di Luigi Paraboschi
Con un abile haiku l’autrice lancia una provocazione rivolta anche a se stessa, e che io ho inteso anche rivolta a tutti noi che in un modo o nell’altro andiamo conversando – non sempre in modo equilibrato – attorno a questo argomento : l’arte.
Essa scrive:
Se invece l’arte
fosse l’oppio dell’occhio
che non sopporta ?
ed è come se questa breve sequela di tre versi anziché figurare oltre la metà di questo volume, cioè dopo le numerose riflessioni politico-letterarie fatte, fungesse da “ prefazio “ a quasi un centinaio di poesie che si caratterizzano per il loro impietoso giudizio nei confronti dei tanti aspetti che assume il lavoro precario in questo nostro tempo.
Ma l’occhio e la penna non sono rivolti solamente a questo soggetto sociale, toccano con mano greve ( sul piano del giudizio morale, non su quello stilistico ) anche quell’altra manifestazione della intolleranza e della stupidità collettiva che affiora quotidianamente dai commenti dei tantissimi frequentatori dei cosi detti “ social “ che sono diventati il mezzo per fare affiorare il peggio della nostra società in questo tempo.
Ho parlato di lavoro precario perché questa sembra essere quasi l’unica possibilità offerta a chi sta cercando un’occupazione, ed è vissuta dai soggetti che sono costretti e sperimentarla sulla loro pelle, quasi senza ribellione, andando talvolta contro anche quei legami di amicizia o parentela che uniscono le persone, come si capisce da questi versi:
“Ti prego, vieni presto“
singhiozzava al telefono,
aveva perso una figlia.
Il viaggio è così lungo,
pensavi mordendoti le dita,
e non è neanche mia parente.
“Non so proprio come fare”
le hai detto a bassa voce
perché ti stavano ascoltando
e mancavano due settimane
al rinnovo del contratto.
Quasi come un mantra che si ripete su tutti i giornali e si ascolta nella televisioni, figura questa giustificazione che ormai è diventata un must accettato anche da coloro che dovrebbero contrastarlo :
c’è la crisi
apri la bocca
c’è la crisi
piega la testa
c’è la crisi
e tutta in una volta
c’è la crisi
ingoia questa merda
c’è la crisi
Questa crisi ha un solo scopo, dividere la classe dei lavoratori, far loro assimilare il concetto che essa sia inevitabile e che non serva accampare diritti, come succedeva un tempo, ma occorre subirla :
Soldatini d’argilla
fibrillano in piccole piccole
battaglie quotidiane
senza esclusione di colpi,
da quelli sotto la cintura
a quelli dati alle spalle.
Si sta alla scrivania come
in trincea, ma si spara
a chi sta accanto, perché
si prende meglio la mira
e poi si fa prima.
È il lavoro, bellezza,
non c’è nulla di personale,
questione di sopravvivenza
La divisione che nasce da questa lotta per la sopravvivenza ha modificato anche le forme del linguaggio quotidiano, come si rileva da questi versi nei quali questa trasformazione appare evidentissima dall’uso diverso che i soggetti hanno della loro coscienza di sé :
Il saldatore appena assunto
e il muratore in pensione
discutevano in treno
di dignità sul lavoro
di giustizia e rispetto.
Ed era tutto un proliferare
di prime persone,
plurale il vecchio
e singolare il giovane.
Lo scoraggiamento si è impossessato dell’anima delle persone, afferma chiaramente questa poesia dal titolo “ dopo un film di Monicelli “ che molti ricorderanno :
Quella massa di cafoni
affamata, cenciosa e sporca
sembrava un’enorme famiglia
era capace di una lotta.
Erano quattordici le ore
che pesavano su di loro
mentre voi ne fate nove
anche se in busta sono otto.
Ti torna in mente quella volta
– oh molti anni or sono –
in cui l’impronunciabile parola
ti sfuggì di nascosto.
Quando hai parlato di sciopero
per qualche giorno stranamente
non hai avuto più nessuno
con cui prendere il caffè.
Ed in quest’altra la delusione e lo scoraggiamento per la perdita di identità sono ancora più evidenti
Si guadagna molto poco,
c’è la famiglia e si sa
che chiunque ha bisogno
delle sue comodità.
Così ciascuno era solo
quel giorno a Mirafiori
davanti al proprio voto.
La condizione della donna che lavora è esaminata, studiata ed espressa con versi folgoranti che specchiano situazioni di “ rassegnata amarezza “ che si riscontrano in continuazione nel nostro tempo:
Tuo nonno aveva fatto la guerra
e quando andavi a trovarlo
ti prendeva sulle ginocchia
e ripeteva la sua storia.
Era la stessa ogni volta
ma mentre indicava le foto
sull’album rilegato in pelle
si emozionava sempre.
Tuo padre spiega a tuo figlio
che scioperava senza risparmiare
le botte a quei bastardi di crumiri
che tentavano di entrare.
