di Ennio Abate
Replico ad un commento di Roberto Buffagni apparso sotto l’articolo “Migrazioni: punti di vista in contrasto” (qui). Lo riporto per comodità all’inizio del post. [E. A.]
Roberto Buffagni 17 agosto 2017 alle 13:57
Caro Ennio,
in breve:
1) Cina, Cambogia, Manifesto, Fortini. Non ho voglia di fare ricerche in biblioteca per documentare gli abbagli della “sinistra critica” sul compagno Mao e il compagno Pol Pot, ci sono e chi ha la nostra età se li ricorda. Fortini, che era una persona intelligente, di Pol Pot non si innamorò mai, della Cina di Mao sì, come attesta “Asia maggiore”, 1956, un diario di viaggio in Cina in cui Fortini, oltre a scrivere delle belle pagine impressionistiche su paesaggio della Cina e contadini cinesi, fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager (il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima, NON ci è cascato, probabilmente uno dei motivi per cui è diventato fascista è proprio quel viaggio). In quegli anni Cinquanta, uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra. Fortini non è il solo a sorvolare, c’è un interessante scambio di lettere tra Piero Calamandrei e suo figlio, allora giornalista dell’Unità che si occupava dell’Oriente, in cui Piero chiede notizia degli sterminati, se sia vero o no, o aggiunge che se fosse confermata la notizia sarebbe grave PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso (Calamandrei non era neanche comunista, ma azionista). Se serve ho anche il riferimento bibliografico. Con questo non voglio dire tutti cretini o fanatici i sinistri, voglio dire che sarebbe ora di lasciar perdere questa storia della superiorità morale della sinistra (specifica tu quale che mi va bene) in quanto essa sinistra cià la supergiustificazione etica di volere il riscatto dell’umanità eccetera. Il campo avverso al tuo di porcate non ne ha fatte meno, non mi metto a fare la conta dei morti. Però veramente basta con questo fine superiore e umano che dà il sigillo di garanzia a tutto, perfavore, ci vuole l’apocalissi nucleare per farvela smettere? Parlare a nome dell’umanità evidentemente dà alla testa, un po’ di modestia mai?
[…]
3) il problema di fondo di questa supergiustificazione etica della sinistra garantita dal fine superiore e umano che essa persegue è questo: a) giustifica ogni porcata e giustifica anche il patetico e postumo “scusa, ci siamo sbagliati, faremo meglio la prossima volta”, il “ritenta, sarai più fortunato” del grattaevinci cosmico b) cosa più grave, porta chi ci crede a implementare linee politiche e culturali che funzionerebbero solo se tutti fossimo buoni. Siccome poi non è vero che siamo tutti buoni, le suddette linee provocano disastri tremendi, e i loro autori, invece di dirsi “non abbiamo capito niente”, danno la colpa alla società che non li sta a sentire e che impedisce all’universale bontà potenziale degli uomini di attualizzarsi.
4) Mi viene in mente adesso, a difesa di Fortini, che in una sua recensione a Solgenitsin (digressione: meritorio che lo recensisse, mi disse una sera a cena Domenico Porzio, allora alto dirigente di Mondadori, che per il lancio di “Arcipelago Gulag” non trovava nessuno che lo recensisse); in una sua recensione a S., Fortini dice: “il discorso di S. è tutto neocristiano. Se ha ragione lui abbiamo sbagliato tutto”. E in effetti, è proprio così: lui e in generale i comunisti, ortodossi e no, hanno sbagliato tutto. Non nel senso che tutto ciò che hanno fatto è merda, ma nel senso che il celeberrimo fine superiore di riscatto dell’umanità eccetera, E’ SBAGLIATO, ripeto sbagliato. Mi dispiace, ma è andata così. E’ capitato altre volte ad altri, nella storia, farsene una ragione mai? Rivedere almeno le linee strategiche di fondo, no? Conservare i principi e le intenzioni, sì, ricascare negli stessi errori, per favore, no. Si possono anche fare sbagli diversi, santo Dio, un po’ di novità…
Ennio Abate
1.
Gli abbagli (che non sono solo quelli della sinistra o della “sinistra critica”) ci sono sempre stati, ma è bene confrontare abbagli e abbagli. «Asia maggiore» è un diario di viaggio del lontano 1956. (Per la precisione dell’aprile ’56, cioè prima dell’invio dei carri armati sovietici a Budapest, avvenimento che fece poi da spartiacque sia nella biografia di Fortini, il quale uscì dal PSI, che di molti altri intellettuali). Affermare, come fai, che Fortini «fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager» è ingiusto e scorretto. Ricorri pigramente ad un clichè propagandistico (”di destra”). Tanto più che, come esempio positivo, gli contrapponi « il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima». Io preferisco la ricerca della verità storica all’«uso pubblico della storia» dei mass media. Perché non è quasi mai liquidatoria né si permette giudizi definitivi. E spesso sa mettere in luce non solo gli orrori ma anche quel tanto di più vero e più giusto che i politici, la gente comune e gli intellettuali riescono a pensare e a fare nei loro anni di vita pubblica attiva.
2.
Fortini non fu un credulone. Fu uno dei pochi intellettuali che, assieme a Carlo Cassola, Curzio Malaparte, Carlo Bernari, Goffredo Parise, Giorgio Manganelli, Alberto Arbasino, Luigi Malerba, Alberto Moravia, prese sul serio la Cina maoista, quando essa era ancora ignorata e snobbata da quasi tutti. E al suo sguardo critico su quel Paese e su quella antica civiltà contribuì potentemente la sua amicizia e collaborazione con Edoarda Masi. Che, saggista e conoscitrice della Cina e della lingua cinese oggi del tutto dimenticata, seppe in «Per la Cina» riassumere in modi niente affatto apologetici la sua lunga esperienza delle cose cinesi, tenendo conto anche della svolta avvenuta tra la morte di Mao e la caduta della “Banda dei Quattro”.
3.
Certo, Fortini sperò molto sulla Cina e ne parlò come di un “paese allegorico” o la pensò come l’«altra faccia della luna» o, ancora, come un “paese del possibile” e vide «nei contadini cinesi non il passato, ma il futuro della liberazione degli uomini» (D. Santarone, Introduzione alla riedizione di «Asia maggiore», p. 13, manifestolibri, Roma 2007). Ma i suoi abbagli in parte erano inevitabili , non dovuti cioè solo all’ideologia o all’immaginario di partenza che sempre s’infiltrano anche nelle menti più lucide. Edoarda Masi, nella postfazione alla medesima riedizione di «Asia Maggiore», ricorda che, quando Fortini partecipò assieme a politici ed intellettuali vari (Calamadrei, Bobbio, Cassola, Trombadori, Musatti, Treccani, Antonicelli) a quel primo viaggio in Cina, organizzato dal Centro studi per le relazioni con la Cina di Ferruccio Parri : «il dopoguerra si era concluso da poco – i viaggi intercontinentali non erano frequenti per i comuni cittadini, specie verso l’Asia orientale (già muoversi per l’Europa aveva un carattere di esplorazione che i giovani d’oggi non saprebbero comprendere)». E poi opportunamente aggiunge: «Nel corso di viaggi brevi in paesi poco conosciuti esiste per tutti una difficoltà nella ricerca di un rapporto con le persone, che è inevitabilmente per gran parte immaginario. Il viaggiatore non sperimenta una convivenza ma solo incontri occasionali, dove ciascuno non è se stesso ma il ruolo che riveste. Allora al posto degli esseri viventi appaiono i tipi, i concetti o le figure – senza garanzia alcuna di corrispondenza col “reale” (se reale è – come io penso – unicamente il rapporto che intercorre fra l’uno e l’altro)» (p. 261 «Asia Maggiore»). Per cui alle «tentazioni dell’esotismo» (p. 262) fu soggetto anche Fortini e questo suo primo libro sulla Cina «riflette le condizioni e anche i limiti del tempo in cui è stato scritto: si trattava dei primissimi approcci con l’immenso paese e con la sua rivoluzione, non erano ancora emerse le differenze profonde dal socialismo dell’Unione Sovietica né le strategie divergenti all’interno del partito comunista» (p. 262).
4.
Troppo facile è oggi sbeffeggiare quel suo atteggiamento, che era di «simpatia vigile e critica» (p. 262). Bisognerebbe, invece, riconoscergli una grande capacità «a confrontarsi, a guardarsi dentro, a chiedersi chi si sia» in rapporto a quella realtà in gran parte tuttora ignota. C’erano nel suo sguardo due cose fondamentali: un’attenzione ammirevole all’umano nella sua concretezza e «l’opposizione al cinismo da classe dirigente che guarda dall’alto» (p. 263). Fortini sbagliò a cogliere «la grandezza di un comunismo nella gente ”tutta nata nuova”(come aveva scritto della Milano operaia del nostro dopoguerra)» che oggi pare del tutto fantasticato? Ma, nota sempre la Masi, in lui «allegoria non significa mancanza di attenzione ai fenomeni reali». Sono continui, infatti, «la cura e il tormento» per capire che cosa accadeva». Si rileggano, infatti, i saggi intitolati «Paesi allegorici» in «Questioni di frontiera», Einaudi, Torino 1977 e si noterà che, nel nuovo viaggio in Cina che fece nel 1973, partendo dalla consapevolezza che quanto avveniva in Cina allora riguardava « direttamente il resto del mondo, anche per quello che è della elaborazione teorica e della sperimentazione politico-sociale» (p. 265), aveva «capito perfettamente che la rivoluzione culturale era conclusa». Ebbe, cioè, «la dolorosa consapevolezza della trasformazione che era già in atto» e che «mirava a distruggere e a capovolgere quella immagine e quella realtà; non solo di un socialismo possibile, ma anche di una grande cultura ereditata dal passato e incompatibile con la mercificazione globale» (p. 265).
