Dalle tentazioni di Fiano al Fascismo “eterno”

Dialogando con il Tonto (14)

di Giulio Toffoli

L’Ur- Fascismo al  Tonto è andato proprio di traverso e, malgrado il caldo ormai d’agosto, passa al contrattacco. La discussione   aperta dal suo  precedente  articolo (qui) può ben proseguire ( ma non obbligatoriamente) dal riepilogo che ne fa in questo post. [E. A.]

Lo vedo arrivare verso di me, gesticola vistosamente, sembra fin invasato. Sono i primi giorni di agosto e più che di caldo si deve parlare di una vera e propria canicola. Mi sono seduto al solito bar Repubblica in piazza Vittoria, una bella crasi storica della storia di questo paese nel XX secolo.
Si ferma davanti a me sventolando una serie di foglietti, sembra indeciso e allora lo prevengo:
“Ma Tonto, anche tu vittima del caldo? Siediti che ti offro una Formidabile …”.
“Formidabile?” mi ha risposto sedendosi di fronte a me.
“Si vede che non sei un lettore di Simenon. Maigret ti ricorda qualche cosa? La Formidabile è una birra da un litro,in questo caso ben ghiacciata, quella che ti berrai …”.
“E Formidabile sia – mi ha risposto continuando ad agitare i foglietti che aveva fra le mani – Ma rimane che la tua mania di trascrivere le nostre conversazioni mi costringe e a leggere pagine e pagine e ogni tanto mi vengono di quegli sbocchi di bile che non immagini”.
“Ma dai – ho aggiunto ridendomela – sicuramente ti diverti e ti istruisci …”.
“Se vuoi ti posso dare ragione sul secondo punto, in certi casi scopro suggerimenti davvero interessanti che poi si perdono in un rumore di fondo che è la caratteristica deteriore della rete. Ma sul tema del nostro ultimo dibattito credo davvero che si debba ritornare”.
“Intendi il problema dell’antifascismo … Credo che l’attualità ci offra di meglio”.
“No, si tratta di una questione che credo non possa essere chiusa senza una piena chiarificazione se non altro delle diverse posizioni.
Vedi, c’è chi ha fatto notare che quello che volevo dire si poteva sintetizzare in tre semplici concetti. – Prende in mano un foglietto e legge –
1. il fascismo storico è finito nel ’43;
2. ci fu un compromesso dell’Italia repubblicana con l’anima conservatrice del paese che aveva sostenuto il fascismo;
3. i gruppetti neofascisti violenti «furono arruolati al servizio dello stato» e sostenuti dai servizi segreti nazionali «sotto l’alta tutela dei servizi segreti della NATO». Questo, in «un’Italia liberata dalle bardature fasciste che non si è mai realizzata»”.
“Va bene – gli dico – e non sei soddisfatto? Questo vuol dire che almeno fra noi amici esiste una certa omogeneità di giudizio …”.
“Io credevo che non fossero cose ovvie, – mi dice accigliato – ma forse mi sbagliavo. Certo non si trattava di particolari novità. Vi è chi queste cose le disse in tempi non sospetti. Siamo nel 1945-46:
«Non è il processo al fascismo o alla monarchia quello che ormai si è aperto e che deve chiudersi con una irrevocabile condanna: è il processo alla borghesia. A quella borghesia che nel primo dopoguerra aveva sperato di salvarsi col rinnegare i propri principi liberali democratici, servendosi del fascismo come uno strumento, ma che con il fascismo ha in definitiva accettato di fondersi e confondersi, perché esso era veramente il suo punto di arrivo, il suo sbocco finale».
Ed ancora, mi sembra meritino di essere ricordate, in un paese dove gli intellettuali per ingraziarsi i potenti di turno hanno l’abitudine di dimenticare, anche queste parole di Lelio Basso:
«La vera differenza tra la tecnica fascista e quella democristiana del colpo di stato è che in realtà Mussolini e i fascisti amavano far mostra di forza e di violenza anche quando non la esercitavano, e magari anche quando questa forza non la possedevano, laddove i democristiani in ossequio alla tradizione clericale, preferiscono ammantare di ipocrisia e nascondere sotto parole melate la violenza sostanziale …
I pericoli del fascismo non sono nelle manifestazioni nostalgiche del passato: non dobbiamo vedere il fascismo in quei piccoli movimenti che sorgono che noi abbiamo sempre la possibilità di schiacciare, bensì nelle forme totalitarie che hanno dopo il 1945 governato la politica di questo paese, nella cristallizzazione degli stessi interessi che hanno dominato la vita del nostro paese nel passato e la dominano ancor oggi, ben decisi a tenere a qualunque costo le loro posizioni …»
Insomma, già nel periodo fra il 25 luglio e i primi anni cinquanta vi era chi, rifuggendo dalle forme di antifascismo ritualizzato, faceva notare come nei fatti si stesse verificando una vera transizione fra due totalitarismi: da quello fascista a quello apparentemente democratico, sostanzialmente democristiano e poi sempre più ampiamente consociativo. Una macchina di potere che ha lentamente integrato in sé, ininterrottamente in posizione servile, i movimenti nati dalle lotte dei lavoratori, generando un sistema che, pur dovendo affrontare una pesante crisi negli anni settanta, ha nei fatti superato indenne le diverse contingenze storiche generando, estremo e formidabile risultato, una classe di potere, una casta che si pone di fronte alla opinione pubblica come portatrice di un unico pensiero così sintetizzabile: nulla si può cambiare sotto la dittatura totalitaria del mercato”.
“Sarei portato a dirti che ti devi consolare, – aggiungo sorridendo mentre lo vedo aggredire il mezzo litro di birra che è rimasto nel bicchiere – così sono andate le cose … La sinistra, non solo quell’oscena cosa che da qualche decennio chiamano “centro sinistra”, ma anche i settori più radicali nei fatti sono stati asserviti al disegno liberista e imperialista a livello internazionale, come dimenticare le bombe di D’Alema su Belgrado, e a quello tendenzialmente illiberale e poliziesco all’interno. L’ultima battuta della Boldrini che ha detto: «i monumenti fascisti offendono chi ha liberato il paese» fa il paio con le misure per la difesa del «decoro delle città» prese dal ministro Minniti. Oppure, se vuoi, con le dichiarazioni del consigliere comunale di Ancona del PD (poi prontamente dimesso, ma la cosa non cambia di molto) che riferendosi all’assassinio di Carlo Giuliani ha detto: «Parteggiavo per Placanica, doveva prendere bene la mira».
Insomma, l’eterna Italietta trasformista che mostra il suo volto. Ingenui noi che irridevamo Tomasi di Lampedusa e il suo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» che ha trovato in Renzi la sua forma quasi idealtipica”.
“Ciò su cui volevo – ha continuato il Tonto con tono più allegro – fermare la tua attenzione era però un’altra cosa. Messi da parte Fiano e la Boldrini come casi umani su cui non conviene soffermarsi più di tanto, c’è un altro aspetto della questione che mi interessa.
Certo hai letto anche tu quel frammento del dibattito che si è incentrato sull’analisi del fascismo come fenomeno «eterno».
Ti rileggo in sintesi quello che è stato detto:
