Appunti ad un anno dalla sua scomparsa
di Ennio Abate
1.
Eravamo davvero pochi: la vedova e le figlie di Attilio; un suo fratello maggiore, che molto ha viaggiato per il mondo; e una decina di amici. Sì, sul tardo pomeriggio del 2 maggio a Milano c’è stato un fortissimo acquazzone e la sera, fredda e piovosa, non invitava ad uscire di casa. In più la notizia dell’incontro per commemorarlo alla Libreria di via Tadino non è circolata a sufficienza per l’improvviso ricovero in ospedale, a ridosso dell’iniziativa, di Nicola Fanizza, che l’aveva per primo promosso e preparato. Eppure – mi dicevo – gli amici e le amiche che a Milano hanno avuto scambi con lui sono tanti/e. È che – ho poi pensato – quando uno muore, inizia un oscuro e indecifrabile lavorio della memoria sulla sua immagine da parte dei viventi e i tempi di elaborazione del lutto o la fatica di recuperare i ricordi mai coincidono con le date degli anniversari o dei calendari. Che però non possono essere trascurati.
2.
Nella sua introduzione Aldo Marchetti, dopo aver ricordato gli ultimi giorni di Attilio («consapevole di andare verso la morte»), ha disegnato alcuni tratti della sua figura intellettuale e politica: favorevole sempre ad un lavoro culturale collettivo (“fare gruppo”); socialista libertario con tratti persino deamicisiani; insegnante per missione tra i lavoratori (adulti) delle serali; storico; politologo. Ha accennato alle sue esperienze di redattore al “Quotidiano dei lavoratori” negli anni Settanta e successivamente al ruolo avuto nella rivista “Classe” assieme a Stefano Merli e ad Emilio Agazzi; e poi nella “Balena bianca”; e poi ancora in tanti gruppi informali di amici e più tardi sul Web, dove ha continuato paziente e caparbio a interrogarsi sui temi più vari da intellettuale ormai fuori dai partiti.
Marchetti ha giudicato momento decisivo nella ricerca di Attilio quello in cui si avvicinò all’antropologia e, in particolare, scoprì come suo il tema dell’immaginario, dopo la lettura rivelatrice dei testi di Gilbert Durand e poi di altri studiosi, tra cui Cornelius Castoriadis e Pierre Clastres, il teorico delle società senza o contro lo Stato. Esse lo distaccarono dalla pur interessante lettura sartriana dell’immaginario, che però, secondo Marchetti, ha il limite di trattare l’immaginario come «serva povera della ragione»; e spinsero Attilio a inoltrarsi decisamente nei campi della soggettività e della quotidianità, distaccandosi dal marxismo, che – sempre per Marchetti – era rimasto troppo legato al solo mondo della produzione e aveva sempre svalutato l’immaginario, ritenendolo una forma di pensiero ingenuo o irrazionale.
Marchetti ha accennato infine al rapporto tra Attilio e il suo padre spirituale (e autoritario), lo storico Stefano Merli, indifferente se non ostile alle tematiche dell’immaginario, tanto da non partecipare alla nuova serie della rivista “Classe e immaginario” promossa da Attilio e dall’editore Bertani.
3.
Lorenzo Striklievers, docente di scienze della formazione all’Università Milano-Bicocca, si è soffermato sul modo in cui Attilio, che lo coadiuvava negli esami di storia e didattica della storia, sapeva entrare in rapporto con i giovani. Era – ha detto – un intellettuale curioso, interessato a parlare con loro, a farsi raccontare le loro storie. Ha ricordato anche la facilità di quella sua scrittura multiforme e il desiderio frustrato di veder musicate le poesie che fin da giovane scriveva e molto tardi ha cominciato a far circolare tra gli amici. Attilio resta per lui un «intellettuale a tutto tondo» interamente preso dal compito recuperare la sua storia e quella di un ’68 “libertario”.
4.
Il mio ricordo di Attilio l’ho volutamente limitato alla lettura di una sua poesia e di una sua lettera di commento a un mio rendiconto su Luciano della Mea, conosciuto ai tempi della mia partecipazione alla rivista “Inoltre” ( 1996-2003). Mi paiono confermare sia la vena nostalgico-crepuscolare della sua poesia e sia la sua capacità di misurarsi sempre pacatamente e fraternamente anche o soprattutto con quanti lo contrastavano o la pensavano diversamente da lui. (Cfr. Appendice)
5.
A sorpresa uno dei presenti, Gianni Passavini, oltre a ricordare alcuni momenti del suo sodalizio con Attilio – fu studente-lavoratore al Molinari serale, dove Attilio aveva scelto d’insegnare, divenne subito militante del Comitato d’Agitazione dei lavoratori studenti e passò più tardi al “Quotidiano dei lavoratori” – ha offerto uno squarcio eterodosso sull’Attilio scrittore erotico e studioso di pornografia. (Nel 2007 Attilio aveva scritto l’introduzione a “L'”enfer” della Braidense. Catalogo dei libri Fondo Riservata Erotica”).
6.
A parlare di Attilio alla Libreria di Via Tadino eravamo tutti ex (ex Lotta Continua, ex Avanguardia Operaia, ex Movimento Studentesco della Statale, etc). Invecchiati, ancora grintosi o pacati o disincantati. (Ah, Giovanni Cominelli, che nostalgia per la Statale occupata mi ha preso, quando hai attaccato la tua predica sul «fallimento della teologia marxista»!). Sarà, credo, un bel problema continuare a confrontarci su Attilio, sui suoi temi, sui suoi scritti (tra i quali ritengo fondamentali i carteggi con tanti intellettuali operanti tra anni ’60 e ’90) senza il suo sorriso benevolo e sdrammatizzante. Ma bisogna provarci, dai!
P.s.
Non sono riuscito a seguire con attenzione gli interventi di Carlo Amore e Maurizio Gusso, ma l’amico Nazareno Ferretti ha ripreso con la sua telecamera tutti gli interventi e mi consegnerà presto un CD, che metterò a disposizione di chi lo richiedesse.
APPENDICE
1.
Poesia di Attilio (citata in una mail del 18 settembre 2004, ma scritta negli anni precedenti in vista dell’anniversario del suo matrimonio del 17 settembre 1968)
DE SENECTUTE
Non chinare il tuo capo anche se il tempo
consuma i giorni come una candela.
Il tuono arriva e porta con il lampo
un gusto nuovo. Il morso della mela
lascia un sapore che rimane in bocca.
Così un anniversario ricompone
i frammenti del mondo in una sciocca
litania di ricordi, processione
di fantasmi e di ombre con un nodo
alla gola.
Ma il tempo che ci aspetta
delinea una speranza, un altro modo
di vivere in un mondo senza fretta,
di assegnare alle cose ed al destino
lo stupore infinito del bambino.
L’uva é matura adesso e la stagione
estiva dona il suo spossante inganno
dei sensi al vento caldo e a un acquazzone
improvviso. Dov’ero l’altro anno?
Sulle scale,in penombra, sui ripieghi
e i compromessi a bere un pò di vino,
per tutte quelle volte che ti neghi,
per l’amore sepolto nel giardino.
Tu levi gli occhi incerti e guardi il sole
smemorando i silenzi della vita,
le paure, i fantasmi, le parole
che riaprono di colpo una ferita.
2.
Da Attilio Mangano, 27 10.2003
Caro ENNIO,
la tua amara e impietosa ricostruzione di un difficile rapporto é naturalmente onesta nella rievocazione dei fatti, che in parte disturbano chi legge. Per quel che ricordo io mi sono a mia volta sempre chiesto “come mai” e ho pensato che si intrecciassero vari “piani”, compreso il ruolo della Jaca Book, forse anche personalismi, difficile sciogliere per intero la matassa. Perché la pura ricostruzione “politica” di quello che tu chiami tradizionalismo di Luciano ha una sua plausibilità ma a me sembra insufficiente: tieni presente ad esempio che nel novanta per cento- forse é troppo, diciamo nel settanta-sessantacinque per cento- delle cose politiche e/o culturali di cui discutevamo scrivendoci lunghissime lettere, io e Luciano eravamo in totale disaccordo, ma questo non ha mai impedito di continuare il nostro rapporto nella stima reciproca ( la nostra corrispondenza é andata avanti per quattro o cinque anni). […] L’occasione mi ha fatto tornare in mente le varie ( e forse anche “tante”) volte in cui determinati rapporti anche fraterni o comunque di collaborazione si sono interrotti o persi per strada: ricordo ad esempio che ai tempi della “Balena bianca” un amico di Palermo con cui avevo un decennio di collaborazione litigò a tal punto (per il fatto che lui pensava a una rivista fatta da grandi firme e io invece a una fatta da anonimi compagni che erano disposti a farla) da porre più o meno fine a ogni rapporto. E che dire di **, di cui non so più nulla o quasi se non quando gli telefono per sapere se è vivo? FORSE (dico forse perché non lo so nemmeno io) si é risentito perché la sua idea di quello che è diventato il weblog “intellettuali storia” non coincideva con la mia, forse è solo un lupo solitario.
Questa storia delle piccole-grandi rovine di una sinistra litigiosa a me ha fatto sempre quasi ridere: ci sono “compagni”, come te, con cui si litiga da vent’anni regolarmente, poi é in un certo senso il destino che ci ritrova e magari si torna a fare delle cose insieme o comunque a ridiscutere, […], salvo il fatto che poi gli spazi, i luoghi, i contesti son sempre quelli e prima o poi ci si ritrova di nuovo, più invecchiati e con qualcuno che si perde per strada. La storia di un esercito che perde poco per volta i suoi pezzi e continua però la sua marcia. L’album di famiglia.
Tu stesso nel tuo scritto sei più convincente quando ti fai prendere dalla PIETAS e scopri che Luciano nonostante tutto aveva una sensibilità particolarissima e un leopardismo di fondo che , per quanto scolastico, era la sua filosofia di vita, fino a comprendere come una stessa maschera di durezza nasconda o riveli altro. Non so dire altro, se vuoi un giudizio posso solo dire che il tuo scritto è appunto bello ma impietoso, vero ma pregiudiziale, ma che non ho niente da recriminare o rimproverarti.
