Scrap – book dal Web: su Erich Olin Wright

Erik Olin Wright: estendere la democrazia per erodere il capitalismo

Sull’ipotesi generale (la strategia dell'”erosione dello Stato”) e su alcuni punti che ne dovrebbero essere l’applicazione (ad es. la democratizzazione possibile delle  cooperative) non mi entusiasma, ma non posso  non sottolineare la simpatia per il tipo di pensiero eclettico e antiscolastico di questo studioso. Inoltre l’esperienza fatta in questi mesi nel “Comitato 16 marzo” sorto a Cologno Monzese contro la chiusura della Scuola d’italiano per cittadini stranieri  mi fa apprezzare ancor più la sua esigenza “pragmatica”.  Certo il distanziamento da Marx  va meditato e valutato con più rigore. La sua ipotesi di un socialismo «realizzabile nel seno stesso del capitalismo»  fa sorridere. Dovremmo sbeffeggiare  le fatiche, i drammi e spesso le tragedie di  tanti nostri antenati – rivoluzionari e/o riformisti – che si sono spesi per andare  oltre il capitalismo. Tuttavia mi pare pienamente condivisibile il punto 9 della presentazione di Denise Celentano, di cui  avevo già segnalato (qui) un articolo. [E. A.]

1.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, la classe operaia in Italia è morta. Lei pensa che sia così? La classe operaia è morta, nel XXI secolo?

Molto dipende da ciò che si intende per “la classe operaia”[…]. Penso che nella tradizione marxiana la classe sia un tipo particolare di relazione sociale. Non riguarda il tipo di occupazione, riguarda il tipo di relazione sociale in cui ti trovi nella struttura economica. […]Per semplificare, posso dire che in tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Non mi sembra che quelli privi del potere del capitale siano scomparsi. Non mi sembra che tutti in Italia oggi siano capitalisti. Se non tutti sono capitalisti, allora ci sono persone che sono dominate dal capitale: quella è la classe operaia, al livello dell’analisi del capitalismo.

2.

Se esiste ancora, in che forme esiste? Com’è cambiata, la classe operaia?

È molto più atomizzata. La classica idea della classe operaia non era basata solo sul fatto che è dominata dal capitale, ma anche sul fatto che fosse omogenea nelle proprie condizioni di vita. Tutti quelli che erano dominati dal capitale avevano più o meno le stesse condizioni di vita [dentro e fuori la fabbrica], c’era omogeneità, e c’era un elemento collettivo: quelli che erano dominati dal capitale erano aggregati in grandi unità di produzione. Le classiche immagini delle grande fabbriche. Il capitalismo non funziona più così. Le condizioni materiali di vita sono molto differenziate all’interno di quelli che sono dominati dal capitale, e questi tendono a essere subordinati in luoghi di lavoro molto frammentati, piuttosto che in grandi luoghi di lavoro unificanti. Quindi abbiamo una classe operaia che è più eterogenea e frammentata. È una classe operaia diversa, sicuramente.

3.

molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente a potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva.

4.

Ciò che sta dicendo è che sia sul piano politico sia sul piano economico la chiave è la battaglia per la democratizzazione, il cambiamento dei rapporti di potere. Crede che questo potrebbe creare le condizioni per la transizione a una società post-capitalistica?

L’espressione “transizione” implica che ci sia uno scenario con un orizzonte relativamente a breve termine. Preferisco parlare di “processo”, con un orizzonte temporale imprecisato, ma che punta nella giusta direzione, che abbia dinamiche che generino nel tempo più solidarietà e non meno, più democrazia e non meno, più uguaglianze e non meno. Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo.

5.

Calando questa proposta nel contesto italiano, si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile secondo lei dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?

Non c’è una ragione intrinseca per cui uno stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di stati sovrani di medie dimensioni che, dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo dell’UE. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone

6.