5.
È possibile – anzi oggi è diventata quasi di norma – rifiutare «la scelta primaria [di Fortini] di riconoscersi negli oppressi» in base alla sua convinzione etica e politica che « non si dà esistenza se non nella comunanza fra gli uomini». E questa sua opzione antindividualistica e antianarchica già allora era rifiutata da tanti. Ad esempio da uno stesso di quei primi viaggiatori in Cina, Carlo Cassola, che la Masi descrive come «renitente ad ogni seduzione» in nome del « diritto alla propria individualità separata». Ma scrivere come fa Buffagni: «uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra» significa ancorare il proprio giudizio esclusivamente ad un’ottica da «Libro nero del comunismo». Lo si può fare. Lo si fa. E tuttavia a quanti in quest’ottica si pongono ripeterei queste parole della Masi:
«A costoro va detto che non eravamo cretini né delinquenti, si conoscevano i mali del “socialismo reale” e li si denunciavano; e tuttavia dalle menti più alte del secolo, a cominciare da Lukács e da Brecht, avevamo imparato che non esiste una verità che non sia di parte. Nonostante i suoi mali, e combattendoli, non abbandonavamo la nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male e dove avrebbero portato il mondo, una volta lasciati a e stessi. Non sono scomparsi con la sconfitta di Hitler, come oggi si può constatare, nel nostro paese e per l’intero pianeta» (p. 264)
6.
Siamo storicamente determinati, non ci liberiamo del tutto dall’ideologia. E pertanto Fortini e gli altri scrittori che di Cina si occuparono non potevano neppure reagire come reagiamo noi adesso. O parlare, come possiamo fare noi adesso, che Stalin e l’Urss non ci sono più. Lo stesso Céline, che Buffagni preferisce a Fortini, non è affatto un esempio di scrittore antideologico o aideologico che fuoriesce da quel tempo: se poteva permetterci di dire cose che altri non dicevano era perché – ovviamente appellandosi al proprio libero pensiero – già si muoveva nell’alone dell’ideologia nazista, siano o no documentate le accuse che lo vogliono agente nazista in servizio (qui). Del resto, se uscissero adesso notizie negative su Putin o su Trump, i loro attuali simpatizzanti o seguaci o ammiratori come reagirebbero? Non avrebbero timori «PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso»? L’altra posizione possibile, rispetto a chi sceglie una parte, è non schierarsi: allora né con gli Usa né con l’Urss, oggi né con Trump né con Putin o con la Cina o altro. Con conseguenze che, in tutti i casi, andranno sempre pesate e non potranno mai essere giudicate innocenti rispetto a chi sceglie.
7.
Dunque, la posizione di Fortini sulla Cina, se sfuggiamo all’aritmetica del numero dei morti a cui una certa pubblicistica ha ridotto il discorso storico e ci ha negli ultimi tempi abituati, se non ci fermiamo all’aprile 1956 di «Asia maggiore», è, come detto, molto più mossa e articolata di come la presenta Buffagni. Tra i miei stralci di giornali ho conservato un articolo di Fortini. Era apparso su L’ESPRESSO del 31 agosto 1986 e s’intitolava Risposta a un ragazzo di oggi sugli anni del maoismo e sulla loro eredità. Fortini, ripercorrendo la propria biografia, vi sottolineava questi punti essenziali del suo giudizio: 1. «Mao divenne l’anti-Stalin anche quando recitava il rispetto alla memoria del georgiano»; 2. I maoisti italiani «più che da Mao erano stati sedotti dagli aspetti tra terrificanti ed incomprensibili della Rivoluzione Culturale»; 3. «il cosiddetto maoismo è teoria e pratica politica che si sviluppa lungo trent’anni di lotta e guerra, dal leninismo degli anni Venti alla costruzione del socialismo negli anni Cinquanta; e non soltanto nel decennio della rivoluzione Culturale e di un Mao ultrasettantenne». Su queste valutazioni bisognerebbe discutere e approfondire. Le sue, insomma, non erano posizioni da liquidare con un sorrisino di scherno. Specie se queste cose venivano dette e scritte in quel 1977, in cui ancora il PCI sembrava per moltissimi avviato a “farsi Stato”.
8.
Quanto a Solženicyn, ha fatto benissimo Buffagni a tirar fuori questo nome e ad associarlo a Fortini. Ma davvero è troppo sbrigativo sbandierarlo come una prova che « lui [Fortini] e in generale i comunisti, ortodossi e no, hanno sbagliato tutto». . Effettivamente, come ricorda Buffagni, Fortini scriveva:
«il messaggio che egli [Solženicyn] ci comunica è quello che più percettibile ci giunge e cioè di “opporre un “eternamente umano” alla disumanizzazione storica [che può dire qualcosa anche a questa nostra discussione, no?] ed una “libertà segreta” ossia etica o etico-religiosa (quella “libertà segreta” di cui parla tutta una tradizione slava, sulla scorta, credo, di Puškin; se l’ordine di valori che sembra essere il suo fosse quello della parte cosciente dei sovietici bisognerebbe concluderne che la rivoluzione socialista è fallita, fino ad oggi almeno, nel proposito di fondare rapporti tra gli uomini diversi e superiori a quelli della società capitalistica. Se per reagire alla menzogna sociale generalizzata che si fonda sulle parole marxiste è necessario proporre l’etica della sopportazione della storia [ e oggi della politica di Minniti, aggiungo] e della solidarietà generica («Una giornata di Ivan Denisovič ») e quella del «giusto» che salva il villaggio ( «La casa di Matrjona»), allora non era mestieri [1] un mezzo secolo di strage: e la nostra vita è stata inutile» (p.156).
Ma in questo saggio Fortini diceva anche altro ( e anche questo va benissimo per la nostra discussione) :
«Sempre più si viene estendendo una pratica, interessantissima nella sua ambiguità: quella di dimostrare che spesso, se non sempre, le posizioni conservatrici, negatrici della capacità dell’uomo di rendersi padrone o meno servo del proprio destino, celebratrici della sconfitta e della morte, dell’oscurità o della disperazione si rivelano sulla distanza più “progressive”, più “rivoluzionarie”, insomma più “vere” di quelle che progressive, rivoluzionarie e vere sembrano senza esserlo. Leopardi la vince sulle magnifiche sorti dei democratici, Cavour ha ragione contro Mazzini, Manzoni ha ragione su De Sanctis, e così via. Tutto questo, così espresso è insensato; ma ha almeno il grande vantaggio di far capire che uno sciocco, se dice le stesse cose d’una persona intelligente, non è per questo meno sciocco. E che nessun piccolo conservatore ha diritto di coprirsi coi panni di Leopardi; che nessun piccolo pessimista cattolico ha diritto di piangere sulla spalla di Alessandro Manzoni, che nessun Solženicyn ha ragione perché Dostoevskij aveva avuto ragione» («Question di frontiera, pag.157)
9.
E chi volesse avere la prova di quanto sia inconsistente la « supergiustificazione etica della sinistra garantita dal fine superiore e umano che essa persegue» (Buffagni) che giustificherebbe «ogni porcata» ( La Rivoluzione russa, la Resistenza, fu una «porcata»?)sia completamente assente in Fortini e in quanti hanno apprezzato il suo marxismo critico o il suo tentativo di essere comunista speciale è pregato di fare uno sforzo e leggere l’intero saggio su Solženicyn, che ho scannerizzato alla meglio e qui pubblico, non essendo accessibile sul Web
[1] necessario: e poscia morto, dir non è mestieri (DANTE Inf. XXXIII, 16-18)]
APPENDICE
Caro Ennio,
ho sempre rispettato, e letto con attenzione, Fortini. Non è che “preferisca Céline” a Fortini perchè Céline è dedestra e Fortini desinistra. Céline è un grande scrittore, Fortini no; ma qui la grandezza letteraria c’entra zero. Semplicemente, il Céline del viaggio in URSS era a) un anarchico b) un cinico o uno scettico, e alla luce del suo cinismo/scetticismo ha visto cose che altri suoi contemporanei, non meno intelligenti di lui, Gide per esempio, non hanno visto: vale a dire, il colossale dispotismo sovietico. Poi lo stesso cinismo/scetticismo lo ha guidato su posizioni politiche orripilanti, a dimostrazione del fatto elementare che se non basta essere benintenzionati per capire, non basta neanche essere cinici. Vedere le cose come sono è la cosa più difficile del mondo.
Fortini, intelligente lui pure, era però a) un comunista b) un uomo religioso, e quindi nella Cina comunista non ha visto il colossale dispotismo comunista cinese per il semplice motivo che non lo voleva vedere.
Ha visto problemi, ha visto difetti, ha visto limiti e ha visto colpe (le colpe ci sono dappertutto) ma il dispotismo cinese non l’ha visto. Tutto qui. Sono cose che capitano a tutti, quando si è affettivamente legati a qualcosa o qualcuno, capitano anche a me. Capitano più spesso quando la cosa o alla persona a cui siamo affettivamente legati riveste, per noi, un’importanza assoluta, totale, per dir così religiosa. Che sia la donna che facciamo oggetto del nostro Grande Amore, che sia l’ideologia politica o la religione a cui aderiamo con tutti noi stessi, ammettere che ci siamo sbagliati di fronte ai fatti che parlano chiaro e crudo è molto, molto difficile.
