di Angelo Australi
a Roberto Voller
Dal 1980 al 1985 ho lavorato alla vetreria del mio paese. Ormai è passato davvero tanto tempo. Fui assunto il primo di aprile, nella stessa settimana è uscito il mio primo romanzo e Sabrina ha capito di essere incinta di Egle. Se non si tratta del classico pesce d’aprile allora è una stupenda magia, mi sono detto. Avevo preso la patente da pochi giorni quando decisi di andare fino a Reggio Emilia per ritirare le copie del libro che poi avrei distribuito nelle edicole e nelle librerie del territorio. Era pubblicato dalla casa editrice Ciminiera, diretta da Vincenzo Guerrazzi, quasi contemporaneamente a un libro di Carlo Cassola che parlava del disarmo nucleare, con il quale era stata inaugurata quella nuova collana. Caricai ben 750 copie nel portabagagli della Diane sei. Sull’Autostrada del Sole, a centoventi all’ora l’auto si alzava sul davanti, e i camionisti che sorpassavo sul tratto appenninico spaventavano la notte lampeggiando e suonando il clacson per avvisarmi. Vista dall’esterno, l’auto lanciata a quella velocità doveva dare l’idea di schiantarsi ogni momento contro uno dei bestioni che arrancavano sull’appennino in fila indiana, ma ero felice e correvo per tornare presto a casa con il mio libro fresco di stampa e l’idea che presto sarei diventato padre, e anche perché da poco più di una settimana ero orgoglioso di fare un mestiere che ritenevo tra i più antichi del mondo.
In vetreria lavoravo sei ore al giorno, poi andavo a spasso con mia moglie e il suo pancione, tornavo a casa dopo il turno di notte e leggevo fino alle nove di mattina senza farmi vincere dal sonno. Era un periodo bellissimo, pieno d’amore. Spesso leggevo, a volte scrivevo o prendevo appunti, non c’era un distacco, quel momento in cui per stare con gli altri di solito si fatica a fare qualsiasi cosa.
Non che mi rilassassi in quelle sei ore, intendiamoci, perché il vetraio era ed è uno dei mestieri più bestiali che possa esistere. Si stava intorno a delle macchine che per stampare bottiglie viaggiano in termini di secondi e ogni disattenzione poteva essere fatale alla mano, al braccio, al salto di una goccia di vetro fuso che poteva colpirti in ogni parte del corpo. L’aria calda era proprio irrespirabile, e il rumore riuscivo a renderlo accettabile solo grazie ai tamponi e le cuffie agli orecchi. Il vetro fonde a mille e quattrocentocinquanta gradi e qualsiasi gesto comportava una doccia di sudore. Sarebbe stato sano muoversi a rallentatore, ma il linguaggio della macchina che stampa bottiglie era fatto di istanti nei quali non puoi permetterti nessuna distrazione. Dopo ogni turno, a seconda se era estate o inverno, almeno io, nonostante allora fossi quasi anoressico, perdevo in peso dai due ai tre chili di liquidi. Non è descrivibile cosa si deve sopportare nel contatto con queste macchine diaboliche che tranne la rottura di un motore, durante l’anno non vengono mai fermate. Sono stato assunto a ventisei anni e quando la cooperativa dei vetrai è fallita ne avevo trentuno.
All’inizio ho avuto la fortuna di fare coppia con uno dei migliori vetrai che c’erano, si chiamava Pipone un po’ perché fumava ottanta sigarette al giorno, ma invece gli era calata un’ernia e suoi testicoli sembravano grossi come dei meloni che potevamo ammirare al momento di fare la doccia, a fine turno. Mi sentivo ricco in quegli anni, per tutti i motivi d’amore per mia moglie e per la letteratura che accennavo sopra, sicché quando stavo davanti alla macchina mi sembrava giusto dialogarci, girarle intorno, trovare il modo di scoprire un difetto anche se piccolo nella produzione di bottiglie. Oggi queste cose magari le fanno dal computer e l’intervento umano è limitato e sicuro, ma in quegli anni l’uomo ci metteva ancora tanto del suo, era aperto il legame con la storia di uno dei mestieri più antichi del mondo. Al contrario di me, invece Pipone se ne stava seduto a una distanza ragguardevole dal caldo e dai grossi ventilatori che smuovevano l’aria alle nostre spalle. Ogni dieci minuti si alzava a prendere con la pinza una bordolese incandescente appena uscita dallo stampo, la pesava sulla bilancia e si accostava per accendere la sigaretta, prendeva il pennello per oliare gli stampi dove calava da un canale la goccia di vetro fuso, faceva il giro delle otto sezioni che rilasciavano bottiglie ad un ritmo costante massimo di sei secondi, e poi tornava a sedersi.