Credo che ci si debba concentrare sulle interdipendenze e sui modi in cui le lotte in un posto possono facilitare le lotte da un’altra parte, piuttosto che immaginare che la trasformazione verso un nuovo ordine democratico debba venire dalle potenze economiche emergenti come la Cina. Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno.

7.

Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.

8.

Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative. Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali, ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.

9.

Abbiamo bisogno di uno stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri. Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento.

10 .

Se fosse vero che lo stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno stato democratico, perché la democraticità dello stato sarebbe un’illusione. Qualche volta sembra Poulantzas dica quello, che tutto ciò che sembra democratico sia solo un’illusione per disorganizzare la classe operaia. In questo senso lo stato non sarebbe solo uno stato capitalistico, sarebbe uno stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello stato soddisfacente. Penso che lo stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello stato nazionale, due ministeri che non collaborano. Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno.

11.

Ci sono stati diversi sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials [1]negli Stati Uniti e inchieste simili segnalano la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo. Pensa che ci sia un’ondata di anticapitalismo in crescita?

Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan del poster per la vostra serie di incontri, “Il capitalismo non funziona. Un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza, l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle. Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosioneperché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.

[1]

In questo caotico divenire, si ergono i Millennials ovvero la più grande generazione interconnessa che il mondo abbia mai visto. Parliamo di tutte quelle persone che sono nate dopo il 1980 e che presto saranno la metà della popolazione degli Stati Uniti. I Millennials sono la generazione del nuovo millennio (anche detta generazione Y) ed esattamente sono tutti coloro nati tra il 1980 e 2000, che hanno la caratteristica di essere la prima generazione al mondo ad essere nata nel mondo della comunicazione globale dove tutto è connesso e relazionato.
(http://micheleliuzzi.com/chi-sono-i-millennials-e-perche-devi-saperlo-per-bene-della-tua-azienda/)

Erik Olin Wright: una presentazione

di Denise Celentano

Al marxismo dialettico e al post-marxismo – derubricati a «tecnica elegante» e a «metodologia esoterica» – Wright oppone un «marxismo deflazionato», senza soggezioni di tipo esegetico o ideologico nei confronti della tradizione. In Class, Crisis and the State (1978), esprime così la sua insofferenza verso il carattere oscuro e gergale di certa teoria marxista: «in ogni dibattito sulle idee marxiste, a un certo punto avrei voluto chiedere, ‘dimostralo!’». A suo avviso, solo misurandosi con la sfida dell’analisi empirica diventa possibile, per i suoi detrattori, prendere il marxismo sul serio. Anziché rassegnarsi all’«impossibilità di spiegare alcunché» cui sembrano condannarlo le interpretazioni post-moderne, per lo studioso americano il marxismo va inteso come una cassetta degli attrezzi sempre suscettibile di falsificazione, da utilizzare per rispondere a domande precise sul mondo in cui viviamo e interrogarsi sulle sue possibili alternative.

2.

Nelle sue prime pubblicazioni, l’attenzione di Wright si concentra prevalentemente sul problema dei confini fra le classi, affrontato in un confronto serrato con la teoria di Nicos Poulantzas. Alla sua proposta di tracciare i confini fra il proletariato e la «nuova piccola borghesia» sulla base della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che Wright giudica arbitraria, il sociologo americano risponde con la nozione di «collocazioni contraddittorie di classe». Non sempre gli individui si collocano in modo univoco nell’una o nell’altra classe: ammettendo la possibilità di collocazioni simultanee in più classi, diventa possibile aggirare il problema e adattare l’analisi a una geografia sociale complessa, che sfugge all’imposizione di confini artificiosi fra gruppi.

3.

