di Antonio Pizzol
Uno
3.
Come quando giocavo a pallone
sotto tribune di tulipani,
aiuole, giurie mute piegate,
causa-effetto scontata,
già esperita, madre di tensioni
che eccitava prescrivendo perfezione
nel palleggiare.
Come un gioco la passione
devota a quel che è stato amore:
dipendenza al brivido di sporgersi
in un grido incauto. Figlio ne fu
un disarmo, diserzione da se stesso.
Punizione marziale il ritorno
a marciare.
Due
1.
Sono cose senza senso
lo spiaggiarsi spalmati nudi
a tempo, le cravatte, la monogamia
e l’eleganza, l’eccitazione
per una minigonna, la pelle bronzea.
4.
Quello che cambia e come, immutando…
affascina pensare delle scie tra lisi marmi
lisci della gente, chiese
Natal4rgente che si insegue nelle chiese,
alle case con tetti piatti o piani accatastati,
alle feste smascherate con orgoglio
rivestite dalle genti e ridipinte poi,
a chi combatte a tavolino
pesanti veli di seta in Oriente
e, con la stessa foga,
la polvere che copre quelli,
magari vintage, delle nonne.
Ma in questo evolversi inconsapevole
a Buenos Aires chi ha detto
che c’è la neve a Natale?
5.
Non fa alcuna differenza
esserci o meno a sentirlo,
camminarci o no in mezzo,
vederlo alla tv o su internet meglio
connettercisi, mandarvi parole o niente
o anche cose, comprare..
non cambia niente leggere
o non pensarci, fare finta
o non pensare che esista…
le stesse cose non fondamentali
scorrono e capitano, fluiscono
eterne con piene differenti ovunque
e comunque a Londra a Pordenone.
6.
Si è persa April Jones.
Se n’è andata con i fiori e l’estate,
i genitori non la trovano sparita
qualche zio forse la cerca anche.
L’uomo bianco-calce
al lato di Oxford Street si è perso,
i genitori con lui forse persi
non lo cercano, non si cerca.
Il nero che canta reggae
mentre regge un cartone
tutti lo possono trovare
poiché tutti ci sbattono addosso
ma nessuno lo sta cercando,
senza essersi perso, dimenticato.
Schegge di umanità
smarrite e non raccolte.
Umanità persa nel tempo
tra righe di carte
solo lì presente.
15.
Me piaxe tanto sognar
parché quando ‘e buta le cose
a mal, mi me svejo.
Però proprio no amo
i putei che no i zoga
col balon
i fioi che no i ga mai zogà
chi par farlo
i lo paga
chi i balon
par do schei
i fa far.
Tre
2.
Il fico è un legno strano
che già quando lo batti,
vivo, sembra cavo
che profuma più intenso
se viene tagliato
che non brucia e fa fumo
profumo di fico e pesante bagnato.
Ma prima che si abbatta
l’odore è normale di fiori, i frutti come altri,
il suo suono è del vento,
del vento tra rami di legno.
Quattro
2.
Che sia che son disocupa’,
che go finio, parché vecio
me sento, i me sogni
o sia che no i go mai
par vero avui,
sia che no so pi goderme
sta libertà –
par mi xe ‘l tempo libero
per far quel che voi far
(me mare me ga sempre
lassa’ far)-
o sia che par aver bon qualcossa
bisogna pur che qualcun te o cavi.
Ma mi me godo tanto
esser torna’ a zogar a balon
(in squadra)
e che i me diga
che devo tornar, far diagonali
strinserme drio
coi altri che i taca.
Me godo tanto a sbajar
aposta
e farme riciamar (coi sighi).
8.
Xe proprio in quel momento lì che sto ben,
coe man che ‘e vedo già nere
sensa neanca aver ‘l cofano verto
che so che xe a bateria
o qualche cavo distaca’,
che basta un toco, na streta,
e tuto se giusta e va…
prima de aver le mani nere
e scussa’ i dei,
prima de sudar
incastrà drio del filtro
coe ciavi che ‘e casca e se sbrega ‘l manual,
tanto prima de no saver niente
e de sentir da n’altro le parole
alternator e bobina.
18.
Vorrei tu mi scoprissi
come Barcellona Bolaño.
