in dialogo Antonio Riccio e Toni Maraini
Si propongono qui buona parte dell’articolo di Antonio Riccio sulla memoria delle “marocchinate” nel basso Lazio durante la seconda guerra mondiale e lo scritto di Toni Maraini nato come critica dialogante ad esso, entrambi pubblicati sul numero 12 della rivista. Immagino che Antonio posterà anche qui la sua replica.
Lo scritto di Antonio Riccio deriva impostazione e parte delle argomentazioni dal progetto di Archivio etnografico multimediale Genere e guerra tra passato e presente già segnalato su questo sito (link), a sua volta frutto di ricerche sul campo e conseguenti pubblicazioni. Propone ed interpreta il racconto locale delle violenze subite a partire da una articolata riflessione sui meccanismi della memoria. Qui se ne riproduce la parte più strettamente riferita ai Goumiers.
Lo scritto di Toni Maraini ‘corregge’ dall’interno l’immagine che dei Goumiers si desume dal racconto laziale. Dice come essi vennero considerati in un Marocco non ancora uscito dalla dominazione coloniale. Delinea il contesto e le responsabilità a monte del loro agire. Fornisce anche qualche indicazione di approfondimento (oltre che suggerire l’opportunità di una traduzione) utile a mettere a fuoco la complessità delle problematiche sottese ai fatti. [ M.C.]
La guerra, la pietra e la donna
Memorie e simboli delle violenze dei goumiers nei monti Aurunci
di Antonio Riccio
[…] Impadronirsi della memoria e dell’oblio – scrive Jacques Le Goff[1] ‒ è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche.
Così, dopotutto, non era per caso o per distrazione che non avevo visto i simboli dominanti di Ausonia, ma perché non volevano rendersi visibili; almeno subito ed a tutti. La loro collocazione, discreta e dedicata (in certi luoghi, in certi modi e con certe figure), riflette il disegno comunitario di fare memoria senza turbare chi quella memoria la vuole censurare o rimuovere; almeno dalla scena pubblica. La memoria dannata degli Aurunci non è gradita né a casa sua né – soprattutto – a casa degli altri direttamente o indirettamente coinvolti. È il caso della Francia e del Marocco.
Che la Francia non abbia fatto i conti con una memoria scomoda (i goumiers erano truppe berbere al seguito del CEF, il Corpo di Spedizione Francese) sembra quasi scontato. Ma la ragione non è nella vergogna o nell’imbarazzo, come ingenuamente si potrebbe credere. È invece nel risentimento per la propria memoria ferita; quel coup de poignard inflitto dall’Italia fascista con l’occupazione della Francia del 1940; un oltraggio difficile da dimenticare che finisce per cancellare ogni altra memoria. È quindi con doloroso stupore che le giovani generazioni francesi hanno scoperto il dramma nascosto dei goumiers, 70 anni dopo, e due giornaliste di Liberation nel maggio 2015 sono scese nel basso Lazio a compiere un pellegrinaggio, laico e penitenziale, sui luoghi di quella memoria oubluié.[2]
Non migliore è il rapporto del Marocco con la sua memoria. Tradito nelle aspettative di indipendenza e persino nelle promesse di pensione ai goumiers, il Marocco ed i marocchini nonostante il loro innegabile contributo strategico allo sfondamento del fronte tedesco (la così detta Linea Gustav), pagano ancora oggi uno stigma etnico, molto radicato nel nostro paese, del quale non si capacitano anche perché hanno cancellato ogni memoria delle violenze commesse.
Ne ho avuto conferma anche nell’esperienza di ricerca. Nel gruppo di giovani ricercatrici degli Aurunci collaborava infatti una ragazza marocchina venuta a studiare a Cassino e totalmente ignara delle violenze dei goumiers; proprio come le sue compagne nate e cresciute nelle comunità locali. Le ha scoperte, quelle violenze ‒ con sgomento e senza peraltro accettarle del tutto ‒ proprio durante quel lavoro. Invitata a chiedere a genitori e sorelle in Marocco (soprattutto quella maggiore) cosa ne sapessero, ha ottenuto il silenzio imbarazzato e ermetico del padre e della madre e la scandalizzata reazione della sorella maggiore: “Ma che dici? I goumiers sono uomini santi, uomini di Dio!”.
Questa opacità, socialmente costruita e generazionalmente trasmessa, è il dramma della violenza in generale e di quella di genere in particolare. Ignorare le ‘proprie’ violenze è strategico per l’equilibrio sociale delle società militariste, per usare una appropriata espressione di Simmel[3]; ma finisce anche per diventare il loro “tarlo segreto”, per usare un altro bel termine di Turner che condensa l’intreccio di contraddizioni di ogni cultura. Quest’opacità protettiva può invece essere provvidenzialmente dissolta e rischiarata per via simbolico-narrativa, molto più che per quella normativa e sanzionatoria come le risoluzioni Onu, ad esempio, che a volte richiamano i non dimenticati “bandi manzoniani”[4].