Secondo Wright, le classi non sono da considerare alla stregua dei gradini di una scala, bensì come categorie relazionali: non è possibile comprendere una classe senza fare riferimento alle altre classi (nell’esempio classico, non si può descrivere la classe operaia indipendentemente dalla classe capitalistica). Alla base di questa interdipendenza è il fatto che alcuni gruppi beneficiano della deprivazione materiale di altri gruppi, secondo un rapporto di tipo causale. Per la stessa ragione, i rapporti di classe non sono semplicemente dei rapporti di dominio, dal momento che questi ultimi non implicano di per sé una logica appropriativa.

4.

Intendendo la classe come un concetto definito non solo da rapporti di potere ma anche di sfruttamento, diventa possibile rappresentare la ricchezza e la deprivazione materiale come causalmente connesse, nonché differenziare i rapporti di classe dalle altre forme di relazione sociale (per esempio, da un’idea generica di «oppressione»). In tal modo, le classi possono essere descritte come rapporti sociali intrinsecamente antagonistici. Proprio in questo risiederebbe lo scarto fra un’idea generica di diseguaglianza e le classi, da non intendersi come mere categorie occupazionali o fasce di reddito.

5.

L’intero itinerario intellettuale di Wright si caratterizza per uno sforzo costante di ripensamento e messa in discussione critica di quanto già teorizzato, concretizzatosi recentemente in un cambio di prospettiva. Nell’ultimo volume pubblicato, Understanding Class (2015), oltre a confrontarsi con le teorie di alcuni fra i più noti autori contemporanei (Charles Tilly, Michael Mann, Thomas Piketty, Guy Standing, nonché i difensori della tesi della ‘fine delle classi’ e i teorici delle «micro-classi» occupazionali), tutte in qualche modo giudicate insoddisfacenti), Wright rivede a fondo la sua prospettiva nel senso di un «realismo pragmatico» (pragmatist realism). Anziché continuare a posizionarsi sull’uno o l’altro fronte di una grande «battaglia fra paradigmi», il sociologo sostiene ora che sia possibile concettualizzare le classi entro un modello capace di integrare diversi livelli esplicativi, rispondenti a orientamenti teorici solitamente considerati incompatibili. Con quest’ultima evoluzione, Wright mostra di riconoscere alle tradizioni non marxiste la capacità di rispondere ad alcune domande sulle classi per le quali il marxismo non è sufficientemente attrezzato: si può essere allora «weberiani per lo studio della mobilità di classe, bourdieusiani per lo studio dei fattori determinanti degli stili di vita, e marxiani per la critica del capitalismo». Non si tratta dunque di abbandonare il marxismo, ma di integrarlo là dove non riesce ad arrivare, per esempio nell’analisi della dimensione individuale e delle opportunità di vita. Occorre abbandonare il presupposto dell’incommensurabilità fra paradigmi rivali, per attingere pragmaticamente a quanto c’è di buono in ciascun approccio, se questo può servire a comprendere meglio la logica delle classi: If Class is the Answer, What is the Question? è significativamente il titolo di un capitolo contenuto nel volume Approaches to Class Analysis (2005), che segna l’inizio di questa apertura.

6.

Per quanto riguarda il lato politico-normativo dell’analisi classe, che nel complesso delle riflessioni di Wright appare molto meno sviluppato di quello sociologico, secondo lo studioso occorre associare le classi a un orizzonte normativo diverso da quello una «classless society», per l’obiettivo apparentemente più modesto di una «less classness». Vale a dire che anziché pensare all’emancipazione nei termini di un’abolizione delle classi, bisogna puntare a una società in cui le classi contano meno. Purtroppo, nessuno dei libri di Wright è stato finora tradotto in italiano: in Italia l’interesse per il tema delle classi è sempre stato molto più modesto rispetto a quello mostrato nel mondo anglofono. A riprova di ciò, basti considerare il successo del grande sondaggio sulle classi del Regno Unito del 2013, commissionato dalla BBC e guidato dal sociologo bourdieusiano Mike Savage.

7.