Con affetto
Attilio
Soprattutto la lettera di Mangano costruisce un clima che è personale e storico, in un consuntivo di età e di fine di una stagione politica. La sera fredda e piovosa con cui Ennio Abate introduce la commemorazione si accorda, e poi c’è un ricovero in ospedale, e la pietas evocata da Mangano, e le memorie ricostruite dei presenti. Si avvia “un oscuro e indecifrabile lavorio della memoria” dei viventi, sulla immagine di chi è andato, come sulle immagini di ciò che è stato. L’angelo di Klee che arretra di spalle verso il futuro, secondo l’interpretazione di Benjamin, è l’angelo della Storia. E’ anche l’angelo della memoria “una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle”, per la necessità di salvarne i frammenti.
Leggendo il resoconto di Ennio recupero, in parte, una serata persa. Ho conosciuto Attilio prima leggendo alcune sue pubblicazioni, poi, di persona, in alcuni incontri e letture di poesie. Poco, ma abbastanza per desiderare d’essere presente all’incontro di martedì, se alcune circostanze, fra cui, oltre la pioggia, una forte lombosciatalgia (ahi l’età, che male fa!), non me l’avessero impedito. La poesia di Attilio (che un critico letterario di professione giudicherebbe “ritardata”, dando al termine un significato tecnico), pur non recando nessuna novità al panorama poetico degli ultimi decenni, si fa leggere con piacere e simpatia – o almeno io così l’ho letta e la leggo -, non solo per le qualità umane che ne emergono o per la «vena nostalgico-crepuscolare» giustamente indicata da Ennio (vena sempre cara ai lettori di una certa età), ma soprattutto per l’ironia (e l’autoironia) che la pervade (salvo i momenti in cui la «vena nostalgica» prende decisamente il sopravvento).
È anche vero che il ricordo, affidato alle iniziative di amici e alle pubblicazioni che al massimo garantiscono quella che io chiamo «immortalità di una nota a piè di pagina», è labile e si perde in pochi anni o si riduce entro una cerchia sempre più stretta. Destino inevitabile di chi, pur dopo una vita di lavoro intenso e utile, di consensi e dissensi, di successi e insuccessi, non è tuttavia riuscito a graffiare veramente e profondamente la crosta del proprio tempo sino a raggiungere la carne e il sangue e mettere in circolo le proprie azioni e idee come un virus benefico che continua a operare anche per proprio conto. Destino inevitabile degli operai della vigna, che continuerà a produrre uva e vino anche quando il nome degli operai sarà dimenticato. Destino di chi entra nel ricordo come uno fra i tanti, e non come uno fra i pochi, o i pochissimi, di cui si continuerà a parlare con nome e cognome messo in rilievo. Ma accontentiamoci: il destino di Attilio Mangano è stato un buon destino, e il ricordo un buon ricordo, fin che il ricordo durerà. In fondo, nella parabola evangelica, non solo gli operai non hanno nome, ma nemmeno il fattore e il padrone della vigna.
Fra i tanti nomi che si affievoliscono nel tempo, mi piace qui ricordare e accostare a quello di Attilio Mangano il nome di Walter Peruzzi, morto giusto tre anni fa. Anche Walter ha scritto libri, ha animato riviste, gruppi e persone, ha lasciato – nel campo della sinistra “a sinistra” – un deposito di idee in centinaia di pagine scritte e di documenti. Che ogni tanto, qualcuno, in una nota a piè di pagina, ricorda.
” Destino inevitabile di chi, pur dopo una vita di lavoro intenso e utile, di consensi e dissensi, di successi e insuccessi, non è tuttavia riuscito a graffiare veramente e profondamente la crosta del proprio tempo sino a raggiungere la carne e il sangue e mettere in circolo le proprie azioni e idee come un virus benefico che continua a operare anche per proprio conto. Destino inevitabile degli operai della vigna, che continuerà a produrre uva e vino anche quando il nome degli operai sarà dimenticato. Destino di chi entra nel ricordo come uno fra i tanti, e non come uno fra i pochi, o i pochissimi, di cui si continuerà a parlare con nome e cognome messo in rilievo” (Aguzzi)
E’ troppo facile condividere il sentimento di malinconia (e delusione, e rassegnazione) che intravvedo in queste parole. Luciano sembra fare un fedele e veritiero “ritratto di gruppo” di “noi” (moltinpoesia, intellettuali di massa, periferici, in ombra , “operai della vigna”, “appartati”, ecc.) che, come Attilio, appena commemorato, o Gianmario Lucini o tante altre persone care, con cui abbiamo collaborato o collaboriamo, non riescono a « graffiare veramente e profondamente la crosta del proprio tempo».
Eppure nel suo discorso tre cose non mi convincono: – che accetti di parlare di «destino inevitabile»; – che distingua/contrapponga nettamente destino dei tanti e destino dei pochi o pochissimi; – che, di conseguenza, la sua ottica resti rigidamente individualista; – che le possibilità dell’io vengano nettamente separate dalle possibilità del noi.
P.s.
Non mi è possibile approfondire la questione, ma non rinuncio a questa breve nota.
“Tebe dalle 7 porte chi la costruì?”
So poco, e mi duole, della funzione soggettiva nella storia occidentale, leggerò presto “Il capo e la folla” dello storico Emilio Gentile, mi oriento appena nella storia della filosofia tra “scuole” e “pensatori”.
Certo che nella storia della letteratura occidentale i singoli contano, eccome!
Ma già nella scienza le scuole riprendono un ruolo notevole.
In totale la distinzione di Aguzzi tra gli attori eccezionali e i cooperanti mi lascia perplessa. Di sicuro gli individui eccezionali esistono, ma erano soprattutto re e condottieri come Alessandro, poi c’è stato Gesù che ha riportato l’eccezionalità al livello di ognuno, e poi i santi, insomma l’unicità esiste, è innegabile, mentre il rapporto con “la compagna” (quella picciola) è meno simboleggiato. (Però gli apostoli, da cui deriva la gerarchia ecclesiastica, per “imposizione delle mani” fra l’altro, identificano un rapporto tra leader, compagnia e popolo… che dura ancora).
In tutto ciò comunque il sesso conta, e non è il mio. Anzi, di sessi ce ne sarebbero anche di più, onde non farmi sentire così esclusa e sola!
Allora mi spiego come la memoria sia un lavoro collettivo, e in minore, buio, e disperato in controcorrente.
…mi chiedo: nel grande contenitore della memoria, intendo quella profonda – di cui magari sono proprio la letteratura e la storia, così come tramandata sui libri, solo la punta dell’iceberg – chi può dire cosa o chi abbia maggiormente graffiato “…la crosta ….sino a raggiungere la carne e il sangue”. Capita, penso, che ad avere maggiore influenza sulla formazione, passando dalla memoria, non siano i nomi in evidenza – oggi possono anche essere il frutto di scelte commerciali da parte del mercato – ma nomi di persone che si sono spinte con coraggio oltre alcune frontiere e hanno aperto dei varchi validi per ognuno… senza raggiungere con ciò l’america! Lo stesso Attilio Mangano che, avendo un profondo interesse per l’essere umano, la sua storia, il suo immaginario, osò affrontare strade poco battute e condividere con gli amici…
Attilio Mangano l’ho conosciuto ‘di sfuggita’ a qualche incontro politico (e poco sapevo del suo poetare, che ho accostato in questa sede, grazie a Ennio) e piluccato qua e là alcuni suoi scritti politici, mi sembra ai tempi in cui c’erano stati dei contatti con l’editore Bertani. Conoscevo di più Walter (Peruzzi) che Aguzzi ha amato ricordare, in virtù delle lotte comuni e delle frequentazioni per la rivista “Lavoro Politico”, assieme ai compagni di Bolzano.
Due storie diverse, le loro, con valenze diverse che esprimevano comunque le sfaccettature del pensiero in un periodo di grande fermento.
Io credo che il problema del ricordo (della commemorazione) non riguardi tanto la raccolta di un vissuto nostalgico (*Invecchiati, ancora grintosi o pacati o disincantati.* – Ennio), oppure presi in quel lavorio che si fa quando uno muore e *inizia un oscuro e indecifrabile lavorio della memoria sulla sua immagine da parte dei viventi e i tempi di elaborazione del lutto o la fatica di recuperare i ricordi*; bensì consista in un procedere.
Ma non soltanto, come afferma Ennio in questo caso, *continuare a confrontarci su Attilio, sui suoi temi, sui suoi scritti*.
Quanto portare avanti lo spirito del lavoro di chi ci ha preceduto, più che dalla specificità di temi e scritti, altrimenti correremo il rischio di perderci in rovelli sterili. Partire dunque dalla osservazione del nostro contingente nelle sue più mutevoli (e sfuggevoli) sfaccettature, oggi difficilmente imbrigliabili in una teoria che voglia uscire dalla ‘teologia’, marxista o meno che sia.
Voglio riprendere l’osservazione del commento di Aguzzi (5.5 h. 1.08).
Sì è vero che *Destino inevitabile di chi, pur dopo una vita di lavoro intenso e utile, di consensi e dissensi, di successi e insuccessi, non è tuttavia riuscito a graffiare veramente e profondamente la crosta del proprio tempo sino a raggiungere la carne e il sangue e mettere in circolo le proprie azioni e idee come un virus benefico che continua a operare anche per proprio conto*.
Però ci affiancherei anche quest’altra, sempre sua, in relazione alla vigna: *…. che continuerà a produrre uva e vino anche quando il nome degli operai sarà dimenticato. Destino di chi entra nel ricordo come uno fra i tanti, e non come uno fra i pochi, o i pochissimi, di cui si continuerà a parlare con nome e cognome messo in rilievo*.
Perché, appunto (almeno fino ad oggi), la nostra esperienza ci dice che siamo padroni e servi di questa vigna(vita), ambiguità che non ci piace affatto e cerchiamo continuamente di capovolgerne i ruoli.