«Il fascismo declinato antropologicamente ha sia una caratura metastorica che extrapolitica, identificandosi fino in fondo con la sua funzione mitopoietica. Si genera da sé come puro mito, superomistico, di razionalismo magico … il cui nocciolo è la pura pulsione di morte, il cui fondamento sta sia nella omologazione dell’individuale ad una dinamica gruppale organicistica (dove l’uniformità corrisponde alla cancellazione di ogni residuo di soggettività) sia in una irrisolta “pulsione per l’inorganico” (… simbolismo come i ritualismi spesso macabri derivati dalla decomposizione dei corpi e dalle individualità nelle trincee della I Guerra Mondiale …)».
Rileggendolo più volte credo di aver capito perché Brecht disprezzasse tanto i TUI”.
“Sì, lo avevo letto anch’io, ma non ci avevo poi fatto tanto caso. Non pensavo che delle sciocchezze di Eco potessero essere prese tanto seriamente da uno storico di professione e non mi ci sono soffermato, ma visto che ti hanno tanto colpito spiegami il motivo”.
“Il primo è direi di natura storica. Togliatti, che aveva molti difetti ma certo il fascismo lo conosceva, aveva detto, se non erro già nel 1935, che era un grave errore impiegare il termine Fascismo in una accezione tanto generale da servire a designare le forme più diverse dei movimenti reazionari. Ma possiamo benissimo infischiarcene di questo invito. E’ proprio l’impostazione del problema che mi ha lasciato impietrito. Sai, sono sensibile all’uso delle parole, credo fermamente che il loro abuso sia dannoso e che tenda a corrodere il valore stesso del dialogo fra gli uomini rendendoli insensibili a quel fondamento di buon senso senza il quale non si da forma di confronto.
Allora partiamo. Già l’incipit non può che colpire: «Il fascismo declinato antropologicamente». Mi chiedo e ti chiedo, come lo possiamo declinare altrimenti? Belluinamente, cosalmente o in quale altro diavolo di maniera. Cosa è stato il Fascismo se non un movimento di uomini?
Invece scopriamo che il fascismo sembra essere stato qualche cosa di «metastorico ed extrapolitico» e, qui mi scuserai, ma siamo in piena metafisica. E’ vero che nella fase finale della sua parabola il fascismo scoprì, o se si vuole meglio inventò, una sua «mistica», ma gli stessi fascisti seri avevano dei dubbi su tale svolta.
Ora, in che senso si tratta di qualche cosa di «metastorico ed extrapolitico»? Ci vien detto in quanto possedeva o possiede una «funzione mitopoietica». Ci si potrebbe chiedere quale regime politico non abbia elaborato un suo qualche mito fondativo, ma c’è molto di più; infatti il fascismo avrebbe una funzione auto generativa, quasi come la sostanza prima, attenzione alle parole: «Si genera da sé come puro mito» … e attraverso quali forme? Ne vengono individuate due: una facile facile, quella superomistica; e un’altra di «razionalismo magico». Ora tu sai che sono un volgare, volgarissimo materialista, un intemerato razionalista e di fronte al «razionalismo magico» mi ribello. Proprio non ci sto …
La spiegazione di questa definizione appare non meno discutibile. Infatti si afferma che il nocciolo del fascismo «è la pura pulsione di morte» come se la polarità morte-vita non sia costitutiva di quasi tutte le ideologie politiche. Ricordi la canzone risorgimentale: «Si scopron le tombe si levano i morti/ i martiri nostri sono tutti risorti!», non è altro che l’Inno di Garibaldi, e similmente in altra temperie storica: «Di nuovo a Reggio Emilia di nuovo là in Sicilia son morti dei compagni per mano dei fascisti … Morti di Reggio Emilia uscite dalla fosse e venite con noi …». Dove, sia detto per inciso, visto che la polizia che sparava era quella di Scelba, l’identificazione fra fascismo e Democrazia Cristiana era dato per ovvio.
Qual è il fondamento di questa pulsione di morte? Viene identificato in una polarità. D’un lato la: «omologazione dell’individuale ad una dinamica gruppale organicistica (dove l’uniformità corrisponde alla cancellazione di ogni residuo di soggettività)». Lasciamo andare il linguaggio che si vorrebbe scientifico e invece è solo oscuro, ma è il concetto che davvero preoccupa. Questo vuol dire che chiunque partecipi a una organizzazione politica «gruppale organicistica», che si fondi su un rapporto di fedeltà a un progetto politico, è necessariamente destinato a perdere la sua individualità? A sentirlo così si ha l’impressione che ci si trovi di fronte alla forma più radicale di inno all’individualismo borghese fondato sull’estremo egotismo che sia mai stato elaborato.
Dall’altro si tratterebbe di «una irrisolta “pulsione per l’inorganico” (… simbolismo come i ritualismi spesso macabri derivati dalla decomposizione dei corpi e dalle individualità nelle trincee della I Guerra Mondiale …)». Ed anche in questo caso non possono mancare i dubbi. Innanzitutto si prende un caso storicamente determinato e lo si trasforma in un a priori eterno inventando una non meglio definita «pulsione per l’inorganico», che poi se ci pensi bene più che far pensare al fascista fa pensare al piccolo borghese proprietario, e la si unisce con una determinazione storica che appare a priori errata. Chiunque conosca la Grande Guerra non può negare che pur nell’estrema massificazione delle trincee nel dramma della perdita dell’individualità indotta dalla macchina della guerra i singoli soldati si abbarbicavano alla loro individualità difendendola in ogni modo. Esteriormente cercavano di marcare la propria personalità tentando il più possibile di mantenere la pulizia del proprio corpo e tenevano in tutte le forme possibili un contatto con la casa, gli affetti, la famiglia. Solo chi si lascia traviare dalle letture ideologiche alla Jünger può dimenticarsi che la Grande Guerra è anche una lotta di sopravvivenza dell’individuo di fronte alla violenza della macchina del potere”.
“Insomma mi sembra che tu sia molto insoddisfatto di fronte al tentativo di elaborare una teoria del fascismo «eterno»”.
“No, sbagli; sono insoddisfatto di fronte a ogni filosofia della storia che cerchi di superare le difficoltà della analisi fattuale con l’elaborazione di modelli eterni. Non vorrei dovermi trovare a leggere in un prossimo futuro che qualcuno ha scoperto non un Ur-fascismo alla Eco, ma un fascismo a Ur, la famosa città di Sumer, o che i fascisti sono arrivati su Marte …”.
“In questo caso – ho aggiunto, visto che suonava mezzodì e il Tonto aveva bellamente finito la Formidabile – non hai che da accompagnarmi, posso imprestarti senza difficoltà un DVD di qualche anno fa che testimonia in modo irrefutabile che i fascisti durante il ventennio sono arrivati davvero su Marte. Era l’anno E.F. XVIII, anno di grazia 1939, la guerra non era ancora iniziata e come ha dimostrato con una precisa e approfondita ricerca d’archivio tal Guzzanti, se non erro Corrado Guzzanti, una astronave del regime giunse ad allargare l’Impero fino a quelle lontane lande …”.