Anziché intendere il socialismo nel senso classico di una statalizzazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, in cui l’elemento democratico-partecipativo finisce per essere sacrificato, secondo Wright occorre prendere sul serio l’idea di «sociale» contenuta nel concetto di socialismo. Esso va inteso anzitutto come una forma di democratizzazione, in cui il rapporto fra le tre forme di potere presenti in ogni società – economico, sociale, statale – deve configurarsi nel senso di una preminenza del potere sociale su quello economico e statale. Ne segue una presa di distanza dal modello della rottura rivoluzionaria per la transizione dal capitalismo al socialismo. Secondo Wright, tale idea affonda le sue radici nella errata convinzione che siano due sistemi mutuamente esclusivi. In realtà, non esiste una forma ‘pura’ di capitalismo o di socialismo: semmai, vi sono forme eterogenee di articolazione e diversi gradi di coesistenza di potere economico, potere statale e potere sociale nel seno di una stessa società. Per tale ragione è possibile pensare a forme sociali ibride in cui degli elementi capitalistici coesistono con elementi di socialismo o di controllo statale; analogamente, in linea di principio il socialismo è compatibile con un’economia di mercato (come già lo era per John Roemer). Riformulato in questo modo, secondo Wright diventa possibile pensare il socialismo come una possibilità realizzabile nel seno stesso del capitalismo.

8.

Abbandonata ogni pretesa ‘necessità’ del superamento del capitalismo in ragione delle sue stesse contraddizioni interne, occorre allora focalizzare l’attenzione sulle strategie pratiche di trasformazione che gli attori sociali possono mettere in atto per valorizzare il potere sociale «nella società quale essa è». Una combinazione di strategie trasformative «interstiziali» (tentativi locali di cambiamento sociale) e «simbiotiche» (strategie che utilizzano le istituzioni esistenti per affermare il potere sociale) può portare degli effetti cumulativi tali da costruire nel tempo un’alternativa concreta al capitalismo. In questo senso, anziché sostituire un ‘grande sistema’ a un altro ‘grande sistema’, si tratta di creare spazi di affermazione progressiva, pluralistica ed eterogenea del potere sociale: un «pluralismo istituzionale» illustrato dalla varietà dei modelli ‘micro-utopici’ analizzati da Wright (sistemi di produzione collaborativa, budget partecipativi, finanza solidale, open access, reddito incondizionato, «randomocrazia», ecc.). Resta da chiarire in che modo tali micro-esperimenti dal carattere essenzialmente volontaristico possano incidere sulle scelte delle élite economiche globali.

9.

Al di là delle specifiche proposte teoriche di Erik Olin Wright – che ha reso i suoi testi gratuitamente accessibili online – merita particolare attenzione il suo stile intellettuale, un esempio di antidogmatismo, pragmatismo e cristallina chiarezza espositiva, non di rado carenti nelle fila del pensiero progressista. Il suo sforzo di riattualizzazione del concetto di classe e l’esigenza di non perdere di vista il problema delle risorse, si pongono in netto contrasto con le tendenze degli ultimi decenni a valorizzare categorie individualistiche e formule discorsive evanescenti per pensare la realtà sociale. Nel corso di circa quarant’anni di studi, Wright ha mostrato che è possibile prendere sul serio la questione dell’utopia tenendo insieme degli elementi spesso considerati inconciliabili: metodo scientifico e ideali egualitari di giustizia sociale, rigore analitico e immaginazione politica.

 

3 pensieri su “Scrap – book dal Web: su Erich Olin Wright

  1. L’approccio di Wright appare concreto, pragmatico e promettente… Merita un approfondimento in vista di una via alla democrazia diretta, partecipata e solidale, l’unica in grado di realizzare la massima kantiana dell’umanità come fine: “Agisci in modo di considerare l’uomo mai solo come un mezzo sempre anche come un fine.”