Non tutti coloro che sono riusciti a *graffiare la crosta del LORO tempo* saranno ricordati da tutti! Non tutti sapranno chi fu Dante (già oggi molti studenti non lo sanno e credono che quando si parla del ‘fiorentino’ si parli di Renzi!) o chi fu Motecuhzoma Xocoyotzin, ma la vigna del tempo, in qualche modo, lo sa.
R.S.
Si scaldano i motori su pochi/molti, oblio/ricordo (e sopravvivenza… Foscolo etc)?
Rita: “Non tutti coloro che sono riusciti a *graffiare la crosta del LORO tempo*
saranno ricordati da tutti! Non tutti sapranno chi fu Dante (già oggi
molti studenti non lo sanno e credono che quando si parla del ‘fiorentino’
si parli di Renzi!) o chi fu Motecuhzoma Xocoyotzin, ma la vigna del
tempo, in qualche modo, lo sa. “.
I “tutti” (chi sono? un’astrazione… come l’uomo, il genere umano, l’umanità..) non ricorderanno mai “tutti coloro che sono riusciti a *graffiare la crosta del LORO tempo”.
Avranno altro a cui pensare. Come noi, ancora viventi, del resto.
Dovranno – ancora come noi del resto – scegliere quegli individui del passato (poeti, politici, scienziati, religiosi, etc.) che riterranno guide affidabili e/o autorevoli (in teoria) delle loro ricerche o delle loro azioni.
Proprio ieri leggevo nell’inserto dedicato al centenario della nascita di Fortini su “il manifesto” (comprato solo per questo) l’articolo “Le rovine di classici in combustione” di Emanuele Zinato. Che si pone un problema non dissimile da quello che aleggia nel commento di Aguzzi: come “superare lo scacco e l’umiliante marginalità in cui sono confinate le nostre “discipline letterarie””.
E suggerisce questa via: “contro ogni idea museale dei classici [Rita ha tirato in ballo Dante] come imperitura “eccellenza” letteraria o di riduzione della letteratura a puro intrattenimento mediatico, Fortini ci insegna ancora la capacità di tenere assieme istanze considerate teoreticamente inconciliabili, portando le forme artistiche a ulcerarsi con i conflitti del mondo [terra terra io avevo litigato – o, come si dice, polemizzato – con vari redattori di Poliscritture sul tema poesia/guerra: https://www.poliscritture.it/2017/02/22/i-poeti-in-tempo-di-guerra-non-pensano-abbastanza/%5D. In modo simile a Walter Benjamin, in un’epoca di analoghe guerre globali, ci insegna a valorizzare il frammento [ un autore, un’opera o una parte di una sua opera, che a noi parla o che ci sentiamo d’interrogare]: dei classici, nel nostro tempo come nel suo, non restano infatti che tracce combuste da interrogare al cospetto della tragedia collettiva. Così, nell’invitarci a un buon uso delle nostre rovine [ Gesù Cristo, Marx, il socialismo, il comunismo, la pace…] ci induce a pensare che la modernità non è finita e che i destini sono ancora “generali”: nelle pieghe e nelle ombre dei classici possiamo rivenire “la parte taciuta e ammutolita di noi stessi, della storia, degli uomini”.
Questa via suggerita da Zinato a me pare in sintonia coi rilievi che ho fatto ad Aguzzi nel precedente commento.
Ultimo appunto. Non farei nessun affidamento sulla “vigna del tempo” che, se ho ben capito quanto scrive Rita, sa o saprebbe e conserverebbe tutto quello che noi dimentichiamo.
“
Il richiamo che ho fatto al mio sesso ha un doppio significato: nella parte taciuta e “ammutolita” della storia (degli ultimi millenni, però!) sono confitte soprattutto le donne, oggi diventano protagoniste ma anche e spesso come maschere, non rappresentano principalmente la loro alterità ma alleggeriscono il duro volto dello stesso, Hillary Clinton e Merkel sono questa ambiguità e infatti dividono tutte le donne invece di unirle.
Mi si può obiettare che l’unità della rappresentazione è un sogno totalitario in democrazia, in cui si rappresentano al massimo interessi.
Vero, come no, ma è vero anche che le grandi figure mitologiche e religiose sono unitarie, e perfino plurali, come dire che l’unità è altro che rappresentativa di specifici interessi. Le dee mediterranee, le figure bibliche, Maria nel cattolicesimo -quindi la Madre, la Vendicatrice, la Creatrice, la filatrice del tempo terreno, la Potnia Theron e via e via- non dividono nessuna da nessuna.
Ci sono pensatrici che hanno fissato con insistenza e prefigurato la necessità di questo tratto del simbolico femminile, tra le classiche: Mary Daly, Luce Irigaray, Adrienne Rich.
Per questo accosto storia e memoria, memoria inconscia e circostanziata -quella dei lari, per dire- e storia: scritta, trasmessa nelle generazioni, consapevole, politica. Le due, memoria e storia, procedono affiancate e non può che essere così. Ma il problema del cambio di civiltà che abbiamo iniziato deve pensare il rapporto tra la storia -prodotto occidentale- e la memoria biologico/umana.
Accosto a questo mio ragionamento un pezzo dell’articolo che compare oggi, sul Sussidiario, di Giulio Sapelli, che non tratta lo stesso tema ma pensa il mondo attuale in una contraddizione radicale, con una lontananza da cattolico e in una prospettiva millenaria, che è analoga a quella -per me liberante- delle pensatrici citate.
“Bisognava assistere al dibattito televisivo tra la signora Le Pen e il signor Macron che il 3 maggio ha incatenato dinanzi al televisore la maggioranza dei francesi e, spero, buona parte degli opinion makers internazionali. Ma a quel dibattito bisognava assistere avendo letto di Celine Viaggio al termine della notte e di Voltaire le numerose pagine in cui dileggiava Rousseau assimilandolo alle scimmie e agli animali a quattro zampe che si avvoltolano nel fango. Se non si fosse conosciuta la vita di Celine, il suo profondo antisemitismo, il suo legame intellettuale con una delle radici più forti della destra internazionale, ossia l’Action Francaise e tutta la tradizione secolare vandeana di un grande popolo come quello francese, quel capolavoro del Novecento sarebbe parsa la
decostruzione linguistica della Commedia umana di Balzac, o dei Miserabili di Hugo: sarebbe parso un romanzo socialista, anarchico, un grido di dolore angoscioso e smarrito che proveniva dalle viscere della rivoluzione. Come gran parte della letteratura di “destra” del Novecento, basta pensare a Ezra Pound, Celine apriva un nuovo mondo, cercava una nuova via, che partiva dall’impulso di morte per risalire a una disperata utopia. Un romanzo vivo, palpitante, terribile e, se esiste un bivio nella storia, ebbene la scelta al bivio di Celine portava al dolore, ma anche alla trasformazione. Le invettive di Voltaire contro Rousseau erano invece l’arroganza suprema che aveva perso ogni dignitosa sprezzatura aristocratica per diventare cecità dinanzi al dominio di una ragione senza senso e senza fondamenti morali; quella stessa ragione illuministica che Adorno e Horkheimer faranno a pezzi nei Minima Moralia proclamando ad alta voce che, da un mondo senza utopie e senza illusioni, potevano scaturire solo immani sciagure, come infatti accadde con la Shoah.
Questa si chiama non solo inversione della rappresentanza politica, come oggi accade quando la destra rappresenta i poveri e gli emarginati e coloro che decadono, mentre la sinistra rappresenta i ricchi, i semi ricchi, quelli che salgono e quelli che assalgono. In mezzo, come è noto, rimane il popolo degli abissi, che azzanna ora di qua e ora di là e ci fa capire che qualsiasi Leviatano è meglio di qualsiasi Behemoth, il mostro biblico che sguazza senza fine nel fango e nel sangue.
Sì, ricordo tutto questo perché in quella sorta di sfida a duello in tivù, l’altra sera, si sono rappresentati due grandi filoni della storia…”
http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2017/5/5/ELEZIONI-FRANCIA-Sapelli-Le-Pen-puo-ancora-vincere-ecco-perche/762578/
L’amico Attilio Mangano non è stato soltanto un socialista libertario ma uno degli intellettuali più importanti della nuova sinistra. Una fase importante della sua attività è stato il periodo del Quotidiano dei Lavoratori, in cui è stato responsabile delle pagine culturali del giornale di Avanguardia operaia. Poi restano fondamentali i suoi saggi sull’altra linea e i suoi lavori sulle riviste degli anni sessanta e degli anni settanta e sul 68. Inoltre è stato un organizzatore culturale e ha fondato varie riviste. Sulla sua produzione poetica sono d’accordo con la lettura che ne ha fatto Ennio. Mi auguro che gli amici e i collaboratori di Attilio riescano ad organizzare altre iniziative (incontri, convegni, pubblicazioni) sui vari aspetti della sua attività politica e intellettuale.