DA APPROFONDIRE
Nell’articolo di replica ho proposto vari ragionamenti e obiezioni che non vedo ripresi. Ma non importa. Non c’è nessun obbligo da parte tua a controbattermi analiticamente. (Suppongo che tu sia preso da altri impegni). Propongo però lo stesso (magari ad altri interessati a discuterne) queste nuove altre obiezioni:
1. “Céline è un grande scrittore, Fortini no”. E perché mai? Anche se è problema vastissimo, in base a cosa si misura la grandezza letteraria? (E poi se « qui la grandezza letteraria c’entra zero» (concordo), perché tirarla in ballo?).
2. Come mai Céline riusciva a vedere « il colossale dispotismo sovietico» ma, malgrado il suo apparente o non troppo coerente (per me) anarchismo, non quello nazista? È finito – per caso? – « su posizioni politiche orripilanti»?
3. L’epoca in cui Mao si contrapponeva all’Urss stalinista ( «Mao divenne l’anti-Stalin anche quando recitava il rispetto alla memoria del georgiano») era qualificabile come «dispotismo cinese» ?
4. «Vedere le cose come sono è la cosa più difficile del mondo» perché l’ideologia ma anche il legame affettivo-religioso appannano gli occhi di tutti. Qui siamo d’accordo. Ma, persistendo tale difficoltà di vedere «le cose come sono», le ideologie che gli uomini si trovano ad abbracciare e le stesse passioni da cui sono mossi non sono equivalenti. Rimandano a valori, che razionalmente – una razionalità che viene conquistata nell’esperienza e dunque non presupposta a priori – possono essere giudicati positivi o negativi da singoli e collettività. L’ideologia nazista è altra cosa da quella socialista e comunista. La passione di uno stupratore non ha niente a che fare con quella di un innamorato. Gli «abbagli» di Fortini non possono essere confusi con le “bagattelle”antisemite di Céline.
5. Se Fortini ha visto il fallimento della Rivoluzione culturale cinese e la fine dell’epoca di Mao non è – insisto – un «Alice nel paese delle meraviglie». Se, tuttavia, è rimasto comunista, come sottolinea la Masi «nonostante i suoi[dei partiti comunisti del suo tempo] mali, e combattendoli» e non ha abbandonato «la nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male», è – per me – preferibile a un Céline, che quegli « avversari e il loro orrendo male» ha servito. Anche se si dimostrasse che solo lui e non Fortini meriti la qualifica di «grande scrittore».
1. Céline è un grande scrittore perchè uno che scrive il “Voyage au bout de la nuit” è un grande scrittore e punto, qualunque cosa faccia o dica dopo durante o prima. Fortini è un grande critico letterario e un poeta (secondo me) mediocre. Essere un grande scrittore è più difficile che essere un grande critico, e la valutazione (almeno mia) non è tecnica e basta. Per scrivere qualcosa come il Voyage, non basta l’idea di riprodurre il parlato coi puntini di sospensione, bisogna anche essere, per così dire, un veggente. Essere un veggente presenta vantaggi e svantaggi. Nel caso di C., uno dei vantaggi della veggenza si illustra nella sua rapida intuizione “l’URSS è un dispotismo colossale che fa schifo”, intuizione che – si noti bene – egli deriva non da studi approfonditi, ma quasi soltanto dal rapporto che stabilisce con la ragazza che gli fa da interprete e guida. Uno degli svantaggi della veggenza, nel caso di Céline e non solo, è che a forza di guardare nel Buco Nero delle tremende schifezze che noi uomini ci facciamo reciprocamente, finisce per cascarci dentro (secondo me il nazismo di C. è un vaffanculo all’umanità in blocco).
2. Stupratore/Innamorato. La distinzione tra nazismo stupratore cattivo perchè male intenzionato/comunismo innamorato buono perchè bene intenzionato può anche stare vagamente in piedi sul piano delle psicologie individuali (fino a un certo punto). Non sta in piedi neanche un secondo sul piano razionale e politico, visto che in politica l’etica dell’intenzione non si applica. Anzi, semmai è peggio l’innamorato benintenzionato, perchè persuaderà più gente dei suoi progetti sballati e disastrosi.
3. Fortini giustifica la sua adesione al comunismo nonostante tutto perchè a) ha scelto una volta per tutte b) pensa che l’alternativa sia “comunismo o barbarie” per la lettura che dà del nazifascismo come effetto collaterale sempre possibile e in agguato del capitalismo (è la lettura comunista e azionista del fascismo). Quindi, per semplificare, o comunismo con tutti i suoi difetti, stermini e GuLag compresi, o nuove edizioni di Auschwitz. Secondo me è una lettura completamente sbagliata.
4. L’epoca in cui Mao si contrapponeva a Stalin sarà anche sembrata ai comunisti non superfan di Stalin un’epoca d’oro, ma in Cina il dispotismo c’era eccome, con stermini a freddo di milioni di persone, campi di concentramento, eccetera. E’ in quegli anni che Fortini è andato a farci un giro, e non ne ha visto una molecola (o non ha detto di averla vista, non so).
Una lettura che viene a proposito (fa parte di un commento all’Utopia di Thomas More):
http://www.fritzwagner.com/ev/thomas_more_and_murderous_idealism.html
SOLO SUL PUNTO 1
«Céline è un grande scrittore perchè uno che scrive il “Voyage au bout de la nuit” è un grande scrittore e punto, qualunque cosa faccia o dica dopo durante o prima».(Buffagni)
Ma a chi importa davvero, se non agli specialisti di letteratura, stabilire se uno scrittore è grande? Ammettiamo che queste classificazioni abbiano un senso. (Nel campo specifico ce l’hanno). E poi? La grandezza di uno scrittore è solo grandezza di uno scrittore. e basta. La posso riconoscere. Come posso riconoscere la grandezza di un assassino o di un dittatore. Ma il discorso non si chiude qui. Anzi si dilata da qui.
Perché la grandezza di per sé dovrebbe sottrarre i grandi (veri o presunti) al giudizio etico o politico? Perché a Céline, « qualunque cosa faccia o dica dopo durante o prima» della produzione della sua opera ( tutta o del Voyage) dovrebbero essere abbuonate le sue «posizioni politiche orripilanti»?
Ci sono «i fiori del male», ma chi subisce il male non può certo apprezzare i fiori. Non può certo godere dell’estetizzazione del male come possono fare certi (non tutti) gli spettatori o i lettori. Perciò non capisco il masochismo di chi Céline l’ammira come scrittore ( o grande scrittore) e sta al suo gioco (perverso).
La questione è per me fondamentale. Mi sono beccato anche accuse di zdanovismo per questa mia caparbiasottolineatura degli intrecci spesso torbidi tra opera d’arte e storia/ biografia. E ci tengo ad approfondirla.
Essendomi ricordato di aver già affrontato questa zona ambigua tra l’estetico, l’etico e il politico, aggiungo in Appendice una nota scritta ai tempi del “Laboratorio Moltinpoesia”. Allora si era partiti dai futuristi…
APPENDICE
A Giorgio Linguaglossa e a Lucio Mayoor (18 gennaio 2013)
Dai vostri graditi interventi ho la prova che il giudizio di Fortini sui futuristi è davvero un test per posizionarsi di fronte a una questione importante: quella del rapporto vita/poesia o storia/poesia o giudizio storico-politico/giudizio estetico.
Prima di replicare nel merito ad entrambi vorrei ricordarvi che, nel preparare questo post, ho faticato parecchio. C’era in me come una resistenza ad approvare in pieno il giudizio di Fortini (e di Mengaldo). Ho infatti stralciato dalla versione finale una lunga riflessione sull’attrazione che avevano avuto su me giovane i futuristi (soprattutto però i pittori come Boccioni e Balla più che i poeti, che, tranne Palazzeschi, non mi hanno detto granché) e le avanguardie del primo Novecento. Ho anche messo da parte un altro brano, in cui avevo toccato la questione del rapporto tra Gianpietro Lucini e i futuristi; e spiegavo perché nel post precedente me l‘ero sentita di distanziarmi dal giudizio di Fortini su Lucini; e perché, invece, in questo quello negativo riguardante i futuristi, coi ragionamenti che ho esposto, mi trovava d’accordo.
No, non mi sfugge «il carattere rivoluzionario del futurismo italiano». Tant’è vero che ho ricordato la posizione del giovane Gramsci. Ma come non vedere il risultato bellicista di quella « AVANGUARDIA TOTALE». Mica un incidente di percorso, eh! E solo separando – secondo me schizofrenicamente – le posizioni ideologiche e la poetica futurista, che sono *coerentemente* «nazionaliste, militariste, antiparlamentari, antisocialiste, favorevoli alla guerra, poi attivamente fasciste», è possibile rivalutare o lodare il futurismo, come fa Marcello Veneziani nel brano che lo riguarda; e sembra fare anche Giorgio Linguaglossa. Lui, contraddicendosi, però, a mio parere. Perché, a voler essere futuristi oggi, a voler riprendere la loro “lezione” ci si dovrebbe schierare con gli attuali Globalizzatori, gli unici e i veri eredi dei piccolo borghesi in bombetta del primo Novecento e che coinciderebbero proprio con quelli che Giorgio stesso ha spregiativamente definito «Ceto Medio Mediatico».
Non nego che l’argomento usato da Giorgio («quei piccoli borghesi in bombetta se erano reazionari in politica in letteratura (e nell’arte) furono dei rivoluzionari») abbia una sua forza. Ma è diventato un clichè. Quante volte gli intellettuali di sinistra ripetono il giudizio di Marx su Balzac (reazionario monarchico in politica, ma indagatore spietato e lucido della miseria morale e sociale della borghesia ottocentesca)? E quante volte si è discusso del caso di Céline in questi termini? Io pure ho usato a volte quest’argomento. Ma poi, riflettendoci meglio, mi pare che si perpetui un equivoco dannoso che è da chiarire.