POST SCRIPTUM

Mi è arrivato poi questo breve scritto del Tonto che allego:
“Fiano vuole educare alla diversità e combattere ogni forma di pregiudizio razziale, politico ecc. con la galera, e allora mi chiedo come si dovrebbe porre nei confronti della recente affermazione di Eugenio Scalfari sugli atei:
«Il loro è un Io che non pensa … e non si giudica … un Io di stampo animalesco. Mi spiace che gli atei ricordino lo scimpanzé dal quale la nostra specie proviene».
Che facciamo, lo censuriamo come esempio di elementare intolleranza e lo segnaliamo alla magistratura o lo indichiamo come un buon esempio di invito alla guerra di religione degno del XVII secolo?
A Fiano l’ardua sentenza …”.

10 pensieri su “Dalle tentazioni di Fiano al Fascismo “eterno”

  1. Il dialogo mi sembra un’utile conclusione (provvisoria) del dibattito.
    Guardando il problema dell’Ur-Fascismo da un punto di vista diverso da quello di Umberto Eco, si può cominciare il ragionamento dicendo che la storiografia è per definizione sempre storia di avvenimenti particolari, singoli, che non si ripetono mai nel tempo. In questo senso il fascismo è un fenomeno nato e morto entro uno spazio di tempo, con particolari caratteristiche irripetibili. Ma poi gli storici, smentendo, apparentemente, il metodo storico variamente definito, passano dal racconto degli avvenimenti alla loro interpretazione e qui entrano in ballo (legittimamente) categorie filosofiche e sociologiche che tendono a comparare avvenimenti che presentano qualcosa in comune. Ecco dunque che dal fascismo come evento particolare si passa a un fascismo come categoria pseudo-filosofica e pseudo-sociologica che esamina comparativamente e raggruppa vari e diversi eventi storici per ciò che hanno in comune, pur senza tralasciare ciò che hanno di diverso. Si tratta di un’attività di classificazione a cui nemmeno la storiografia può sottrarsi del tutto, specialmente quando si passa dalle storie particolari a quelle generali o alle discussioni di teoria della storiografia.
    Si può pertanto dire, senza allargare troppo il significato storiografico del termine, che il fascismo, comunque inteso, fa parte, come fattispecie particolare, di quel vasto insieme di regimi autoritari che vanno dalla democrazia autoritaria al totalitarismo, lungo una scala di varianti storiche (e teoriche e giuridiche) molto ampia.
    Se si volesse cercare la radice di tutto questo ampio raggruppamento, si dovrebbe arrivare, con progressive regressioni (mi si scusi il bisticcio terminologico) storiche, logiche, filosofiche, antropologiche, fino a individuare quali sono le caratteristiche fisiche, psichiche e culturali che portano molti esseri umani a preferire rapporti autoritari e gerarchici (con repressione della libertà propria e di altri, fino all’aggressione e alla coartazione) a rapporti liberi ed eguali o almeno paritari.
    Si tratterebbe di individuare quei tratti profondi, radicati nella natura umana e permanenti nei lunghissimi periodi (qualche decina di migliaia di anni) che, pur declinati in moltissime varietà nei tempi e nei luoghi storici, restano pressoché intatti e invariati nelle strutture profonde della psiche.
    Le diverse discipline che studiano i fenomeni politici non hanno, di fatto, mai affrontato questo tipo di discorso, preferendo occuparsi di tempi storici molto più brevi. Quando lo hanno fatto, lo hanno fatto solo per frammenti e molto parzialmente e anche con una notevole astrattezza, come è il caso della filosofia e, con minore astrattezza ma sempre prendendo il discorso di sbieco, come è il caso della psicoanalisi e in misura molto ridotta dell’antropologia culturale.
    Il problema del rapporto con la libertà, ad esempio, è forse il tratto profondo più studiato, sebbene non sia quasi mai rapportato alle strutture politiche (apparato statale e rapporti con i cittadini), ma più spesso ai rapporti interpersonali all’interno della società. Esiste ormai una letteratura scientifica abbastanza ampia che afferma che gli uomini (uomini e donne) non sono affatto uguali nei confronti del problema della libertà. Alcuni (sembra che siano una minoranza) sono disposti a rischiare la vita per godere della più ampia libertà, mentre la maggioranza sembra rifuggire dalla libertà, perché rifugge dalla responsabilità e dall’impegno che la libertà comporta (magari poi nella vita quotidiana cerca di godere di quella falsa libertà che è la licenza, frutto dell’abuso e del privilegio irresponsabili).
    Ed è evidente che un tratto di fondo che sta alla base di tutte le forme di statualità e di governo autoritari è la «fuga dalla libertà», che comporta, fra l’altro, la gerarchizzazione dei rapporti, con i “leoni” che comandano e le “pecore” che volontariamente si sottomettono e sono contente di farlo. Capi e gregari, o, per dirla con Totò, caporali e soldati semplici: c’è qui una prima struttura psichica di fondo che è di lunghissima durata e che si riscontra in tutti i tempi storici di cui abbiamo testimonianza. È proprio di tutti i governi autoritari, fra i quali il fascismo, accentuare questa tendenza e farne una base per la costruzione di un rapporto autoritario fra la classe politica (e al suo interno fra il capo e i suoi seguaci) e tutte le altre stratificazioni sociali. Questo, variamente teorizzato, è un elemento di fondo di tutte le ideologie autoritarie.
