di Angelo Australi
Non so “ Se i muri potessero raccontare” di Maurilio Riva è un romanzo, o meglio, lo sia nei termini in cui la trama può esercitare la curiosità del lettore sui personaggi, sullo svolgersi dei fatti. Qui il personaggio è il luogo stesso in cui tante vite si sono incontrate, i muri in cemento armato della fabbrica sono l’alter ego dell’autore, anzi, oserei dire che il personaggio fabbrica si sdoppia, trova un suo collante morale nel personaggio di Moreno Senzamacchia (e questo cognome già la dice lunga sul tipo di eroe con il quale interloquire) , sindacalista e attivista politico prima in Avanguardia Operaia, poi nel PCI, che dopo aver venduto libri a rate per alcune case editrici di sinistra guadagnando una miseria nel 1970 viene assunto in una fabbrica che in molti anni, prima di essere dismessa, ha prodotto telefoni per milioni e milioni di italiani. Moreno (lo chiamo così per familiarità) compare con una certa frequenza in molte microstorie trasformate in personaggi (donne e uomini veri, reali) dai ricordi che la struttura asettica – fatta di componenti fredde quali sono i suoi spazi adesso vuoti – ci racconta. Maurilio Riva ce lo svela nel corsivo del capitolo 14 (Voltagabbana e camaleonti), quale sia il punto sospeso dal quale partire per decodificare questo flusso di memoria, seguendo lo schema di un ritmo evocativo in uno stile che nasce dal basso:
“I muri di una fabbrica non sono predisposti al pensiero, semmai testimoniano un ragionamento origliato dalla vigorosa voce di chi viveva un terzo della propria vita all’interno dei recinti. Assorbono casomai delle notizie nel loro girovagare di persona in persona. Recepiscono semmai un punto di vista espresso a voce alta”.
E’ vero, funziona così, in questo caso le memorie, gli eventi, le vite di uomini e donne, costituiscono un elemento di verità storica che ripercorre le vicende di alcune generazioni che hanno lavorato in fabbrica negli anni d’oro a ridosso del sessantotto, vivendo l’allontanarsi dal bisogno di lottare per un mondo migliore verso quell’edonismo degli anni ottanta che successivamente ha generato la dismissione di un sistema produttivo così importante ed articolato, ma meno appetibile come orizzonte, rispetto al terziario, in cui potevano credere le nuove generazioni. In ciascuno dei quindici capitoli in cui si sviluppa il racconto c’è un corsivo – a mo’ di premessa – dove la memoria della fabbrica, il suo spazio fisico, argomenta tematicamente le ragioni che sono il sale delle storie dei vari personaggi. In questi corsivi che introducono ogni capitolo sembra che quei muri abbiano acquisito una severa disciplina nel vedere, i suoi pensieri memoriali nascono da ciò che ha visto, non dal contrario, ed è per questo che mi sembrano più vicini al concetto di ricerca in una costante opposizione tra realtà e immaginazione, piuttosto che a singoli pensieri di cui può nutrirsi la trama di un romanzo.