  2. Prima di tutto identificare il conflitto: “finchè esiste il capitalismo, è incoerente dire che non esiste più la classe operaia”.
    Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e ormai “sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici”.
    Wright crede che perseguire processi di democratizzazione possa unificare e dare identità: “se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, allora rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.”
    Le domande degli intervistatori confrontano Wright su temi classici del marxismo, rottura, iniziativa, internazionalismo, ma egli crede che non sarà possibile una azione di transizione immediata a una società postcapitalistica invece auspica un processo di erosione nel tempo: “Il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perchè questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. […] Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti.”
    Mi sembra una impostazione democratica e  riformista, che fa leva sulle contraddizioni che il capitalismo produce nella vita della maggioranza delle persone. Nel progresso dell’intervista Wright immagina una democrazia tanto radicale da entrare in conflitto con il potere capitalistico e a questo punto sottolinea l’importanza dello Stato: “lo stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello stato stesso.”
    Su questo terreno Wright si trova anche vicino a posizioni di sinistra radicale italiana: “Elaboriamo una nuova teoria dello stato ed una teoria della dialettica permanente tra stato e organismi di classe e cittadinanza. Non limitiamoci a pensare soltanto a ciò che sta fuori dallo stato, perché così lasciamo la gestione dello stato stesso ad altri (ben contenti del nostro antistatalismo…) e partecipiamo alla privatizzazione delle funzioni pubbliche sotto il manto della loro socializzazione”. https://www.sinistrainrete.info/politica/9434-mimmo-porcaro-dal-diario-di-un-impaziente.html
    Però il grande e potente stato federale a cui Wright si riferisce non ha niente a che vedere con i problemi nazionalisti e sovranisti degli stati europei, e la distanza si evidenzia quando Wright parla dell’Europa, in termini simili a quella che è la posizione del PD (ma oggi, preparandosi alle elezioni, Renzi la critica “duramente”) e delle coalizioni di centro sinistra in Europa: “Avremmo -dice Wright- più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo dell’UE. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.”
    (Al contrario, per Porcaro la UE, in quanto organo fondato sul neoliberismo è democraticamente irriformabile: “Negli ultimi dieci anni e più abbiamo visto crisi, disoccupazione, guerre, miseria crescente, muri contro i migranti, ma non abbiamo visto mai nessun movimento sindacale o civile a livello europeo capace anche solo di iniziare una vera controffensiva.”)
    E alla domanda sull’ipotizzare azioni di classe in termini internazionali (ipotesi già lanciata da Bifo https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8630-franco-berardi-bifo-il-populismo-al-tempo-degli-algoritmi-2.html) Wright rimanda al processo di erosione del capitalismo su obiettivi locali, a progetti che suscitano partecipazione sul territorio.
    Nell’impostazione di allargamento democratico a partire da situazioni locali il tema del partito naturalmente non entra.
    In sostanza il discorso di alleanza tra situazioni di allargamento democratico in lotta contro il potere capitalistico interessa senz’altro dovunque la sinistra, ma capitalismo vuol dire anche imperialismo, guerre economiche e guerre senz’altro. Il problema è come collegare la via di radicalizzazione democratica al quadro geopolitico mondiale di cui gli Stati Uniti sono cardine fondamentale.

  3. “Il problema è come collegare la via di radicalizzazione democratica al quadro geopolitico mondiale di cui gli Stati Uniti sono cardine fondamentale.” (Fischer)

    Sì, è rimane del tutto irrisolto. E’ il problema che nei decenni scorsi era stato schematizzato nel binomio globale/locale. Poi allo strabismo, che cerca almeno di dare occhiate all’una e all’altra dimensione, succede la dissociazione.
    Di solito si mettono paraocchi che riducono il campo visivo: chi vede solo il globale, il generale (le élites confliggenti tra loro come Dei sull’Olimpo) e chi solo il cosiddetto “piccolo e bello” del locale. Da qui i reciproci snobismi: i primi vedono solo masse e popoli bue; i secondi solo filosofastri e intellettualoidi che esaltano moltitudini e “popoli” elettorali.

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