che l’ha generata (la passione per la vita degli uomini che lo ha portato a contraddire le potenze divine, a svelarne i segreti e aver ingannato perfino la Morte) lo spinge, nel momento della discesa a valle per ricominciare la sua fatica, a osservare ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ogni segno di mondo che lo circonda. E ogni volta lo sforzo è accompagnato da una coscienza di sé sempre più forte. Perciò, conclude Camus, “Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli Dei e solleva i macigni… Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
L’eroe così si prende la sua autodeterminazione, in questo sta la ‘felicità’ intesa anche come ‘non disperazione’.
p.s. E a proposito del “Mondo come clamoroso errore”, sempre A. Camus sosteneva che il mondo in sé non è ragionevole. Ma ciò che è assurdo è il confronto di questo irrazionale con il nostro desiderio violento di chiarezza.
R.S.
Ho trovato le poesie di Paolo Polvani vivaci, ironiche e mosse da una simpatia umana che a volte si fa sentimentalismo ma in modo contenuto. E interessante mi è parso anche la sua capacità di commentare in un modo obliquo e stringato certi temi sociali d’attualità.
In esse ricompare un mondo di persone comuni, quasi sempre anonime: «un’umanità con gli occhi bassi». E ricompare un’attenzione poetica realistica molto pulita e diretta (lontana dal realismo smagato e psichicamente attorcigliato o perverso oggi di moda; alla Walter Siti per intenderci).
I dettagli sono precisi e riguardano vite quotidiane che si potrebbe ancora dire “proletarie” e osservate da vicino. ( Un esempio in questi versi: « simulacri di corpi /di cui è rimasta solo una camicia lisa nel collo, consunta/ nei polsini, giubbotti cui come naufraghi si aggrappano/ aloni di sudore»). Altre volte lo sguardo di Polvani mi fa pensare a quello di un Dostoevskij benevolo:
Qui l’umanità procede
con un senso di colpa cucito dentro al petto, prossimo
a farsi pianto, a scusarsi, a rendere evidente
l’umiliazione. La povertà che si nasconde
dietro un impacciato sorridere.
Il primo effetto della lettura è stato rincuorante. Come un ritorno a un mondo noto, periferico, sommesso, senza personaggi vip o teatrali o iperintellettuali. Non è neppure la gente solo in apparenza comune, quella cioè “trattata” ( o addestratasi) per agire negli spettacoli televisivi. Sono destini di ignoti che compaiono anche nelle cronache dei giornali (locali o metropolitani), stanno pochi attimi nei nostri pensieri e poi svaniscono. Polvani, infatti, si sofferma su un mondo di immigrati e lavoratori. Ci parla o tenta di parlare direttamente con l’ingegnere straniero ridotto qui in Italia a fare il lavavetri, la badante rumena di « una vecchia pazza» italiana, il «marocchino forse ubriaco», la postina di Parma «barese tosta» e « compagna con la sciarpa e la voce buona », «le operaie sulla bicicletta», le « casalinghe con la spesa/ e antichi fazzoletti sulla testa », «la cooperante in Palestina», i « vecchi [che] succhiano i cioccolatini di nascosto [e] fissano il fulgore vago di un culo».
Li fotografa con precisione nella loro quotidiana fatica o sofferenza esistenziale. Li descrive con simpatia e rispetto: « il senegalese signor Ass che diceva»; «il signor spazzino»; la nomade «fuori dal supermercato». Li trasfigura e nobilita in modi cordiali e familiari. Come accade per il suicida di «Una ringhiera». O col venditore che ha « una valigia / con la pancia gravida di cianfrusaglie, forse/ borse contraffatte». O con la nomade «fuori dal supermercato» che diventa «una madonna della sporcizia». O lo spazzino «votato alla santità» che tratta «la scopa come fosse la sua sposa». Certi destini subordinati sono ingentiliti: « I camerieri hanno sempre un che di filosofico».
Ci sono echi letterari crepuscolari. Io ho colto un tocco morettiano: « E’ la stazione di Ancona, è mezzanotte, piove.» (da accostare a: «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,») o un montalismo speranzoso e detragicizzato : «Cerchiamo la parola» (da mettere accanto a «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato».