Guardare le bottiglie che passavano mi sembrava una perdita di tempo, sicché cercavo in tutti i modi un pretesto per agire.
– Dove stai andando? – mi chiedeva Pipone, dopo due o tre volte che avevo lubrificato gli stampi in un tempo per lui troppo breve.
– Vado a dargli olio.
– Aspetta.
Con quella sua flemma sembrava quasi rimproverarmi, ma con tutto l’amore e la gioia che avevo dentro non potevo rinunziare alla visione generale per guardare solo le bottiglie scorrere sul nastro trasportatore verso il forno di raffreddamento, mentre lui era sempre focalizzato sull’oggetto che colpiva il suo sguardo per captare ogni difetto dal particolare, come giustamente l’esperienza e la conoscenza tecnica del lavoro gli consentiva di fare.
A inizio turno Pipone faceva sempre un giro di perlustrazione completo intorno alla gigantesca macchina che aveva preso in consegna dai macchinisti del turno precedente, ne analizzava i movimenti, osservava attentamente il colore del vetro al momento del taglio delle forbici, prima che la pasta si incanalasse negli stampi. Un quarto d’ora parlava sulla consistenza della pasta di vetro con il fonditore di turno che veniva a trovarlo, poi pesava le bottiglie che uscivano da ogni sezione, guardava se erano dritte sul collo, che il fondo non si afflosciasse su se stesso a causa della troppa gradazione, ne misurava la resistenza con la pressione dell’acqua. Dopo il suo giro si sedeva a fissare la macchina; a me sembrava nel suo insieme, ma invece teneva sotto osservazione quei dettagli che nelle verifiche inziali gli erano sembrati al limite di un probabile guasto.
Era impossibile riuscire a convincerlo della mia grande voglia di lavorare, stando fermo come stava a guardare le bottiglie. Quando ci sono entrato un po’ in confidenza ho provato a chiedere perché agisse in quel modo. Pipone le prime volte ha sorriso, ma un giorno, visto che insistevo con tutto quell’amore, mi spiegò che se all’inizio del turno i movimenti della macchina non hanno dei difetti che danneggiano la produzione, non ha senso starle addosso, mentre a intervenire troppo spesso può scatenarsi a catena una serie di intoppi che non è facile recuperare. Ogni errore, ogni difetto da correggere portava via delle ore di lavoro prima di tornare a standard di prodotto accettabili.
Dei giorni invece la macchina, forse perché anche lei sentiva il tempo e le stagioni, andava nei pazzi e nelle sei ore del turno non ci staccavamo mai dalla sua vicinanza. Alla fine dal caldo che avevo sopportato e dal sudore la testa sembrava scoppiarmi, ma se riuscivamo a normalizzare la situazione e le bottiglie fluivano di nuovo sul nastro trasportatore con regolarità mi sentivo un gigante e lo esternavo senza nessuna forma di modestia.
Pipone invece scuoteva la testa.
– Non è così Pipone? – gli chiedevo. – Oggi non abbiamo fatto un magnifico lavoro?
– Coglione! – mi diceva, – oggi ci siamo fatti solo un culo grosso così.
In tre anni che abbiamo lavorato in coppia l’ho sentito si e no dieci volte affermare con orgoglio che eravamo riusciti a produrre delle bottiglie perfette. Su mille e novantacinque giorni solo una decina a suo dire erano quelli in cui le bottiglie erano uscite perfette. Lo zero virgola zero, zero uno per cento del tempo che abbiamo trascorso insieme. Logicamente quello zero virgola zero, zero uno per cento, non era mai quello in cui ci dannavamo l’anima a rincorrere i problemi derivati dai guasti, ma invece quando la giornata sembrava scorrere più noiosa del solito perché le bottiglie, con i piccoli accorgimenti di inizio turno alla macchina, e alcuni interventi di manutenzione non invasivi, sembravano prodursi in piena autonomia.