Nel mio post precedente c’è sicuramente un «sentimento di malinconia», ma non di «delusione e rassegnazione», perché non stavo parlando di una questione di attualità o anche di memoria recente, ma stavo facendo una (probabilmente inutile e ovvia) considerazione “storica”, generale, generalissima. Quasi tutti i giorni leggo, a propositi di un nome o di un altro, recente o lontano (ad esempio, della poetessa del Cinquecento Chiara Matraini, che un recente articolo del “Corriere” lamentava che oggi è, immeritatamente, una sconosciuta), affermazioni del tipo: dimenticato, oggi sconosciuto ma un tempo noto, sottovalutato, poco studiato, necessiterebbe di essere riscoperto ecc. ecc. E allora constato (sempre e da sempre): la storia nel suo complesso è sempre un fatto collettivo, un “noi” (come dice Ennio), e in ciò che siamo, in ciò che è il mondo in cui viviamo, in qualche modo è implicito il ricordo di miliardi di persone di cui non conosciamo e non potremo mai più conoscere i nomi e qualche tratto della biografia individuale. I concetti di “mente collettiva” e di “intelligenza collettiva” sono da sempre impliciti nella storiografia, e teorizzati almeno a partire da Condorcet, poi da Cattaneo e altri autori anche recentissimi. Ma da quel “noi”, per ragioni inerenti al merito o anche, spesso, solo al caso, alla fortuna, alla sopravvivenza di testimonianze, si enucleano poi liste di nomi, ognuno dei quali è un “io” a cui possiamo dare una consistenza biografica. Queste “biografie” si accumulano nel corso dei secoli e via via, anche nomi già celebri, passano in secondo piano, poi in terzo piano, fino a essere dimenticati. In questo senso parlavo di “destino inevitabile” per chi, pur avendo vissuto intensamente e operato pubblicamente con un profilo individuale noto, non ha inciso abbastanza da mantenersi “a galla” nella gestione storica/sociale della memoria. È una constatazione, è un dato di fatto non smentibile. Il ricordo pubblico “spalma” la sua attenzione, in base a modalità e categorie storiche diverse, su un’infinità di livelli, dal grande personaggio ricordato a livello mondiale a quello ricordato solo a livello locale (magari di un piccolo paese) o di un piccolo gruppo di specialisti (ad esempio la Chiara Matraini di cui Isabella Bossi Fedrigotti lamentava la dimenticanza, è in realtà ben conosciuta agli specialisti di storia della letteratura italiana, il che vuol dire a qualche migliaio di persone. Poche? Molte? Non saprei dirlo, ma certo, nella gestione dei ricordi, non possiamo credere che possa essere ricordata da miliardi di persone, perché anche il ricordo ha la sua “economia” e non tutti possono occuparsi di tutto e ricordare tutti). Nel caso di personalità recenti, il ricordo è anche molto legato, e affidato, a chi ha conosciuto di persona la persona e condiviso la sua attività. Ma poi, nell’arco di poche generazioni, questo tipo di ricordo scompare. Questo è un “destino inevitabile”, ripeto. Il pensiero suscita malinconia, ma non si può fare altro che accettare la realtà. Non è una riflessione politica, di delusione o di rassegnazione, ma di “sentimento della storia e della storicità”. Nel corso degli ultimi 25 secoli, poi, con lo sviluppo della scrittura, dell’uso della carta, della stampa e oggi delle memorie digitali, è avvenuto che le testimonianze disponibili siano diventate così tante da superare la capacità di utilizzarle ai fini di conoscere le vicende di singoli individui, intendo dire che di milioni di persone potremmo, volendo, restituire dei tratti biografici depositati nelle testimonianze disponibili, ma non lo si fa perché non se ne ha il tempo e non lo si ritiene utile né necessario. E la ricerca storica (il ricordo) si concentra necessariamente su quelle figure le cui vicende personali sono più interessanti dal punto di vista della comprensione delle vicende collettive, riguardino la storia in senso lato o qualche settore storico specifico (letteratura, arte, economia, religione, scienza ecc.). Se, pertanto, nel corso di un periodo storico, anche solo di un decennio, hanno operato in modo interessante centinaia di individui, diventerà scontato, dal punto di vista storiografico, che alcuni saranno ricordati di più, altri meno, altri dimenticati o, come dicevo quasi scherzando, ricordati solo in una nota a piè di pagina.
Non credo che questa sia un’«ottica rigidamente individualista». Mi sembra che sia l’ottica che, da sempre, le civiltà (primitive o avanzate) hanno adottato. Né quest’ottica è falsificata dal fatto che non è mai stata, e mai sarà, neutrale. Certamente ci sono delle tendenze forti che, nelle diverse epoche, privilegiano una certa gestione delle memorie a danno di altre. Ad esempio, fino a tempi recentissimi, le donne letterate hanno avuto molte probabilità in meno di essere ricordate rispetto agli uomini. E in genere chi è in sintonia con le correnti al potere è più ricordato di chi è all’opposizione (e chi ha combattuto battaglie perdute è ricordato di meno dei vincitori). Ma ciò non smentisce il mio assunto, ma si limita ad agire al suo interno.
Nella storia prevale la tragedia, ed è sicuramente una tragedia la scomparsa di miliardi di persone nel nulla dell’oblio (o almeno nel nulla della scena storica, della “mondanità” ontologica). Per questo ho sempre considerato interessante, anche emotivamente, restituire una biografia ai dimenticati della storia. E fra i dimenticati ci sono anche personaggi di grande interesse i quali, da vivi, conobbero una fama addirittura internazionale. Poi scomparvero e oggi non sono ricordati nemmeno nelle più ampie storie della letteratura, edite in dieci o venti volumi. Ad esempio, per fare un solo nome, cito Isidoro Bianchi, che nella seconda metà del Settecento ebbe una fama paragonabile a quelle di Enzo Biagi e Giorgio Bocca nella seconda metà del Novecento. Oggi solo poche decine di studiosi sanno chi è stato e che cosa ha scritto e fatto. Anche molti docenti universitari specialisti di letteratura italiano lo confonderebbero con l’altro Isidoro Bianchi, il pittore del Seicento. E Isidoro Bianchi era, a suo modo, un grande. Ma nelle biblioteche e negli archivi abbiamo montagne di carta scritta che ci raccontano la vita di altri suoi contemporanei, anche loro, da vivi, abbastanza noti, ma dopo pochi decenni dalla morte non più ricordati e citati, se non raramente in qualche pubblicazione specialistica per pochi lettori.
Ho letto come Ennio lo speciale del Manifesto dedicato a Fortini “il disobbediente”. Mi sono imbattuto in queste parole che mi sembra abbiano a che fare con quanto si diceva nei precedenti commenti:
«Quello che di te rimane, che di tutti rimane, non è rappresentato da quei quattro, venti, cento libri che puoi avere scritto, e neanche dagli affetti e dall’insegnamento, perché basta passare una certa età per accorgersi di quanto questo sia vano, ma è una quantità di modificazioni che la tua vita, come quella degli altri, ha introdotto nel rapporto fra gli uomini.»
…i nomi sbiadiranno
sulla lastra del tempo
come brevi aliti caldi,
gli scalpelli incidono
un’opera comune.
Commemorare
offre all’alito le ali
per un nuovo respiro
Nomi al loro tempo noti vengono dimenticati, lo spicco e la rilevanza che ebbero da vivi non si traduce in un’eco continuata dopo morti: anche il nome – sostituto del corpo vivente, parte per il tutto – sparisce. Su questo c’è rammarico.
Alcuni nomi restano ma dei viventi che furono si sa spesso davvero poco, di Dante che fu un grandissimo poeta (dato) che immaginò di esplorare l’inferno, e alcuni incipit. Di Alessandro, che conquistò il mondo. Dove arrivò? mah, lontano!
In realtà quel nome che viene ricordato non funziona neanche come sineddoche, Alessandro era sì il “capo” dei suoi uomini, ma è soprattutto un simbolo, rappresenta un valore che tutti hanno in parte e Alessandro in massimo grado, audacia, smania di conquista, di potere e di sapere. Gli artisti, Michelangelo e Leonardo, “sono” le loro opere, che sono a loro volta il contenuto simbolico dell’opera stessa: il “giudizio universale”, le “pietà”, l'”ultima cena”. Si va al Colosseo “di” Vespasiano, lo ha forse costruito, o progettato? Lo ha voluto. E i mosaici di Ravenna, come quelli delle case di Pompei, la loro bellezza: non hanno autori ma ci figurano l’immaginario di mondi passati, e tanto lavoro collettivo.
La storia fatta di nomi dei singoli è così importante? Sarebbe bello che tutti i nomi, dei due Isidoro Bianchi, e di Chiara Matraini, fossero presenti alla mente uno per uno, con la conoscenza di quello che hanno fatto? Non è possibile solo per “economia”, di tempo, di forze, di memoria fisica (che si satura come quella di un computer)?
O perché quel disegno di ricordare è una specie di raddoppiamento della vita, una vana impresa di cancellazione della morte? Mi torna in mente la poesia di Corrado Costa su un film della vita di Lenin: perfetto, completo, dura 54 anni e bisognerebbe vederlo due volte.
Allora: cosa veramente si deve ricordare? Non i singoli ma il valore che hanno perseguito, il senso che hanno affermato, restano i nomi come metonimia del senso che con essi ci rappresentiamo.
Gli specialisti frugano i documenti per restituire, ri-portare alla luce, far ri-nascere, cioè. Da cui il lavoro, famoso nei nostri tempi, di sceverare se l’opera trovata in un posto oscuro non sia *in realtà* di un Autore, allora diventa subito di grande valore (cioè lo diventa lo Sgarbi di turno che lo ha identificato) e lo stesso quadro diventa più bello, cioè più ammirato.
Nei confronti della vigna di Rita Simonitto (Donato Salzarulo cita una più articolata “quantità di modificazioni che la tua vita, come quella degli altri, ha introdotto nel rapporto tra gli uomini”) Ennio Abate precisa due critiche: 1) il soggetto “tutti” è un’astrazione; 2) in realtà ci mettiamo in rapporto a “frammenti”, non al passato come intero. Nel rapporto con frammenti valorizziamo “un autore, un’opera o una parte di una sua opera, che a noi parla o che ci sentiamo d’interrogare”, secondo l’insegnamento di Fortini che “ci insegna ancora la capacità di tenere assieme istanze considerate teoreticamente inconciliabili, portando le forme artistiche a ulcerarsi con i conflitti del mondo”.
Lasciando da parte l’idea che la conflittualità sia la dimensione fondamentale del mondo, (una visione più forte di *mutamento* e *divenire*, e più specificata di altri modi dualistici), la frase di Zinato che Ennio cita dall’articolo del Manifesto fissa due idee, i frammenti e la modernità: “valorizzare il frammento: dei classici, nel nostro tempo come nel suo [di Fortini], non restano infatti che tracce combuste da interrogare al cospetto della tragedia collettiva. Così, nell’invitarci a un buon uso delle nostre rovine ci induce a pensare che la modernità non è finita e che i destini sono ancora ‘generali’: nelle pieghe e nelle ombre dei classici possiamo rivenire ‘la parte taciuta e ammutolita di noi stessi, della storia, degli uomini'”.
