di Ennio Abate
È andata bene. Giancarlo Majorino ha letto diverse poesie di Fortini, gli ha reso gli onori («solennità vissuta»). C’era un bel po’ di gente. Ho potuto dire meno di un quarto delle cose che mi premeva dire, ma le cerimonie letterarie hanno le loro regole spietate. E comunque, dopotutto abbiamo ricordato vari aneddoti sul Fortini, secondo alcuni «non facile da frequentare». Pubblico qui gli appunti che avevo preparato. [ E. A.]
1.
La risposta di Fortini alla prima lettera che gli inviai (13 marzo 1978):
Caro Abate, la mia ‘proverbiale riservatezza’ è una balla. La ‘inaccessibilità’ è semplicemente un minimo di – inefficace difesa del tempo necessario a procurarmi di che vivere. Metà del mio tempo è dedicato alla Università – che è a sei ore di treno da Milano, a Siena. Come molti, vivo in treno. Questa grafia ti dice che in treno, anche, scrivo. Docente di ruolo e sessantenne guadagno quanto un impiegato delle aziende elettriche. Ho quindi un secondo lavoro: editoriale. E scrivo libri. E crepo. Ti ringrazio molto del tuo testo [“Poesia della crisi lunga”]. È quanto di meglio, nel genere, si possa leggere. Solo che il genere (critica della frantumazione rappresentando la frantumazione) mi pare un po’ stanco. Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una ‘necessità’ maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile. Questa non è una critica, è troppo generica per esserlo, scusami. Quanto intendete fare [con amici di Cologno Monzese avevo in cantiere una “rivistina” e gli avevo chiesto consigli] mi pare assolutamente necessario, coi tempi che corrono. Per molti anni non ci sarà altro da fare, con molta pazienza. Il consiglio che vi do è di – scrivere e pubblicare un bollettino destinato ad un pubblico circoscritto che magari non c’è ma che potrebbe/dovrebbe esserci, quello che avete immediatamente intorno e che parla la lingua della schiavitù di massa. – scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio, allora, una problematica etica. Essere spietati. – far scrivere ma riscrivere. Nessuna concessione alla immediatezza populista. Scritti brevi, temi e frasi ripetute. – l’ideale è quello di grandissima modestia degli argomenti e grandissima ambizione ( e “distanza”) nel punto di vista, quindi nella scrittura. Voler fare qualcosa di esemplare e di ‘povero’, mettere tutto il lusso nella solidità della scrittura, nella possibilità di usarne modestamente gli elementi che abbiano fatto buona prova. Costringersi alla regolarità formale, alla periodicità rigorosa, alla pulizia. Concludo dicendo che è una vergogna per noi e voi che a dire e a fare quanto sopra si debba provvedere in questo modo preistorico: tra il compagno della (finta) “generazione eroica” (del cazzo) e un gruppo di isolati di Cologno. Aveva proprio ragione Hegel: la sola cosa che si impara dalla storia è che la storia non insegna niente. Vi abbraccio e vi saluto. Vostro Franco Fortini
2.
La mia posizione su Fortini:
– diffido di un “Fortini per tesi di laurea”;
– sono ostile a quanti sono già tornati a preferirgli il suo antagonista Montale, come fece fin dal convegno senese del 2004 Guido Mazzoni con una lettura che a me parve l’inizio di una liquidazione proprio di quella «alterità irriducibile», che fu non solo di Fortini ma di tanti;
– ho molte riserve sull’accento unilaterale posto sul “Fortini poeta” (inteso soprattutto come letterato umanista) e sulla tendenza a separare il poeta dall’“ideologo” o dal critico della stessa poesia (che non ha mai abbandonato, come fece invece Pasolini); e quindi dal comunista. Temo il rischio di depauperare (ammorbidire o velare) gli aspetti combattenti e storici della sua opera poetica e critica. Specialmente quando la “nuova” lettura, attenta «in primis al poeta, al traduttore e al critico letterario, di ambito sia editoriale sia accademico», riduce Fortini al tradizionale e moderatissimo «modello di umanità» tipico del nostro Paese. A questa lettura contrapporrei una citazione da un suo testo:
«Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi crstiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano: deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima». ( F. Fortini, «Non è solo a voi che sto parlando», in Disobbedienze II, pag. 38, manifesto libri, Roma 1996)
– Certamente Fortini va oggi pensato come fosse un *classico* da riusare tenacemente contro i riti postmoderni prevalsi nelle università, nell’editoria e nello stesso Web. (Ad esempio, sarebbero da rileggere e commentare riferendole alla sua operale due voci *Classico* e *Letteratura* nella vecchia Enciclopedia Einaudi).