A tuo nipote tu racconterai
scuotendo un poco la testa
di questi giorni tutti uguali
di rassegnata amarezza.
Dirai che sei rimasta sola
con due bambini e un mutuo
e che non è stata colpa tua
se hai ereditato un mondo ingiusto.
Il peso della conduzione della famiglia è quasi sempre sulla spalle delle donne, costrette a corse contro il tempo e a fare affidamento sulla disponibilità dei nonni, ma la conclusione di questa è sarcastica e disincantata
Sono le otto e affidi la bambina
a tua madre quando ancora dorme
la rivedrai alle diciannove
le chiederai se è stata buona
e lei non vorrà lasciare la nonna.
Non osi nemmeno calcolare
quanti anni dovrai ancora lavorare
se tutto va bene ma sai che non potrai
essere nonna per tua figlia
né più figlia per tua madre.
Ma in fondo c’è da ben sperare
perché Chiesa e Stato hanno a cuore
la famiglia e perciò ti mettono in guardia
dalla deriva omosessuale.
Che il lavoro precario sia diventato una specie di condanna dalla quale è difficile sfuggire per le tante ragioni che ho già elencato, appare ancora più chiaro da questa riflessione che l’autrice compie anche allacciandosi ad una discussione che a tratti appare e scompare sui nostri media :
L’umanità si muove
ritmicamente ripetitivamente
più o meno alle stesse ore
si dipana e si contorce
come la lunghissima coda
di un bestia mostruosa.
“Guadagnerai il pane col sudore della fronte”
sta scritto nella Bibbia, e stamani la barista
ti ha detto di aver letto sul giornale
“Dovremmo tutti lavorare
anche domenica e i festivi,
è per questo che le cose vanno male“.
Ancora più chiara, in questi che seguono, la condizione femminile, la sofferenza indicibile di tante donne costrette al sacrificio di una rinuncia così dolorosa, conseguenza della lettera di dimissioni in bianco che molte aziende costringono a firmare prima che la donna accetti il posto di lavoro
Dei due che aveva dentro
quando è uscita restavano
solo due lacrime agli occhi.
Ma lei lo sa bene
che non ci sono soldi
che lui è disoccupato
e lei quel foglio in tempi
non sospetti l’ha firmato
E non si può fare a meno di augurare un futuro differente ai figli per i quali non si smette di sperare un domani migliore, anche se le speranze del suo avverarsi si fanno sempre più tenui giorno dopo giorno.
Ce l’hai fatta per fortuna
ad augurargli la buona notte,
gli hai rimboccato le coperte
e poi hai spento la luce.
“Per te sarà tutto diverso“
gli hai sussurrato prima di andare
come diceva sempre tuo padre.
Non resta che indurli a riflettere sulla verità di questa che segue :
Hai studiato così tanti anni
cose di inutilità manifesta
che ora ti mordono la coscienza
perché vali quanto guadagni.
Non sempre ciò che forma un individuo
forma anche un lavoratore
questo ricordalo sempre a tuo figlio.
L’azienda è ben ritratta nei versi di questa poesia che riflette a specchio molti imprenditori rampanti, finti progressisti figli di una cultura post sessantotto che ha visto molti di essi riciclare le idee dell’epoca intrufolandosi in moltissimi campi dall’industria alla Tv, ai giornali, e anche, come nel caso qui messo in evidenza, aprendo attività in proprio,
Ha più di mille dipendenti
contando per comodità
le partite IVA a orario fisso in sede
a cui da casa dà ordini via WhatsApp
non li vede ma ha qualche paia
d’occhi che è come fossero i suoi
guarda film muti e poi sospira
e si lamenta che la gente non sorride
non ha ideali non sogna
spesso fa la voce grossa
e minaccia e licenzia
senza pensarci due volte
ha un passato da sindacalista
e poi nella cosiddetta estrema sinistra
crede nei diritti e nelle libertà
la sua azienda sostiene associazioni
umanitarie ed è ecologica e animalista
scriveranno un articolo chiamandolo
l’imprenditore comunista
a microfoni spenti dopo l’intervista
lancia un urlo alla sala ammutolita
e il giornalista chiede
se non sia in contraddizione
con la sua storia e le sue convinzioni
non rispettare i diritti e trattare così le persone
e lui fa un largo gesto della mano
in direzione delle schiene curve e dice:
“Lei queste le chiamerebbe persone?“
Ma anche se quelle non possono essere chiamate persone, come quel padrone afferma, sono pur sempre strumenti dei quali servirsi senza che esse quasi se ne rendano conto, ed una volta utilizzate, si possono accantonare come oggetti fuori uso
Prima ancora della morte
l’aperitivo è ‘a livella.
Bevete ora tutti insieme
e arditi vi gonfiate il petto,
scherzate pure con i capi
e li sfottete amabilmente.
Siete davvero tutti uguali,
sparate subito sui social
le belle foto conviviali.
L’ultima volta era ieri
in un bel localino in centro.
Solo lo scorso lunedì
lei se ne è andata via piangendo,
l’invito e giunto martedì.
La mitologia dell’azienda che negli anni ’60 del secolo scorso induceva a regalare il panettone a Natale ai dipendenti, fatica a scomparire anche nel nostro tempo, e ricompare, magari in veste nuova più friendly ma sempre paternalista ma soprattutto “a-culturata “, come è ben espresso negli ultimi due versi di questa:
Son tutte belle le mamme del mondo
ma alcune mamme lo sono di più.
Lei esce alle due, tu resti qui,
ma oggi sei tutta rossetto e lustrini
perché stasera c’è una grande festa
col gioco a premi e l’elezione della miss.
Già facebook twitter instagram
vi immortalano nel pieno delle danze.
Siete felici, uniti e così corporate,
l’azienda si firma con lo slogan
anche nei telegrammi di condoglianze.
Forse l’ elencazione di testi è stata eccessiva, ma ho pensato fosse necessario riportarne solo alcuni dei novantacinque per suscitare nel lettore un poco di adesione, di solidarietà umana nel confronti di queste realtà non inventate, che a me hanno fatto tornare alla mente un passo di una lettera scritta in carcere nel 1917 da Rosa Luxemburg ad una amica, lettera che sono costretto a riportare quasi per intero per poterne trasmettere anche a voi tutta l’ emozione che mi trasmette ogni volta che la rileggo:
Siamo nel cortile del carcere durante l’ora d’aria, quando le capita di assistere all’arrivo dei carri che portano masserizie varie. Recentemente i carretti, invece di essere tirati da cavalli o da buoi, lo sono anche da bufali. Di struttura più robusta e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore… Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto vae victis… Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese così a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. Neanche per noi uomini c’è compassione, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per esser dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa e perché… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella dolorosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto erano irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania!… E qui, in questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseante e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto, i carcerati correvano operosi qui e là intorno al carro… ; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò, fra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi.
*Francesca Del Moro, Gli obbedienti, 2016 Cicorivolta Ed.
Interessante.
Alcune parti della scrittura mi pare concedano un po’ troppo al “parlato”, ma sicuramente e [è] una autrice da seguire. I miei complimenti.
Ciao grazie mille per l’attenzione e per l’interesse. Quanto al tuo appunto, lo ritengo prezioso per future riflessioni (nonché miglioramenti di quanto già scritto). Un caro saluto.
Grazie di cuore Luigi per avermi dedicato questo spazio prezioso e per aver ripercorso con sapienza e attenzione i nodi salienti del mio lavoro.
Davvero interessante l’approccio di Francesca dal Moro a questa tematica così complessa che riesce ad affrontare con vivacità di sguardo, tagliente ed amaro al tempo stesso, con nitida ironia senza indulgere mai, con un’invidiabile sprezzatura che è esercizio di stile e capacità di visione insieme. Il titolo è bellissimo e in esso ritorna sottesa la memoria del saggio indimenticabile di Thoreau, e forse un invito a riconquistarsi il diritto alla disobbedienza, nonostante tutto.
Grazie di cuore Lucia per la tua lucida analisi e per lo slancio positivo con cui la concludi.
Chiedo venia per l’accento mancante…
…trovo queste poesie di Francesca Del Moro molto significative perchè entrano nelle situazioni concrete con un linguaggio ironico-amaro, coraggioso e puntuale…Vi sono inscenati realisticamente i ruoli che oggi una donna madre lavoratrice ricopre nel mondo del lavoro, tra precarietà e il prolungamento insensato in età avanzata…Oltre a significare lo sfruttamento da parte di datori bene patinati e riverniciati, le poesie testimoniano una spaccatura generazionale forzata dai ritmi lavorativi, dalle carenze istituzionali per cui l’insegnamento da nonno a nipote si interrompe: “Quando hai parlato di sciopero/ per qualche giorno stranamente/ non hai avuto più nessuno/ con cui prendere il caffè” E infine “Gli obbedienti”, grazie ai social media che diffondono immagini ben mirate, sono immortalati “nel pieno delle danze”..Il discorso è di una chiarezza sconcertante…
Grazie infinite Annamaria per la tua attenzione. Hai centrato molti punti che mi premeva mettere in luce, e ti ringrazio anche per la sintesi perfetta con cui hai definito il mio stile.
Una lingua spoglia, denotativa, come un consueto parlare, con inclusioni del comune linguaggio televisivo e giornalistico. Il montaggio delle poesie prevede una esposizione del dato di fatto, il suo senso in opposizione, la valutazione morale ne è la conseguenza. Questo dispositivo coinvolge il lettore suscitando rabbia e ira fredda, forse anche odio.
Scrivere in questo modo, tagliente e scevro di sentimentalismo, chiede rigore e padronanza.
Grazie Cristiana per questa bella analisi. Non avrei saputo spiegare con parole più chiare quali fossero i miei intenti.