Nella ricerca degli Aurunci è emerso appunto un complesso simbolico-narrativo ricorrente (i key-simbols[5]) tra la donna, la pietra e la guerra che assume, paradossalmente, significati situazionali diversi ed opposti, mostrando la capacità della guerra di generare “mondi alla rovescia”[6] che corto-circuitano le realtà ordinarie, creano nuove e spaesanti contro-realtà.
Cercherò di spiegare meglio questo displacement simbolico-cognitivo attraverso una seconda storia, anch’essa esemplare o emblematica per un’interpretazione degli stupri degli Aurunci che è alla base di una diversa teoria locale sui goumiers.
Con il termine “teorie locali” ho chiamato quelle elaborazioni (anche implicite) con cui le comunità interpretanti degli Aurunci hanno cercato di capire chi fossero i goumiers e dare ragione delle violenze subite nel maggio 1944.[7] Convenzionalmente ho individuate quattro teorie; parziali, contraddittorie e non necessariamente alternative tra loro.
C’è chi riconduce anzitutto quelle violenze alla pura e semplice ‘bestialità’ dei violentatori (“no, non erano uomini”); chi alla responsabilità e connivenza dei vertici militari (la famigerata “carta bianca”, concessa dal Generale Jiun ai goumiers in cambio del loro contributo ad abbattere la Linea Gustav) e chi a ragioni ‘etnico-religiose’ (un combinato disposto di fanatismo contro gli “infedeli” e pulsione ancestrale per la donna bianca). A queste tre interpretazioni che chiamerei ‘sature’ si aggiunge (e contrappone) la quarta, che chiamerei ‘riflessiva’, figlia di una antica e profonda saggezza culturale[8]. Individua ‒ implicitamente ‒ le (possibili) ragioni di quelle violenze, non nella cultura o nella tradizione berbera in quanto tali, ma nell’impiego di quella cultura e di quella tradizione come risposta culturale ad una guerra disumana (una guerra alla guerra) della quale gli stupri e le loro modalità erano parte integrante. È l’unica teoria locale che da’ alla guerra ciò che è della guerra ed all’uomo ciò che è dell’uomo; senza cadere né nel biologismo (era la loro natura) né nel culturalismo (era la loro tradizione). Individua invece, acutamente, una possibile chiave di lettura di ciò che avvenne negli Aurunci nel drammatico conflitto tra cultura berbera, guerra e cultura locale. Questo conflitto trova rappresentazione emblematica proprio nel “complesso simbolico” che unisce la pietra, il corpo della donna e la prima “guerra totale” della storia.
I goumiers venivano da terre di montagna, i villaggi dell’Atlante, simili ai massicci montuosi degli Aurunci, Lepini, Ausoni per combattere una guerra che non era la loro, con un’esplicita e dichiarata missione suicida: “dobbiamo lavare la bandiera della Francia nel nostro sangue”[9]; il “prezzo” dell’indipendenza nazionale promessa dai francesi.
La loro cultura della guerra era più vicina alla guerriglia; una serie infinita di razzie e contro-razzie[10] che prevedono la predazione di beni e donne nemiche. La violenza sulle donne, commessa in razzia, per i berberi aveva il senso di una domesticazione esemplare del territorio e delle sue popolazioni e trovava celebrazione quasi religiosa nell’accesso sessuale comune ad una stessa donna; una pratica di derivazione poliandrica che ‒ come insegna la letteratura antropologica[11] ‒ assolve contestualmente alla conferma della solidarietà del gruppo combattente (goum) e della sua missione di conquista, esorcizzando al contempo rivalità e rancori personali, sciolti nella condivisione sessuale. Il significato berbero di goum[12] (una francesizzazione di qm) evoca appunto il gruppo d’età (age group); un sodalizio fraterno che raccoglie i coetanei maschi dei villaggi berberi ed è inteso a formare un nucleo coeso che rende immortali i suoi membri grazie alla loro unità che va persino oltre la morte, oltre l’egoismo e la gelosia sessuale.[13]
L’istituto poliandrico, represso prontamente dall’islamismo, è sopravvissuto in forme vicarie e sostitutive, a carattere rituale, “trasferite” in contesti diversi dalla vita sociale ordinaria come, appunto, la razzia, la “forma locale” della guerra. I conflitti endemici delle tribù berbere in un paese, come la Berberia, sempre esposta ‒ scrive Robert Montagne[14]‒ al pericolo della dissoluzione non individualistica ma particolaristica delle tribù, secondo l’autore veniva vinta proprio grazie alla forza “di un profondo sentimento di aiuto reciproco che si manifesta durante la guerra”[15]. Questo sentimento sociale era sostenuto ed ispirato proprio allo spirito comunistico delle comunità pre-islamiche.
La mia ipotesi è che il goum e le sue pratiche simbolico-rituali, incluso lo stupro di gruppo, si rivelassero funzionali alle guerre moderne occidentali perché cadere in battaglia con il proprio goum ed accesso sessuale comune aprivano le vie del cielo ed assicuravano l’eternità del ricordo in terra.
Se questo orizzonte mitico-rituale può restituire, almeno in parte, il senso ed il significato extra-sessuale dello stupro berbero nel contesto di quella guerra, resta da capire il nesso simbolico, altrettanto forte, tra pietra e corpo femminile.