– Vorrei che lo studio su Fortini o sulla sua poesia fosse più calato negli avvenimenti storici del ‘900 pur tenendo conto dei dubbi e delle ambiguità di oggi. Necessità, perciò, di non separare la sua poesia dalla storia in cui è vissuto, come lui disse per Dante:
«Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: "il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico", ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia». (Franco Fortini Che cos'è la poesia? Intervista a RAI Educational dell'8 maggio 1993)
– Insisterei soprattutto su alcune indicazioni dell’ultimo Fortini: quelle, ad esempio, che spingevano ad “attraversare la condizione postmoderna” (assai vicine – credo – all’atteggiamento da esodo che ho sostenuto in questi anni). Oppure prendere alla lettera quell’*inventare tutto*, dopo che ho trovato sempre meno praticabile il *buon uso delle rovine* (della Sinistra in particolare) a cui c’invitava in *Extrema ratio*.
– Sostengo ancor oggi la necessità di distinguere fra profetismo biblico, cristianesimo e comunismo. Se da un lato può apparire positivo che una visione totale dell’umano (del comunismo) sia stata conservata sotto i veli del cristianesimo non sacerdotale (Bloch) e – in tempi così grami – sia stata salvaguardata dalla poesia allegorica di Fortini, dall’altro temo il sovrapporsi idealistico di tale visione all’analisi indispensabile dell’esperienza storica, che trascuri quel suo particolare *realismo politico*, che gli faceva scrivere:
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati con loro volere il bene fare con loro il male e il bene la realtà servire negare mutare. (Forse il tempo del sangue…., 1958)
– Perciò nel mio saggio in “Come ci siamo allontanati. Ragionamenti su F. Fortini” ho voluto affrontare proprio il Fortini oggi più trascurato o dato per “superato”: quello più “storico”, meno “fuori tempo”, più comunista critico;
– Perciò in un possibile riuso della sua opera sceglierei tra i suoi scritti, se non un “Fortini per tutti”, un “Fortini per molti”. Sicuramente non più un “Fortini per pochi” (per militanti, come voleva lui ai suoi tempi, essendo oggi una militanza tutta da ridefinire).
3.
Eredità di Fortini, buone rovine, altra epoca rispetto alla sua.
Si è avuta una cesura reale e totale tra l’epoca vissuta da Fortini (e Pasolini) e quella in cui noi ancora viviamo. Richiamo a Michele Ranchetti: non c’è più religione. Aggiunta mia: non c’è più comunismo. In essa, credo, che dovremmo muoverci da *esodanti* e *contrabbandieri*. È una posizione malvista, indigesta sia agli “umanisti” sia agli “scientifici” . Ma mi parela più adatta per scegliere qualche *rovina* ancora buona e senza accontentarci del «vino dei servi».
Non nego, dunque, che la figura di Fortini sia entrata nel cono d’ombra della dimenticanza assieme allo sfondo storico-ideologico marxista e novecentesco, ma in quest’ombra è un falò che ancora brucia. Utile dunque per quelli che sanno avvicinarvisi e non solo per scaldarsi, ma per rifornirsi di buoni tizzoni con cui illuminare il buio in cui ci troviamo. Valida perciò la sua indicazione:
«…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!’» (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani, Boringhieri, Torino, 2000)
4.
Libertà o rigidità “ideologica” di Fortini.
Poco libero Fortini? Inceppato dall’ideologia o dal marxismo? Non mi pare. Rispetto ai letterati ermetici, che evitarono politica e storia, è stato liberissimo proprio perché in questi campi s’inoltrò davvero. Rispetto agli zdanovisti o agli intellettuali impegnati al seguito del Principe- Partito togliattiano (più che gramsciano) fu liberissimo (ad es. per il suo esistenzialismo: “Giovani e le mani”…). E liberissimo fu anche rispetto all’ondata neoavanguardista (al nuovo non tanto nuovo, al nuovo tutto giocato sull’innovazione formale e linguistica iperletteraria). in questo caso il suo marxismo critico vede quello che Sanguineti non vide nella sua fase ascendente; e recuperò poi, da vecchio, accontentandosi di un marxismo molto più rigido e astrattamente classista di quello fortiniano. E poi si dovrebbe valutare il suo grado di libertà testo per testo. ( Es. su «La poesia delle rose»).