    Se al problema della libertà colleghiamo quelli della giustizia (il governo dei rapporti giuridici interpersonali e con le istituzioni) e del rapporto di proprietà con i beni naturali e artificiali (il governo dei rapporti giuridici con il lavoro, con il frutto del lavoro e con i beni naturali), riusciamo a intravvedere le basi ultime, il fondo dei problemi, da cui si generano i diversi orientamenti politici, i quali, riportati alle strutture antropologiche (a ciò che nell’uomo perdura nel corso di molti millenni), non sono più di tre o quattro tipi da cui si declinano nella storia tutte le innumerevoli varianti.
    Lo Stato autoritario, in tutte le sue forme, dalle più leggere alle più totalitarie, regola tutti i rapporti secondo l’asse che vede la preminenza dello Stato (del potere organizzato e centralizzato) e la subordinazione dei cittadini. Lo Stato, secondo la mentalità statalista, non è un’istituzione al servizio dei cittadini ma un ente primario sovrapposto e sono i cittadini a essere al suo servizio e quindi sacrificabili.
    A mio parere sta qui l’«essenza» del “fascismo eterno”, rivestita di forme giuridiche, politiche, culturali, economiche ecc. ecc. funzionali a questo rapporto di sudditanza e di sacrificabilità dei cittadini intesi come singoli individui.
    Ma a questo punto è necessario saper vedere, come una conclusione doverosa, che questo rapporto autoritario è proprio di ogni Stato. Non esiste, e secondo molti studiosi non può esistere nemmeno in teoria, uno Stato democratico che corrisponda alla definizione di Abraham Lincoln: «potere del popolo, dal popolo e per il popolo».
    Lo Stato, come organizzazione, apparato e potere organizzato, si comporta come ogni altra organizzazione, tende cioè a trascurare i compiti per i quali, in teoria, è stato istituito e a privilegiare i comportamenti che mirano alla propria sopravvivenza, all’ampliamento dei propri poteri, alla retribuzione privilegiata dei propri dirigenti, alla conquista di spazi sempre più vasti su cui esercitare la propria fame di potere e di privilegi. La degenerazione e la corruzione del potere, l’abuso di potere, sono insiti nel potere stesso e sono inscindibili dal suo esercizio.
    Tutte le formule inventate per controbilanciare e limitare i poteri e per garantire i diritti di libertà e di giustizia dei cittadini sono valide solo parzialmente e «nella misura in cui» i cittadini siano educati e addestrati alla libertà e alla responsabilità. Se fra i cittadini prevale la cultura e la mentalità del gregario non ci sarà difesa dall’abuso di potere, che, da abuso illegale, diventerà sempre più abuso formalmente legale, giustificato e difeso con la polizia e l’esercito contro chi volesse opporvisi.
    L’unica difesa è, pertanto, abolire lo Stato, o almeno ridurlo ai minimi termini, e restituire ai cittadini tutte le funzioni ora assegnate allo Stato e con esse la libertà e la responsabilità necessarie.
    Lo statalismo illuminista di chi crede che la soluzione dei problemi stia nello slogan «più Stato, meno iniziativa privata» è destinato alle ripetute smentite e sconfitte della storia. I problemi non si risolvono, anzi aumentano. Ma forse chi vuole più Stato non vuole risolvere i problemi ma solo, consapevolmente o inconsciamente, attuare la sua «fuga dalla libertà» e dalla responsabilità e rifugiarsi in una ideologia più consolatoria e più comoda.
    Chi vuole più Stato concepisce lo Stato come una struttura necessaria, insopprimibile, per evitare il caos di una anarchia selvaggia alla «homo homini lupus», secondo l’antichissima concezione a cui Plauto ha dato forma scritta forse per la prima volta, poi ripetuta da centinaia di studiosi e scrittori e poeti fino a Thomas Hobbes che ne ha fatto la base della sua erratissima concezione politica. Fra l’altro, in questa discussione abbiamo in atto due diverse concezioni profonde dell’animo umano: o l’«uomo naturale» è per istinto egoista e sopraffattore e quindi ha bisogno di uno Stato autoritario per addomesticarlo e renderlo uomo civile, o è per natura più propenso a stabilire rapporti comunitari di lealtà e di collaborazione, e allora non ha bisogno dello Stato autoritario ma di forme diverse di governo delle comunità.
    L’identificazione, fatta oggi ormai da quasi tutte le dottrine dello Stato, almeno in sede giuridica, dello Stato come governo necessario degli uomini, articolato poi in diverse forme di Stato e forme di governo, ma con una base a tutte comune, è solo un «comune sentire» che si è formato nel corso dei secoli, ma non è un «logico sentire», perché esistono forme di governo delle comunità non statali. Si badi bene: non forme di Stato diverse e alternative agli Stati che conosciamo (cosa impossibile) ma forme di governo senza Stato, cioè organizzazione giuridica dei rapporti fra gli individui e le comunità non basata sullo Stato e le sue strutture, ma su principi alternativi molto diversi.
    Se si volesse andare fino in fondo alle ragioni dell’antifascismo, si dovrebbe arrivare a quelle dell’anti-statalismo, perché ogni antifascismo statalista si colloca comunque all’interno di una struttura di potere che ha molti legami di parentela con il fascismo, e che smentisce sempre, sia di fatto sia nelle forme giuridiche e istituzionali che si costruiscono, le esigenze di base e i diritti legati alla libertà dei cittadini e alla giustizia.