Il particolare e singolare rapporto di omologia istituito dalle culture berbere tra donna/terra e fecondazione/conversione di luoghi e popolazioni infedeli ed ostili appare associato al contesto montuoso della patria dei berberi, dove i sentimenti di solidarietà e mutualità si confermano proprio attraverso l’appartenenza comune del gruppo alla terra. La terra, a sua volta, come in molte società mediterranee mostra analogie profonde con la fecondità femminile, dalla tradizione della Grecia omerica all’Islam.[16]
I livelli di relazione impliciti tra fecondità, fertilità, conversione e assimilazione di terre/popoli estranei e persino nemici attraverso il medium del corpo femminile, sono associati anche ad un’altra esperienza precoce infantile, in uso nelle tribù berbere, chiamata filiazione multimaterna. Prendere il latte da tutte le madri del villaggio rende non solo fratelli (di latte) i coetanei, ma apre una valenza comunistica del (e con) il corpo femminile che si estende – da un punto di vista simbolico – anche alla sessualità, un tempo effettivamente condivisa o condivisibile. Partecipi dello stesso latte e della stessa fonte di riproduzione della vita, i goumiers erano legati dalla nascita da un legame spirituale che niente poteva rompere ma che necessitava di pratiche (reali e rituali) per incorporarlo nell’esperienza; soprattutto nel momento del pericolo e del rischio. Filiazione multimaterna[17] e sessualità condivisa producono pertanto solidarietà, unità e spiritualità di gruppo e rendono fertile e pacificata una terra estranea ed ostile, attraverso l’omologia forte tra coltivazione/lavoro sessuale allo stesso modo con cui l’allattamento tradizionale produce la fratellanza dei goumiers.
La storia che vi riporto, raccolta in diverse comunità aurunche ed ancora viva nel ricordo dei superstiti, sembra dare senso e significato concreto a questa complessa ed articolata ipotesi.
L’ho chiamata la storia della culla di pietre perché ha la pietra come cornice, ma è del tutto diversa ed anzi opposta alla storia della ragazza nascosta con le pietre a secco.
Una coppia di contadini, marito e moglie, rifugiatasi in montagna per sfuggire ai bombardamenti, viene sorpresa dai goumiers. Invano il marito cerca di proteggere la moglie, il suo onore ed il proprio. I goumiers lo uccidono a colpi pietre, per evitare che l’uso del fucile richiamasse qualche ufficiale francese o altri sfollati. Prendono la donna e – secondo le testimonianze ‒ la tengono per due giorni con loro dentro un recinto ovale costruito con pietre a secco (chiamato cunnola dai testimoni, cioè culla, in dialetto locale). Si tratta di un’architettura naturale, comune nella zona, realizzata con la tecnica dell’aggetto, usata in gran parte del mondo, anche nei monti dell’Atlante dai quali venivano i berberi. Ed è entro quest’enclave, naturale-culturale, in un paese straniero che i goumiers esercitano l’accesso sessuale comune con “la povera Filomena”, come viene ricordata la vittima, per due giorni. La lasciano infine nella culla di pietre, allo scadere della loro “licenza” di quarantott’ore, per tornare a combattere al fronte. Nel partire posano su quelle pietre caramelle, cioccolate, biscotti.
Questo gesto è rimasto vivo nel ricordo dei testimoni con diverse interpretazioni. La più comune è associata ad una “remunerazione” per l’uso sessuale.[18] Propendo a credere che si tratti invece di doni e gesti di affezione; un riconoscimento rituale alla donna trasformata in “sposa comune” del goum. Per Filomena si inaugura invece l’elaborazione di un lutto associato anche alla colpa per il marito morto per difenderla ed alla vergogna dell’onore perduto[19] che la seguirà per tutta la vita.
La pietra stavolta non ha protetto il corpo della donna dalla guerra. Diversamente dalla hidden girl, occultata dalla madre dietro una coltre di pietre, qui la pietra trattiene ed unisce la donna ed i goumiers in una cornice intesa a produrre con-divisione ed unità per esorcizzare paure e fantasmi di morte e spaesamento. Se nella prima storia la pietra è la salvezza per la donna qui si fa salvezza per i berberi. Se lì preserva l’integrità psico-fisica di una bambina, qui rigenera un’unità ed una presenza identitaria maschile labile ed a rischio[20].
I testimoni che hanno assistito dall’alto, sulla montagna, ricordano quella scena non come un atto di violenza brutale ed animale ma qualcosa di più enigmatico. Senza dirlo, intuiscono tuttavia di aver assistito ad una pratica rituale. L’antropologia culturale ha già rilevato la capacità umana di riconoscere l’esecuzione rituale, indipendentemente dal suo significato, per il suo modo simbolico universale. Quel dispositivo rituale ha creato un effimero mondo alla rovescia, per parafrasare l’espressione di Giuseppe Cocchiara[21], in cui tutto cambia senso e significato.