Mi chiedo infatti: davvero non c’è nessun rapporto tra vita (in cui vanno comprese anche le idee, le ideologie, le poetiche) di un autore (nel caso i futuristi) e opera? Davvero nulla di quell’essere cattolici, comunisti, fascisti, nazisti ecc. entra nel testo o nell’opera prodotta? Davvero tutto il marcio, lo sporco, l’oscuro della storia collettiva e individuale, si brucia, si purifica, si sublima? Davvero, insomma, l’opera riscatta totalmente un autore?
Se si risponde sì, si cade in un paradosso: si verrebbe a dire che un artista (geniale ovviamente, no?) vale sempre indipendentemente dalle idee che sostiene, dalle scelte etiche e politiche che fa, dalle poetiche che propugna (e Marinetti è stato un teorico ed un manager della letteratura coi fiocchi…). Conclusione mia: ma allora perché impegnarsi nella critica? Non avrebbe senso. Avrebbero ragione tutti quelli che la riducono a chiacchiera e presentano la poesia o l’arte come un “miracolo”, che avviene per vie mai intraviste dai critici o dai comuni mortali.
Se, invece, pur riconoscendo che un’opera non è mai riducibile alla ideologia dell’autore, alla sua biografia, alla sua psicologia, alla sua poetica, ma si nutre di tutto ciò e lo *digerisce* e lo restituisce in una *forma*, che però – interrogata e ben indagata dal lettore ingenuo come dal critico più esperto – mostra tutte le tracce di quella “materia di partenza” e le mostra nella lingua che ha selezionato l’autore e alla quale ha dato il suo stile (o non-stile, quando ci riferiamo alle avanguardie…), arriviamo a ben altra conclusione. Diciamo, cioè, che quella *forma* è storica ( e mai così completamente universale, come si dice…); e che mantiene anche nella *forma* qualcosa della storia del suo tempo e delle sue “sporcizie” (l’antisemitismo di Céline o il bellicismo imperialista fascista per Marinetti, per fare due esempi). E che noi non possiamo, non dobbiamo assolvere e sorvolare usando l’aspersorio dell’estetica.
Certo che dal “letame” futurista sono usciti anche i Govoni, i Lucini, i Palazzeschi, ma non accetto chi dice che in quelle opere non si senta proprio nulla dell’odore (o puzzo) di quel letame. Il futurismo è stato “rivoluzionario”, certo. Ma bisogna specificare che è stata una rivoluzione dall’alto e non dal basso (perciò ho riportato la posizione di Gramsci…).
Infine, per rispondere a Mayoor, credo che anche lui cada nell’errore di separare troppo drasticamente storia e arte. Esse vanno distinte, ma non separate. Per cui non riesco ad accettare la sua opinione che il futurismo « esteticamente resta un valido precedente, un insegnamento per chi se la sentisse ancora di evadere». Quel risultato estetico – ripeto – non può essere separato disinvoltamente (come fa Marcello Veneziani, ma temo anche Linguaglossa…) dal “letame” del primo Novecento. Nessuno sconto ai futuristi ( come ad altri autori o movimenti, anche di segno politico diverso…). Il che non significa che non abbiano avuto dei meriti, come riconoscono in modi propri sia Fortini che De Chirico.
@ Ennio. Mi colpiscono alcune frasi che usi. “La grandezza di uno scrittore è solo grandezza di uno scrittore, e basta. La posso riconoscere. Come posso riconoscere la grandezza di un assassino o di un dittatore. Ma il discorso non si chiude qui. Anzi si dilata da qui […] Ci sono «i fiori del male», ma chi subisce il male non può certo apprezzare i fiori. Non può certo godere dell’estetizzazione del male.“
Cosa vuol dire grandezza di uno scrittore? può essere trattata in termini di estetizzazione? Se l’arte è conoscenza l’estetizzazione non la riguarda.
“Davvero non c’è nessun rapporto tra vita (in cui vanno comprese anche le idee, le ideologie, le poetiche) di un autore (nel caso i futuristi) e opera?”
L’arte come conoscenza si stacca dalla vita, è conoscenza di altro, di nuovo, va più avanti della vita, non c’è quel rapporto di derivazione/filiazione, come sarebbe che la sovrastruttura ha radici nella struttura.
“Lo *digerisce* e lo restituisce in una *forma*, che però – interrogata e ben indagata dal lettore ingenuo come dal critico più esperto – mostra tutte le tracce di quella ‘materia di partenza’”. Con queste parole si delinea un processo digestivo, l’autore assimila, e poi restituisce l’opera artistica, come fosse un escremento di cui il critico, analizzando, può individuare i materiali da cui è composto.
Usando le espressioni “si brucia, si purifica, si sublima”, invece del processo digestivo si impiega l’analogia con un processo alchemico, in cui le sostanze più pesanti si trasformano in quelle più nobili.
Ma nulla di tutto questo, l’arte/conoscenza, è un nuovo che si aggiunge; neanche è calzante impiegare la categoria di miracolo: non si tratta di transustanziazione ma di emergenza, di aggiunta di ciò che non c’era. Céline dà una visione della realtà che prima non esisteva, di cui egli è veicolo. Le sue convinzioni politiche sono il suo cinismo, l’umor nero, ma l’occhio vede.
@ Cristiana
Tu sostieni che « l’arte è conoscenza l’estetizzazione non la riguarda» o che «l’arte come conoscenza si stacca dalla vita, è conoscenza di altro, di nuovo». Non siamo anche su questo argomento d’accordo.
Il senso delle mie critiche a Buffagni a proposito di Céline va nella direzione opposta e mi pare chiaro: produrre anche un capolavoro letterario, pittorico, ecc. non assolve il suo autore dai danni che in vita lui ha potuto arrecare ad altri commettendo delitti o incoraggiando a commetterli. E un’opera d’arte non è mai totalmente staccabile dal “resto” (chiamalo: vita, sociale, materia, ecc.).
Per rafforzare questa mia opinione ho posto in Appendice la mia vecchia replica a Linguaglossa e Mayoor del 2013, che forse la pensavano o pensano come te: «mantiene anche nella *forma* qualcosa della storia del suo tempo e delle sue “sporcizie” (l’antisemitismo di Céline o il bellicismo imperialista fascista per Marinetti, per fare due esempi). E che noi non possiamo, non dobbiamo assolvere e sorvolare usando l’aspersorio dell’estetica.».
Aggiungo che, anche se le mie critiche all’arte non coincidessero in pieno con quelle di Walter Benjamin, tengono presente la sua amara riflessione: il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca «ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore . Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie” (W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6).
Due noterelle.
1) Dissento radicalmente dall’idea che il giudizio su uno scrittore, un artista, un filosofo o un pizzaiolo si possa e debba fare in base al criterio progressivo/reazionario. E’ un criterio ideologico, totalmente sballato, che implica una serie di persuasioni da me non condivise: per esempio che oggi è meglio di ieri e peggio di domani, che la storia è storia del progresso umano e/o che è orientata verso un passaggio qualitativo a superiore condizione dell’umanità, tipo il comunismo, il nazismo (pure il nazismo pensava a un “uomo nuovo” creato dal Reich Millenario, può non piacere ma è così), il liberalismo (governo pacifico mondiale, transumanesimo) e sgg.
Non condivido neanche il pathos gnostico di Benjamin. Dire che il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca «ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore . Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie” ha senso solo se si pensa, come Benjamin pensava, che si possa e quindi debba eliminare il male dal mondo.
Che di male nel mondo ce ne sia non c’è il minimo dubbio, ce n’è tantissimo e guardarlo effettivamente sgomenta o peggio. Dire che le opere d’arte sono colpevoli perchè invece di eliminare il male dal mondo facendo la rivoluzione si limitano a essere opere d’arte è un’affermazione che dimostra soltanto una cosa: che si possono dire scemenze anche essendo molto intelligenti, specie se si è accecati da un’ideologia.
Il male dal mondo non lo eliminerà mai nessuno, in particolare non lo elimineranno ma lo accresceranno quelli che si autoeleggono a eliminarlo. Quando Lenin dice che non può ascoltare il suo musicista preferito Beethoven perchè gli fa passare la voglia di fare la rivoluzione illustra solo una cosa: che se avesse ascoltato Beethoven e magari anche Schubert invece di fare la rivoluzione per redimere l’umanità (che non gli ha mai chiesto di essere redenta da lui) avrebbe reso un segnalato servigio a tutti, se stesso compreso.
Se uno vuole eliminare il male dal mondo cominci a eliminare il male che ha dentro, e troverà pane per i suoi denti.