La storia di ogni fabbrica, inseguendo i suoi ritmi produttivi, crea un piccolo microcosmo di fatti, condiziona le vite di chi vi lavora. Non è mai saggio generalizzare, tuttavia a un certo punto in questo libro ho ritrovato un canone che credevo ormai depennato dalla nostra cultura letteraria postmoderna: quello dei cronachisti toscani del Trecento. Certo sia Dino Compagni che Giovanni Villani nella loro “Cronica” parlavano di eventi storici accaduti nella Firenze macerata dalle lotte intestine tra Guelfi e Ghibellini, ma l’impressione è che queste piccole storie di cui i muri di cemento armato hanno memoria – alle quali si intreccia per legami di amicizia o per battaglie sindacali da sostenere la vita di Moreno – tendano tutte a concentrarsi sul momento storico che le ha generate, facendolo ergere a trama di una simbologia della realtà, ricca di significati e di sfaccettature inalienabili, dove amore, passione politica, gelosie, desideri, odio, si coagulano in un sistema fatto di esseri umani, vestiti sì tutti uguali nelle tute da lavoro, ma ciascuno in grado anche di universalizzarsi per la propria vicenda. Tutte queste storie piatte, lineari – ma anche doppie, almeno nel ruolo che ogni operaia/o ha con la vita fuori e dentro la fabbrica – si intrecciano nella percezione della realtà di una condizione umana subita e al tempo stesso decodificata per arrivare a condividere con gli altri una scelta di campo. Riusciamo ad immaginare l’incontro con l’altro in questi racconti sintetici, quasi nozionistici sui fatti, come se l’autore volesse uscire oggi dal circolo vizioso del nichilismo che ci sta rendendo la vita un insopportabile stallo paludoso.
In conclusione ci terrei a liberare il campo dalla cosiddetta categoria degli industriali italiani portando l’esempio di una fabbrica del mio territorio, sorta a metà degli anni trenta con finanziamento del governo fascista tramite il SICS (Società Italiana Carburanti Sintetici), che insieme al milanese Gruppo Monti costituì la Società Distillerie Italiane SpA, nata con il preciso scopo di creare un propellente per usi bellici estratto dalla lignite di Castelnuovo dei Sabbioni. L’idea, che era una bufala già in partenza, utile solo a spillare soldi dei contribuenti, fu un insuccesso che determinò un crac economico e per un periodo – nel dopoguerra – i muri della fabbrica assistettero al proliferare di molti progetti, diciamo così, come minimo estemporanei; ad esempio in una parte delle sue strutture per un periodo qualcuno ci ha guadagnato facendo addirittura fiorire un allevamento di polli. Successivamente fu deciso di usare la struttura industriale come distilleria di vari prodotti chimici e dal 1967 passò alla distillazione di resine dure e acetate. L’azienda subì un nuovo crollo alla metà degli anni settanta, causato dalla crisi mediorientale, fino a che nel 1979 fu acquistata dalla Alusuisse Italia SpA, appartenente ad un gruppo svizzero, per la produzione di prodotti derivati dalla petrolchimica, quali l’anidride ftalica, i plastificanti e le resine di poliestere. Nel 2003 lo stabilimento viene incorporato dalla Lonza Compounds SpA, che nel 2006 cambia ragione sociale in Polynt SpA, che nel 2008 viene acquistata da Polimeri Speciali, una società controllata indirettamente da Invest Industrials. La vicenda di questa fabbrica costruita con denaro pubblico inseguendo la chimera di realizzare un carburante dalla lignite, la dice lunga sulla borghesia illuminata del nostro paese a cui, come dice un detto operaio delle mie parti, “piace fare il finocchio con il culo degli altri” (gli omosessuali non me ne vogliano, perché in questo caso il riferimento dal taglio ironico è puramente metaforico).