  2. Caro Tonto, dichiari: “sono insoddisfatto di fronte a ogni filosofia della storia che cerchi di superare le difficoltà della analisi fattuale con l’elaborazione di modelli eterni”, e critichi come generici alcuni passaggi di Vercelli. Ma in particolare respingi la lettura metastorica ed extrapolitica con la conseguente funzione mitopoietica del fascismo “eterno”, e poi la “pulsione per l’inorganico”. Ti sembra cioè che Vercelli cada in piena metafisica, ma io non sono tanto d’accordo…
    “La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone“ e “nella folla […] predominano i caratteri inconsci” (Le Bon). Un teorico del protagonismo delle masse ammirato da Mussolini, letto e annotato da Lenin, probabilmente letto anche da Hitler. O perchè influenzati da Le Bon, o viceversa perchè Le Bon coglieva dei comportamenti di massa veri (solo?) alla sua epoca, Hitler, le SS, i gruppi di fascisti all’assalto dei giornali e delle case del popolo nel biennio rosso, ma oggi gli stupri di gruppo, presentano proprio quella perdita dell’individualità del soggetto scoperta da Le Bon. Vercelli insomma individua uno stile fascista come preferenza per l’agire insieme in modo indifferenziato.
    Leggo Del Noce che riporta una analoga accusa, e disgusto, di Bernanos, nei confronti dei civili francesi accorsi nella guerra di Spagna a combattere per Franco: “Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide; o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono…”
    La pulsione per inorganico è un concetto utile, proprio un materialista ci dovrebbe riflettere: la materia (gli atomi? i quanti? la gravità a loop?), ma almeno per noi umani il corpo: sessuato, generativo, temporale (la grazia dell’infanzia, la bellezza della giovinezza, la forza della maturità…) che il fascismo “eterno” riduceva nelle statue dell’eur, rivestiva in orbace, serializzava, uniformava in uniformi, ingravidava a ripetizione quando erano donne… un corpo ridotto a materia vivente corvéable a merci, senza i suoi del corpo bisogni e piaceri ma sublimato in dare e ricevere morte… è dominare in un quadro ideologico di *passione per l’inorganico*.
    A me sembra solo che Vercelli abbia molto sintetizzato, trascorrendo a volo d’angelo su analisi più determinate da storico fatte altrove (immagino). E’ un po’ il problema stesso della cultura: parla come mangi non si potrà mai dire a chi scrive ricette.

  3. Nel frattempo, ad integrazione della posizione di Claudio Vercelli, è uscita la seconda parte del suo saggio. Insisto sull’importanza di uno studio approfondito del suo scritto nella sua completezza. Qui mi limito, come al solito, a segnalarlo mediante stralci per me significativi. [E. A.]

    SEGNALAZIONE

    Né destra né sinistra, semmai peggio (II)
    Claudio Vercelli

    http://www.doppiozero.com/materiali/ne-destra-ne-sinistra-semmai-peggio-ii

    Stralci:

    1.
    Più che a dettare una precisa agenda, la destra radicalizzata fornisce il lessico del disagio in corso, dando quindi una forma a ciò che, altrimenti, rischia di rimanere allo stato di percetto confuso e sfocato.
    Per questo sta costruendo una sua egemonia para-culturale, spostando su di sé l’asse dell’attenzione di una parte della società che, sentendosi sempre più posta ai margini e sempre meno rappresentata, dinanzi all’imperativo del «non c’è alternativa allo stato di cose esistente», registra in esso il suggello della sua crescente inessenzialità. Ciò che questa destra radicale va quindi facendo, più che un’opera di tradizionale ideologizzazione, secondo i canoni abituali dell’appartenenza politica, è semmai quella di «riconoscimento» dello stato di abbandono in cui versano gli esclusi, ossia quanti hanno perso o stanno perdendo lo status di cui si sentono ancora depositari. Il suo ruolo, in altre parole, è di dare voce ad essi, sia pure usando il proprio lessico

    2.
    Si tratta di un terreno scivolosissimo, sul quale le forze politiche tradizionali si collocano oramai abitualmente, confidando di giocare con forze proprie mentre, invece, alimentano in maniera perversa il circuito per cui si rendono sempre più subalterne alle parole d’ordine espresse dal radicalismo. Il riscontro, al riguardo, è che: «oggi tutti si spostano in continuazione, spesso in modo confuso, per non essere lasciati indietro da altri più veloci, aprendosi sempre di più verso la dimensione dell’estremo, quindi oggi verso l’estrema destra».