2) Certo che la vita e il pensiero di un autore c’entrano con la sua opera. Nel caso di Céline, il mio pensiero è il seguente: se i resistenti francesi lo avessero beccato e fucilato dopo la guerra, se lo sarebbe meritato e non avrei niente da ridire. Resta il fatto perentorio che il Voyage è un’opera d’arte di grande valore, e non lo è per ragioni esclusivamente tecnico-letterarie, posto che il giudizio su un’opera si possa dare così (secondo me no, altrimenti Gadda o Joyce sarebbero più grandi di Dante o Dostoewskji). E’ un’opera di grande valore perchè fa vedere con straordinaria perspicuità un aspetto del mondo reale a lui (e a noi) contemporaneo che nessuno era riuscito a vedere e mostrare così plasticamente. L’aspetto del reale che Céline coglie nel suo e nostro mondo è, per farla molto ma molto corta, proprio il male. Non il male generico o astratto, ma il male concreto e vivente e individuato, con nome, cognome, codice fiscale, giorno mese ora e minuto. Secondo me (mi posso sbagliare) l’adesione al nazismo di Céline si spiega psicologicamente proprio così, come reazione allo scandalo del male, come vaffanculo all’umanità in blocco (“Siete/siamo delle merde, non vi meritate di meglio del nazismo, che se non altro sa come trattarvi”). Un’altra reazione possibile allo scandalo del male è volere la palingenesi+ redenzionequi ed ora, come Benjamin la fantastica dal comunismo; o raccontarsi che da tutta l’enormità del male – “la potenza del Negativo” di Hegel -per qualche miracolo dialettico scaturirà il Bene, il regno dello Spirito, l’accordo unanime dell’umanità pacificata, e altre pericolose cantafavole.
Sono reazioni comprensibili, però sono reazioni sbagliate, e che siano sbagliate si vede chiaro nelle conseguenze pratiche che hanno.
@ Roberto Buffagni
Pazienza per il dissenso. È nel conto tra noi. Ma ho davvero sostenuto le cose da cui dissenti? A me, invece, paiono illazioni o deduzioni un po’ stirate che ricavi dalle mie parole.
Infatti, non ho detto che:
1.
l’opera di uno scrittore ( o artista, ecc) vada giudicato « in base al criterio progressivo/reazionario».
(Tra l’altro ho ricordato il giudizio positivo (!) di Marx su Balzac: reazionario monarchico in politica, ma indagatore spietato e lucido della miseria morale e sociale della borghesia ottocentesca. E aggiunto: « E quante volte si è discusso del caso di Céline in questi termini? Io pure ho usato a volte quest’argomento». Dal quale – è vero – mi distanzio ma non per abbracciare – come affermi – il « criterio progressivo/reazionario»);
2.
«la storia è storia del progresso umano e/o che è orientata verso un passaggio qualitativo a superiore condizione dell’umanità».
(In tutto il commento a «Comunismo di F. Fortini» non ho mai parlato di rivoluzione come eliminazione del «male dal mondo», ma fino alla noia ho insistito – condividendo la posizione di Fortini, ovvio – che comunismo è solo la « POSSIBILITÀ (QUINDI SCELTA E RISCHIO, IN NOME DI VALORI NON DIMOSTRABILI) CHE IL MAGGIOR NUMERO DI ESSERI UMANI – E, IN PROSPETTIVA, LA LORO TOTALITÀ – PERVENGA A VIVERE IN UNA CONTRADDIZIONE DIVERSA DA QUELLA OGGI DOMINANTE»),
3.
« le opere d’arte sono colpevoli perché invece di eliminare il male dal mondo facendo la rivoluzione si limitano a essere opere d’arte», che è, sì, scemenza e nulla più;
4.
« un’opera d’arte di grande valore […] lo è per ragioni esclusivamente tecnico-letterarie».
Ora aggiungerei:
5.
Accantoniamo – non ho tempo per approfondire – la questione se Benjamin pensasse veramente che «si possa e quindi debba eliminare il male dal mondo» e chiediamoci: per approvare la sua (per me) condivisibile denuncia della contraddittoria e intollerabile (sempre per me) coabitazione della « fatica dei grandi geni» con «la schiavitù senza nome dei loro contemporanei»sottolineata da Benjamin, si deve condividere automaticamente e per forza il suo «pathos gnostico»?
6.
Meglio sorvolare sulla battuta – spia però di una tua visione idealistica dell’arte – su Lenin che, se avesse appena un po’ di più “goduto” della musica di Beethoven, avrebbe perso « la voglia» [!] di fare la rivoluzione» e, cent’anni dopo, ci avrebbe risparmiato anche queste nostre diatribe.
7.
Ho sostenuto che, pur essendo il Voyage opera di valore ( grande o meno grande a me interessa di meno), non « non assolve il suo autore dai danni che in vita lui ha potuto arrecare ad altri commettendo delitti o incoraggiando a commetterli». (E mi pare che qui ora concordiamo, dato che scrivi: « se i resistenti francesi lo avessero beccato e fucilato dopo la guerra, se lo sarebbe meritato e non avrei niente da ridire».
8.
Non concordo, invece, sulle ragioni della tua valutazione positiva del Voyage. Secondo me, quello che Céline ha mostrato «così plasticamente» non è me «il male» o « il male concreto e vivente e individuato, con nome, cognome, codice fiscale, giorno mese ora e minuto», che tu in tante altre occasioni di confronto che abbiamo avuto anche tendi sempre a riportare ad una sua dimensione che a me pare “naturale” e astorica, ma la crudezza di rapporti sociali capitalistici reificati filtrati dall’occhio lucido e cinico di un io anarchico particolare (e, come ho detto, niente affatto a-ideologico!).
9.
Con lucidità del Voyage parlò Massimo Raffaeli proprio su LPLC (http://www.leparoleelecose.it/?p=2395) riepilogando e aggiornato anche il dibattito critico su Céline. E voglio riportare due passi chiarificatori del suo articolo, che dicono meglio di quanto sappia fare io certe cose ma convergono, nella sostanza, coi veloci giudizi che ho finora espresso:
9.1.
« A proposito di Louis-Ferdinand Céline – grande artista e immondo razzista – uno dei maggiori critici del secolo scorso, Cesare Cases, ne parlava come di qualcuno da stampare la mattina e da fucilare nel primo pomeriggio. Cases riteneva Voyage au bout de la nuit il maggiore romanzo del Novecento né si asteneva, lui ebreo, da un’aperta ammirazione per la musica scrosciante di Bagatelle per un massacro, laddove appunto la parola «ebreo» gli sembrava riassumere, virata nei colori del risentimento e di un odio allucinante, non tanto un popolo e la sua storia quanto gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica (denunciata in Voyage e Mort à crédit) e cioè l’imperio del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e, sia pure per tutt’altra via, la stessa Unione Sovietica. Ne faceva un caso di anticapitalismo romantico, efficace nell’additare il male e tuttavia così incapace di coglierne la dialettica da poter scambiare il risultato di un processo storico per la fissità di un dato antropologico, anzi ontologico, come Cases in persona avrebbe ricordato al pudibondo, e presunto nouveau philosophe, Bernard-Henri Lévy in un memorabile corsivo (su «L’Espresso» del 5 ottobre 1981) opportunamente intitolato Puah, questi maestrini del pensiero. La polemica era sorta riguardo alla pubblicazione da Guanda proprio di Bagatelle per un massacro nella netta e integrale versione di un poeta allora molto giovane, Giancarlo Pontiggia, e con la prefazione di un altro céliniano di lungo periodo, Ugo Leonzio: non appena appiccato il fuoco di paglia sui giornali, il libro venne ritirato per l’espressa volontà e l’azione legale intentata dalla vedova Lucette Almanzor, la leggendaria «Lili» della Trilogia tedesca.»
9.2.
« Chi viceversa non ne ascrive il collaborazionismo e l’antisemitismo a un caso, come diceva il vecchio Bebel, di socialismo degli imbecilli o tanto meno ad una congiuntura occasionale, è un eccellente storico delle idee, Francesco Germinario, che in Céline. Letteratura, politica e antisemitismo non solo ne valorizza i tratti, sia pure desultoriamente, militanti, ma ne sottolinea la contiguità all’ideologia nazista (un «comunismo per ariani» di contro al «socialismo kasher») per la costante rivendicazione di una società organica in quanto pre-borghese e pre-moderna, refrattaria a qualsiasi accezione di eguaglianza che non derivi dallo jus sanguinis: una posizione totalmente anti-illuminista e di riflesso anti-americana e anti-bolscevica. Persuaso che la musica di Bagatelle non trascenda una materia tanto scabrosa ma ne sia, all’opposto, l’unica possibile, Germinario rovescia l’intuizione di Cases (mai citato peraltro nel suo studio) mantenendone comunque i dati essenziali: «i pamphlet antisemiti permettevano a Céline di fornire una risposta storicamente diversa alle cause della miseria sociale. Era una risposta che spostava l’origine delle cause dal piano dell’immanenza (l’inclinazione umana a provocare il male nell’altro) a quello della storia, individuando, per un verso, nei piani segreti dell’ebraismo la causa delle sofferenze degli uomini; e per l’altro verso, prospettando anche una soluzione storico-politica ai problemi della miseria e della povertà».»
10.
Infine, per continuare l’approfodimento, sarebbe bene cogliere analogie e differenze tra questa mia affermazione:
« Lo stesso Céline, che Buffagni preferisce a Fortini, non è affatto un esempio di scrittore antideologico o aideologico che fuoriesce da quel tempo: se poteva permetterci di dire cose che altri non dicevano era perché – ovviamente appellandosi al proprio libero pensiero – già si muoveva nell’alone dell’ideologia nazista, siano o no documentate le accuse che lo vogliono agente nazista in servizio»
la tua:
«« Secondo me (mi posso sbagliare) l’adesione al nazismo di Céline si spiega psicologicamente proprio così, come reazione allo scandalo del male, come vaffanculo all’umanità in blocco (“Siete/siamo delle merde, non vi meritate di meglio del nazismo, che se non altro sa come trattarvi”)»
e questo brano sempre dell’articolo di Raffaeli che, riportando uno studio di Patrizio Paolinelli, dice:
« Céline non era un autore di interventi ideologici: restava uno scrittore di partiture letterarie che all’ideologia semmai, confusamente e contraddittoriamente, ambiva. Ciò non toglie nulla alle sue gravi, talora inespiabili, responsabilità etiche e politiche; ma nemmeno dimostra sia mai esistito un Céline in camicia bruna, pure se il dottor Louis-Ferdinand Detousches l’avrebbe indossata volentieri. Perché Céline non era Brasillach e nemmeno il suo intimo amico Lucian Rebatet, firmatario di un grande romanzo (Le deux étendards, Gallimard 1951), caporedattore di «Je suis partout», cacciatore di ebrei e di resistenti, autore del più grande caso letterario dell’Occupazione, (Les décombres, proibito in Francia dal ’45) che uscì il giorno della Rafle al Velodromo d’Inverno mentre lui ne autografava le copie in una libreria dei Campi Elisi»
Precisazioni rapide.