Il sesso non è più solo sesso; la pietra non occulta il corpo femminile ma lo rende comune e condiviso; il territorio non è incognito ed estraneo ma ri-significato e domesticato; la donna bianca non è preda ed infedele, ma sposa comune, sebbene involontaria. Anche i goumiers non sono feroci guerrieri ma uomini atterriti, stanchi di combattere una guerra non loro che, come un demone, tira i fili della loro vita, ne mina l’unità ed il senso, ed alla quale oppongono, in forme simbolico-rituali, una conferma identitaria forte.
La violenza della guerra sospende la “domesticità del mondo”, ha scritto Fabio Dei[22], distrugge l’orizzonte culturale come fondamento comune d’appartenenza umana. Lo sostituisce con l’affermazione di identità ed appartenenze divise ed esclusive usate come esorcismi solenni contro la perdita di una presenza labile.
La violenza degli Aurunci nasce anche dalla paura panica dei goumiers di una guerra sconosciuta, combattuta in luoghi incogniti ed ostili. Questa paura viene esorcizzata convocando il fratello maggiore: il terrore. Michael Taussig[23] ha chiamato cultura del terrore l’uso sociale della violenza da parte di gruppi invasori minoritari ed isolati (coloniali, militari, esploratori, conquistadores), in territori sconosciuti e temuti. La strategia del terrore berbera si dispiegava sul territorio ed i suoi abitanti, come sui nemici tedeschi, senza distinguere troppo; con la stessa ferocia estrema e con risorse simboliche liberamente tratte dalle pratiche tradizionali, come gli stupri di gruppo: rituali e regolari come un lavoro ‒ ricordano i testimoni ‒ consumati dopo ogni attacco, la sera, dietro la linea del fronte, in territorio bonificato, convertito, redento.
Non vorrei dare l’impressione di una “giustificazione” dell’orrore degli Aurunci attraverso quest’ ipotesi interpretativa, sebbene mi sembrerebbe ingenuo e forse anche superficiale pensarlo. Tuttavia potrebbe riuscire umanamente fastidiosa ed importuna; persino sospetta di un’ambigua ‘empatia’ con i carnefici. Questo è peraltro l’esito primo di ogni tentativo di rischiarare l’opacità del male; il sospetto di un’implicita collusione con esso, tanto più forte quanto più lunga è stata la censura. Riaprirla è come ricevere un pugno allo stomaco; un trauma che appare però necessario per un contributo (minimo e parziale) ad una storia della consapevolezza che vada al di là delle consuete, rituali denunce esorcistiche contro violenza e guerra.
L’interpretazione non cancella nessuna responsabilità ma, semmai, le amplia e le estende: dai carnefici ai mandanti, dai complici ai collusi, dagli individui ai soggetti collettivi. Ed invita a combatterle tutte, distinguendo ed unificando secondo i casi, senza dimenticare la guerra stessa come istituto integralmente umano e sociale e non come realtà naturale o fatale.
Chi propende per i tagli lineari e le vie brevi per la comprensione-soluzione dei fenomeni sociali non accetterà un’etnografia così densa e particolaristica della violenza che richiede – al tempo stesso – empatia ed ascesi riflessiva.
L’unico tratto di speranza e di luce in tanta tenebra è – per tornare alla culla di pietre – il gesto dei goumiers che ha lasciato negli spettatori di quella scena[24] una impressione di residua umanità attraverso simboli del tutto estranei a quel contesto: caramelle, cioccolate, biscotti, scatolette. Quei prodotti di consumo dell’industria yankee lasciati accanto al corpo della donna, nella sua trincea di pietre, paradossalmente riassumono ed evocano il dramma del conflitto culturale umano ed invitano ad un difficile esercizio di consapevolezza.
Nei suoi saggi sul lavoro intellettuale, Max Weber[25] individuava nella politica e nella scienza come professione (als Beruf) che, com’è noto, in tedesco è associata alla “vocazione” religiosa, l’esorcismo solenne contro l’irrazionalismo etico del mondo[26]; il tragico groviglio di contraddizioni del nostro vivere sociale. Chi ha letto quelle pagine ricorderà che furono pronunciate alla vigilia del primo conflitto mondiale e non bastarono certo ad evitarlo.
Oggi l’esorcismo contro la guerra sembra affidato soprattutto a simboli visuali e locali come le immagini delle città medio-orientali ridotte a cumoli di macerie che ripropongono televisivamente la pietra, la donna (ed i bambini), come atto di denuncia contro questa cieca forza distruttiva che continua ad affacciarsi, beffardamente, ad ogni tg serale. Forse più che immagini distruttive, che inducono anche alla rimozione, occorrono simboli di memoria e di speranza efficaci. Rimuovere è l’esorcismo contro qualcosa che che si vuole dimenticare; ricordare è invece un lavoro umano che non ha fine e che resta il nostro solo riscatto possibile contro questo “mondo irrazionale del torto impunito, della stupidità insanabile, della giustizia offesa”, come scriveva Max Weber con la sua bella prosa novecentesca; un lavoro che richiede un cuore e l’offerta di simboli riparatori.
[1] Jacques Le Goff, Memoria, in Storia e Memoria, Torino, Einaudi, 1986, p. 350.