    3.
    Più in generale, questo fenomeno segna il passaggio dalla contrapposizione tra una destra liberal-liberista e una sinistra socialdemocratica a quella tra un conservatorismo immobilista, basato sul laissez-faire, e la destra radicale: a quest’ultima, quindi, spetta la palma della mobilità.

    4.
    Al discorso dominante, basato sulla non modificabilità dello stato delle cose vigente, subentra così la tentazione di una contestazione totale e permanente, fondata sul capovolgimento degli assunti dominanti. Il tutto, però, non sulla scorta di un controprogetto bensì attraverso il semplice desiderio di confutare l’esistente in quanto tale. Ne deriva il ritratto di un radicalismo senza una radice che non sia lo stato diffuso di disagio sociale, nel suo oramai perpetuo rinnovarsi. In questo percorso la destra radicale si avvale di tre elementi: il primo è la presa a prestito dalla sinistra di un discorso radicalmente critico del neoliberalismo, in difesa del «popolo», nel mentre si invoca l’intervento salvifico dello «Stato». Il fuoco reale della destra radicale rimane comunque l’avversione nei confronti del liberalismo politico. La polemica contro il liberismo, infatti, si basa non su una visione critica delle relazioni sociali di produzione bensì sull’opposizione tra un’economia nazionale sovrana e il capitalismo cosmopolita.

    5.
    all’internazionalismo disidentitario del soggetto borghese, al suo essere ancorato alla dimensione anonima e anomica della metropoli, così come al capitale speculativo, finanziario e quindi fluttuante, si rivalutano e contrappongono le virtù di soggetti interclassisti il cui legame di reciprocità deriverebbe dal vivere permanentemente su un territorio, della cui storia sarebbero i titolari, avendo ramificato da tempo immemore su di esso le proprie radici.

    6.
    Il fantasma antisemitico, in questo caso, è immediatamente dietro l’angolo poiché gli ebrei, nelle costruzioni ideologiche del radicalismo, sono invece la quintessenza del carattere borghese, sommando su di sé i caratteri della peggiore amoralità: individualismo, internazionalismo antisovranista, mancanza di radici, come anche il parassitismo e una grande capacità camaleontica, sapendosi adattare ad ogni situazione per inquinarne i caratteri «puri». Contro questo stato di cose e per ristabilire un «sano» legame sociale, bisogna quindi reagire ed attivarsi. Il fenomeno migratorio, in quanto «invasione», ne è la quintessenza, rispondendo a un preciso disegno di smobilitazione della capacità di risposta vitale delle comunità nazionali sovrane, alle quali viene contrapposto e progressivamente sostituito un meticciato universale, grazie al quale le classi borghesi ultraricche potranno preservare i loro privilegi se non incrementarli.

    7.
    Il terzo fattore, inteso come cornice, è il recupero dell’ultraconservatorismo dai riflessi contestatari, che transita dal secondo Ottocento al primo Novecento per arrivare a noi, rivestendo la destra radicale di una fisionomia antitetica a quella da essa altrimenti assunta fino ad allora: non soggetto quietista ma figura di mobilitazione; non agente del rifiuto ma imprenditore della trasformazione. Un capovolgimento copernicano, poiché il discorso politico sulla «restaurazione» dell’ordinamento sovrano non poggia più sulla passività del «popolo» medesimo bensì sul suo coinvolgimento attivo. Si tratta di un passaggio strategico: la destra reazionaria ha tradizionalmente decantato i «valori» perduti di un aristocraticismo dello spirito (e del possesso) che si identificavano con i sistemi di Ancien Régime.

    8.
    La destra radicale odierna, pur continuando ad attribuire a un’élite dirigente, ora intesa essenzialmente come soggetto politico, le qualità di nobiltà e superiorità inarrivabili, si appella alla collettività, definendola come il vero soggetto del mutamento. Il fatto che tale appello sia essenzialmente inteso come una «reazione» allo stato delle cose esistente, ossia come risposta di rimessa, alla ricerca di un passato perduto, tematizzato quindi mitologicamente, non toglie nulla al suo essere elemento di mobilitazione. La funzione discorsiva è qui svolta dalla critica al «pensiero unico», tale perché omologante e lobotomizzante, che è attribuito al capitalismo della globalizzazione e alla borghesia internazionalista. Il tema della rottura di un modo univoco di pensare (con il suo corollario solidarista di aggregazione) è preso di forza dall’arsenale della sinistra e rivolto contro di essa. Un aspetto che sfonda il senso comune trasversalmente, è lo slittamento verso lidi revisionistici del senso comune, attraverso una lettura provocatoria della storia, dove ci si impegna a rompere le convenzioni interpretative, ora denunciate come mistificazioni. Il racconto del passato, soprattutto di quello del secolo appena trascorso, con il suo lascito di tragedie, è il prodotto del «racconto dei vincitori».