1) Quello che dico io: “il male concreto e vivente e individuato, con nome, cognome, codice fiscale, giorno mese ora e minuto» è = a quello che dici tu: “la crudezza di rapporti sociali capitalistici reificati filtrati dall’occhio lucido e cinico di un io anarchico particolare”. Certo che sono “i mali del capitalismo”, in particolare i mali del capitalismo fordista che C ci racconta. La differenza di fondo tra il tuo e il mio pdv è la seguente: che per me dal fatto che il capitalismo produca tanti mali NON consegue che eliminando il capitalismo i tanti mali scomparirebbero e si sarebbe tutti più buoni. In particolare dissento radicalmenet che si possa costruire una società, comunque denominata (comunista, utopica, marziana) nella quale sia facile essere buoni.
2) Aideologico, nel senso di privo di alcun pregiudizio, nessuno lo è. Nel caso di C, la mia (personalissima, impressionistica) idea su come sono andate le cose con la sua conversione al nazismo etc. è la seguente. Quando è uscito il Voyage, nella Francia del Fronte popolare, è stato accolto dalla sinistra intellettuale di allora come una grande opera anticapitalista (lo è). Si capiva che C non era un comunista, ma come nel caso del primo Brecht, i powers that be della sinistra intellettuale si dicevano, “è solo questione di tempo e ce lo tiriamo dalla nostra, in ogni caso lavora per noi”(perchè anticapitalista, antitutto). C però era un anarchico, proprio nel senso “da bar” che dice giustamente più sotto Luca Ferrieri, vale a dire che era totalmente, ontologicamente insofferente di qualsiasi autorità, ufficialità, eccetera, e NON ha voglia di farsi cooptare dall’ufficialità, per quanto desinistra. Arriva il viaggio in URSS per spendere i rubli inconvertibili del Voyage. C parte con il sospetto incorporato, trova conferma, coglie l’occasione per rompere definitivamente con la sinistra ufficiale e farsi ostracizzare (aveva anche la passione dell’ostracismo). Poi viene il resto. Ripeto, secondo me vaffanculo all’umanità in blocco. Poi i detriti ideologiche che ricicla per motivare il vaffanculo sono quelli del positivismo e dell’eugenetica ottecenteschi in cui è stato educato.
3) Benjamin etc. Dico pathos gnostico perchè lo è (se non è gnostico Benjamin nessuno lo è, è una descrizione e non un deferimento alla Santa Inquisizione, non sono Torquemada). “L’orrore del mondo”, che è una cosa diversa da “l’orrore NEL mondo”, è un’immagine che lo perseguita, come perseguita la sua contemporanea Simone Weil. Se ti perseguita abbastanza e sei coerente le strade sono due: dall’orrore del mondo o esci tu, per esempio suicidandoti con l’endura catara come la Weil, oppure evochi o invochi Qualcosa o Qualcuno in grado di operare una palingenesi radicale, tipo per es. la Rivoluzione con parecchie maiuscole. L’interesse di B per il rapporto tra teologia e rivoluzione viene di lì, ed è molto azzeccato, basta leggere il suo lavoro sul Trauerspiel per constatarlo.
L’idea della Rivoluzione come volontà di palingenesi che reagisce “all’orrore del mondo” è il marchio di fabbrica della gnosi moderna, politica. La gnosi antica si limita alla nostalgia per il Dio Nascosto e alla ricerca di una via d’uscita da questo, che è il mondo del falso dio malvagio e dell’Orrore.
So bene che non siamo d’accordo, altrimenti non avrei scritto la mia nota dell’1 settembre. Nei due esempi che tu ora fai, Céline “mantiene anche nella *forma* qualcosa della storia del suo tempo e delle sue ‘sporcizie’” e, richiamando Benjamin, “il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore” tu non parli dell’opera, ma della forma, e del patrimonio di un’epoca.
E’ invece chiaro che io guardo all’opera, al lavoro singolo, e al suo significato per chi la raggiunge, se ne vale la pena (qui farò entrare la teoria estetica). Potrò scartare tutto lo scartabile, le sporcizie del singolo, dell’epoca e delle condizioni di privilegio in cui l’artista sempre opera. Ma l’opera, come la vita, aggiunge sempre qualcosa che prima non c’era, eccede, è un novum che è nato, come ogni creatura non è suo padre e sua madre ma un terzo sorprendente e irriducibile ai primi due. In questo senso è conoscenza, realtà che prima non aveva esistenza.
p.s. il commento precedente è in risposta a Ennio, postato male.
Per comodità risponderò per punti.
1. Ennio: *La grandezza di uno scrittore è solo grandezza di uno scrittore, e basta. La posso riconoscere. Come posso riconoscere la grandezza di un assassino o di un dittatore. Ma il discorso non si chiude qui. Anzi si dilata da qui […] Ci sono «i fiori del male», ma chi subisce il male non può certo apprezzare i fiori. Non può certo godere dell’estetizzazione del male*.
Risposta: Ma nemmeno si può banalizzare!
Mettere assieme scrittore, assassino e dittatore mi sembra un po’ una forzatura che utilizza criteri più di tipo quantitativo che qualitativo e rischia, facendo di ogni erba un fascio, di portare discredito a quello che può caratterizzare nello specifico il lavoro mentale dello scrittore e del come questo lavoro viene tradotto nella comunicazione reale. Che appartiene ad un ordine di grandezza di tipo diverso da quello sia dell’assassino che del dittatore. E che ha anche funzioni ben diverse!
Inoltre, l’espressione *subire il male* non può essere generalizzata: basti solo immaginare quale differenza intercorra fra subire violenza da un familiare, da un amico oppure da un estraneo. Così come ‘morire per una causa giusta’ (e qui si aprirebbe un discorso lunghissimo su chi stabilisce la giustezza della causa), e morire per una banale distrazione da parte di incompetenti, ad esempio di governanti che non sanno governare, è tutt’altra cosa! Ma non ci si può fermare al ‘subire’: è importante poter elaborare.
2. Ennio: *Davvero nulla di quell’essere cattolici, comunisti, fascisti, nazisti ecc. entra nel testo o nell’opera prodotta? Davvero tutto il marcio, lo sporco, l’oscuro della storia collettiva e individuale, si brucia, si purifica, si sublima? Davvero, insomma, l’opera riscatta totalmente un autore?*
Risposta: La domanda è pleonastica! Siamo figli non solo del nostro tempo ma anche delle nostre convinzioni/ideologie. Ma qui sta la differenza tra l’artista e l’autore (anche pregevole) di opere. Che è la stessa differenza fra chi ha talento e chi ha tecnica.
L’artista possiede una capacità particolare (che non ha nulla di miracoloso, ma è come chi è dotato di una bella voce o di un talento musicale): cogliere quelle connessioni, quei nessi ‘impliciti’ presenti nella realtà, ma che non sono ancora apparsi alla consapevolezza. Assomiglia molto all’intuizione. Invece è qualche cosa di più, nel senso che l’intuizione prelude ad una successiva visione strategica (la ricerca del “come volevasi dimostrare”, ad esempio), mentre l’altro contatto appartiene all’esperienza tragica dell’abbagliamento che porta alla cecità, così come il mito ci racconta la storia di Tiresia in cui morire e conoscere si intersecano. O come Cassandra: vedere e non essere creduti. Accostarsi al sublime è avvicinarsi all’orrendo che affascina, come camminare sull’orlo dell’abisso: si può esserne sempre risucchiati. E non sempre è facile dire quanto si è sperimentato!
Non si tratta, quindi, di nessuna *purificazione*, di nessun *riscatto*.
Eppure questo principio (*l’opera riscatta totalmente un autore*) viene applicato volta per volta ai ‘nostri’ autori di ‘elezione’, mentre altri ne vengono esclusi. Invece, se dovessimo seguire il principio di unità uomo-opera, quanti ne dovremmo cassare dal nostro Pantheon, ivi compresi anche Marx ed Engels che non erano certo ‘fiore da ostie’ quanto a rapporti socio-affettivi! D’altronde, predicare bene e razzolare male non è mai stata una novità fin dai tempi dei farisei.
3. Ennio: *Perciò non capisco il masochismo di chi Céline l’ammira come scrittore ( o grande scrittore) e sta al suo gioco (perverso)*.
Risposta: Ammirare qualcuno per le sue capacità (quale che sia l’espressione, artistica, politica, di comando) non significa stare al gioco (perverso).
Posso ammirare i lavori di Picasso, i suoi ‘dissezionamenti’, ma mantengo delle perplessità circa il transfert che da lui veniva fatto, nelle sue relazioni, dal registro simbolico a quello reale.
E questa perplessità la sento ogni qualvolta percepisco un travaso che coinvolge questi due mondi.