Penso che si potrebbe parlare per la sua poesia di elegia da «quartieri popolari». A me ( e non suoni svalutazione) le sue figurine hanno fatto pensare a quelle dell’infanzia da “Corriere dei piccoli” o da “Vittorioso”. O al surrealismo stupefatto alla Zavattini (di cui non a caso vengono ricordati «i poveri nel film/ Miracolo a Milano »). Siamo in quel clima. Che è però – va detto – depoliticizzato. Le tragedie sono addolcite in un sentimento stoico o religioso:
Signore, sono Samir, che una volta aveva
la minestra calda, la mamma
l’inverno, quando c’è la neve, e non sapeva
il sangue sulla terra, le pietre, e il colpo
di pistola, sulla testa
E qui pongo un problema: in un mondo caotico e quasi incomprensibile, che ci spinge quasi a introiettare l’invettiva disperata, e nichilista che sorge dalla società in sofferenza:
Che il mondo vada a scatafascio, le guerre inaspriscano il pianeta,
i barconi facciano naufragio, i migranti a picco, i padri accoltellino
nel sonno, s’impennino i femminicidi, l’acqua scarseggi e tutta
sia di pochi, la crisi spiazzi, che l’ultima goccia di petrolio schizzi..le guerre inaspriscano il pianeta,
i barconi facciano naufragio, i migranti a picco, i padri accoltellino
nel sonno, s’impennino i femminicidi
oppure ci suggerisce di a assopirci in un piccolo nurvana paganeggiante e qualunquista:
………………….purché viva la Giuve, purché risplenda
quella fede antica, la divinità più amica, purché viva la fica,
certe immagini di sofferenza o di tragicità mondiali, metropolitane, locali/provinciali) possono ancora condensarsi in una forma da realismo magico zavattiniano o aggrapparsi alle narrazioni piene di pietas verso i marginati e i migranti della «Milano, Corea» di Alasia e Montaldi o dei romanzi di Mastronardi?
A me sembrano fin troppo ripiegarsi in un crepuscolo di malinconia e di morte come quello dell’ottantenne « signor Peschechera Vincenzo», che guarda splendere nel vino « una dimessa morte». E perciò i dolci riflessi surreali di una sopravvissuta memoria paesana ( « vedo le melagrane nelle pupille delle ragazze») , la scheggia di dialetto (« E uno gli fa: l’a /strousc tutt ch’i m’nenn»), il sentimentalismo trattenuto (« spiare con commozione una ruga nuova sul volto/ della madre»; « e quel pianto si pianta come una lama fino in fondo al cuore.») cozzano troppo contro la violenza da sequenza televisiva, che a tratti pur trapela nella raccolta (« Campo lungo / su folla e idranti, blindati e assetto / da guerra»), ma senza possibilità di convivenza.
Il rischio che corre questa raccolta di poesie è perciò, secondo me, quello di sfuggire la resa dei conti con il tragico contemporaneo.
La visione rasoterra di un’epoca ormai lontana (ho accennato a Montaldi e Mastronardi per la loro attenzione partecipe alle lotte in basso) finisce per cedere all’elegia campestre d’altri tempi (« Di fuori le rondini schiamazzano»), si distrae nella
fissazione feticistica (« con bei culi in vista»), addolcisce i conflitti («Perché i tiranni non amano i fornai, il loro/ orizzonte esistenziale esclude le maestre») e rende un tantino decorativa la domanda intellettual-filosofica del titolo.
@ennio : questo sì che è un signor commento, una vera recensione (sei decisamente il migliore , scusa l’entusiasmo, ma quando qualcuno scrive con chiarezza, senza involuzioni nel pensiero, autocompiacimenti, merita tutta il mio modesto plauso. )
Grazie
Ringrazio Ennio Abate per questa bellissima nota di lettura! non sono abituato a tanta attenzione così autorevole e precisa. E ancora grazie a Luigi Paraboschi per la cura e l’entusiasmo che mette nel favorire la diffusione della poesia.