    9.
    Il popolo viene assunto da destra come figura indistinta di soggetti oppressi e sfruttati dai «potenti». Il primo punto da cui partire, quindi, sta nel riconoscergli un deficit di rappresentanza. A tale riguardo – accusa la destra radicale –, la controparte di sinistra avrebbe tradito la sua storica funzione di raccoglierne il disagio, poiché troppo intenta a rappresentare se stessa, in quanto collusa con i «poteri forti»

    10.
    La sinistra, in altre parole, non solo non è più oppositiva ma costituisce un architrave del sistema di oppressione «borghese». Non di meno (ed è una funzione essenziale della stessa prassi di sistematica indistinzione adottata nel linguaggio populista), il fatto che il popolo del quale si dice volerne recuperare la rappresentanza, sia un tutt’uno organico, risponde ad una visione interclassista che si fa anticlassista. Poiché al suo interno esisterebbe una sola linea di separazione, quella che intercorre tra una comunità ancestrale, quindi in sé buona, quella autentica, fondata sul radicamento spaziale e territoriale e sul virtuosismo morale, ed un ceto cattivo, tale perché artificiale e improduttivo.

    11.
    La natura della destra rivoluzionaria riposa quindi nella volontà di creare una terza forza, che si contrapponga alla «plutocrazia» e alla oclocrazia. L’ossessione contro il denaro, come veicolo dell’artificiosità, è d’altro canto uno dei fondamenti dell’immaginario radicale. Registra anche il passaggio, consumatosi dal dopoguerra in poi, dalla bontà e veracità della figura del lavoratore rurale (alla quale si accompagnavano la perversità e la pericolosità delle classi lavoratrici urbane e industriali, proclivi al socialcomunismo) alla rilevanza del «popolo dei produttori», in realtà tali soprattutto perché colpiti dalla crisi della produzione e, in immediato riflesso, dal declino del loro status sociale.

    12.
    Il baricentramento del discorso si è infatti spostato verso il nuovo ceto medio, sofferente per lo stato delle cose e, al medesimo tempo, insofferente per il suo perdurare. Il vero nemico è il connubio tra oligarchie del denaro e la sinistra «benpensante» e «buonista». Il legame tra la stratosferica alterità dei grandi gruppi di potere finanziari e la strafottente presenza sul territorio della seconda è garantito dall’enfatizzazione sui diritti civili e individuali, quelli che afferiscono e concernono un «soggetto borghese» che è, per sua definizione, manipolante e manipolato. Manipola lo stato delle cose, a proprio beneficio, così come è completamente rescisso dalla naturalità del popolo. Di fronte a ciò sarebbe quindi necessario consolidare una «vera opposizione», tale poiché «né di destra né di sinistra», ma fondata sull’autenticità del legame etno-culturale.

    13.
    Conservare è la parola magica e risolutiva. Implica sia il soddisfacimento di un bisogno nostalgico (rivolto quindi al passato) che l’enfatizzazione del binomio tra insicurezza e protezione (declinato al presente). Conservazione demanda inoltre al discorso – a sua volta ossessivamente ribadito – sulla natura e la «naturalità» della condizione sociale, di contro all’artificiosità dei diritti civili. Il battere il chiodo delle identità sessuali è funzionale alla ricostruzione di un universo di significati morali che si identifichi pienamente con la rassicurante fissità dei ruoli. Cosa c’è di più «naturale» della sfera sessuale se essa è associata a precise funzioni sociali, ossia immutabili, fisse come se fossero delle essenze? Il resto è solo un ibrido che non può che procurare ribrezzo. La centralità del tema dell’identità deriva quindi anche da queste premesse. Si trasferisce sulla questione della nazione, intesa come unione sacra tra vivi e morti nella medesima comunità. Il popolo autoctono esiste poiché schiacciato dai meticci e dagli altri «stranieri interni». Se nel caso degli ebrei il tema di fondo era il complotto, per i musulmani è, invece, l’invasione.

    1. Molto brevemente. L’intero articolo di Vercelli è un’analisi, davvero ampia, di una destra “totale”, onnipervadente, dotata di iniziativa, di movimento, creativa (“un capovolgimento copernicano” “si tratta di un passaggio strategico”) potenzialmente maggioritaria. Invece il nemico (della destra) è accennato di passaggio, appena riassunto in nomi: la sinistra, il liberismo, l’illuminismo, il cosmopolitismo, il ceto medio.
      La seconda parte dell’articolo chiarisce meglio i passaggi della prima parte che identificano quel fascismo eterno: che è una continuità reazionaria dopo la rivoluzione francese.
      L’articolo però nomina alcuni temi che andrebbero indagati per loro stessi: il lavoro fisico rispetto al lavoro nel terziario (e, nel lavoro fisico, la radice della maggiore quota di volontari nei corpi dell’esercito), campagna e città, autenticità e immediatezza della comunicazione. Vercelli lascia questi aspetti sociali alla destra, alle sue rivendicazioni, al suo nominare queste sfere per appropriarsene. Manca, ahimé, un’analisi del perchè questi temi, su cui la sinistra della mia generazione si è impegnata profondamente, si siano indeboliti e rischino la dispersione: il femminismo deve vedersela con le ambizioni neoliberali e la teoria dei gender, il territorio con i vegani e gli ecoterroristi, la vita urbana e cosmopolita con il degrado. Eccetera.

  4. Dopo attenta lettura, concludo che all’origine dell’URfascismo c’è la Caduta, che il vero responsabile del fascismo è il Satana, il quale essendo impossibilitato a morire o a convertirsi si ripresenta sotto diverse spoglie (Serpente, Giovinetto Bellissimo e Inquietante, Caprone, Mussolini, Hitler, Casapound, etc.).
    Solo così si spiega la qualifica di “totalitarismo” che Basso appioppa, pennellando larghissimo, al fascismo (Ventennio) e alla DC; l’invito allo studio delle caratteristiche psicofisiche conducenti al fascismo (un suggerimento: se li pungete e non accusano dolore, se li gettate nel fiume legati e non affondano, se salgono sulla scopa e volano via sono fascisti); e per finire in antifrasi, l’affermazione più che logica che il fascismo (in questa accezione teologico-escatologica) avrà fine soltanto con la libera e felice anarchia universale, cioè con il ritorno alla condizione edenica, probabilmente nella versione molinista dello “stato di pura natura”: condizione edenica meno i doni soprannaturali e preternaturali concessi ad Adamo ed Eva (in soldoni si muore, non si ha la conoscenza infusa, etc., ma si è buoni e perfettamente razionali). Occhio che Molina pone lo “stato di pura natura” come pura ipotesi.