Certamente sarebbe tendenzioso affermare che *produrre anche un capolavoro letterario, pittorico, ecc. [assolva] il suo autore dai danni che in vita lui ha potuto arrecare ad altri commettendo delitti o incoraggiando a commetterli* (Ennio).
Ma allora perché rimarcarlo? Perché la paura che sia l’ideologia a muovere le osservazioni altrui sta sempre alle calcagna.
Però questo ci spinge ad entrare in un campo minato in cui non sappiamo né dove né di chi sono le mine.
La conclusione sarebbe che nessuno può essere assolto quando, abusando del proprio potere (di conoscenza, di competenza, di familiarità, di ideologia cattivista, buonista o rivoluzionaria (?!) che sia) trascina gli altri a commettere soprusi e delitti. Di qualsiasi genere, anche manipolativi! Ma chi giudica chi? Quali sono i ‘cattivi maestri’? E a detta di chi? Della realtà? Ma quale?
Facciamo un esempio in corpore vili: se io affermassi pubblicamente che forse sarebbe importante approfondire il senso dell’antisemitismo di Céline, o perché mai abbiamo continuamente bisogno di confinare l’*orrendo male* fuori la portata del discorso utilizzando un’ampia gamma di modalità difensive che vanno dalla sollecitazione emotiva (esorcizzare) a quella razionale (l’ossessione che tracce di questo Male si nascondano ovunque), sarei immediatamente tacciata di connivenza con il “Male che più Male non si può”, e sarei espulsa (a dire poco!) dal circolo dei benpensanti!
Perché, appunto, da una parte ci sta il Male e dall’altra il Bene.
4. Ennio: * Se Fortini ha visto il fallimento della Rivoluzione culturale cinese e la fine dell’epoca di Mao non è – insisto – un «Alice nel paese delle meraviglie». Se, tuttavia, è rimasto comunista, come sottolinea la Masi «nonostante i suoi[dei partiti comunisti del suo tempo] mali, e combattendoli» e non ha abbandonato «la nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male», è – per me – preferibile a un Céline, che quegli « avversari e il loro orrendo male» ha servito. Anche se si dimostrasse che solo lui e non Fortini meriti la qualifica di «grande scrittore».
Risposta: Ma che principio è mai questo che privilegia lo stare *dalla nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male*?
Che dire allora della “caccia alle streghe”, in America, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale per contenere l’orrendo “pericolo rosso” e le liste di proscrizione che ne seguirono?
Quale senso politico dare a questa formula “o con me o contro di me”?
Qual è il principio superiore (se c’è) che mi autorizza ad essere io – e solo io – l’ago della bilancia?
5. Ennio: *Il futurismo è stato “rivoluzionario”, certo. Ma bisogna specificare che è stata una rivoluzione dall’alto e non dal basso*.
Risposta: Ma certe ‘rivoluzioni del pensiero’ (e dei cambiamenti sociali) non sono necessariamente legate al luogo (‘alto’ o ‘basso’) da cui proviene la spinta bensì ad una particolare contingenza storica (magari suffragata da un supporto teorico) che ne costituisce la sua specifica ‘ragion d’essere’ o innervatura (vedi, ad esempio, i tre momenti del processo rivoluzionario in Russia, 1905 e febbraio e ottobre del 1917).
Il punto, quindi, non riguarda l’osservazione se viene dal basso o dall’alto, ma in che contesto si colloca: perché, nell’analisi, non è sempre facile capire se assistiamo a cambiamenti legati alla governabilità (e quindi ci può essere il solo cambio della guardia) oppure cambiamenti di potere.
R.S.
@ Rita Simonitto
1.
Ho parlato di masochismo nel caso di *certi* ammiratori di Céline (e di altri autori), perché molti lo vedono come uno che, grazie alla sua presunta capacità di essere a-ideologico, avrebbe avuto il coraggio di dire « le cose come sono». L’ha sostenuto anche Buffagni esaltando questa sua lucidità rispetto alla cecità di Gide verso l’Urss o agli abbagli di Fortini verso la Cina di Mao. Per me, come ho scritto, « se poteva permettersi di dire [sull’Urss] cose che altri non dicevano era perché – ovviamente appellandosi al proprio libero pensiero – già si muoveva nell’alone dell’ideologia nazista».
E vedi che stanno « al suo [di Céline] gioco (perverso)» proprio quelli che non ritengono per nulla importante « approfondire il senso dell’antisemitismo di Céline». Sono costoro i «benpensanti» d’oggi, che passano addirittura per anticonformisti. Sono essi che, come tu scrivi, confinano «l’*orrendo male* fuori la portata del discorso utilizzando un’ampia gamma di modalità difensive». Tra le quali l’argomento che lui, Céline, certe cose poteva “permettesele” perché era un Grande Scrittore.
2.
Ed è contro questi odierni benpensanti che ho stabilito una qualche analogia tra le varie tipologie di Grandi. Per una insofferenza, che spero non solo mia, a partecipare al Campionato della Grandezza. E perché temo l’effetto soporifero, ipnotizzante e gregarizzante dei cosiddetti Grandi. Specie di quelli celiniani (o nicciani). E aggiungerei, visto che li evochi, anche dei “camminatori sull’orlo dell’abisso”. Né mi piacciono i Pantheon, compresiquelli che raccolgono i «nostri” autori di ‘elezione’». Insomma diffido in generale dell’ammirazione.
3.
Riconfermo, invece, quanto ho scritto: «Se, tuttavia, Fortini è rimasto comunista, come sottolinea la Masi «nonostante i suoi[dei partiti comunisti del suo tempo] mali, e combattendoli» e non ha abbandonato «la nostra parte perché si conoscevano chi erano gli avversari e il loro orrendo male», è – per me – preferibile a un Céline, che quegli « avversari e il loro orrendo male» ha servito. Anche se si dimostrasse che solo lui e non Fortini meriti la qualifica di «grande scrittore».
Non c’entra nulla la «formula “o con me o contro di me”» o l’autorizzazione di qualcuno a sentirsi «l’ago della bilancia».
In certe situazioni – straordinarie e ordinarie – arriva il momento della scelta: o con i maccartisti della «caccia alle streghe» o con i “rossi”; o con la Resistenza o con la Repubblica di Salò; o col ’68-’69 o col PCI; o con la Cina di Mao o con l’Urss; o con i migranti (profughi o economici per me non fa differenza) perché umani in difficoltà (come noi) o con Minniti e la Lega che li vedono come “invasori”.
4.
Chi ci autorizza?
Ti autorizzi tu, da solo/a, non un’autorità. E non per questo ti senti chissà che «ago della bilancia». Vai per la tua strada. Come per la sua andava Fortini che, come riportato da Edoarda Masi, in base alla sua convinzione etica e politica che « non si dà esistenza se non nella comunanza fra gli uomini», si riconosceva negli «oppressi». Come, del resto, andava per la sua Carlo Cassola, rivendicando al contrario il « diritto alla propria individualità separata» .
5.
Quanto alla distinzione alto/basso, senza farla diventare l’unica valida (come fanno i populisti di ieri e di oggi), a me pare irrinunciabile.
Non riesco a togliermi dalla testa la verità contenuta in questo motto di Brecht: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo![1]). Né riesco a a ritenere superati i concetti gramsciani di «rivoluzione passiva», di rivoluzione dall’alto delle élites e delle classi dominanti senza la partecipazione delle masse . Come pure quello di «sovversivismo».
Céline è un grande scrittore (soprattutto nel “Viaggio”) ma non vedo il senso del paragone con un poeta e intellettuale così diverso da lui come Fortini. La letteratura per fortuna non è una corsa a premi, anche se forse è una corsa a ostacoli.
Céline è un anarchico solo nel senso che si può dare a questa parola al bar, parlando di uno che non ha molto rispetto per l’ordine costituito e non mette la cravatta. Per il resto è stato invece xenofobo, razzista, collaborazionista simpatizzante nazista e antisemita, tutte cose che agli anarchici degni di questo nome di solito non accadono.
Il suo caso mi sembra molto diverso da quello dei futuristi per un motivo fondamentale: i futuristi non furono solo fascisteggianti come persone (alcuni non lo furono per niente, però), ma crearono un movimento letterario fiancheggiatore, da un certo momento in poi, del fascismo, compromesso con il fascismo, fondato su un’estetica fascista e militarista. Il che non ci esime dallo studiarlo e dall’apprezzarne le opere, letterarie o artistiche. Céline invece nel “Viaggio” ha fatto il contrario: ha scritto una delle più forti e importanti denunce letterarie della guerra. Per questo l’ammirazione destrorsa di Céline (come per altri versi di D’Annunzio, Pound, Heidegger, perfino di Gentile che fu marcio fino al midollo ma come filosofo è probabilmente più importante, o meno nocivo, dell’antifascista Croce) vale poco più di uno sventolio di bandiere, perché non si misura veramente con la sua opera. Mi sono sempre domandato come fa uno a celebrare la guerra (igiene del mondo, secondo i futuristi) dopo aver letto il “Viaggio”.
Ennio si chiede giustamente come è possibile separare vita e opera. Secondo me è possibile nella lettura e grazie alla lettura, che crea una “sospensione”, momentanea e delimitata, che non pregiudica quindi la storicità dei processi, ma permette di leggere “come se”, di apprezzare la bellezza anche e soprattutto quando è avvolta o nasce dai miasmi biografici. La prova che ciò sia possibile ce la dà proprio Céline: che è “dedestra”, direbbe Buffagni, ma chi lo legge resta, o addirittura diventa, “desinistra”. E qui concordo con Cristiana e con l’idea del “novum” dell’opera: le opere aggiungono e modificano chi le legge (guarda, ascolta) e anche chi le produce. Il legame tra vita e opera è bidirezionale e dialettico.