[2] Libération, 16 et 17 mai 2015, «Grand Angle», pp. 42-45.
[3] Georg Simmel, Il militarismo e la posizione delle donne, in “omologia terraneo,rto, t Montagneità femminili (ma non solo).scono uerra moderna, popolazioni aurunche) to. Conflitti globali 3. La metamorfosi del guerriero”, 2006.omologia terraneo,rto, t Montagneità femminili (ma non solo).scono uerra moderna, popolazioni aurunche) to.
[4] Come la risoluzione ONU n. 1820 del 19 giugno 2008, che dichiara lo stupro “arma di guerra”; cosa che – al di là delle buone intenzioni ‒ esonera ed assolve le coscienze individuali spostando le responsabilità sulla “guerra in sè”, come un esorcismo solenne quanto impotente. Cfr A. Riccio, Tra Alto e Basso Lazio. Schede, articoli, saggi ed altri scritti sui beni culturali ed il territorio., Roma, Kappa, 2009.
[5] Sherry Ortner, On key symbols, “American Anthropologist”, 75 (5), 1338-46.
[6] Giuseppe Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
[7] A. Riccio, Etnografia della memoria. Storie e testimonianze della seconda guerra mondiale nei monti Aurunci, Kappa, Roma, 2008, Le violenze dei goumiers. La memoria della seconda guerra mondiale negli Aurunci, Aracne Ediz., Roma, 2015.
[8] A. Riccio, “Saggezza culturale ed ecologia della mente”, in «Famiglia Oggi», n. 49, 1991.
[9] Dalla scena d’apertura del film Indigènes, 2006, del regista francese-algerino Rachid Bouchareb.
[10] Robert Montagne, I ribelli del deserto, L’Ancora del Mediterraneo Editore, Napoli, 2000.
[11] Levine Nancy, Nyimba polyandry and the allocation of paternity, «Journal of Comparative Family Studies» 11 (3), pp. 283-288; Levine Nancy, The dynamics of polyandry: Kinship, domesticity, and population on the Tibetan border, Chicago, University of Chicago Press, 1988; Levine Nancy, Sangree Walter, Women with many husbands, “ Journal of Comparative Family Studies”, 11(3), pp. 385-410.
[12] The Encyclopaedia of Islam, New Edition, Leiden, E.J. Brill, London Luzac & Co., 1960, PISAI, n. 4953 R2200.
[13] Baxter, P.T.,W e Almagor, Uri (a cura di) Age, generation and time, St. Martin’s Press. New York, 1978: 17, cit. in: Schultz e Lavenda, Antropologia culturale, Zanichelli, Bologna, 2010, p. 282.
[14] Robert Montagne, Ribelli del deserto. Vita sociale e politica dei berberi, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000, p. 93.
[15] Robert Montagne, op. cit., pag. 46.
[16] Detienne M. Demeter in Dictionnaire des Mythologies, Paris, Flammarion, 1981: 68:”Attraverso la cerimonia del matrimonio, la donna si vede identificata con un campo sul quale il lavoro della terra e la semina sono fatti dallo sposo, procreando figli legittimi. Cfr. anche Sura II, La giovenca, versetto 223: “Le vostre spose per voi sono come un campo. Venite pure al vostro campo come volete, ma predisponetevi”.
[17] Camille Lacoste-Dujardin, La filiazione attraverso il latte nel Maghreb, http://www.clinique-transculturelle.org/pdf/lacoste_dujardin_crinalipdf.
[18] Questa parte è tratta e riadattata da un mio precedente contributo, cfr. Antonio Riccio, Conflitti di valori e scontri culturali. Il caso delle violenze dei goumiers nei monti Aurunci durante la seconda guerra mondiale, in «Oikonomia», Rivista di etica e scienze sociali – Angelicum University Press, Roma n. 3, ottobre 2012.
[19] Brighenti Andrea, Tra onore e dignità: per una sociologia del rispetto. Quaderni del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, 40. Università di Trento, 2008, p. 36.
[20] Ernesto De Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino, 1973.
[21] Giuseppe Cocchiara Il mondo alla rovescia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
[22] Fabio Dei, Introduzione, in Antropologia della violenza (a cura di), Meltemi, Roma, 2005.
[23] Michel Taussig, Cultura del terrore e spazio della morte, in Antropologia della violenza, a cura di F. Dei, cit. idem.
[24] A. Riccio, op. cit., 2015, p. 189.
[25] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1980.
[26] Idem, pag. 43.
___________________________________________________________________________
Qualche precisazione a proposito dei Goumiers
di Toni Maraini
Il testo di Antonio Riccio, che ho letto con molto interesse in anteprima, è avvincente nella sua interpretazione e struttura analitica dei simboli, fine e suggestivo nella personale impostazione antropologica, e efficace nella ricostruzione dei drammatici eventi e dei crimini di guerra perpetrati – contro donne, bambini e uomini ‒ da parte dei cosiddetti Gumi. Tuttavia, il contesto storico-politico generale in cui operarono i Gumi, o Goumiers, e le responsabilità a monte del loro agire criminoso restano, a mio avviso, nell’ombra. So bene che l’intenzione di Antonio Riccio era quella di analizzare una tragedia bellica italiana ingiustamente dimenticata e non di spiegare chi erano di fatto i Gumi. Ma la questione merita, a mio avviso, qualche precisazione.