Criticare, dunque, la parte che va criticata ma senza aggrapparsi agli stereotipi antifortiniani (poeta iperrazionale o imprigionato in una assoluta «padronanza dei propri pensieri»). Nessuno, tantomeno chi esplora spesso zone inesplorate, ce l’ha. Non mi pare certo questo che pretendeva Fortini, se poteva scrivere:
«Ho capito assai tardi che scrivere versi non è riconducibile ad una identità; non perché l’io sia un altro ma perché la parola ne colle pas [non rispecchia, non coincide] con la mia voce. L’opera è di un altro o è di altri o di nessuno. Per questo potrei vantare senza vergogna le mie poesie come geniali o affascinanti oppure ammutolire, un po’ addolorato, se qualcuno dice di trovarle mediocri o brutte affatto. Difenderle non posso. È come se le avesse scritte mio figlio. O mio padre. Qualcuno che comunque è più giovane e più vecchio di me» (F. Fortini, Metrica e biografia, in «Quaderni piacentini» p. 108, n.2 nuova serie 1981).
Attualizzare “metà” di ciò che ha scritto Fortini e buttare il resto. E’ un buon suggerimento (auto)esegetico. Ma ciò non può comportare la liquidazione del nesso che regge ogni suo verso e ogni sua frase: quello fra letteratura e rivoluzione. Pena la liquidazione totale, del poeta e del saggista assieme.
La “rivoluzione” era del tutto lontana e (apparentemente?) inattingibile dall’ordine del mondo già nel 1955 (Dieci inverni), nel 1961 (Lettera agli amici di Piacenza) o nel 1978 (Non è lui) quanto e forse più di quanto lo sia ora. Fortini antistalinista, antiprogressista, mostra di saperlo molto bene. Questo oggi pochi (abbagliati dalla ‘mutazione’ e dai suoi stendardi o simboli, che già allora erano in marcia, sembrano aver chiaro.
Oggi interi paesi (massimamente la Grecia nel 2013-15) si sono avvicinati al muro del rischio assai più concretamente di quanto lo fosse il nostro nella seconda metà negli anni 70 quando molti sfilavano ancora baldanzosi sotto bandiere con effigi comuniste ma con l’inconsapevole nevrosi della sconfitta e dell’insendatezza già nel cuore.
Ricomporre la classe e progettare ‘piani B’ non è impossibile o ridicolo, né opporsi alla guerra che il capitale porta con sé come la nube l’uragano: tutto è da fare. Pur nella tragedia a tratti insostenibile, della quotidiana verifica della distanza fra questa prassi e lo stato del mondo. Questo è il modo (il solo?) per analizzare e interpretare qualsiasi testo di Fortini.
Non farò dei commenti ma riporterò dei passaggi di F. Fortini che mi sono sembrati importanti e degni di riflessione non solo pacata – e quindi non ‘faziosa’ – ma anche motivata dal desiderio di uscire dalle stantie ripetizioni e dai soliti “bla-bla”.
E ciò perché ritengo più che valida e attuale una frase che A. Camus aveva scritto nei suoi “Taccuini”: “Chiedo una cosa sola, ed è una richiesta umile, benché io sappia che è esorbitante: esser letto con attenzione”.
*F. Fortini: “È quanto di meglio, nel genere, si possa leggere (riferendosi ad una poesia di Ennio Abate). Solo che il genere (critica della frantumazione rappresentando la frantumazione) mi pare un po’ stanco. Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una ‘necessità’ maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile”*.
*F. Fortini: “… scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio, allora, una problematica etica. Essere spietati. – far scrivere ma riscrivere. Nessuna concessione alla immediatezza populista. Scritti brevi, temi e frasi ripetute. – l’ideale è quello di grandissima modestia degli argomenti e grandissima ambizione ( e “distanza”) nel punto di vista, quindi nella scrittura”*.
*F. Fortini : “Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?”*
*F. Fortini: “Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!”*
*F. Fortini: “Aveva proprio ragione Hegel: la sola cosa che si impara dalla storia è che la storia non insegna niente*.