* Ho scritto in un precedente commento: « Se, invece, pur riconoscendo che un’opera non è mai riducibile alla ideologia dell’autore, alla sua biografia, alla sua psicologia, alla sua poetica, ma si nutre di tutto ciò e lo *digerisce* e lo restituisce in una *forma*, che però – interrogata e ben indagata dal lettore ingenuo come dal critico più esperto – mostra tutte le tracce di quella “materia di partenza” e le mostra nella lingua che ha selezionato l’autore e alla quale ha dato il suo stile (o non-stile, quando ci riferiamo alle avanguardie…), arriviamo a ben altra conclusione. Diciamo, cioè, che quella *forma* è storica ( e mai così completamente universale, come si dice…); e che mantiene anche nella *forma* qualcosa della storia del suo tempo e delle sue “sporcizie”» e insistito sulla necessità di non « un’opera d’arte non è mai totalmente staccabile dal “resto” (chiamalo: vita, sociale, materia, ecc.)» perché così si capisce di più dell’opera, dell’autore e di noi che leggiamo.».
Trovo ora una qualche analogia tra quanto ho sostenuto nella discussione su Céline (e sui futuristi e sulla poesia o arte in genere) e quanto qui scrive Walter Siti a proposito di Penna. ((Malgrado il suo discorso sia centrato sulla passione amorosa). [E.A.]
SEGNALAZIONE
Promuovere per rimuovere? Sandro Penna nei «Meridiani»
di Walter Siti
http://www.leparoleelecose.it/?p=28776#more-28776
Stralci:
1.
Tutto questo materiale serve a sottolineare da che ammasso di nevrosi, di mezza filosofia, di prove ed errori, di acute riflessioni critiche nasca la leggerezza delle poesie che amiamo.
2.
Quando a cinquant’anni decise di mettersi in casa un orfano quattordicenne e di cominciare con lui una duratura e conflittuale convivenza, perfino i suoi amici non gli risparmiarono sarcasmi; ma lui lo sapeva da sempre di essere un ‘diverso tra i diversi’. I carabinieri erano la minaccia costante sui suoi amori; si sforzava di desiderare gli ultra-sedicenni ma i suoi gusti lo portavano piuttosto verso la fascia dei quindici e dei quattordici, con scivolamenti verso i tredici e anche i dodici. I più adulti gli sembravano già corrotti, viziosi, e lui notava il paradosso: “per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. In quel “puro” c’è già l’auto-repressione: l’illusione platonica, il panismo dannunziano, la sessualità che si estende al paesaggio, l’eros universale – ci sono gli eufemismi (il cazzo chiamato “cosa” o “oggetto”, i minorenni “età gentile”, le sozzerie che diventano “il fare”, il battere alluso nel semplice “uscire”) – c’è, soprattutto, la formidabile difesa stilistica della metrica cantabile, degli endecasillabi ‘involontari’, di una lingua ritualizzata e così socialmente sicura da rendere ‘adorabili’ le sprezzature. Eppure Penna la conosce, la violenza infinita che gorgoglia sotto la sordina classica, e lo dice in una prosa di Un po’ di febbre: “Niente mi farebbe entrare in te più di così… A meno che io non ti sbrani. Forse se ti torturassi infinitamente… sarebbe questo l’unico possesso vero”.
3.
Ma quando Penna universalizza il desiderio non lo fa solo per difendersi, difende anche la verità del mito. Ogni ossessione spregia la storia perché si fonda su ciò che è già accaduto, in un passato per l’appunto mitico; l’ossessione di Penna è l’incontro col dio giovinetto, in quell’incontro si compongono il quotidiano e l’eccezione – il dio fanciullo si incarna nel ragazzetto del momento, e il sottouomo adorante diventa superuomo, il mendicante diventa re. Il tempo mitico circolare coincide con l’attimo: non si può andare molto più in là dell’apparizione perché ogni commercio col dio provocherebbe una catastrofe cosmica. In una pagina di diario Penna racconta d’essersi trovato vicino a un ragazzetto bellissimo, si stupisce che il mondo “non ne sappia niente” e aggiunge “se il mondo sapesse non potrebbe pensare a queste sciocchezze”: siamo nel 1939 e le “sciocchezze” sono gli annunci sulla stampa dell’imminente Seconda Guerra Mondiale. Uscire dal mito significa rinunciare alla poesia e questo Penna non sa e non vuole farlo, ma la fede nella poesia si paga con la disumanità; non è un reazionario, non è contro la storia, e non è nemmeno un rivoluzionario sebbene sogni il paradiso – quando il miracolo della sua poesia accade, lui è santamente estraneo al mondo degli uomini. Poi ci ritorna, nel mondo, e sconta l’angoscia della sua strana vita; “strano” è un termine tematico importante per i suoi testi, e sarebbe facile tradurlo oggi con “queer”, perché davvero per lui contano poco le opposizioni binarie su cui si basa il potere della società (fascismo/ democrazia, maschio/femmina, giovane/vecchio, uomo/animale). Ma quando i termini diventano di moda se ne depotenzia il significato; così come, probabilmente, la consacrazione del Meridiano contribuirà ad anestetizzare lo scandalo che uno dei maggiori nostri poeti del secolo scorso sia un uomo del tutto indifferente al consorzio civile e alle sue distinzioni morali. Esaltare retoricamente la letteratura è una maniera efficace, lo sappiamo, per non ascoltarla.
@ Buffagni 4 settembre 2017 alle 11:53
Io pure rapidamente:
1.
« eliminando il capitalismo i tanti mali scomparirebbero e si sarebbe tutti più buoni».
Lo sostengo io? No, tant’è che ho ri-citato Fortini sulla sua idea di comunismo come possibilità di arrivare a vivere in una contraddizione (!), che non è abolizione del male e albero della cuccagna buonista, «diversa da quella oggi dominante».
2.
Céline anarchico che delude i comunisti d’allora che se lo volevano annettere? Posso concordare. Con l’aggiunta mia : «a modo suo», che permette di distinguere tra varie tipologie di anarchismo e definire un po’ meglio quel suo nichilistico « vaffanculo all’umanità in blocco». Visto che, come ricordava giustamente Ferrieri, « agli anarchici degni di questo nome di solito non accadono» certe cose come essere xenofobi, razzisti, collaborazionisti simpatizzanti del nazismo e antisemiti. E poi positivismo e eugenetica dell’Ottocento non sono confluiti nello scientismo nazista (e si ritrovano tuttora tra i wasp statunintesi e non so tra quante altre élites mondiali)?
3.
Ho solo accantonato la questione dello gnosticismo di Benjamin per mio insufficiente approfondimento di questo aspetto della sua personalità. Ma insisto: che c’entra la gnosi con la ben circoscritta citazione da me fatta di Benjamin. In quelle righe non vedo gnosi.
Sì, appunto lo scientismo positivista e l’eugenetica liberale sono confluiti nel nazismo, “Mein Kampf” è pieno di questa roba (curiosità: Keynes è stato per molti anni direttore della Eugenics Society dal 1937 al 1944).
La gnosi non era nella tua citazione, l’ho tirata in ballo perchè la formula “l’orrore del mondo” è un brand gnostico e perchè B gnostico lo è eccome. Non è soltanto un aspetto della personalità di B ma un tratto caratteristico della gnosi politica moderna, che ha stessa origine esistenziale della gnosi antica anche se ne trae conseguenze molto diverse. Poi che nel mondo ci sia l’orrore non ci piove.
Sì, C era anarchico a modo suo, cioè anarchico esistenziale, caratteriale, è il suo bello (è un picaro simpaticissimo) che poi diventa il suo brutto (picaro simpaticissimo che fa scelte politiche orrende, anche se poi a quanto risulta dalla biografia non fa porcate tipo delazioni, tradimenti etc., anzi si comporta abbastanza bene).
Domanda: e per “arrivare a vivere in una contraddizione (!), che non è abolizione del male e albero della cuccagna buonista, «diversa da quella oggi dominante»” c’è bisogno di fare tutto questo casino, cioè rivoluzioni pazzesche, stermini indecenti, etc.? Secondo me, no. Aggiungo su Lenin e la musica che il mio auspicio, “meglio ascoltare musica che fare la rivoluzione”, non rivela il mio “idealismo”, rivela il fatto che secondo me se Lenin si e ci evitava la rivoluzione russa stavamo meglio tutti, Lenin compreso, perchè tra l’altro così ci evitava anche nazismo di sicuro e fascismo molto probabilmente, IIGM non so.
“se Lenin si e ci evitava la rivoluzione
russa stavamo meglio tutti, Lenin compreso, perchè tra l’altro così ci
evitava anche nazismo di sicuro e fascismo molto probabilmente, IIGM non
so.” (Buffagni)
E vabbè, Roberto!
Stavamo meglio tutti se non ci fosse stata la Rivoluzione francese o la scoperta dell’America o Lutero, ecc. Possiamo anche dare la colpa a Eva e alla mela. E così tutti, tranne Cristiana Fischer, saremmo d’accordo. E potremmo chiudere anche Poliscritture.
Senza la mela stavamo meglio di sicuro. Eva, bastava che si mangiasse un arancio che è anche più buono e poi poteva tranquillamente restare lì.
Ennio, manca la scannerizzazione n. 4 del testo di Fortini!
@ Tonino
Grazie Tonino. Ho aggiunto le pagg. 160-161 del testo che erano saltate durante la scannerizzazione.