I cosiddetti Goumiers – dall’arabo dialettale ‘gūm’ (in classico qawm), nel senso di ‘contingente’ o ‘unità’ inserito in un più ampio raggruppamento ‒ erano reclutati, talvolta anche forzatamente, e venivano addestrati, armati e poi integrati ‒ con precise condizioni e direttive, incluso la tipologia di abbigliamento, di operazioni sul terreno e armi da usare ‒ nei ranghi, ausiliari e non, dall’Esercito Coloniale Francese. Come per i mercenari della Legione Straniera, venne spesso affidato loro il lavoro sporco della guerra o il compito ‘di mantenere l’ordine’. Ciò era stato innanzi tutto sperimentato dagli occupanti francesi in Algeria nel corso dell’800 con ‘gūm’ locali usati contro gli stessi Algerini, prima ancora che, sin dagli inizi del ‘900, in Marocco contro i Marocchini nella campagna di conquista del paese.
Se il Marocco nel 1944 fosse stato già indipendente (lo sarà nel 1956) e avesse mandato per sua propria decisione dei contingenti di Goumiers a terrorizzare gli abitanti della regione dei Monti Aurunci, la gente del Marocco ne avrebbe conoscenza e coscienza. Ma i documenti dicono che i contingenti Gumi incorporati come ausiliari nell’Esercito Francese non figurano nell’organizzazione dell’Esercito Marocchino dopo l’Indipendenza, e che quanto fu ‘lasciato fare’ ai Gumi contro la popolazione italiana nel 1944 per ‘sfondare’ la linea Gustav tedesca e permettere l’avanzata di liberazione, aveva precise direttive e responsabilità negli alti ranghi dell’Esercito Francese e Alleato. Il risvolto brutale e criminale di una parte di quella operazione militare – ‘le marocchinate’ – è dunque percepito in Marocco dalla gente e dallo stato come una pagina della storia coloniale e episodio non rappresentativo del proprio popolo. In Marocco stesso il termine Goumiers non ha buone connotazioni; quando, a partire degli anni ’30, le comunità rurali si erano unite alla lotta urbana di resistenza nazionale per l’indipendenza e potevano difficilmente assecondare le strategie militari coloniali, contingenti di repressione del tipo ‘gūm’ furono reclutati tra i Senegalesi e i gruppi dell’Esercito Africano Coloniale Francese detto ‘Force Noire’, lasciando tra la gente locale ricordi di incresciosa paura. Nella logica dei poteri autoritari, c’è sempre qualche gruppo da armare e usare come aguzzino di turno.
Questo non giustifica i crimini commessi ma esorta ad approfondire le circostanze storiche a riguardo dei ‘gūm’ maghrebini reclutati tra montanari e contadini, e addestrati – è bene ribadirlo – per ‘pacificare’, come dicevano allora con solido eufemismo le autorità francesi, le terre di conquista coloniale. Il permanere di usanze guerresche tribali tra alcune comunità dei Berberi – usanze denunciate con scrittura mordace da uno dei primi autori moderni del Marocco, Mohamed Khaïr-Eddine – era dovuto al loro arroccarsi ai margini della società urbana in parte anche a causa della maniera in cui il colonialismo gestiva territori e tribù, contrapponendoli tra loro e usandoli ai propri fini. Alcuni importanti documenti sulla politica coloniale di ‘tribalizzazione’ della società si trovano nel libro dello storico Abdallah Laroui, ‘Histoire du Maghreb’ (Maspero 1963), libro purtroppo mai tradotto in Italia.
I documenti analizzati da storici e sociologi maghrebini e africani forniscono dati circostanziati sul fenomeno dei Goumiers, ma nelle note del testo qui discusso ‒ forse anche perché in Italia si conosce e traduce poco quanto produce l’altra riva ‒ figurano soprattutto autori dell’epoca coloniale. Non sempre affidabili se si vuole cogliere le dinamiche e responsabilità a monte di un’epoca dalle tinte molto fosche. Nel suo libro Décoloniser l’histoire – vibrante ‘J’accuse’ non solo dell’operato coloniale ma, anche, della storiografia coloniale occidentale ‒ lo storico algerino Mohamed Sahli nel 1963 scriveva che per capire meglio come il colonizzatore creava il proprio mostro, e lo storiografo o antropologo coloniale la propria narrazione ‘ideale’ a discolpa delle responsabilità del ‘mondo civile’, è necessario contestualizzare i documenti di quel periodo all’interno di un ampio schema che include sia le fonti maghrebine che quelle europee post-coloniali.