Solo rispetto a questa ultima affermazione mi permetto di chiosare:
E’ vero che la storia non ‘insegna’, non è per nulla ‘magistra vitae’. Siamo noi che dobbiamo avvicinarci ad essa con aperta curiosità e non in modo pregiudiziale. Siamo noi che avvicinandoci alle cose dette da Fortini, faremo una selezione di quanto lui ci ha donato con generosità, completando con quanto lo stesso J. W. Goethe ebbe modo di dire, genialmente: “ Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, fallo tuo, per poterlo possedere” (Was du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, um es zu besitzen).
R.S.
…mi ha colpito questo brano di Franco Fortini riportato da Ennio: ” Ho capito assai tardi che scrivere versi non è riconducibile ad una identità, non perchè l’io sia un altro ma perchè la parola ne colle pas con la mia voce….E’ come se le avesse scritte mio figlio. O mio padre. Qualcuno che comunque è più giovane o più vecchio di me”. Trovo invece che sono proprio le poesie scritte nell’arco di una vita a testimoniare il percorso di vita e di pensiero dell’autore e che “la mia voce” sia solo l’ultima in ordine di tempo…Le diverse “conversioni” di F. Fortini che hanno dato adito ad altre più sfumate sono a loro volta la testimonianza di un sentire inquieto e cangiante, sempre declinando lo stesso colore del rosso, sul cammino di verità sempre da raggiungere…Così il “comunismo in cammino” di Franco Fortini si muove intorno alle “nostre verità” da cui non allontanarsi, quelle storiche legate alle lotte per la solidarietà, la giustizia, la libertà dei popoli, ma profondamente provato da anni di sconfitta e solo possibilista sulla rinascita dell’uomo : “Una gioia a venire”…La poesia non può dunque rinchiudersi in una torre d’avorio, deve testimoniare il travaglio della storia e porsi dalla parte degli ultimi…Non idealizzare mai nessuna posizione tuttavia, la contraddizione è sempre presente in ciascuno di noi e va messa in evidenza: “Poesia ed errore”…Un uomo poeta che vive il mondo da un crinale dove i versanti contrapposti sono ben visibili e non demonizza ma con “realismo politico” suggerisce di “cercare i nostri eguali osare riconoscerli…”. Trovo molto significativo il titolo della sua prima raccolta “Foglio di via”, poesie di un congedo dal conflitto, di un ritorno “a casa” che non si avvererà mai…di scenario di guerra in scenario di guerra, come la storia del novecento e oltre
SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Ale LaMonica su FB)
*Un ottimo disegno critico di François Dupuigrene che presenta nel 2010 alla Radio Svizzera Italiana la figura e l’opera di Franco Fortini con la lettura di due famose poesie e la registrazione della sua voce e di quella di Pasolini. [E. A.]
Franco Fortini
con François Dupuigrenet Desroussilles
http://www.rsi.ch/rete-due/speciali/classici-italiani/Franco-Fortini-2558812.html
Franco Fortini (1917-1994), saggista, critico letterario, traduttore e poeta, è stata una delle personalità più significative del panorama culturale italiano del Novecento. Parallelamente alla sua opera personale, voce di un marxismo esigente e sempre “eretico”, e da essa inseparabile, la sua attività di traduzione si é esercitata in primo luogo sulla poesia di Brecht e su alcuni scrittori francesi contemporanei particolarmente vicini alla sua poetica come Paul Eluard e Raymond Queneau. La “lezione radiofonica” è tenuta da François Dupuigrenet Desroussilles professore alla Florida State University e all’Università della Svizzera italiana. Interverranno anche Renata Broggini, studiosa dell’esilio italiano in Svizzera nella prima metà del Novecento, e Virgilio Berardocco, studente del Master in lingua, letteratura e civiltà italiana dell’USI.
François Dupuigrenet Desroussilles si é formato alla prestigiosa Ecole de Chartes di Parigi. Parallelamente alla sua carriera istituzionale in qualità di conservatore dei fondi antichi della Bibliothèque Nationale de France prima e professore universitario ora, alla Florida State university e all’universita della Svizzera italiana, ha una ricca esperienza in qualità di traduttore dall’inglese, dall’italiano e dal latino. Ha tradotto fra gli altri Sant’Agostino, Francesco Petrarca, Oscar Wilde e Carlo Emilio Gadda.