Se *i destini* sono ancora *generali* e la parte taciuta e ammutolita di noi è -auspicabilmente- dentro la tradizione comune della modernità, allora è bene approfondire i lavori nella vigna di Rita, e interrogare il femminile ammutolito nella storia, questo lavoro non è esaurito dal recupero dei singoli nomi e delle biografie.
Quando morirò
Quando morirò avrò gli occhi chiusi
e le mani accartocciate, e non aprirò
più la bocca e le orecchie non
non sventoleranno più.
Quando morirò non ricorderò più niente
il mio cerebro se ne starà fermo
non luccicherà più le mie braccia
non avranno più forza per abbracciare
le donne e stringere mani e accompagnare
sull’auto le mie simpatie e dentro
avvolgerle alla vita e baciar loro
le guance rosa e soffiar nell’orecchio
ti amo bella mia, mentre stringo loro
il braccio carnoso. Quando morirò.
Allora non sentirò più niente
né di amaro né di dolce né di spiacevole
né di gradevole, nulla mi toccherà
il timpano, niente lo farà più vibrare.
Le mie benedette maledette gambe non
m’infastidiranno più, nulla udirò
e nulla si farà più sentire.
Ma come sarà possibile! I rumori
e i suoni continueranno a esistere
le altre orecchie li sentiranno tutti.
E gli occhi? Non vedranno più niente
non distingueranno più l’ombra
dalla luce. Tutto sarà ombra o luce?
Chi ne saprà di più? Chi avrà scoperto
la pratica da qui a cent’anni?
Non voglio azzardare, ma penso che
questa pratica sarà campo del sapere
delle stelle, ma forse no, anche
le stelle muoiono, anche le stelle
muoiono.
Ah, che sarà di noi! Che sarà delle nostre
volte cerebrali, dei nostri sentimenti,
finirà tutto in quel giorno? Tutto?
E lo spirito umano? Che ne sarà del nostro
prezioso spirito?
Ecco, questo è il punto, questo.
Quanti uomini ne hanno dissertato.
Sì, le religioni! Ma quanto sono vere?
Sono gli uomini che le hanno
inventate, uomini come noi, niente più
niente meno.
Potrei morire fra dieci minuti o fra dieci
anni, ma la questione non cambia.
Ah, le donne e gli uomini e i fanciulli,
soprattutto, gli ultimi non vedranno più il sole,
quando sarà, non lanceranno più la palla
colorata, non frigneranno più i loro
moccoli saranno tutti rappresi le loro
mamme non li stringeranno più fra le braccia
quando moriremo tutti uno alla volta
o cento in una volta, neri bianchi
e d’altri colori, i loro petali le loro
foglie i nostri sorrisi le risate a bocche
spalancate, le loro grida felici i loro
capricci. Ah, di ognuno di noi
non rimarrà nemmeno l’ombra. E anche
le bombe non le scaglierà più nessuno
tutto sarà pacifico come nelle pance
delle madri per nove lunghissimi mesi, nessuna
lamentela nessuna lacrima. Ma a che scopo.
Non ci sarà nessuno a farci caso, nessuno
dirà che bellezza! Ma non tutti moriranno
allo stesso momento, non tutti, a poco a poco.
Sì, nasceranno altri bimbi ma, lo sappiamo,
tutti l’aspetteranno quella lurida morte
tutti, come me, e tutti non sapranno che fare
nascondersi non serve, la morte sarà lì
con la sua orribile falce e non si sa chi
risparmierà questa volta. Ma forse
questo giro di vite è giusto,
insindacabile inesorabile indisponente,
ma inevitabile, e scritto nell’aria
della nostra terra. Non c’è nulla da fare.
Si potrebbe precipitarsi nella nostra fossa
da soli e ancora vivi, ma sarebbe peggio,
molto peggio, a meno che non ci facciamo
seppellire con i nostri quadri le nostre
poesie i nostri palazzi le nostre dighe
i nostri pensieri.
Ma sarebbe inutile, la terra
li ingoierebbe, dopo qualche anno
sarebbero terra nella terra, e comunque
nulla resterebbe più di noi
e delle nostre bravate.
Nota di E. A.
Pubblico qui questo poemetto appena inviatomi da Ederle perché mi pare dialoghi con i temi di questo post.
Voglio aggiungere ancora qualcosa, visto che i motori si sono scaldati. A partire da una domanda: quale è stato il loro combustibile? La commemorazione di Attilio (una figura che per molti fu importante, significativa) ne ha costituito una piattaforma, una specie di carbonella, così come accade spesso in tutte le cose quando un emergente produce l’aprirsi di situazioni che giacevano sedimentate.
Grosso modo richiama un po’ quello che Ennio (5.5 h. 16.20) esprime riferendosi ai classici, ma estensibile a una riflessione più ampia *nelle pieghe e nelle ombre dei classici possiamo rinvenire “la parte taciuta e ammutolita di noi stessi, della storia, degli uomini”*.
Ognuno, qui, attraverso i commenti, ci ha portato la ‘sua’ legna, stagionata o fresca, stecchetti o ciocchi. Ognuno ha rinnovellato (anche in senso narrativo) delle parti di sé, per se stesso e per altri.
E credo che nessuno, qui, abbia voluto mostrare la sua eccellenza, un prevalere sugli altri, ma l’importante per ‘tutti i partecipanti’ (sia coloro che hanno scritto e sia coloro che hanno letto) era che il fuoco ci fosse e che ‘scaldasse’ questo mefitico presente nei confronti del quale si desidera un cambiamento.
Perché, quando Cristiana (7.5 h. 10.52) si interroga *La storia fatta di nomi dei singoli è così importante?* la risposta è che non si tratta soltanto del nome, ma di ciò che quella figura ha rappresentato: *Gli artisti, Michelangelo e Leonardo, “sono” le loro opere, che sono a loro volta il contenuto simbolico dell’opera stessa*. E, aggiungo, hanno rappresentato lo spirito del loro tempo. E, quindi, il lavoro interpretativo, si fa più complesso, nel senso di capire se si sono ‘appiattiti’ sui loro tempi o se hanno anche precorso qualcosa.
E, a proposito di tempo, passerei dalla metafora del barbecue e della carbonella ritornando alla metafora della vigna e alla osservazione di Ennio (5.5 h. 16.20) *Ultimo appunto. Non farei nessun affidamento sulla “vigna del tempo” che, se ho ben capito quanto scrive Rita, sa o saprebbe e conserverebbe tutto quello che noi dimentichiamo*.
Perché la metafora della “vigna del tempo”?
Perché si presta a due letture, rispetto al tempo.
Da un lato, la considerazione che il Tempo non è che nasce con noi e muore con noi, ma c’è da prima (e quindi non funziona soltanto come ‘deposito’ ma riguarda anche ciò che non c’è ancora stato, non sappiamo, il mistero), e ci sarà anche dopo la nostra scomparsa.
E’ una considerazione alla quale vorrei togliere ogni venatura di misticismo o di trascendenza.
E anche se questo ci secca (eufemismo!) e ci turba, siamo limitati sia nel nostro corpo che nella nostra conoscenza. Questi versi di Ederle sono molto significativi al proposito!
*Ah, che sarà di noi! Che sarà delle nostre
volte cerebrali, dei nostri sentimenti,
finirà tutto in quel giorno? Tutto?
E lo spirito umano? Che ne sarà del nostro
prezioso spirito?
Ecco, questo è il punto, questo.*
Dall’altro lato, riflettere sul tempo ci porta ad avere il *sentimento della storia e della storicità* (Aguzzi, 6.5 h. 1.25): *Non è una riflessione politica, di delusione o di rassegnazione, ma di “sentimento della storia e della storicità”*.
E proprio questo lavoro di storicizzazione è necessario per essere ‘moderni’.
Certamente, come afferma Aguzzi (6.5 h. 1.25) *la storia nel suo complesso è sempre un fatto collettivo, un “noi” (come dice Ennio), e in ciò che siamo, in ciò che è il mondo in cui viviamo, in qualche modo è implicito il ricordo di miliardi di persone di cui non conosciamo e non potremo mai più conoscere i nomi e qualche tratto della biografia individuale*.
Si tratta di quella memoria collettiva, quella base profonda da cui emergono proprio quelle *pieghe e quelle ombre* che non avevano potuto ‘dispiegarsi’ prima, forse i tempi non erano maturi per accoglierle.
Ma ci sono stati degli “emergenti” i quali, in un modo o nell’altro e a partire da loro specifiche peculiarità – ecco qui che emerge l’individuo – hanno saputo (o sono stati costretti a) essere i portatori significativi di tensioni che hanno trasformato, nel bene e nel male, le sorti dell’umanità.
Perciò, a fronte della osservazione di Ennio (5.5 h. 16.20) sul fatto che *la modernità non è finita e che i destini sono ancora “generali”*,sostengo che per essere ‘moderni’ dobbiamo fare dei lutti. A questo proposito, riporto nuovamente un passo di M. Luzi, che condivido: “Il moderno allora è, in un certo senso, colui che soffre la contemporaneità, la vive drammaticamente, la misura con ciò che essa ha fatto morire per divenire, appunto, contemporaneità […]. È moderno quel senso critico e drammatico del tempo che muta, che impone fratture e scissioni con ciò che era stato prima, mentre è contemporaneo chi invece agisce nella piattezza dell’orizzonte mescolandosi al quotidiano senza una prospettiva etica e mentale del modificarsi del mondo”.
R.S.
2 MAGGIO 2017 – COMMEMORAZIONE DI ATTILIO MANGANO ALLA LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO 18 DI MILANO – INTRODUZIONE DI ALDO MARCHETTI (1)
Nota di E. A.
Appena possibile aggiungo gli interventi successivi.
“…l’importanza “per tutti i partecipanti” …era che il fuoco ci fosse e che “scaldasse” questo mefitico presente nei confronti del quale si desidera un cambiamento” (Rita Simonitto)…Sì, lo trovo importante e non a caso “la carbonella” in questo caso è stato il ricordo di Attilio Mangano che, per quanto ne so, svolgeva lo stesso ruolo tra i vivi, con il suo caloroso slancio di “fare gruppo”.