20.
Capita di rado che mi fermi
attirato dalla prefazione di un libro
e così capita di avere
processioni di pagine non lette
ferme a pregare sole su ripiani
prossime a feste di romanzi
ritrovi di versi e racconti.
Ma capita che ci si fermi
e si consacri al rito anche
quella lettura
e sia per pigrizia o dovere,
perché così è o per appeal
di buon marketing
che si ribatta all’evasione
prosaicità e certezze.
E così si allinea senso al gusto
di storie altrimenti scansate
per pigrizia o perché così è.
Cinque
4.
Così piccole cose
e così grande pena nel vivere,
non davvero così grande,
ma certo così piccole poesie quelle.
Ma dunque dove-
tralasciarlo perché è bambino
e lo schiaffo dell’avvenuta colpa,
tra il freddo in spiaggia la notte
e alla prima luce prurito di sudore,
tra è vacanza sabbatica ancora
e il primo sabato disoccupato,
tra il cullarsi nell’acido lattico
e il restare inchiodato alla sedia,
tra il convivere e lo sposarsi,
tra legno e leggenda,
tra lo svegliarsi e il morire,
tra scrivere e dormire-
il mistero, dove il bello di vivere.
Antonio Pizzol, IL CENTRO DI UN’INTERA STAGIONE, LietoColle, 2017
Forse per il dialetto (Trieste, o vicino) rivedo giovani uomini, attivi e sportivi, ma rallentati, sospesi, in attesa di un impegno in cui realizzare la propria vita, era il primo dopoguerra, non si conosceva il futuro della zona A, non si sapeva proprio chi si era e si poteva diventare:
“Xe proprio in quel momento lì che sto ben … tanto prima de no saver niente/ e de sentir da n’altro le parole/ alternator e bobina.”
Tanto che poi, a posteriori, dal centro di una “intera” stagione:
“Così piccole cose
e così grande pena nel vivere,
non davvero così grande,
ma certo così piccole poesie quelle.”
Mi sembra di poter riconoscere un’esperienza locale, di distacco, di esclusione accettata, di ironia ma non troppo esplicita – perché si impara a non stare sopra le righe.
D’altra parte le osservazioni mirate e pertinenti, collocate in distanza sentimentale, ma nostalgica (“Ma prima che si abbatta/ l’odore è normale di fiori, i frutti come altri,/ il suo suono è del vento,/ del vento tra rami di legno”) appartengono alla pace che a un certo punto si deve fare, con la propria vita, e prendere tutto
“Me godo tanto a sbajar
aposta
e farme riciamar (coi sighi)”.
…in queste poesie di Antonio Pizzol traspare, secondo me, il senso di un forte smarrimento, con cambi veloci di prospettiva: dal grande al piccolo, dal centro alla periferia, come di persona che ha visto scomparire, al pari della povera April Jones, se stesso e gli altri, l’infanzia e il suo gioco preferito quello del pallone. Un gioco senza regole rigide per la pura gioia dell’inseguimento tra amici di un oggetto-fine senza quella competizione e interesse al guadagno che arrivano a guastare ogni cosa . Ad esso la vita ha contrapposto convenzioni e regole senza senso, facendo uscire il pallone fuori campo, scomparso, perso di vista, come per magia nera. Le poesie in dialetto mi sembrano più ironiche, come a recuperare quel po’ di buon umore, leggerezza e saggezza del vivere tipico dell’arlecchino per quanto “bastonato”…
Come ho scritto ad Antonio Pizzol, i temi della sua poesia sono nettamente legati a una quotidianità malinconicamente assaporata: vissuti familiari, ricordi che celano sconfitte, tensioni sotterranee, sommessi spunti erotici. L’andamento della sua raccolta è diaristico e concentrato (troppo?) sull’auto-osservazione. Col rischio d’un po’ di narcisismo. Non ci vedo un disegno poetico che vada al di là di annotazioni occasionali. E il linguaggio pure mi pare dimesso e quotidiano, appena scosso dai componimenti in dialetto, che alludono a un altro tempo e ad un’altra dimensione, più ricca della presente. Ma come ho detto al giovane autore, queste mie sono impressioni da vecchio. Da prendere con le pinze o sportivamente.