Quando andavo a verificare la qualità delle bottiglie dagli operai incaricati di fare la selezione all’uscita dal forno di raffreddamento, nel prodotto si capiva che alla macchina c’era Pipone. Le bottiglie erano sempre di vetro verde e non è che appena uscite dal forno di raffreddamento si mettessero a volare per lo stabilimento, ma raramente un difetto ereditato dai colleghi del turno precedente restava lì. Nello scivolare del turno quei suoi gesti erano così naturali e insignificanti che non sembrava neppure di essere a lavorare. So che può sembrare assurdo, ma di quei giorni la sensazione che mi resta impressa nella memoria è questa. Dopo i primi mesi ho smesso di fargli tante domande, limitandomi ad osservare non solo ogni suo gesto, ma anche di capire su quali movimenti della macchina fissava di volta in volta lo sguardo. Mi annoiavo a morte ad agire così, mentre lui nel suo schema mentale di lavoro sembrava eseguire un rituale. Era tranquillo, concentrato, non dava mai l’impressione che gli sfuggisse il controllo della situazione, o che fosse obbligato a star lì solo per la pagnotta. Nonostante la macchina e il ritmo sostenuto della produzione, la ripetizione di un gesto era lavorare il vetro così come ci era stato trasmesso dall’antichità, che lui ormai aveva accettato come filosofia di vita. Anche se con “la bestia” – come chiamava lui la macchina – non ci dialogava a parole, in un certo modo si era fatto condizionare dal suo ritmo, ne assecondava il continuo fluire dei movimenti, in alcuni casi appena appena percepibili. Dalla posizione dove collocava la sedia guardava il dettaglio di ogni più insignificante movimento scaturito dalle otto sezioni di stampo.
Quando a fine turno arrivavano i colleghi a darci il cambio, Pipone gli spiegava i difetti delle bottiglie accennando a questo o a quel movimento per ciascuna sezione della macchina, ancora da regolare al meglio. Per lo più si faceva capire a gesti, perché in quel frastuono assordante, i tamponi e la cuffia alle orecchie, non era facile prendere il senso di una frase per intero.
Pur nello stile stringato, misurato e senza fronzoli e nella brevità in cui si racconta questo spaccato di vita in vetreria, emergerebbero delle osservazioni di ampia portata, adombrate anche dal titolo dato a questo post: “amore e/o lavoro”.
Quella che mi ha più colpito è questa.
Il tramonto della vecchia fabbrica, impostata anche artigianalmente e sostituita dalla *bestia*/macchina (così la chiama l’operaio Pipone) non ha prodotto solo un livello di espropriazione, quello della proprietà dei mezzi di produzione, ma ha anche introdotto una forma peggiore di alienazione rispetto al prodotto stesso, un ‘figlio’ a cui non deve essere rivolta alcuna cura perché non è più il proprio figlio bensì quello del padrone.
*Era impossibile riuscire a convincerlo della mia grande voglia di lavorare, stando fermo come stava a guardare le bottiglie.*…
*Mi annoiavo a morte ad agire così, mentre lui nel suo schema mentale di lavoro sembrava eseguire un rituale*.
Il protagonista si annoia mentre invece Pipone, attraverso la sua osservazione, quasi immobile, dello strumento al lavoro partecipa attivamente, sembra interiorizzare i vari passaggi come faceva l’artigiano di un tempo, e perciò stesso non esegue soltanto un rituale. In questo modo il ‘prodotto’ è suo (anche ‘suo’), a prescindere dal destino a cui verrà inviato alla fine.
Fare un lavoro di lutto rispetto ad un cambiamento significa recuperare ciò che di valido può essere portato avanti.
Spesse volte la trasandatezza si nasconde dietro l’ideologia del ‘tanto non è mio’, dimenticando che il prodotto sì che lo è, nel senso che comunque porta una parte di noi in questo processo.