SECONDA PARTE
2 MAGGIO 2017 – COMMEMORAZIONE DI ATTILIO MANGANO ALLA LIBRERIA POPOLARE DI VIA TADINO 18 DI MILANO – ALDO MARCHETTI, LORENZO STRIKLEAVERS, CARLO AMORE (2)
Il commento di Rita Simonitto riporta in primo piano, nel discorso sulla memoria, l’individuo: “Quando morirò”, io proprio io, scrive Ederle, e poi allarga “Ah, di ognuno di noi/non rimarrà nemmeno l’ombra” tutti/io moriamo. L’individuo è unico, e comune mortale.
L’identità a un primo livello simbolico è etico-sociale: Caino non è Abele, un re non è un contadino, un guerriero vittorioso non è uno schiavo. A un altro livello è quantitativa, l’identità si misura in più e meno: Fidia è più geniale di altri architetti, Alcibiade più corrotto, Socrate è il più morale di tutti per Platone, e un molto risibile pagliaccio per Aristofane. A un tratto la memoria privilegia un filotto di individui che avevano un di più, sono essi che, messi in fila, riassumono il corso del tempo, basta ricordare questi per riassumere il passato, cioè allungarsi la vita (e distinguere tra essi per individuare *una linea* del passato che è mio interesse continuare nell’oggi). È una storia di dinastie, di papi, di classi dirigenti quindi di stati, e di competenze: storia della scienza, della filosofia.
Aguzzi ha malinconicamente scritto di questo: si fa memoria pubblica degli individui eccezionali, e poi via via a calare di noti e meno noti, ma dei tutti, degli oscuri, si occupa la memoria familiare. E quando questo riconoscimento tra pochi manca ci sono i monumenti collettivi, al milite ignoto, ai dispersi, ai morti in mare, ecc.
Che tra i vivi le differenze facciano la realtà, la sua vivezza e il suo tremendo fascino, è bene in quanto questo ci trascina e ci coinvolge, per amore o per odio.
Forse è senz’altro un Bene: se ci migliora in una corrente verso il meglio, questo Bene diventa una ragione per raddoppiare, con la memoria, una vita che non c’è più, “a egregie cose il forte animo accendono”.
Ma leggete queste idee di Attali sulla vita e la morte, il futuro che Attali (e forse anche il suo protetto Macron, organico alla classe dirigente europea) ci prospetta, qui l’intreccio tra morte di tutti e individui eccezionali prende un taglio originale:
“Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società […] Da ciò io credo che, com’è nella logica stessa della società industriale, l’obiettivo non sarà più quello di allungare la speranza di vita, ma di garantire che all’interno di una vita con durata definita, l’uomo viva nel miglior modo possibile ma in maniera tale che la spesa sanitaria sia la più ridotta possibile in termini di costi per la collettività. […] In una società capitalista, delle macchine per uccidere, delle protesi che permetteranno di eliminare la vita allorché essa sarà troppo insopportabile o economicamente troppo costosa, verranno un giorno e costituiranno pratica comune”
http://www.aberglaube.it/2017/05/04/en-marche-si/
L’individuo eccezionale Attali, pensatore e ispiratore di governanti, è così certo della comune anonimia della morte che si occupa addirittura dei morti futuri. Come lo dovremmo ricordare – non è tanto giovane, verrà presto la sua ora – tra gli individui eccezionali? come un Dipiù nel Dimeno?
Scrive Rita “ci sono stati degli ’emergenti’ i quali, in un modo o nell’altro e a partire da loro specifiche peculiarità – ecco qui che emerge l’individuo – hanno saputo (o sono stati costretti a) essere i portatori significativi di tensioni che hanno trasformato, nel bene e nel male, le sorti dell’umanità”.
Nel bene e nel male perchè il Bene, ormai pare, come i morti, veri, non è più di questo mondo.
TERZA PARTE
2 MAGGIO 2017 – COMMEMORAZIONE DI ATTILIO MANGANO – CARLO AMORE, ENNIO ABATE (3)
I commenti di Annamaria (8.5 h. 10.54) e di Cristiana (8.5 h. 18.19) -che qui ringrazio per la loro attenzione – mi portano a prendere in mano le loro due sottolineature: quella di gruppo, la tendenza gregaria, ovvero ciò che succede al basso (Annamaria) e quella dell’individuo, colui che ‘emerge’ dal gruppo, di quali posizioni si farà portatore, ovvero ciò che può succedere in alto (Cristiana).
Ovviamente qui la mia separazione basso/alto – che in realtà è molto più articolata anche se non dialettica – è solo funzionale a raccogliere alcune osservazioni sulla situazione attuale e ciò a partire da alcuni elementi che mi sono balzati agli occhi e che sottopongo al lettore.
E, altrettanto ovviamente, metto temporaneamente tra parentesi gli aspetti umani e di giudizio, non perché non li consideri importanti ma perché mi interessa coglierne la valenza politico strategica.
a) Rispetto al destino dei migranti, mi hanno colpito due osservazioni atte a motivare l’opportunità della loro accoglienza, frasi che non venivano certo da destra.
La prima è che, essendo calato il nostro indice di natalità mentre i nuovi arrivati sono più prolifici è necessario introdurre linfa nuova. Allora che cosa facciamo? Stiamo passando dall’utero in affitto ad un altro tipo di rapina e di espropriazione?
La seconda è correlata alla prima: se non ci fossero loro, chi pagherà in futuro le ‘nostre’ pensioni’? Le ‘nostre’ di chi? Non certo di coloro che alla pensione non ci arrivano nemmeno perché stramazzano prima. Allora, che facciamo: introduciamo più braccia-lavoro attraverso una nuova tratta di schiavi?
b) Rispetto ai movimenti che avvengono in alto.
Mi sembra che la metodica della politica americana, per continuare a mantenere la sua posizione di prima potenza, si sia trasformata dal sostenere modalità di ‘attacco frontale’, a modalità di introdurre nei paesi subalterni il caos onde portare avanti il divide et impera (la strategia del caos di Obama) e, adesso, una formula nuova, quella dell’imprevedibilità, portata avanti da Trump.
E’ il sistema dell’ambiguità proteiforme (mito del Dio Proteo) che costringe sempre gli altri ad esporsi e a far perdere loro terreno. Anche se ci sono molte somiglianze, non è da confondere con chi utilizza il “qui lo dico e qui lo nego”, modello renziano, ad esempio, che può essere assunto per insipienza, per opportunismo o altro.
Qui, con la politica oggi espressa attraverso il ‘portatore’ Trump, c’è il perseguimento di un disegno, non chiaro nei dettagli ma chiaro nella sua motivazione, e che è quello di mantenere al potere un sistema (che non sappiamo più se chiamare capitalistico o meno) che sta attraversando delle incrinature.
R.S.
Grazie Cristiana. Arnaldo
OBLIO DEI MOLTI, MEMORIA DEI POCHI
1.
Vorrei non lasciar cadere la questione, molto più complessa di quanto appaia, del rapporto tra «sentimento di malinconia» (dell’io) e realtà (del noi) affiorata nell’intervento di Aguzzi (6 maggio 2017 alle 1:25). E perciò chiederei: davvero malinconia o « sentimento della storia e della storicità» non hanno nulla a che fare con «rassegnazione o delusione»? davvero dobbiamo tenercela così come si presenta questa malinconia adulta e quasi ovvia per chi acquisisca la dimensione storica dell’essere (di quel «fatto collettivo» che è la storia, di quel “noi”)?
2.
Certo, *oggi* « il ricordo di miliardi di persone» è impossibile. Certo, di esse «non potremo mai più conoscere i nomi» e al massimo conserveremo «qualche tratto della biografia individuale». L’oblio cala come una mannaia su di loro. (Come la morte). E possiamo/dobbiamo, dunque, accettare di salvaguardare almeno quei personaggi, quei pensieri che riescono a sfuggire – e non per caso – a questa mannaia. In questo senso – se la realtà fosse immutabile o mutasse solo secondo un ciclo fisso (riservandoci sorprese anche significative ma mai sostanziali) – Aguzzi avrebbe pienamente ragione a parlare di «destino inevitabile» o di « dato di fatto non smentibile». O a ricordare saggiamente che «non tutti possono occuparsi di tutto e ricordare tutti».
3.
Ma non sono queste sue conclusioni che voglio smentire o contrastare. Vorrei invece mettere in discussione quello che a me pare il loro presupposto implicito: la *naturalità* dell’attuale e sia pur secolare «economia del ricordo» che trascura o occulta la sua *storicità* ( e una possibile, diversa «economia del ricordo»). Proprio il criterio della *naturalità* viene fatto passare con mezzi di persuasione sempre più potenti per ricordare soltanto *certi* personaggi e non altri e i pochi più dei molti, mettendo sistematicamente sullo sfondo – problema oggi sempre più trascurato o dato ormai per irrilevante – i miliardi di ignoti (la gente, le masse, i lavoratori, le donne, i migranti, ecc.), la cui vita servirebbe esclusivamente a concimare il terreno e permetterebbe lo svettare dei pochi Grandi.
4.
Eppure – lo nota lo stesso Aguzzi – « nel corso degli ultimi 25 secoli, poi, con lo sviluppo della scrittura, dell’uso della carta, della stampa e oggi delle memorie digitali […] di milioni di persone potremmo, volendo, restituire dei tratti biografici depositati nelle testimonianze disponibili». Perché non lo si fa o non siamo disponibili a farlo? (E ricordo ancora che una volta si faceva: penso alla scuola delle Annales o, solo per fare un esempio, ad un libro di Eric Hosbawm, «Gente non comune. Storie di uomini ai margini della Storia»).
5.
La risposta di Aguzzi è ovvia ma un po’ generica ed elusiva: «non lo si fa perché non se ne ha il tempo e non lo si ritiene utile né necessario». Constatazione in apparenza realistica, se ci atteniamo al senso comune, al modo di pensare consolidato e abitudinario. Ma perché è così? Perché una possibilità inedita, che il progresso tecnico pur offre, non viene colta o viene lasciata cadere?
6.
Perché, secondo me, quella possibilità è solo apparente o teorica e sussistono solidi impedimenti materiali, politici, culturali. Balenadavanti ai nostri occhi come ideale o immagine possibile, ma poi svanisce e la nostra sottomissione (positivistica?) ai “fatti” o alla “realtà” ci mette del suo.
7.
Ora vi invito ad immaginare una società utopica, in cui sia possibile ricordare tutti e nella quale non ci sia più bisogno di questa severa ( e tragica) selezione fra molti e pochi ( che, tra l’altro, è riferibile non soltanto alla memoria ma anche a tutte le pratiche politiche, economiche, culturali). Fatelo non per mettere “l’immaginazione al potere”, ma solo per un attimo e solo per intendere meglio la *storicità* e non *naturalità* delle nostre pratiche abituali in società, che, attraversate da conflitti latenti o intensi tra dominanti e dominati, si dividono *anche nella gestione della memoria*. I primi hanno un vitale interesse a conservare e condividere una *certa* memoria, a reinterpretarla, “revisionarla”alla luce delle vicende che continuano ad accadere e spesso anche a sfigurarla o a cancellarla (damnatio memoriae). E i secondi contrastano come possono, con mezzi sicuramente più rudimentali, la lettura ufficiale.
8.
Se, nel precedente commento, ho parlato di un’«ottica rigidamente individualista» è perché a potersi individualizzare con una certa pienezza sono solo una porzione degli esseri viventi e prevalentemente delle classi dominanti, che l’individualismo e l’elitarismo hanno sempre gelosamente o ferocemente affermato. A me pare che debbano essere rimesse in discussione proprio certe « tendenze forti che, nelle diverse epoche, privilegiano una certa gestione delle memorie a danno di altre».
Oggi più che mai. Non si può tornare ad accettare la storia, se non più dei re, dei grandi o delle élites. Né che « chi è in sintonia con le correnti al potere [sia] più ricordato di chi è all’opposizione (e chi ha combattuto battaglie perdute [sia] ricordato di meno dei vincitori) ». O che nella storia prevalga non una generica « tragedia», ma una precisa tragedia: quella della «scomparsa di miliardi di persone nel nulla dell’oblio », rassegnandoci ad una oggettività o a una realtà che è in buona parte imposta con la violenza.
9.
Non ci si può disfare, insomma, di tutta la ricerca delle Annales, di Foucault e delle intuizioni di Walter Benjamin. Si può, certo, accettare la grandezza di un personaggio e di un’opera. Sono tali perché riassumono o tengono aperta la *scommessa* che questa tragedia dei milioni che svaniscono nell’oblio non sia definitiva. (E non escludo anche lo studio di personaggi e opere che negano ogni valore a questa scommessa…).
10.
Aguzzi, tra l’altro, riconosce che quest’ottica elitaria « non è mai stata, e mai sarà, neutrale» e riconosce (malinconicamente?) che « fra i dimenticati ci sono anche personaggi di grande interesse i quali, da vivi, conobbero una fama addirittura internazionale ». E lui stesso non resiste alla tentazione caparbia di recuperare la biografia di qualcuno di loro. E allora gli potrei chiedere: ma chi te lo fa fare a indagare su uno sconosciuto invece di fare la biografia di un famoso e potente? Se lo fai, è perché intuisci che – come per l’amico Mangano di cui in questo post si è tentato di parlare – qualcosa di «non comune» va difeso e che il disprezzo e la connotazione negativa che si riversa sugli «uomini ai margini della Storia» o delle “masse” va ancora contrastata.
1) Non so se leggo male o bene l’intervento di Ennio Abate. A me sembra che non sia in contrasto o in contraddizione con quanto ho esposto, se non, forse, nelle pieghe del sentimento, che sta a monte delle considerazioni metodologiche, storiografiche e politiche dell’occuparsi della storia e della gestione delle memorie.
Ennio, citandomi, scrive: **A me pare che debbano essere rimesse in discussione proprio certe «tendenze forti che, nelle diverse epoche, privilegiano una certa gestione delle memorie a danno di altre»**. Sicuramente è così, e la storiografia lo fa, sempre, in qualche misura. In questo stesso blog io ho scritto qualche volta che i “grandi uomini” non sono i criminali come Alessandro Magno o Giulio Cesare, e in genere i conquistatori e gli eroi, cioè i protagonisti della storia come serie innumerabile di violenze (Elsa Morante, più che gli storici di professione, ha vivacemente sostenuto questo punto di vista). Ma sono quelli che hanno dato un effettivo e fecondo contributo al “progresso” (maggior benessere, maggiore felicità, maggiore libertà, maggiore sicurezza, maggiore bellezza del mondo ecc.) dei popoli . Tuttavia, le «tendenze forti» possono essere discusse, contestate e cambiate, ma il cambio avverrà comunque nel senso di affermare una diversa «tendenza forte», non certo nel senso di eliminarle tutte. È il problema dell’economia, delle risorse disponibili, della necessità di selezionare, dell’impossibilità di ricordare tutto.
2) In sostanza la gestione delle memorie ha un suo specifico significato, individuale per ogni individuo ma anche collettivo ai diversi livelli: famiglia, città, popolo, continente, mondo, partito, corrente di idee, di arte e così via. La memoria è usata per dare radici, corpo, identità, forza, speranza e futuro a ciò che siamo o crediamo di essere o vogliamo essere. Ciò comporta anche una «concorrenza», del tutto legittima, fra chi gestisce la memoria, e sul come gestirla. Ci sono enti e associazioni (che sono poi gruppi di persone che per passione, o per motivi di carriera o per altro vi si dedicano) che si occupano della “storia patria”, altri della storia del movimento operaio, altri della storia dei movimenti anarchici, altri dell’arte o del cinema ecc. ecc. Memorie ora complementari ora invece in conflitto. Perché la memoria è sempre una rappresentazione, dilatata nel tempo, di una identità (reale o ideale, etnica o culturale, politica o familiare o d’altro tipo). Gli infiniti discorsi sulla memoria, come le lamentela sulla perdita delle memorie, in fondo in fondo ci riportano sempre alle domande: Chi sono io? Chi siamo noi?
E di conseguenza la gestione delle memorie si distribuisce in reti che hanno il loro fondamento nella psicologia, nei legami instaurati dagli eventi fondativi della nascita e della crescita, nelle ideologie e via via fino alla gestione istituzionale che ne fa lo Stato con le sue cerimonie, con i programmi scolastici, con il suo stesso agire quotidiano.
Fra memoria personale e memoria istituzionale vi è sempre un rapporto, di consenso o di conflitto, per ciò che riguarda i criteri di selezione, e di differenze di livelli per la materia calda delle memorie stesse, perché la memoria personale è sempre più vicina ai ricordi familiari, alle amicizie, alle proprie passioni, al proprio percorso di vita, mentre quella istituzionale ha sempre una funzione pubblica con un contenuto ideologico preponderante.
3) Che non ci si possa disfare delle Annales mi sembra ovvio. Il problema qui è un altro, ed è metodologico: la metodologia delle Annales, che si è rivelata estremamente feconda nel rinnovare e aumentare le domande che lo storico rivolge al passato (leggendo e rileggendo in modo diverso tanti documenti), è ugualmente valida per ogni aspetto delle problematiche storiografiche? Gli annalisti di prima e seconda generazione e di più stretta osservanza hanno risposto di sì, ma altre correnti storiografiche, pur apprezzando il contributo delle Annales, hanno risposto di no. Lo studio della «lunga durata» è un arricchimento, ma non può oscurare – come ha fatto per qualche tempo – l’importanza della «breve durata», dello studio del singolo evento storico o della biografia della singola personalità. E molti degli stessi annalisti lo hanno riconosciuto. I diversi approcci metodologici, spesso, sono complementari e quando si irrigidiscono e contrappongono lo fanno più per ragioni di carriera universitaria e di occupazione di spazi (cattedre, dipartimenti, editoria, riviste) che per ragioni scientifiche vere e proprie. Ma questo è un altro discorso.
4) Ennio mi chiede: «ma chi te lo fa fare a indagare su uno sconosciuto invece di fare la biografia di un famoso e potente? Se lo fai, è perché intuisci che – come per l’amico Mangano di cui in questo post si è tentato di parlare – qualcosa di “non comune” va difeso e che il disprezzo e la connotazione negativa che si riversa sugli “uomini ai margini della Storia” o delle “masse” va ancora contrastata».
Sicuramente ogni disprezzo e connotazione negativa va contrastata, e questa può essere una motivazione che spinge uno storico a scegliere un argomento di studio anziché un altro. Ma ce ne sono anche moltissimi altri. Ho conosciuto studiosi che, indifferenti al loro argomento di studio, lo avevano scelto solo perché suggerito dal loro “maestro” nell’ambito di un percorso di carriera universitaria, altri che hanno scelto in base a ragioni familiari (la storia che diventa autobiografia), altri per ragioni di simpatia o vicinanza psicologica (stessa appartenenza ideologica o politica o altro), altri per il desiderio di eliminare un “vuoto storico”, recuperare cioè qualcosa che è ritenuto valido e che non è stato studiato adeguatamente, altri ancora per semplice comodità, utilizzando materiale d’archivio e bibliotecario più facilmente raggiungibile. Nel mio caso, le mie scelte, pur così lontane e diverse fra loro, avevano (dico avevano e non hanno, perché mi riferisco a un mio progetto di studio passato, mentre ora mi interesso d’altro), il loro asse nel desiderio di conoscere esperienze, idee, elaborazioni utopistiche e/o socialiste diverse da quelle della tradizione marxista leninista stalinista. Così ho studiato il socialismo non marxista prima e dopo il 1848, l’esperienza cubana, quella cilena, quella jugoslava dell’autogestione. Di questo programma solo alcuni frammenti sono arrivati a concretizzarsi in libri e saggi, mentre il resto è rimasto allo stato di letture, di appunti e di abbozzi. Quando questo programma si è un po’ «allontanato» (posso dire così?), psicologicamente, da me stesso, pur non abbandonandolo del tutto, ho cominciato a interessarmi di altre cose con un certo viraggio dalla storia alla letteratura e in particolare la letteratura che ha a che fare con i luoghi in cui sono vissuto, cioè le Marche e Milano. In entrambi i casi (socialismo non marxista e letteratura) riconosco che alla base delle mie scelte vi è una opzione di segno “autobiografico”, anche se non direttamente. Diciamo, autobiografia nel senso che richiamano grumi di interesse legati alle mie scelte.
5) Questo problema della memoria, e del recupero di memorie proprie o collettive, io l’ho pensato spesso nella forma di un esperimento mentale. Poniamo che una civiltà a noi di gran lunga superiore abbia registrato ogni minimo particolare della vita dell’universo, compresi i più intimi pensieri di ogni essere vivente e pensante. E supponiamo che ci sia data la possibilità, tramite uno speciale computer, di visionare tutto ciò che vogliamo, del passato e del presente. Ovviamente l’intera durata della vita a nostra disposizione è insufficiente per visionare tutto e dobbiamo quindi fare delle drastiche scelte selettive. Ecco, sono di fronte al computer, ho il monitor illuminato, ho la barra dei comandi che mi permette di spostarmi nel tempo e nello spazio. Da dove comincerò a curiosare in questo archivio integrale dell’universo? E da dove cominceranno gli altri? E sarò mosso solo da curiosità personale, perdendomi in onnivore avventure voyeuristiche, o sarò mosso da criteri diversi, ad esempio far luce, scoprire la verità, su fatti importanti della nostra storia? E ci sarà poi una differenza radicale fra le due scelte? O non sarà sempre e comunque la curiosità (e le urgenze psicologiche da soddisfare), diversamente educata, guidata e motivata, a prevalere?
“Ecco, sono di fronte al computer, ho il monitor illuminato, ho la barra dei comandi che mi permette di spostarmi nel tempo e nello spazio”…
* Comincerò a curiosare in questo archivio integrale dell’universo?
* O posseggo già quello che mi serve, e andrò a verificare – se ho tempo e agio – i punti fermi su cui poggio, a dirimere le svolte o le questioni, a confermare la direzione di fondo?
* Oppure, se il mio tempo è pagato da qualcuno, lo impiegherò per confermare l’interesse del mio datore di lavoro, rincalzando in modo esemplare il “suo” piano di verifica del passato per il suo interesse nell’ipotecare il futuro?
Nella discussione sin qui seguita solo Rita Simonitto ha agganciato la memoria al dominio presente per indirizzare il futuro.
Invece la padronanza – con proiezioni sul tempo non ancora – del futuro, è l’unico scopo della storia.
@ Cristiana
12.5 h. 18.23 : *Nella discussione sin qui seguita solo Rita Simonitto ha agganciato la memoria al dominio presente per indirizzare il futuro.
Invece la padronanza – con proiezioni sul tempo non ancora – del futuro, è l’unico scopo della storia*.
….. non solo io, ma anche Lenin (si parva licet!) suggeriva di fare l’analisi concreta della situazione concreta.
E pure la psicoanalisi, nel suo sviluppo ed entrando in feconda collisione con l’iniziale ipotesi ‘archelogica’ di Freud (andare a scavare nelle rovine del passato seguendo il fascino delle scoperte di H. Schliemann sulle varie sedimentazione della vecchia Ilio, e la sua ‘metodica’ a-metodica di puntare direttamente sullo strato più antico), ha poi capito – nell’esperienza clinica e attraverso le dinamiche del transfert-controtransfert giocate tra analista e paziente nella stanza di analisi – come nel presente si ripropongano quegli stralci di passato non ancora elaborati (ci era arrivato anche Freud con il suo “Ricordare, ripetere, rielaborare”), o addirittura ancora non pensati (Bion) o, attraverso l’espressione poetica, dare voce all’indicibile.
Quanto alla *padronanza del futuro* come *unico scopo della storia* c’è del vero in tutto ciò, e che corrisponde alla nostra spinta a volerci sentire non in balia degli eventi. Ma, come recita un vecchio adagio, “L’uomo propone e Dio dispone”. Ovvero, la Storia – che è l’insieme delle tante piccole umane storie – procede di per suo.
@ Ennio
11.05 h. 19.15: * Ora vi invito ad immaginare una società utopica, in cui sia possibile ricordare tutti e nella quale non ci sia più bisogno di questa severa ( e tragica) selezione fra molti e pochi ( che, tra l’altro, è riferibile non soltanto alla memoria ma anche a tutte le pratiche politiche, economiche, culturali). Fatelo non per mettere “l’immaginazione al potere”, ma solo per un attimo e solo per intendere meglio la *storicità* e non *naturalità* delle nostre pratiche abituali in società, che, attraversate da conflitti latenti o intensi tra dominanti e dominati, si dividono *anche nella gestione della memoria*.
Mi è venuto un cortocircuito davanti a questa immagine di società utopica, un mondo di ombre senza una nota distintiva! Perfino nella valle di Giosafat, quella del Giudizio Universale, si sarebbe profilata una separazione fra i buoni ed i cattivi!
Il conflitto è costitutivo nel nostro essere ed è fonte di crescita. Il pensare di non volere conflitti può creare ‘zolle autistiche’ in cui si può coltivare l’infausta (e inconscia) illusione di essere bastevoli a se stessi anche a costo di perire.
Sempre Ennio rivolto ad Aguzzi: “ma chi te lo fa fare a indagare su uno sconosciuto invece di fare la biografia di un famoso e potente? Se lo fai, è perché intuisci che – come per l’amico Mangano di cui in questo post si è tentato di parlare – qualcosa di «non comune» va difeso e che il disprezzo e la connotazione negativa che si riversa sugli «uomini ai margini della Storia» o delle “masse” va ancora contrastata.*
Non voglio sostituirmi al pensiero di Aguzzi – del quale ho condiviso il commento per l’essenziale e quindi so che lui lo sa esprimere meglio di me -, ma credo che la sua scelta non sia stata fatta per ristabilire e raddrizzare la ingiusta piega che la Storia ha preso nei confronti di *uomini al margine* o delle *masse*, quanto per una comunanza di sentire, di rappresentazioni interne, quelle che andranno a costituire una base comune sicura e non preordinata da un codice esterno, per lo più ideologico. So di toccare un tasto dolente che è quello della scelta. Il pensare che tutti siano uguali bypassa questa problematica. Invece bisogna affrontarla e non passarci sopra una pialla livellatrice.
Riconoscere i conflitti senza demonizzarli è il sistema migliore per produrre eventuali cambiamenti.
R.S.
“Il conflitto è costitutivo nel nostro essere ed è fonte di crescita. ”
Non sono sicura che la radice sia “conflitto”. Certo, i gemelli! (Le antiche lingue hanno il duale, dopo il personalismo sopravvive solo l’opposizione singolare/plurale.)
Il conflitto duale potrebbe nascere nei confronti della madre (della femmina)?
Il conflitto tra padre (i padri) e figli costituirebbe un secondo momento. Alcune civiltà – Giuseppe e i suoi fratelli versus Il figliol prodigo – hanno avuto coscienza del problema, se il padre del figliol prodigo è un “mammo”, mentre il padre di Giuseppe non si oppone ai fratelli.
È possibile pensare che ci sia una radice più fondamentale, originaria: nell’amore, prima che nel conflitto? (corrisponderebbe alle contraddizioni in seno al popolo…).
E il seno buono e il seno cattivo di M. Klein non ha rappresentato una resa alla primarietà del conflitto?
Capisco la cautela: “pensare di non volere conflitti può creare ‘zolle autistiche’ in cui si può coltivare l’infausta (e inconscia) illusione di essere bastevoli a se stessi anche a costo di perire”. E accetto l’assunto fondamentale: “Riconoscere i conflitti senza demonizzarli è il sistema migliore per produrre eventuali cambiamenti”.
E’ vero che “La storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è storia di lotte di classi”, con i necessari plurali. Ma è anche vero che, attraverso le società e le lotte di classi, l’umanità è andata avanti grazie a nascite e allevamento. O questo reparto, nascita e allevamento, è la parte naturale, animale, (riservata al femminile) dell’umano?
E’ vero, come ha scritto Ennio, che “per l’amico Mangano [di cui] in questo post si è tentato di parlare”, mentre io ho parlato della memoria in generale e non di lui, che però non conoscevo. Me ne scuso, ma il discorso è scivolato presto sulla anomia dei morti, sulla storia di nomi, e poi di idee…
@ Cristiana
La domanda che viene posta: * È possibile pensare che ci sia una radice più fondamentale, originaria: nell’amore, prima che nel conflitto? (corrisponderebbe alle contraddizioni in seno al popolo…)*, non è una domanda da poco.
Nello stesso tempo rischia di risentire di un vizio d’origine per cui il termine ‘amore’ sarebbe pregno di positività (e non è così) mentre il termine ‘conflitto’ sarebbe pregno di negatività (e non è così).
In realtà, perché ci sia un buon processo di maturazione nelle relazioni è importante che l’amore tolleri il conflitto e il conflitto salvaguardi gli oggetti d’amore.
Senza questa dialettica non si va da nessuna parte ma si è vincolati a schemi assoluti, rigidi, immutabili: il rischio che si corre è di essere ancorati a spettri.
A questo proposito mi piace citare questo passaggio tratto da “Gli spettri” di Ibsen, scritto nel 1881.
In un dialogo con il pastore Manders la signora Alving dice:
“Sono posseduta dagli spettri. Prima, quando ho sentito Regine e Osvald in sala da pranzo, m’è parso di vedere degli spettri davanti a me. Ma mi viene di pensare quasi che tutti noi siamo spettri, pastore Manders. Non si tratta soltanto di quello che abbiamo ereditato da padre e madre e che riappare in noi, ma di ogni sorta di idee vecchie e morte, e convinzioni altrettanto vecchie e morte. Non sono vive dentro di noi; ma lo stesso hanno messo radici e non possiamo liberarcene. Se prendo in mano un giornale e lo leggo, mi sembra di vedere degli spettri sgusciare tra le righe. Devono esserci spettri in tutto il paese: numerosi come i granelli di sabbia”.
R.S.