“Che fine hanno fatto le classi sociali?”
di Denise Celentano (da “Sinistra in rete”: qui)
a cura di Ennio Abate
Trovo particolarmente chiara ed efficace questa panoramica del dibattito attuale che ora contrappone ora tenta una conciliazione tra i due concetti di ‘lotta di classe’ e ‘ lotta per il riconoscimento’. Ne ho scelto gli stralci che mi paiono più importanti e con precisi riferimenti a opinioni espresse qui su Poliscritture sui concetti di ‘identità’, ‘differenze’, ‘integrazione’, ‘multiculturalismo’. [E. A.]
1.
L’idea stessa che le classi non esistano più riemerge regolarmente, giustificata dai più diversi argomenti. Si è parlato di una ‘cetomedizzazione’ della società – si pensi al Tony Blair di “we’re all middle class now” –, e di una generalizzazione di stili di vita prima riservati a fasce più ristrette di persone; una tesi piuttosto difficile da sostenere dopo la fine del Boom economico e a fronte della crescente polarizzazione delle diseguaglianze globali. Altri hanno parlato di “individualizzazione”: secondo Ulrich Beck, a fronte della logica sempre più individuale della modernità, quella di classe sarebbe una “categoria zombie” cui riservare degna sepoltura. Un “capitalismo senza classi”, dove ciascuno costruisce da sé la propria biografia, prenderebbe il posto dei vecchi pattern di diseguaglianza.
Come ha scritto Bourdieu, “finché ci saranno classi, ‘classe’ non sarà una parola neutrale. La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi”.
Che l’argomento delle classi tenda a essere rimosso, contestato o a comportarsi come un tabù, ci dice qualcosa del nostro tempo, ma è forse anche un indicatore della natura stessa delle classi. Come ha scritto Bourdieu, “finché ci saranno classi, ‘classe’ non sarà una parola neutrale. La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi”. La questione non si lascia derubricare a diatriba terminologica o sociologica, tendendo a sconfinare sul piano politico. In seno alla sinistra da diversi anni si dibatte attorno alla necessità di superare le vecchie tassonomie per privilegiare nuove e più scrupolose mappature dell’ineguaglianza – razza, genere, eccetera – oppure al contrario di ritornarvi per restare fedeli a una visione che mantiene al suo cuore il dato economico.
2.
Indubbiamente il marxismo è molto esigente con le classi: esse non sono mere categorie sociologiche, ma le protagoniste di un conflitto considerato come il motore della storia (“la storia è una storia di lotte di classi”), da superare in vista dell’obiettivo di una “società senza classi”. Nel marxismo tradizionale il soggetto dell’emancipazione è inoltre chiaramente distinguibile, trattandosi della classe operaia. Si direbbe allora che le classi sono passate di moda perché il marxismo è passato di moda. Oggi, una simile filosofia della storia non è più accettabile; a fare problema è la promessa stessa di un’emancipazione universale. L’idea che un soggetto collettivo possa essere considerato speciale detentore di prerogative politiche in virtù della propria posizione, non è più difendibile nemmeno per i progressisti. Ernesto Laclau e Chantal Mouffe lo scrivevano già trent’anni fa in Hegemony and Socialist Strategy, preferendo alla lotta di classe il modello di una conflittualità sociale più fluida, aperta e irriducibile a schemi. La sinistra intellettuale ha fatto i conti con questo problema in più modi, preferendo categorie come “egemonia”, “moltitudine” o “populismo” a seconda dei casi.
3.
se alcuni hanno preferito abbandonare il concetto di classe, altri si sono presi la briga di ripensarlo. È il caso di Erik Olin Wright, che di recente ha sostenuto la necessità di superare le vecchie “battaglie fra paradigmi”, in favore di un pragmatismo capace di integrare in un unico modello letture solitamente ritenute incompatibili. Anziché posizionarsi sull’uno o l’altro fronte della guerra fra weberiani e marxisti, secondo Wright occorre prendere quanto c’è di buono in ogni tradizione a seconda delle domande a cui vogliamo rispondere: If Class is the Answer, What is the Question?, è il titolo eloquente di un capitolo da lui scritto nel 2005. Parafrasando ironicamente un noto passaggio di Marx, per il sociologo americano si può essere “weberiani per la descrizione della mobilità di classe, bourdieusiani per i fattori determinanti gli stili di vita, e marxiani per la critica del capitalismo”.