Rispetto a questa del mio territorio, la fabbrica dove hanno lavorato Moreno Senzamacchia e gli altri adesso è chiusa, quegli spazi fatiscenti, degradati, invasi dalle erbacce e dai rifiuti, nascondono altre vite, altre storie: persone in fuga dall’Africa per crearsi un orizzonte di speranza ancora possibile. Sono cacciati dalle forze dell’ordine, ma ritornano, la notte, di nascosto, a ripopolare dei luoghi nati un tempo su altri presupposti, accendendo grandi aspettative di uguaglianza e di solidarietà. Ci portano giacigli improvvisati, si accampano a ondate, mangiando cibi confezionati, freddi, pieni di conservanti, come è sempre successo nella storia dell’umanità, quando si scappa dall’orrore di una guerra, dalla violenza, dalla sopraffazione, dalla miseria, dalla fame, per andare oggi verso quell’Eldorado che i nuovi mezzi di comunicazione gli fanno credere che sia la nostra Europa. Da quei muri della fabbrica si spalanca una realtà in cerca ora di una differente visione su quello che sta accadendo. Chissà se oggi non ci sono anche degli operai – si, di quelli che ci lavoravano una volta – tra tutte quelle persone che si accaniscono a chiedere in nome dei diritti di cacciare questi esseri senza nome, sporchi, portatori di malattie e altre brutture che vanno esorcizzate. Eppure la storia della nostra piccola Italia è fatta di eventi che sembrano tornare ciclicamente uguali a se stessi, dei quali sembra non riusciamo a tenere memoria. Invece di affrontarli una volta per tutte, sembra che preferiamo rimuoverli. E’ un po’ come il Pozzo di San Patrizio che c’è ad Orvieto, che quando siamo in fondo si risale da un’altra scala rispetto a quella da cui siamo discesi. Invece bisognerebbe risalire a ritroso dalla stessa via da cui siamo discesi e avere il coraggio di guardare in faccia gli errori, una volta per tutte.
Figline Valdarno, 1 luglio 2017
* Maurilio Riva, Se i muri potessero raccontare, Unicopli 2017
Gentile Riva,
dovreste leggere le poesie di Vladimir Holan, perché in queste i muri raccontano, eccome!
Non so quanto i muri di cui parla il romanzo di Maurilio Riva possano essere messi in relazione con il *poeta murato* Holan. Ma perché non sondare questa pista?
Siccome Holan non credo sia molto conosciuto in Italia e dai lettori di Poliscritture ho pescato dal Web questo articolo di presentazione del 2015 scritto da Fabio Pedone:
Vladimìr Holan, crampi di senso a somma zero
https://ilmanifesto.it/vladimir-holan-crampi-di-senso-a-somma-zero/
e un saggio del 2007 di Massimo Barile:
Vladimir Holan: «Un Poeta in acrobazia nella continua ronda notturna del cuore»
http://www.clubautori.it/vladimir.holan
da cui stralcio questo passo:
E la realtà dei “muri” sarà testimoniata in numerose poesie come a dimostrare la volontà di Holan di combattere per ricercare il segreto della vita e della morte e, come scrive Vladimir Justl «espugnarlo in uno spazio delimitato e circoscritto». Il “muro” come simbolo e come metafora, “una delimitazione dello spazio in cui si svolge il dramma dell’esistenza umana”. Dentro i muri parla Amleto nel frammento Notte con Ofelia, i muri delimitano, «il muro non si persuade a non esistere» mentre il poeta ascolta «dietro la porta delle visioni». «Ecco che cos‘è fedele: il muro che si sgretola,/ma non è da solo in questo,/poiché si sgretola anche con la statua/che in cima reca…»: la realtà è un lento sbriciolarsi, il temporaneo esistere viene reso splendidamente in versi scarnificati, senza concedere nulla all’orpello, anzi, frantumando e dilaniando ciò che sprofonda nel nulla, utilizzando frammenti recuperati da un mondo personale d’un uomo che fa della poesia la parabola della sua vita.
La sua poesia può catapultare nella vertigine, far fluttuare come in una sorta di sospensione esistenziale, avvicinare alla pura astrazione, carpire l’inafferrabile e rendere visibile ciò che è nascosto dietro il muro della vita, dietro il tragico del teatro, in un vortice di parole che diventano reperti esistenziali/sostanza vitale, estratte a piene mani dall’abisso «quando anche l’eternità sprofonda dentro il nulla».
…spesso i muri sono escludenti…a volte, come nel “non-romanzo” di Maurilio Riva, testimoniano e raccontano le lotte nel tempo per il diritto alla sopravvivenza di genti diverse, accomunate dal bisogno…a volte, come per “il poeta-murato” Vladimir Holan, sono vissuti nel drammatico mistero dell’esistenza umana…