Tali documenti introducono a qualcosa di assai complesso. I contingenti maghrebini dell’Esercito Francese dispiegati sul fronte europeo comprendevano infatti non soltanto alcuni Goumiers – originalmente, come abbiamo visto, irregolari e/o ausiliari e raggruppati in ‘gūm’ di varie origini ‘etniche’ ‒ ma, anche, nella grande maggioranza, e sin dalla conquista d’Algeria, dei soldati regolari. Questi, oltre ad essere stati usati per costruire trincee e linee ferroviarie in Europa, parteciparono in prima linea (potremmo dire come carne da macello), nel corso di entrambe le due guerre mondiali, a battaglie importanti su molteplici fronti, ebbero anche in diversi casi medaglie al valore, morirono in grandissimo numero, e non appartenevano ai gruppi noti come Goumiers. Come documentano inoltre alcuni autori post-coloniali – ad esempio Marc Michel, Robert Dietrich, Philippe Dewitte e altri ancora ‒ non solo in molti disertarono l’esercito ‘ufficiale’ francese collaborazionista del Regime di Vichy per raggiungere i ranghi della Resistenza a sostegno della Francia Libera ma “si sacrificarono durate le due guerre mondiali al servizio delle nostre libertà” (Dewitte).
In Marocco la memoria locale conserva dunque un ricordo onorabile di quanti vengono designati come ‘Anciens Combattants’. Questo, e il fatto che nel passato, ‘gūm’ indicava i raggruppamenti che resistettero all’invasione Ottomana del Nord-Africa, può aiutare a chiarire la risposta data dalla ragazza marocchina residente in Italia e citata nel suo testo da Antonio Riccio. Del tutto ignara dei sinistri crimini commessi dai Gumi in Italia, la ragazza ricorda tuttavia quanto dettole dal padre.
In altre parole, la storia dei contingenti militari coloniali varia nel tempo, così come il termine stesso di Goumiers e il distinguo sulla molteplice valenza ‒ il Gumi brutale mercenario coloniale, quello combattente sacrificatosi per difendere la terra natia, quello che combatté per la Francia libera e contro il nazi-fascismo ‒ non è irrilevante da precisare.
Per tornare alla questione dei ‘crimini di guerra’, alcuni storici e ricercatori maghrebini non hanno mancato di denunciare i casi di derive criminose, ma sembra proprio che ‒ nel Maghreb come d’altronde in Italia ‒ la memoria comune preferisca dimenticare le malefatte, e le giovani generazioni poco e nulla sapere delle complessità di quella fase storica. A discolpa della giovane ragazza citata qui sopra, potremmo chiederci quanti tra i giovani della regione dei Monti Aurunci hanno conoscenza dei crimini commessi dagli Italiani nella storia bellica del secolo scorso, crimini di cui trattano, ad esempio, i libri di Angelo Del Boca o il film (a suo tempo censurato in Italia) Omar Mokhtar, il Leone del Deserto, documento sulle atrocità ad opera di Graziani e la coraggiosa resistenza libica. Senza parlare di quanto venne denunciato da autori come Henri Alleg (nel libro La Question), Franz Fanon (nel libro I dannati della Terra) e altri ancora, sui crimini coloniali occidentali in Nord Africa. Possiamo a questo riguardo ricordare che alla ‘donna bianca ambita’ dai Goumiers aveva a lungo fatto pendant il fenomeno della donna arabo-maghrebina, e africana, ambita da coloni, militari e legionari europei. Ovunque essi arrivavano, oltre a commettere in molti casi stupri e violenze, organizzavano grandi bordelli in cui convogliarla e rinchiuderla – incluso recludendovi, e abusandone, dei minori e di giovani ragazzi ‒, come documentato da un raro saggio sulla questione, La prostitution coloniale en Algérie, Maroc, Tunisie (1830-1962, ad opera della studiosa francese Christelle Taraud.
Anche se poco evidenziati o ricordati dalla storiografia ufficiale, noi sappiamo contestualizzare le dinamiche di questi crimini senza colpevolizzare i popoli e la religione del nostro continente. Il rischio, se non si contestualizza a sua volta storicamente il fenomeno dei Goumiers, è quello di ‘gumizzare’ tutti i Berberi, o i Musulmani, o i Marocchini, o gli Africani, ed estrapolare i fatti dal passato al presente, occultare le responsabilità occidentali, dimenticare ciò che non fu criminoso.
Poiché la rimozione e l’ignoranza non aiutano a capire la storia e a mantenere salda la vigilanza etica al cospetto d’ogni conflittualità, è ovviamente importante, e più che doveroso, documentare e denunciare i crimini di guerra collettivi. Fa dunque bene Antonio Riccio ad analizzare e denunciare le violenze del preciso caso da lui evocato e a ricordarci le sofferenze, i traumi e le umiliazioni subite da donne, uomini e bambini da parte dei Goumiers. Una ferita profonda che nessun discorso può riparare e che indigna e commuove. Ma essa può, laddove sorretta da una visione storica articolata, introdurci nel cuore di un impegno generale – al quale sollecitare l’interlocuzione maghrebina ‒ contro tutte le forme di prevaricazione fisico-psicologica, sociale, militare, e non solo.
Insomma, e per concludere, il panorama dei crimini è molteplice. Esorta a un dovere di memoria su più orizzonti. Ma è necessario evitare il rischio ‒ oggi che tutto viene appiattito da una nuova ‘narrazione’ manichea e un nuovo eurocentrismo ‒ di rafforzare stereotipi e generalizzazioni. La grande accusata rimane la guerra, la tragedia è la manipolazione delle componenti umane e delle pulsioni di barbarie, lo scandalo è il tragico mix geopolitico, ideologico e bellico che, come il sonno della ragione, può originare mostri.