R.S.
Cara Rita, grazie per il commento. Sento particolarmente mia questa tua frase:
Fare un lavoro di lutto rispetto ad un cambiamento significa recuperare ciò che di valido può essere portato avanti.
In questo ricordo del lavoro in serie della vetreria che produce bottiglie c’è tutta la voglia di far parte di un mondo che secondo me ha preferito rimuovere le contraddizioni, piuttosto che affrontarle. Secondo me si esce da una crisi risalendo dalla parte da cui siamo scesi, no prendendo un’altra strada.
Quell’amore d’insieme del giovane ha capito l’importanza della cura dei dettagli, per analizzare i quali bisogna bisogna conosce il mestiere.
angelo
“Ero orgoglioso di fare un mestiere che ritenevo tra i più antichi del mondo”, quel personaggio che vola sulla Diane sei, e che raccoglie correndo ruoli e personificazioni – sarà padre, autore e lavoratore – i camionisti, che supera in autostrada, signori del viaggio in fila indiana sui loro bestioni, lo avvisano che l’auto si alza davanti… cioè vorrebbe volare, ma occhio a non schiantarsi…
Poi “ho avuto la fortuna di fare coppia con uno dei migliori vetrai che c’erano”, Pipone
compagno di turno e di banco, il suo doppio flemmatico e mentale. Pipone è un tipo che non si dimentica, una figura che sta nelle cose, le conosce e le regola nei loro meccanismi sottili, per raggiungere zero virgola zero uno di prodotto perfetto in un anno, e dire che il corpo di Pipone, con le 80 sigarette e l’ernia, di fino non ha niente, anzi richiama alla mente i camionisti-bestioni.
La opposizione che costruisce il racconto è tra l’espansione attiva dell’amore che vuole abbracciare “la visione generale” e Pipone che sta fermo a guardare le bottiglie dopo aver registrato le fasi del processo di lavoro “Era tranquillo, concentrato, non dava mai l’impressione che gli sfuggisse il controllo della situazione, o che fosse obbligato a star lì solo per la pagnotta.”
La filosofia di vita che Pipone ha accettato tende alla ripetizione del gesto compiuto, “così come ci era stato trasmesso dall’antichità”, quindi l'”amare e/o lavorare” del titolo indica l’avvicinamento non l’alternativa.
Esatto Cristiana, è l’avvicinamento agli operai di quella generazione che in quegli anni per me avviene, persone che credevano nel lavoro per realizzarsi. Ed era anche un punto di vista da cui analizzare la società con la consapevolezza di andare per gradi
Molti della generazione di Pipone, oltre a lavorare con metodo, hanno fatto anche politica attiva, dimostrandosi tra i più preparati anche a rivestire il ruolo di assessore.
angelo australi
…mi sembra che Angelo Australi, in questo racconto, metta a confronto due modelli di “prendersi cura”, di “amare”, senza porre barriere tra aspetto affettivo e professionale, che vengono a coincidere: quello del giovane protagonista alla sua prima esperienza in vetreria, pieno di energie in movimento e di entusiasmo per un lavoro “bestiale”, che tuttavia ritiene avere un valore sacro e antico, e quello del maturo Pipone, suo collega, che si concentra immobile, vigilando con lo sguardo ogni passaggio dell’opera di cui si prende cura, un assoluto perfezionista artigiano…La possibilità per il primo di apprendere dal secondo una cifra in può, cosa che oggi con i prodotti in serie non può succedere e demotiva il lavoratore…Con l’artista del vetro – ed es. i maestri vetrai di Murano- esisteva l’artigiano del vetro ed era giustamente fiero del suo lavoro…Un racconto semplice per raccontare le cose che contano
Annamaria,
credo che, almeno nella generazione della persona che descrivo nel racconto, la differenza tra artigiano e operaio in un processo produttivo sta nella qualità del prodotto, che è indiscutibile; nel lavoro invece, qualunque esso sia, c’è sempre un metodo per interfacciarsi con le difficoltà che posso sorgere, che puoi apprendere solo grazie all’esperienza.
angelo