4.
La società è cambiata, e con essa la geografia delle classi: la vecchia classe operaia non esiste più nelle forme tradizionali. Non solo sono venute meno, in Occidente, le condizioni materiali per la sua esistenza – la terziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione delle industrie nei paesi dove il lavoro costa meno –, ma quel che oggi rimane della vecchia working class sembrerebbe godere di una posizione di relativo privilegio. Secondo Guy Standing, il suo erede ideale sarebbe il “precariato”, una classe emergente sorta da specifiche scelte economiche compiute a livello globale in favore della deregolazione del lavoro. A differenza del proletariato tradizionale, protetto da un sistema di diritti e dai sindacati, i precari incarnerebbero un inedito movimento di regressione nell’esercizio dei diritti di cittadinanza. Farebbero parte del precariato tre distinte componenti sociali talvolta in conflitto fra loro: i “non-cittadini”; i figli della classe operaia in via di declassamento, dotati di scarsa istruzione e facilmente sedotti da programmi politici conservatori; i giovani istruiti cui era stato promesso un futuro interessante ma che ora si trovano trascinati in un generale stato di “frustrazione da mancato status”.
5.
Savage riflette sulla questione generazionale sottolineando come la possibilità di accumulare capitali nel tempo – non solo economici, ma anche culturali, sociali e simbolici – costituisca una fonte di specifici vantaggi: in linea di principio, una persona anziana gode di un vantaggio competitivo rispetto a una persona giovane già per il sol fatto di avere avuto più tempo a disposizione (un capitale temporale?). Vale a dire che se la classe ha a che fare con i “diritti preventivi sul futuro”, come diceva Bourdieu, è per via dei vantaggi cumulativi del passato. È questa la ragione per cui non basta per così dire ‘vincere al lotto’ per cambiare classe sociale, quasi fossero un paio di infradito. Le classi non corrispondono semplicemente a fasce di reddito o a categorie occupazionali: come scrive Savage, le classi sono “cristallizzazioni di vantaggi”: i marxisti direbbero che il reddito è solo un effetto dei rapporti di produzione, e che confonderlo con le classi è un modo di scambiare le cause per le conseguenze.
6.
L’enfasi sullo scollamento dell’individuo da gruppi e strutture accomuna molte riflessioni, al punto da poter essere considerata una vera e propria tendenza culturale del nostro tempo. Si direbbe che faccia parte di un orientamento eterogeneo che, a partire almeno dagli anni Ottanta, ha attaccato da ogni parte il concetto di classe. Quel che è interessante notare, è che tali riserve non sono affatto una prerogativa liberale o conservatrice. Fra i maggiori critici del concetto di classe troviamo in prima linea i progressisti.
Protagonisti di questo deflazionamento generale del concetto di classe sono stati, a vario titolo e in modi diversi, il femminismo, il post-marxismo, le filosofie post-moderne, nell’ambito di un doppio movimento che va dall’arena politica all’accademia e viceversa. Dalle classi, l’accento si è progressivamente spostato su categorie come ‘soggettività’, ‘identità’, ‘differenze’, contribuendo a ridisegnare il vocabolario politico a disposizione nel senso di una politica delle identità. Com’è noto, questo slittamento nella sensibilità pubblica dalla “politica delle classi” ai ‘conflitti culturali’ ha preso il nome di “svolta culturale”: l’idea che la categoria di classe fosse insufficiente si è progressivamente imposta, per dare spazio ad analisi e riflessioni ispirate a categorie alternative.
7.
L’idea di fondo è che le categorie economiche non siano sufficienti: a essere ripartite in modo diseguale non sono soltanto le risorse, ma anche il rispetto e la considerazione sociale. Honneth esponeva la sua teoria in un libro molto fortunato, Lotta per il riconoscimento, nello stesso anno – il 1992 – in cui il filosofo canadese Charles Taylor poneva il concetto di riconoscimento al centro di una riflessione sul multiculturalismo e sulle identità, anch’essa di grande risonanza. Attraverso due letture del riconoscimento diverse fra loro – come bisogno umano universale il primo, come rivendicazione culturale il secondo – l’idea di riconoscimento ha contribuito a dare voce a istanze che premevano da tempo e rispetto alle quali il lessico delle classi appariva inadeguato.
In questo contesto, almeno due tipi di discorso hanno finito per contendersi il terreno. Un tipo di discorso tende a ridimensionare l’idea di classe o a squalificarla come un relitto dell’“economicismo”. Il concetto di classe è considerato socialmente angusto e politicamente superato. In generale, questo discorso definito a seconda dei casi identitario o culturalista include uno spettro eterogeneo di posizioni, che vanno idealmente dalla rivendicazione identitaria alla negazione di ogni statuto di esistenza alle stesse identità – ridotte ad atti performativi – di Judith Butler. Se la critica femminista ha mostrato che le diseguaglianze di genere seguono una logica autonoma, irriducibile a quella di classe, i post-marxisti hanno insistito sul carattere politicamente limitato dell’idea di classe.
8.
A questo discorso se ne oppone un altro, che difende i diritti sociali e insiste sul primato dei conflitti economici. Si potrebbe sintetizzare questa posizione con il noto detto (attribuito a Sanguineti): “va bene la pornografia, va bene il femminismo, ma torniamo alla lotta di classe”. Un po’ come dire, ‘torniamo alle cose serie’. La vecchia idea di una gerarchia fra questioni ‘strutturali’ e questioni ‘sovrastrutturali’ sembra riemergere nella forma di una delegittimazione dei conflitti culturali o di una loro riduzione a conflitti di classe in ultima istanza. Essi vengono derubricati alla sezione ‘cultura’ della società, dove per cultura si intende qualcosa di politicamente irrilevante o secondario. Nella sua versione più mediatica e popolare, l’idea è che si debbano mettere da parte le questioni di genere, sessuali, culturali per tornare a occuparsi dei ‘veri problemi’. A sostegno di questa tesi non mancano letture banalizzanti e caricaturali, che accusano per esempio i difensori dei diritti LGBT di complicità con il capitalismo mascherata da progressismo. Si dice che questi darebbero una rappresentazione mercificata delle identità come di qualcosa che si compra al supermercato, contribuendo ad asservire alla logica del mercato quello che volevano emancipare. Judith Butler ha risposto alle accuse di “culturalismo” con un saggio significativamente intitolato Merely Cultural. Secondo Butler, il presupposto delle critiche è una discutibile distinzione fra “vita materiale” e “vita culturale”, che risponderebbe a una tattica della “sinistra egemonica” intesa a squalificare i nuovi movimenti sociali. Dietro queste critiche vi sarebbe una forma di “conservatorismo sociale e sessuale”.
9.
L’idea che le lotte di classe e le lotte per il riconoscimento possano essere dissociate, non solo le rende entrambe politicamente vulnerabili, ma tende a trascurare la natura ambivalente degli stessi fenomeni sociali. Il fatto, cioè, che la realtà non funziona per compartimenti stagni.
10.
Il “culturalismo” da solo non ha i mezzi per rispondere a questo cortocircuito. Prese da sole, le sue categorie sono politicamente vulnerabili a interpretazioni di tipo escludente, compatibili con un’idea di emancipazione “per pochi”. Senza una politica di classe, idee come ‘diversità’ e ‘non-discriminazione’, come ha scritto Nancy Fraser, sono suscettibili di appropriazione indiscriminata. A sua volta, la politica di classe da sola rischia di essere compatibile con una visione conservatrice della società. Senza prendere sul serio le lotte per il riconoscimento, in linea di principio nulla impedisce a un sostenitore della ‘lotta di classe’ e dei diritti sociali di abbracciare una visione fortemente gerarchica dei sessi, o di sostenere politiche economiche ispirate al principio «prima gli italiani».
11.
Le lotte di classe e le lotte per il riconoscimento vanno considerate insieme, sono “co-essenziali”. Tanto più che l’idea di una staccionata fra l’‘economico’ e il ‘culturale’, che costituisce il presupposto logico dell’intero dibattito, non funziona. Descrivere le classi, le identità o gli status come rappresentative dell’uno o dell’altro dominio non rende giustizia al fatto che il confine fra questi stessi domini appare difficile da tracciare.
12.
La classe presenta una importante dimensione simbolica, culturale e morale oltre che economica. Come ha scritto Annette Kuhn, “class is under your skin” (la classe è sotto la pelle): la provenienza sociale delle persone si manifesta nel loro modo di parlare, di vestirsi, di mangiare, di stare fra gli altri. Dobbiamo anche a Bourdieu l’idea che i conflitti fra classi non siano esclusivamente finalizzati a vantaggi economici, ma anche a profitti simbolici. Già Richard Sennett e Jonathan Cobb in The Hidden Injuries of Classavevano messo in luce la dimensione irriducibilmente ‘morale’ delle classi. Queste e altre considerazioni rendono problematico ogni tentativo di attribuire alle classi una natura esclusivamente economica.
13.
Quanto detto per la classe vale anche per altre categorie generalmente considerate ‘culturali’ o simboliche, come quella di ‘razza’ (da intendersi, ovviamente, non in senso biologico), che oltre a rispondere a una logica di dominio ed esclusione culturale, si lega a specifiche ingiustizie economiche – si pensi, per esempio, ai lavori meno desiderati riservati ai migranti. A sua volta, sottolinea Fraser, il genere si comporta come una categoria doppia, perché non descrive soltanto forme di svalutazione simbolica delle donne, ma struttura anche la divisione del lavoro, per esempio attribuendo alle donne l’intero carico del lavoro di cura. Infine, il prestigio o lo status sociale degli individui è esso stesso suscettibile di funzionare secondo una logica economica: le cosiddette ‘economie reputazionali’ dove l’approvazione sociale funziona come un capitale da accumulare, come una forma di compensazione psicologica e simbolica alternativa a quella materiale (di cui tuttavia non smentisce la logica di fondo), sono esempi in tal senso eloquenti.
La questione continua ad attraversare il dibattito pubblico, con una destra che pretende di appropriarsi delle questioni economiche mentre la sinistra sembra vivere una profonda crisi d’identità. Ma in questa confusione è bene tenere a mente due cose: la prima è che l’attenzione della nuova destra — alt-right o rossobruni che dire si voglia — per le questioni ‘sociali’ appare perlopiù subordinata al fine più urgente e realizzabile di combattere le rivendicazioni ‘societali’ relative al genere e alla razza, e si squaglia come neve al sole al momento di farsi politica concreta; la seconda è che l’esistenza stessa di una dicotomia tra ‘sociale’ e ‘societale’ è stata prodotta con precise finalità politiche e le energie spese per riconfermarla potrebbero essere meglio investite nel tentativo di tenere assieme queste due dimensioni.
Un bel testo. L’idea di classe io la ho assunta nel ’68, in quell’ampio movimento di identificazione fra la maggioranza dei lavoratori, che si riconoscevano ugualmente comandati da un capitalismo che era allora espansivo. Le alleanze erano volute, mentre i lavoratori venivano divisi soprattutto con differenti salari e rudimentali (allora) ideologie per giustificarli.
Però con un tono garbato da studiosa preparata Denise Celentano fa acquisire (anche inconsciamente) a chi legge che il deperimento del concetto di classe ha corrisposto a una voluta destrutturazione delle condizioni lavorative e organizzative dei lavoratori, dalla fine degli anni ’70 al precariato radicale di oggi.
Le categorie sociologiche successive, cetomedizzazione e individualizzazione sociale, o quella del vantaggio di un *capitale temporale* per i lavoratori anziani, darebbero per superata l’idea di classe mentre invece sono coperture ideologiche della generale precarizzazione.
Interessante leggere sul Manifesto di oggi l’intervista a Paul Mason attivista del Labour Party, che espone il lavoro di Corbyn e suo per collegare la working class bianca antieuropeista, antiglobalista e impoverita, alla “vera working class contemporanea, quelli che lavorano nelle aziende globali, nel settore pubblico, nella mano d’opera qualificata, ad esempio i milioni di lavoratori nella sanità”. Il Labour oggi si propone di ricomporre la classe nelle sue articolazioni.
Il femminismo, il post-marxismo e le filosofie post-moderne hanno arricchito il vocabolario politico con una politica delle identità. Questa è stata definita “svolta culturale”, con conseguente svalutazione e irrilevanza dei conflitti culturali da parte dei difensori dell’economico.
Per la pensatrice femminista Judith Butler, la distinzione fra vita materiale e vita culturale intenderebbe però squalificare i nuovi movimenti sociali, e Celentano condivide la posizione. Anche la femminista Nancy Fraser sostiene che occorre tenere insieme le idee di non-discriminazione con una politica di classe: “senza una politica di classe, idee come ‘diversità’ e ‘non-discriminazione’ […] sono suscettibili di appropriazione indiscriminata. A sua volta, la politica di classe da sola rischia di essere compatibile con una visione conservatrice della società”.
La prima frase è una dichiarazione teorica: il concetto di classe coglie un referente oggettivo. Ma la seconda frase mostra il rilievo della componente ideologia: i sostenitori della lotta di classe e dei diritti sociali hanno saputo fare scelte di destra estrema.
Categorie come riconoscimento e identità hanno elaborato elementi preziosi per destrutturare il sistema sovrastrutturale mondialmente diffuso, che annullando la primaria differenza tra i due sessi, a questa prima subordinazione lega la negazione di altre differenze, in un regime monoidentitario e proprietario.
Io mi sono fatto un’idea piuttosto semplice delle “classi”, che sostanzialmente deriva dalla voce “impoverimento”. Quindi sarei per l’interpretazione economicistica: poveri e ricchi. Dove la crisi c’è, si vede e si sente e dove la crisi non arriva e non tocca, individualmente, nessuno. Le altre classi hanno carattere sociologico.
Resto sempre dell’idea che fare gli operai sia un lavoro di merda ma pur tuttavia, se interpretiamo le classi come distinzione elementare tra ricchi e poveri, è pur sempre qualcosa: hanno l’indennità di disoccupazione, insomma c’è del welfare. Rispetto ai poveri, gli operai dal mio punto di vista sarebbero il nuovo ceto medio. Il problema sta nel fatto che la classe dei poveri non viene riconosciuta, a parte le statistiche, i numeri e i sondaggi, è come non esistessero.
Bisogna anche aggiungere che nella nuova – si fa per dire – classe dei poveri sono confluiti parecchi che erano del ceto medio, quelli che un tempo venivano chiamati borghesi, i quali hanno mantenuto quella mentalità: se rubano lo fan di nascosto, quando escono si mettono la giacca, se intervengono in qualche dibattito rimangono conservatori. E’ come pensassero che si tratta di un problema temporaneo. Questo fa sì che nessuno dica niente, che si sta in fila alla Caritas, si rispetta il turno e si maledicono gli extracomunitari.
Ci sarebbe una sottoclasse, quella dei giovani e anziani. Credo che lì la battaglia sia all’ultimo sangue.
… tutto questo perché la sinistra è scomparsa dal pianeta.
…tra le cause del deperimento del concetto di classe, oltre all’impoverimento generalizzato, sono intervenute anche le mode, cioè un polverone che confonde le menti delle nuove generazioni, ma non solo…Molti giovani condividono giochi, abbigliamento, musica, film, sogni e questo li fa sentire lanciati verso un comune futuro radioso, poi arrivano le gravi discriminazioni, le batoste: se sei figlio di…. se hai una famiglia forte alle spalle…Il fattore economico resta centrale. Anche se, nei movimenti, è importante che l’istanza economica si saldi con quella culturale…Trovo molto interessanti le osservazioni di Mayoor sulla difficoltà oggi del povero o impoverito a riconoscersi tale, come se si trattasse di una situazione temporanea di cui quasi vergognarsi, da nascondere, indossando le varie maschere del caso…