Vedendo che il post rimaneva senza alcun commento, ho ritenuto di dover
inviare agli autori una mail che diceva: “(…) ho evidentemente
sbagliato a pensare che l’argomento potesse interessare i frequentatori
del sito e dar luogo a qualche commento (anche non di semplice
approvazione dei testi). E forse la mia breve introduzione non è stata
efficace. E’ andata così (ormai non credo ci saranno commenti). Grazie
comunque della vostra disponibilità”.
La risposta di Antonio mi sembra valga la pena di essere, nella sua
parte essenziale, pubblicata:
“(…) Altro che se l’argomento è d’interesse (e anche d’attualità). Ma
certo, richiede un altro frame, temporale e situazionale. Lascami fare
il sociologo che ogni tanto dimentico di essere. Adesso la gente è in
vacanza temporanea ed effimera, come del resto la (…) voglia di
affrontare temi del genere (questa più stabile e di lunga durata). Se
posso, sommessamente, permettermi un suggerimento, è forse il caso di
sottolineare la dolorosità della questione che sfugge e può sfuggire ai
più (…). Oggettivamente, questa è materia incandescente.
Riassumendola, sinteticamente, si tratta di questo. Toni difende i Gumi,
come affettuosamente li chiama lei, e come se io li condannassi,
peraltro. Forse (…) dal mio articolo può aver ricavato questa
impressione, sbagliata, ma comunque certamente i goumiers non possono,
non devono e non vogliono nemmeno essere assolti; credo addirittura che
aspettino una resa dei conti, almeno le generazioni successive ai
protagonisti di quel dramma. (…) Aggiungiamo a questo nucleo
problematico “interno” al dibattito che la gente non sa neanche chi sono
i Gumi e che cosa hanno fatto. Che se lo sapesse, abbraccerebbe subito
la Teoria della Carta Bianca, che ha funzionato per 70 anni a meraviglia
perché semplifica l’orrore e permette di ‘ inquadrare’ cognitivamente e
archiviare (con indignazione) la cosa, assolvendosi dall’andare oltre.
Mentre io (…) pretendo addirittura (in questo saggio e nella mia
ricerca) di denunciare il groviglio di responsabilità intrecciate,
compromesse, confuse, problematiche, per far emergere una realtà ancora
più critica di giustizia offesa, di torto impunito e di stupidità
insanabile, per citare Max Weber, e vedrai che la questione è
decisamente “troppa” per il caldo africano che ci vessa e ci prostra”.
La voglia di affrontare questi temi, in vacanza si è sicuramente dissolta nel caldo e tra gli spruzzi. Però Antonio Riccio ha lanciato una freccia micidiale all’oggi vacanziero:
“Aggiungiamo a questo nucleo problematico “interno” al dibattito che la gente non sa neanche chi sono i Gumi e che cosa hanno fatto. Che se lo sapesse, abbraccerebbe subito la Teoria della Carta Bianca, che ha funzionato per 70 anni a meraviglia perché semplifica l’orrore e permette di ‘ inquadrare’ cognitivamente e archiviare (con indignazione) la cosa, assolvendosi dall’andare oltre.”
Proprio oggi si rilasciano Carte Bianche per trattare gli immigrati, e la gente, che probabilmente lo sa, abbraccia subito i trattamenti previsti.
Ma “il groviglio di responsabilità intrecciate, compromesse, confuse, problematiche, per far emergere una realtà ancora più critica di giustizia offesa, di torto impunito e di stupidità” è davvero troppo bollente per poterlo affrontare in una situazione in cui da tempo veniamo vessati e prostrati.
Secondo me, l’assenza di commenti ( non solo a questo post) è dovuta fino ad un certo punto al caldo . Molto di più, invece, ad un tracollo dell’attenzione politica alle cose presenti e passate e alla perdita delle bussole politiche. Per cui su quasi ogni tema – e moltissimi sono oggi quelli “incandescenti” – la scelta di cosa dire o come collocarsi diventa faticosa; e alla fine la si rimanda o si rinuncia a parlare.
Nel merito. È vero: « la gente non sa neanche chi sono i Gumi e che cosa hanno fatto». Ma non sa tante altre cose su tragedie passate e attuali (migranti, Yemen,…), che ogni tanto qualche volenteroso giornalista o studioso ha la tenacia di mettergli sotto il naso.
A me ha sempre colpito quel monito di Giovanni che Leopardi ha messo in cima a “La ginestra”: Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς [ E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. (Giovanni, III, 19)]. E non essendomi in tanti anni venuto in mente nessuno stratagemma per attirare l’attenzione dei dormienti o dei silenti, mi ripeto il consiglio che si dava Fortini:
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere.
P.s.
Tra qualche giorno pubblico l’ultima parte della mia riflessione su ‘Comunismo’ di Fortini. Mi raccomando non commentate troppo.