    Un cordiale saluto al Tonto.

  5. @ Cristiana

    Carissima Cristiana

    nella tua critica mi sembrano emergere due elementi, d’un lato un profondo disgusto per le masse e le loro tendenze “animalesche”, e dall’altro una strana idea del fascismo come unico generatore di uniformità, sublimazione e pulsione di morte.
    Si potrebbe tentare di rispondere che il disprezzo delle masse è una caratteristica profonda di una cultura aristocratica, caratteristica che assume forme massime nella società borghese che realizza paradossalmente l’estrema serializzazione e reificazione della vita, di cui il fascismo non è se non un epifenomeno storicamente determinato. Ma sono risposte forse troppo semplici, ed allora sarei quasi dell’dea di rilanciarti il problema, in una specie di sfida.
    Ennio si è chiesto se c’è fra noi qualcuno che abbia il coraggio di prendere in mano Stato e rivoluzione.
    Io ti chiedo di leggere in questo mese, in parallelo con quanto sto facendo, Il Discorso sulla servitù volontaria, di Etienne de La Boètie (di cui esistono varie edizioni, Feltrinelli 2014 e si trova anche in internet. Il 24 luglio Pier Luigi Fagan ne ha realizzato su FB una interessante rilettura) e se è il caso il volume di Peter Singer: Una sinistra darwiniana, Edizioni Comunità 2000.
    Con l’inizio di settembre potremmo riprendere la discussione partendo proprio da questi due testi
    con amicizia
    Il Tonto

  6. @ Buffagni

    Gentile Roberto

    Davvero il mondo è pieno di sorprese, l’eterogenesi dei fini può giungere a conseguire esiti paradossali.
    Non è mia abitudine farlo ma credo che questa volta, di fronte al diluvio di trascendenza a cui mi hai sottoposto l’invito a una pacata lettura dell’opera di Lelio Basso, Due totalitarismi: fascismo e democrazia. Milano, Garzanti,1951 potrebbe essere utile a rimuovere qualche pregiudizio.
    Fra l’altro non pannelliamo fuori misura, quando Basso parlava di due totalitarismi Pannella forse era poco più che con le braghe corte …
    Sull’Ur-fascismo e scempiaggini simili credo di essere stato chiaro.
    Per ciò che riguarda il giudizio sulla storia dell’Italia dopo il 1945 son convinto che le nostre divergenze siano ampie e volendo potrebbe essere utile terreno di discussione, ove se ne individui l’utilità.
    In ogni caso nulla a che fare con paradisi anarchici o molinismi vari …
    Solo dura analisi della realtà storica e politica.
    Non bisogna essere particolarmente geniali – ma come sai bene io non faccio parte di quel mondo – per ipotizzare che dei vari Andreotti, Gladio, Falange Armata, Trattativa stato-mafia e via declinando dal 1945 fin a oggi ci sarà ancora occasione di dialogare …
    Un cortese saluto

    Il Tonto

    1. Caro Tonto,
      guarda che ho scritto “pEnnellando”, non “pAnnellando”.
      Leggerò (forse, la vita è breve) il Basso che mi indichi, e non escludo sorprese, ma il titolo non mi dispone favorevolmente, perchè se la parola “totalitarismo” ha un senso, la DC, con tutti i suoi difetti, le sue trattative Stato-Mafia, Gladio, etc., con il totalitarismo c’entra zero: a meno che per Basso “totalitarismo” = quando comanda qualcun altro che non mi piace e che non è d’accordo al 100% con Basso e che non realizza al 1000×1000 la Costituzione Più Bella del Mondo alla quale Basso attribuiva, se non ricordo male, qualità taumaturgiche.
      Ci sono parecchi dubbi che fosse un totalitarismo il fascismo storico, figuriamoci la DC. Buone cose.

  7. @Tonto: Stupisco! Dove mai il “mio” disgusto per le masse? Perché ho richiamato Le Bon? Ma non hai capito che trovavo un implicito eco di Le Bon nella lettura metastorica ed extrapolitica di Vercelli? Così come trovavo analogo influsso (conscio, inconscio? del solo Le Bon?) in A. Del Noce quando citava, non il solo Bernanos, ma anche Simone Weil e la “loro” riflessione sulla spersonalizzazione del singolo quando agisce in massa? (Conoscerai la posizione di Weil sulla guerra di Spagna…)
    Piuttosto, caro Tonto: che rispondi di un materialismo tuo, secondo me astratto, che ho cercato di incarnare in corpi, mostrando come proprio il “corpo” umano nelle sue singolarità sia stato abbrutito a pura sostanza di carne anonima nella biopolitica fascista? Da cui la fecondità del concetto di pulsione per l’inorganico?
    Al pezzo di Fagan su La Boétie ho risposto su fb, non faticherai a trovare il mio commento.
    Su Singer, be’ non ho voglia di leggermi qualcosa sull’antispecismo, in mezzo agli animali (cani, gatti, martore, furetti, volpi che mi mangiano i polli, uccelli, serpenti, cinghiali) io ci vivo (vivo in un bosco), quello che so ed esperisco ti assicuro mi basta. Mi ci trovo proprio bene, fra l’altro.
    Prima di incontrarci a settembre, spero che vorrai ammettere di avere con me preso un granchio… di terra, ci sono anche quelli, lo sapevi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *