di Ezio Partesana
Su POLISCRITTURE FB ho segnalato l’articolo contro «lo stalino-nazista Minniti » di Franco Berardi Bifo (qui) con questa breve nota introduttiva: «Le analogie storiche vanno sempre manovrate con le pinze e l’indignazione impotente di Bifo (“C’è modo di fermare questo orrore? Non lo so. “) non mi piace, ma la sua denuncia si basa su dati reali allarmanti e va meditata. Pubblico ora la puntuale e severa critica di Ezio Partesana al medesimo articolo. [E. A.]
Nessuna migrazione nella storia umana è avvenuta in modo pacifico, per quanto ne sappiamo neanche quella dagli alberi alla terra ferma. Sperare che quelle odierne possano essere affrontate con razionalità anziché con la forza significa fare della Ragione un feticcio, un mito al quale affidarsi in attesa e mancanza di altro.
Mi dispiace criticare Franco Berardi, che è un intellettuale che stimo e del quale spesso apprezzo il lavoro. Lo riconosco come “uno di noi” insomma, ma proprio per questo dirò francamente che l’articolo apparso su “Effimera” (qui) è sbagliato nel modo e nella sostanza.
È un appello all’emozione, per prima cosa, non un’analisi. Le parole che Bifo adopera sono rivolte a suscitare sdegno e commozione, non a riconoscere e svelare semmai i meccanismi. “Orrore”, “terrore scatenato”, “guerra civile”, “nazismo”, “sterminio”, “fame”, “tortura” e via dicendo, compongono un paradigma da giusti contro demoni che è tutto interno alla tradizione autoritaria europea, e non contro come vorrebbe essere. E il paragone con la soluzione finale dello sterminio di ogni ebreo vivente è una ciliegia più grossa della torta e avvelenata per giunta. Non c’è alcuna razza in corso, né silenzio e nemmeno la burocratica efficienza di allora; ma quel che è peggio è che si continua imperterriti a usare la Shoah come formula magica per indicare il male assoluto, perfetto e senza senso. Senza senso appunto, mentre il capitalismo ne ha uno preciso e vittorioso, almeno sino a ora, che divide in due – e forse oggi in tre o più ancora parti – l’umanità e la incatena al dominio. Nell’articolo di Berardi manca invece ogni riferimento alla composizione di classe dei paesi dai quali proviene l’immigrazione, alle loro peculiari forme ideologiche e alle contraddizioni che si generano; non tutti i luoghi dai quali si scappa sono inferni di miseria, vero?
Certo che esiste una collaborazione o addirittura una connivenza tra i governi europei e i satrapi che gestiscono le loro province come fossero possedimenti personali. E certo che ci sono molti mascalzoni che su questo commercio di mano d’opera e paura costruiscono le loro fortune. Ma non basta gridare “colonialismo” – come un tempo si urlava “lotta di classe” – per mettere a posto le cose. Perché mai dovremmo sapere di “essere criminali nazisti”? Che cosa esattamente hanno in comune gli insegnanti delle scuole, gli addetti alla raccolta dei rifiuti, le ballerine di prima e seconda fila o, che ne so, i polacchi che montano le Fiat, con Heydrich o Eichmann? Il senso di colpa è una buona cosa se esiste un passaggio dall’etica alla politica altrimenti, come insegnavano i testardi della Scuola di Francoforte, è solo un preludio alla personalità autoritaria.
No, non sono d’accordo con Franco Berardi. Se immagina che “milioni di uomini e donne” vogliano emigrare, deve sapere, perché è intelligente e conosce la storia, che non c’è accoglienza che possa far diventare meno violento questo processo. Paradossalmente lo slogan razzista: “Aiutiamoli a casa loro” ha più senso. Ricordate il detto: regala a un uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno, insegnagli a pescare e lo sfamerai per tutta la vita? È egocentrico il punto di vista che immagina si possano sciogliere le contraddizioni del mondo secondo o terzo da qui, da dove si vedono persone che soffrono e si riesce a far poco o nulla. Perché in realtà noi una tradizione da esportare l’avremmo. Sono le rivolte, le lotte dei braccianti, i sindacati anarchici che costruiscono scuole, il Partito comunista (no, non sono mai stato iscritto e neanche me lo sono mai sognato) con le sue “Case del Popolo”, nonché la sterminata famiglia dei poveri di spirito, dei credenti che, come scrisse Fortini, sono stati a volte rivoluzionari inconsapevoli.
Io non ritengo si debba rispettare l’errore altrui solo perché dura da molto tempo ed è quindi diventato tradizione, uso e costume. Ma se una violenza deve esserci che sia contro le strutture, non le persone che sono, lo sappiamo, fragili e combattive al tempo stesso. La pace di Versailles non fu la causa della repubblica di Weimar né della presa del potere da parte dei nazionalsocialisti, e la tesi secondo la quale fu il risentimento dei tedeschi a causare la Seconda guerra mondiale è persino un poco offensiva. Ma soprattutto è borghese nel senso più stretto del termine: assegna alla psicologia, spolverata dal materialismo della povertà (di chi? Di tutti? Nessuno si è arricchito con quella “povertà”?), il ruolo che in realtà fu dell’industria, della sistemazione – e conclusione aggiungerei – degli stati nazionali e del movimento operaio. Se la Germania fosse stata lasciata in pace si sarebbe riarmata comunque e i suoi dirigenti avrebbero fatto ogni cosa necessaria a arrestare il movimento operaio. Ci si ricordi di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, vero?
Franco “Bifo” Berardi chiude con un Requiem, che assomiglia troppo, per i miei gusti, al Requiescat in pace. Ripesco dalla reminiscenze dei miei lontani studi filosofici per dirgli: Questo è il migliore dei mondi possibili, fosse anche solo un poco peggiore non potrebbe più esistere.
“Ricordate il detto: regala a un uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno, insegnagli a pescare e lo sfamerai per tutta la vita?”
Come no, ma già che ci sono gli venderei gli ami da pesca e le reti; poi le farei costruire da loro, alle mie dipendenze. Perché, certo, qui c’è una questione da risolvere, ma mica ci si può fermare al riordino e all’altruismo… L’entusiasmo con cui la proposta di Minniti è stata approvata fa ben capire che a qualcuno son brillate le pupille con l’insegna del denaro e dell’espansionismo. Del resto perché l’Europa non dovrebbe essere interessata al dominio delle coste del Mediterraneo? Mettiamo insieme le due cose e si capisce subito perché d’improvviso perfino la Merkel si sente disposta a ridiscutere gli accordi di Dublino ( opera di quell’incapace di Renzi, per sostenere la mancia degli 80 euro, si dice, che gli serviva per ragioni elettoralistiche). Alla Merkel non interessa più, ora l’affare sembra che si stia ingrossando. Quindi secondo me assisteremo alla più pacifica delle colonizzazioni che ci sia mai stata nella storia dell’umanità: il Nord Africa in un boccone! I tempi, poi, sono propizi. Hanno governi traballanti, economicamente stanno a terra, in più si guardano in cagnesco l’un l’altro.
Vedrete che tra un po’ lì ci andrà anche il Papa in processione. Mica sono certo che sarà un danno per i popoli africani, che avrebbero da perdere le genti se invece che lavorare per un padrone lo faranno per un altro, che magari a qualcuno darà anche di più? Sì, credo tocchi all’Europa di dare una sistemata al Mediterraneo… e il fatto che a deciderlo siano stati in pochi ( Italia, Germania, Francia, quindi poi Bruxelles) dimostra che altri ci stanno pensando. Il posto lasciato vuoto da ciascun emigrato verrà presto occupato. Altrimenti perché tanto sollievo e soddisfazione per una decisione che sembrerebbe solo umanitaria e che certo comporterà delle spese?
Inoltre, sbaglierò, ma a giudicare dagli arrivi sembrerebbe che i nord africani abbiano una gran voglia di lasciarsi colonizzare. Non dico che ci accoglierebbero come noi abbiamo fatto con gli americani nel’45, ma è possibile che non ne possano più.
Concordo quasi su tutto, in particolare su questa affermazione e le conseguenze che ne derivano: «Nessuna migrazione nella storia umana è avvenuta in modo pacifico, per quanto ne sappiamo neanche quella dagli alberi alla terra ferma». Questo è tanto vero che si può prendere come un principio applicabile alla storia di lunghissima durata. Se nella lontana preistoria emigrare significava trasferirsi in terre disabitate, magari senza scontrarsi con altre comunità umane, già nella protostoria ciò non era più vero ed emigrare e, spesso, vivere come popolazione nomade, significava sempre scontrarsi con altri gruppi, fare una guerra, essere sconfitti o vincere, ritirarsi o conquistare il nuovo territorio e sottometterlo sfruttandone le risorse e la popolazione. La progressiva mescolanza di gruppi etnici non è mai avvenuta pacificamente e si è giunti via via a nuovi equilibri etnici, culturali, religiosi, sociali ecc. solo con dolori ingiustizie sopraffazioni e molto tempo passato in conflitti e instabilità. In qualche caso, anche a distanza di secoli, non si è ancora giunti a nuovi equilibri soddisfacenti.
Ma il discorso si può allargare anche alle “comunità” non umane, e mi riferisco alla progressiva distruzione della natura, sia della flora sia della fauna. Perché l’emigrazione significa sempre, anche, aumento della densità della popolazione umana a danno di ogni altro tipo di popolazione. Ma fino a quando ciò potrà durare?
L’Europa, e l’Italia, hanno già una densità di popolazione superiore a quanto è auspicabile, e questo – oltre all’incuria e agli scandali e ai macelli delle politiche ambientali – certamente rende più difficile un corretto rapporto fra uomini e natura. Quando qualche orso sconfina in un territorio abitato e l’uomo lo punisce uccidendolo, a me viene subito da pensare che quel territorio, fino a pochi secoli fa, era tutto dell’orso e l’invasore assassino è stato ed è l’uomo.
Non sono un animalista e tanto meno un animalista estremo, ma credo che tutti dobbiamo porci il problema del limite (a mio parere già superato da tempo) della densità umana a cui si può arrivare continuando a mantenere alla vita umana e al rapporto con la natura un certo carattere, che non sia quello previsto da alcune distopie fantascientifiche in cui ogni essere umano ha a disposizione non uno spazio casa – piazza – strade – giardini ecc. ma uno spazio cuccetta per non più di otto ore al giorno e il resto del tempo lo passa in alveari produttivi, in fabbriche/uffici/spazi di lavoro “moderni”.
Nelle centinaia di pagine che tutti i giorni vengono pubblicate sulla questione immigrazione, non leggo quasi mai riflessioni sul problema della sovrappopolazione.
Eppure mi sembra un problema centrale. Se tanto mi dà tanto, anche la lotta per il diritto alla casa è un problema di densità abitativa unito a quello della qualità della vita.
I due problemi sono strettamente uniti. Infatti, gli standard attuali della qualità della vita (da cui poi vengono anche i diritti sociali, il diritto alla casa e tanto altro) richiedono abitazioni migliori e più ampie. Cento anni fa, a Milano, in una casa a ringhiera di due stanze potevano abitare anche dieci persone, mentre ora una situazione simile è considerata, giustamente, inaccettabile. Questo comporta che non solo bisogna costruire più case in proporzione all’aumento degli abitanti, ma anche in proporzione agli standard richiesti. Questo ha portato a una veloce cementificazione del suolo che continua imperterrita. Ecco un altro aspetto che si collega ad altri problemi: abusivismo edilizio, opere costruite dove non avrebbero dovuto essere costruite, fragilità dell’assetto urbanistico, maggiore facilità di disastri naturali e loro maggiore incidenza in termini di danni e di feriti e morti.
Un insieme di più problemi strettamente connessi che dipendono dalla sovrappopolazione. Certo, si possono abbattere, e prima o poi lo si farà, tutte le abitazioni attuali e costruire solo grattacieli in modo da consumare meno terreno. Ma anche questa soluzione presenta problemi notevoli e comunque può servire solo ad alleggerire alcune pressioni per alcuni decenni.
Ma di tutto questo oggi non si discute quasi più. Negli anni Settanta se ne è discusso, si è parlato di necessità di diminuire, non aumentare, la popolazione mondiale, e di educazione al controllo delle nascite.
Oggi invece, sul problema della popolazione, dell’immigrazione, dell’ecologia fra loro connessi sembra che tutti si siano allineati alla politica del Vaticano.
Il che vuol dire: pauperismo, accoglienza indiscriminata, silenzio sul controllo delle nascite. Peccato che la gente (la maggioranza della popolazione) non sia d’accordo, spesso in modo consapevole, altre volte di fatto, con il comportamento, più attratto dal consumismo che dal pauperismo.
Non si potrebbe fare peggio delle tre scimmiette sorda cieca e muta di una vecchia collana di gialli.
Con che prospettive, poi? Semplicemente catastrofiche. Entro trenta anni circa si prevede che la popolazione africana raddoppierà (e aumenteranno anche le popolazioni di altre zone geografiche e continenti), il che vuol dire che la pressione emigratoria non è un’emergenza, ma che, se non la si fermerà ad ogni costo, durerà per molti decenni. Così facendo, fra 30/50 anni tutti gli attuali equilibri europei saranno saltati. Non solo la «tenuta democratica» (di cui con ritardo comincia a parlare il ministro degli Interni), ma la «tenuta» di qualunque altra cosa riferibile alla vita umana. È pensabile che con la politica della Caritas (e affini di ogni colore) si possa gestire tutto questo e insieme evitare conflitti sociali sempre più estesi e violenti? Conflitti che non solo vedrebbero anche – non solo, ma anche – una guerra tra poveri, ma soprattutto la sicura sconfitta dei poveri (e dei medio poveri, e della piccola e media borghesia e di ogni ceto sociale esclusi i vertici che sempre più ragionano solo in termini globali).
Qualcuno avanza folli teorie (ad esempio Toni Negri) ritenendo che questo presente e futuro caos possa sconfiggere il capitalismo e l’imperialismo. Pensa che il nuovo “nomadismo” possa allearsi con il proletariato e il sub-proletariato e fare la rivoluzione. Teoria folle, che però, se si realizzasse in qualche modo, in base alla nota eteronomia dei fini, non porterebbe a costruire un paradiso in terra, ma a un nuovo equilibrio capitalistico e imperialistico probabilmente peggiore dell’attuale. E con il peso di Paesi e popoli e religioni e culture non europei e non occidentali aumentato. E la “fetente democrazia” di oggi ulteriormente ristretta a favore di poteri autoritari e assolutamente non democratici.
Anche il catastrofismo estremo di chi dice «meglio islamici che capitalisti» si risolverà nel più realistico «islamici e capitalisti alleati con cattolici conservatori e capitalisti».
C’è chi poi sostiene che lo scontro di fondo, il vero scontro, non è quello di natura etnica o culturale o sociale o economico, ma quello di genere (già ne parlava Giuseppe Bonura in un articolo del dicembre 2006 intitolato «Il genio della specie»): il mondo maschile, islamico innanzitutto ma anche quello occidentale conservatore, si radicalizza per opporsi alla femminilizzazione della vita sociale, in sostanza all’emancipazione della donna. Ciò produce il conflitto e il disagio sociale che sovverte il mondo islamico e che alimenta il terrorismo (maschilista per eccellenza).
Bonura scriveva: «I kamikaze credono di stare combattendo in difesa della religione, della tradizione e dell’identità. In realtà, combattono per perpetuare la schiavitù della donna». E articolava il discorso in cinque pagine.
Questa è però una verità parziale a cui non può ridursi l’intero problema. Ma anche da questo punto di vista l’emigrazione non può che portare, se numericamente non gestibile, a un arretramento dei costumi e delle libertà occidentali. Nel mondo ci sono Paesi nei quali violentare una donna che passeggia da sola, senza essere accompagnata difesa e protetta da marito o fratelli o genitori, non è un reato. O se lo è per la legge scritta, non lo è per il costume che, in questi casi, condanna la donna considerandola una poco di buono e una che, se passeggia da sola, vuol dire che se lo cerca ciò che può capitarle. Come le cronache ci documentano continuamente, oltre ai casi di reato vero e proprio, nella vita delle comunità migranti abbiamo i numerosi casi di comportamenti (in famiglia, nei luoghi di lavoro, nei quartieri a prevalenza islamica) restrittivi delle libertà che noi riteniamo intoccabili. Se questi conflitti sono già evidenti e, direi, acuti, oggi, come diventeranno quando l’islamismo, questo islamismo, non quello riformato auspicato ma poco presente, raggiungerà percentuali sempre più significative e pesanti anche in termini elettorali? E quando saranno numerosi gli uomini politici, i funzionari, i dirigenti amministrativi islamici che saranno spinti naturalmente ad applicare le loro idee a tutti? Come nei giorni scorsi è avvenuto nel caso della ragazzina cattolica (o anglicana?) affidata a una famiglia mussulmana che la costringeva a imparare l’arabo, a rifiutare il crocefisso e a osservare i costumi islamici?
Il problema dell’immigrazione è composto di moltissimi problemi concreti e solo se non si perde la concretezza e la visione di insieme si possono elaborare politiche adeguate. Partire da un “partito preso”, da principi generali desunti dall’ideologia (cattolica o marxista o d’altro tipo che sia), senza il necessario confronto con la durezza della realtà può portare solo ad errori continui e a perdite di tempo. L’articolo di Bifo è un esempio di astrattezza ideologica che porta al paradosso inconcludente.
Intervento lungo e perentorio che però, mi pare, ha poco a che fare sia con lo scritto di Franco Berardi che con la mia critica; tra l’uno è l’altro siamo citati due volte, in principio e in fine, mentre il resto sembra più una presa di posizione che non un commento.
Non sono felice che si concordi con me quando le concordanze sono solo apparenti, come in questo caso.
L’uomo vive due nature: l’una comune con gli altri animali, le piante, il ciclo dell’azoto, la meccanica quantistica e via dicendo; l’altra è sua propria e si chiama “società e storia”.
Le due nature hanno statuti e modi diversi (fossimo filosofi direi “ontologie”): mentre in natura le leggi sono rigide e immutabili – quel pezzetto di Dna deve stare lì, non in un altro posto, e se si sposta ne verrà con grandissima probabilità un gran pasticcio -, nella società umana sono decisioni e scelte a creare l’ambiente e la storia. Confondere l’una con l’altra o almeno mischiarle, come mi pare faccia Luciano Aguzzi, significa non poter più capire quel che non può e quel che invece deve essere cambiato.
È vero che la civiltà ha raggiunto un grado di dominio sulla natura tale da mettere a rischio l’equilibrio fondamentale – biologico direi – di tutte le cose, non solo della specie umana, ma assegnare la responsabilità alla “sovrappopolazione” piuttosto che al dominio è l’operazione ideologica di chi non è sovraffollato né dominante.
Dissento da alcuni punti della puntuale critica di Ezio. Intanto il primo capo di imputazione (-> Bifo fa appello alle emozioni) implica che non si debba e non si possa scrivere anche per esprimere emozioni, orrore, rabbia. Ma perché? Non si accorge Ezio che così sta facendo della ragione, forse addirittura della ragionevolezza, quel feticcio che ha denunciato due righe sopra? E se non chiamiamo orrore quello che accade sulle rive del mediterraneo, nei lager e nelle teste di tanti nostri concittadini che fomentano l’odio e la violenza contro i migranti, anche a colpi di battute, barzellette e condivisioni su facebook, come dobbiamo chiamarlo?
Il testo di Bifo è certo estremo, catastrofista, indigesto e sacrilego. Ezio fa bene a cercare di contestare e contestualizzare il paragone con la Shoah. Lo stesso Bifo credo lo abbia formulato per dare un pugno nello stomaco al lettore, per provocare un ragionamento, oltre che un’emozione. Che potrebbe essere questo: smettiamo di utilizzare l’unicità della Shoah non per esprimere – come ha fatto anche Adorno – l’incommensurabilità e impensabilità dell’orrore (posso usare questa parola?), ma per relativizzare e addomesticare le altre violenze che si producono oggigiorno ogni giorno. Non c’è la razza? Ma c’è il razzismo. Non c’è la burocratica banalità del male? Ma se si va a vedere nella testa e nella vita di uno che firma espulsioni o chiude scuole di italiano o impedisce alle Ong di salvare vite umane si comincia a intravedere i fili di quel meccanismo autoassolutorio che impedisce di cogliere il nesso tra un cadavere sulla spiaggia libica e un comma di regolamento a Bruxelles. E se anche non abbiamo fatto l’analisi della “composizione di classe” della migrazione, possiamo lo stesso dire che chi “respinge” dei naufraghi è un demone (avrei detto peggio), senza avere per questo una personalità autoritaria.
Ed è su questi punti che Ezio mi sembra sorvoli e non colga la provocazione di Bifo. L’Europa sta facendo una cosa senza precedenti (o forse, con quell’unico precedente): sta cercando di andare “a casa loro” per fermarli (=ucciderli) lì, facendo fare il lavoro sporco a qualche mercenario locale, in modo da tenere le nostre spiagge e coscienze apparentemente pulite. Come se la violenza e l’ingiustizia in un capo del mondo non generassero altra violenza e ingiustizia al capo opposto. Voi che vivete (in)sicuri nelle vostre tiepide case…
Ezio ha ragione a rivendicare l’inevitabilità delle migrazioni, la loro natura ricorrente e tragica, e anche etnologicamente progressiva (una delle più note teorie paleoantropologiche attribuisce alla migrazione dell’homo sapiens dall’Africa all’Europa la nascita della civiltà che conosciamo). Ma da tutto ciò non si deduce affatto, secondo me, l’inevitabilità della risposta violenta (e quindi dissento anche da Aguzzi). Richiamare passate carneficine (e perché non i meravigliosi periodi di pace e tolleranza nella Spagna araba prima della reconquista?) non mi sembra che invalidi la possibilità di un futuro diverso.
Quanto al migliore dei mondi possibili, lasciamo perdere. Il catastrofismo di Bifo è meno disperante dell’ottimismo di Leibniz…
Sinceramente allibito: che “noi” si abbia da esportare “una tradizione (di) rivolte, le lotte dei braccianti, i sindacati anarchici che costruiscono scuole, il Partito comunista (…) con le sue “Case del Popolo”, nonché la sterminata famiglia dei poveri di spirito, dei credenti che, come scrisse Fortini, sono stati a volte rivoluzionari inconsapevoli” a me non sembra più un dato di fatto. A meno che non si creda che la storia si sia fermata cinquant’anni fa e che tutto sia ancora come allora. Ma qui si vuole disquisire sul fatto se abbia senso rifarsi alla Shoah o, con tutto il rispetto, a cose che sembrano fare della storia una sorta di neo filosofia che potremmo chiamare meta-storica; ma qui non sarei all’altezza, ammesso che io sia capace di dotarmi di una qualche misura ( essendo per altro un post-ideologico, sì, come va di moda dire oggi). Che dire? A me pare non abbia senso, e ribadisco che si tratta principalmente di questione di affari ed espansionismo perché penso che anche il capitalismo odierno sia post-ideologico; nel senso che non gliene frega a nessuno, oltre che dell’economia e ancor più della tecnologia che fa da se’ (al posto dell’ideologia), e quindi ecco che il Minniti di turno andrebbe considerato come non umano, ma una reazione istantanea (meccanica) di fronte alle nuove possibilità che s’intravedono, atte al controllo del Mediterraneo oltre-confine europeo. Da un lato si tampona la questione spinosa dell’immigrazione (in modo ottimale anche sul piano elettoralistico), si dà l’idea di poter controllare un fenomeno epocale con autorevolezza, e dall’altro si stabiliscono alleanze per perfezionare la spartizione dei beni. Vedrete se non sarà così. Non era mai successo prima? No. Infatti non è vero che la storia si ripete, a meno di trattarla al pari di una questione estetica. Parere personale.
Mi rifiuto di essere catastrofista. Intanto è importante sapere che esistono movimenti di lotta in Africa per la remigrazione, anche se la destra da noi se ne è appropriata. Nigrizia, la rivista dei comboniani, dà conto di un progetto nei villaggi del Senegal della Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, per informare dei rischi che il viaggio in Europa comporta http://www.nigrizia.it/notizia/migranti-cooperazione-e-dissuasione/notizie.
In Libia -in teoria, lo so, in teoria- i migranti impediti di partire starebbero sotto il controllo dell’UNHCR. Dall’altra parte, sono le bande criminali che gestiscono i traffici, di persone e insieme di armi e droga, in accordo con la criminalità nostrana. La situazione è atroce, non c’è altra parola. Credo che sforzarsi di gestirla sia meglio che continuare a lasciare arrivare tutti, offrendo loro la schiavitù del foggiano, i marciapiedi, i CIE e le frontiere europee chiuse.
Sono quasi certo avessimo già spiegato le cause dell’ambiguità della parola “ideologia”, ma visto l’intervento di Tosi forse tocca ripetersi.
In italiano (in altre lingue è differente) il termine ideologia ha due significati che poco hanno a che vedere uno con l’altro. Una prima accezione deriva, grossomodo, dall’empirismo inglese del Seicento, dove tutto quel che non è percezione (o scienza matematica), ovvero l’etica, l’arte e la politica, sono ideologie, discorsi importanti ma vaghi e sui quali, alla fine, decidono il gusto e l’arbitrio. In questo contesto si parla di “fine delle ideologie”, come disillusione sulle grandi utopie egualitarie o fasciste.
L’altra tradizione è quello hegeliana e marxista, dove “ideologia” è concetto che rappresenta l’inevitabile dipendenza della percezione che si ha della realtà, e delle idee che si formano, dal modo in cui ci si mantiene in vita.
Saltare tra l’un concetto e l’altro per dire che essendo finite le ideologie i rapporti sociali non determinano più molto di quanto gli uomini percepiscono e pensano è una perdita di tempo che, credo, un buon manuale di filosofia potrebbe evitarci per il futuro.
Ancora più strano mi sembra l’intervento di Ferrieri, quando sostiene che i pugni nello stomaco sarebbero dati per favorire un ragionamento; è una teoria curiosa e interessante, ma non vedo quale base abbia. Sono cinquanta anni che ci indigniamo, diciamo dalla Guerra di Algeria, e non sottovaluto l’importanza degli slogan né la forza delle emozioni in politica. Ma da qui a pretendere che sia il sentimento a emendare la ragione passa la stessa differenza che c’è tra il provare pietà e impietosirsi. Solo la ragione può criticare se stessa – e accidenti lo ha fatto a destra e manca, almeno qui da noi -, quel che va di moda adesso sotto il nome di “provocazione”, e cioè l’appello al sentimento contro le istanze critiche, è un contrappeso, al meglio, non una bilancia.
In appendice, e solo per non lasciare un dubbio, l’idea che Leibniz avesse ragione e che questo sia il peggiore dei mondi possibili perché se fosse anche solo un poco peggiore non potrebbe più esistere, credo ricordare fosse un sarcasmo di Schöpenhauer. Io ci ho aggiunto solo una negazione determinata.
“ideologia” è concetto che rappresenta l’inevitabile (?) dipendenza della percezione che si ha della realtà, e delle idee che si formano ”
ma io, poi, finirei così: oltre che dal modo in cui queste idee vengono preservate, trasmesse, oppure imposte.
Strano modo di dibattere il suo, gentile Partesana, mi fa sentire vicino agli studenti che cinquant’anni fa si tiravano bussolotti di carta ogni volta che l’insegnante era voltato di spalle. Oggi invece si passano le canne sottobanco, ma sempre bussolotti sono.
Grazie comunque.
SEGNALAZIONE
Auschwitz on the Beach, in Germania cancellata la performance di Bifo che paragona crisi dei migranti e Olocausto: “Bigotti”
di Felice Moramarco
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/04/auschwitz-beach-germania-cancellata-la-performance-di-bifo-che-paragona-crisi-dei-migranti-e-olocausto-bigotti/3832784/
Stralci:
1.
É risaputo che in Germania temi ed espressioni legate al loro passato nazista costituiscono ancora una ferita aperta.
Io sono disposto ad ascoltare questa obiezione dai rappresentanti della comunità ebraica tedesca, con cui ho infatti discusso. Ma non sono disposto ad ascoltare questa obiezione da qualche stronzetto che scrive sui giornali della “Grande Germania”, perché sono i nazisti tedeschi, che non sono mai scomparsi, ad aver inferto quella ferita all’umanità. Mio padre durante la guerra ha passato sette mesi in un carcere tedesco, quindi non accetto che un pezzo di merda come il signor Jens Jessen sulla Zeit mi venga a dire che quella ferita è ancora aperta, perché è proprio gente come lui che ha inferto quella ferita a gente come mio padre.
2.
E come si spiega che l’accostamento di due semplici parole, “Auschwitz” e “Beach” abbia innescato un dibattito così acceso?
Perché quell’espressione ha provocato la bigotteria del ceto neoliberale tedesco. La bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte “mai più Auschwitz” e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità. Sulla stampa tedesca sono stati pubblicati più di un centinaio di articoli da questi bigotti. Ma è il mio mestiere provocare, l’ho sempre fatto. Per mesi, sono stato su tutti i giornali italiani [nel 1977, n.d.r], descritto come provocatore e criminale, perché parlavo da una radio libera [Radio Alice, ndr]. E allora imparai che occorre non lasciarsi mai spaventare da gente come questa.
3.
Non pensa che chi ha reagito in questo modo sia in realtà ben cosciente di ciò che sta accadendo e che semplicemente non vuole prendere atto delle proprie responsabilità.
Certamente. In gioco c’è qualcosa di enorme. Noi occidentali dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili. Ora, l’enorme debito che abbiamo accumulato, non vogliamo pagarlo. Ci rifiutiamo di investire le enormi somme di denaro necessarie per l’accoglienza dei migranti e preferiamo darle a Banca Etruria, al Monte dei Paschi e al sistema finanziario europeo. Bene, questo atteggiamento provoca la guerra. Una guerra che è già cominciata e che non vinceremo, perché abbiamo a che fare con un immenso esercito di disperati. Perderemo tutto. Perderemo la vita di molta gente, perderemo la democrazia e il senso dell’umanità.
SEGNALAZIONE
* Noi abbiamo le mani pulite. Se le sporcano altri. Ma quelli le hanno già sporche, no…[E. A.]
Banalità del male
19 settembre 2017 pubblicato da Il Ponte
di Mario Pezzella
http://www.ilponterivista.com/blog/2017/09/19/banalita-del-male/
Continua a stupirci che nell’immediato dopoguerra molti tedeschi dicessero di non sapere ciò che avveniva nei campi o di averne avuto una percezione solo vaga e confusa, anche quando abitavano a poca distanza da essi. Non sempre mentivano; solo che non era vera o semplice la loro ignoranza, era piuttosto un non voler sapere, un rifiuto della propria responsabilità diretta o indiretta in quanto stava accadendo. Perfino Eichmann, nel processo a Gerusalemme, dichiarò di non sentirsi responsabile di quel che avveniva nei campi: lui non aveva partecipato direttamente a nessuna uccisione. Si era limitato a fornire gli strumenti tecnici ed economici perché i campi fossero resi possibili.
Il governo italiano sta ora provvedendo agli strumenti economici e tecnici perché siano resi possibili campi di detenzione in Libia, dove il trattamento subito dai migranti è comparabile a quello dei campi nazisti (anche se per ora, almeno si spera, non si può parlare di genocidio organizzato). In particolare vengono direttamente pagati i sicari e i torturatori che li gestiscono. In quei campi, per quel poco che trapela dai media, si stanno commettendo crimini contro l’umanità. La posizione morale del nostro governo non è poi così dissimile (a parte la scala numerica del fenomeno) da quella di Eichmann: anche il nostro ministro degli interni non partecipa direttamente alle uccisioni, agli stupri, alle torture, allo sfruttamento schiavistico del lavoro, che avvengono nei campi in Libia. Si limita a fornire gli strumenti tecnici ed economici perché siano resi possibili. Se un giorno qualcuno ci accusasse di aver tollerato un simile inaccettabile stato di cose, forse risponderemmo anche noi che non sapevamo. Solo che tale risposta è ancora più falsa di quella dei tedeschi nel dopoguerra: è invece evidente che noi non vogliamo sapere. Gli storici del futuro conosceranno forse il numero e l’entità dei crimini e delle vittime e ci accuseranno di aver tollerato il male nell’indifferenza e nel silenzio. Forse si stupiranno che in un’epoca in cui comunicazione e informazione sono così invadenti e generalizzate, qualcuno possa assumere la stessa morale di Eichmann e non ritenersi responsabile di ciò che i nostri governanti stanno facendo, da noi eletti e in nostro nome.
DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO
Commenti sul post precedente ( Banalità del male):
Giuseppe Panella
questa storia della responsabilità collettiva non mi convince affatto – cosa si dovrebbe fare, secondo il candido Pezzella, correre in massa in Libia a liberare i prigionieri? E poi lui c’è stato o riferisce sulla base di resoconti indiretti? La sua è indignazione a un tanto il quintale…
Ennio Abate
Noi in Libia non ci siamo stati. Ma notizie arrivano difficili da smentire. Non vedo poi perché non si dovrebbe parlare di responsabilità collettive ( e individuali nel caso di Minniti e altri. Anche se Pezzella o noi non avessimo una soluzione migliore da proporre. Constatare l’inumanità di questa scelta è il minimo necessario per chi vuol tenere aperto un discorso di civiltà.
Giuseppe Panella
le notizie che arrivano sono orientate in un modo o nell’altro e sono poco sicure (come minimo). La responsabilità collettiva è un concetto molto dubbio – tutti i tedeschi erano colpevoli o solo i nazisti coinvolti direttamente? Solo Eichmann o anche i suoi uomini di fiducia? Constatare l’inumanità non evita il problema di come evitarla – altrimenti si cianciano solo parole (come fa l’anima bella Pezzella – con rima)…
Ennio Abate
Allora diciamo che tra le notizie orientate ce ne sono alcune abbastanza credibili e che a pensare al peggio non si sbaglia o si sbaglia di meno (dalla strage di Piazza Fontana alle armi di distruzioni di massa di Saddam, ecc.). E mi pare che anche sentirsi responsabili collettivamente, evitando di imbarcarci qui in una discussione filosofica, è meglio che mettersi a fare gli scettici. Inoltre a me pare che buona parte delle persone che ancora pensano e sentono *umanamente* oggi hanno da opporre allo strapotere dei governanti proprio soltanto questo rifiuto etico irrinunciabile che potrebbe diventare rifiuto politico in condizioni più favorevoli. Chi usa le etichette spregiative ( buonismo o “anime belle”) indica solo approvazione alla scelta di Minniti. L’unica realisticamente possibile? Chiediti allora perché fatta solo ora.
Giuseppe Panella
lo scetticismo è il dovere dello storico e del militante politico – accettare qualsiasi informazione senza controllarla non è utile e non è intelligente… la responsabilità collettiva è concetto che annacqua tutto e non risolve niente… la forza del rifiuto etico è ben poca cosa di fronte alla forza delle armi e la scelta di salvarsi l’anima bella porta soltanto a cercare soluzioni più dirette e più praticabili. Il buonismo non serve a niente e anzi conferma le scelte del Potere cui va opposta una forza eguale e contraria quando questo è possibile. L’indignazione alla Pezzella consolida la scelta del Potere non la affronta né la sconfigge… serve solo a scaricare la coscienza di chi la pratica e confortarlo nella sua malafede
Ennio Abate
Davvero non capisco la tua insistenza ad accusare chi oggi rifiuta il consenso alla politica di Minniti sul piano, sì, solo etico. Non mi pare di aver detto che bisogna accettare « qualsiasi informazione senza controllarla». Ho detto che alcune di quelle che arrivano sui “lager” in Libia, anche se di parte, sono attendibili. E, perciò, mettersi a fare lo scettico solo su di esse a me pare segno di ambiguità.
Il rifiuto etico * nella situazione attuale* non può essere fatto passare per “buonismo”e non « conferma le scelte del Potere». Tanto più se tu stesso riconosci che oggi non c’è nessuno in grado di opporre « una forza eguale e contraria» alle attuali politiche governative e UE. E allora?
A meno di non ritenere la politica di Minniti giusta *soltanto* perché realistica (ma – ripeto – perché adottata solo adesso?), dovresti rivolgere la domanda « cosa si dovrebbe fare», oltre che a Pezzella, a te stesso. Invece di scantonare accusandolo di volere « salvarsi l’anima bella», scaricarsi la coscienza, essere in malafede.
Il rifiuto etico è poca cosa, ma *nell’attuale situazione* va praticato come *premessa indispensabile* per poter agire contro « le scelte del Potere» quando se ne presentasse l’occasione e si riuscisse a costruire un’opposizione *politica* di «forza uguale e contraria». O vogliamo introiettare le ragioni di Minniti (e della Lega e del M5S) e sbeffeggiare gli unici che non sono d’accordo su queste azioni, che col tempo – mia previsione oggi non documentabile – risulteranno porcherie (“realistiche”, certo!) come quelle commesse contro Saddam Hussein, contro Gheddafi, ecc.?
Cristiana Fischer
Il rifiuto etico è davvero poca cosa: produce solo nelle coscienze – scissione e rimorso – niente invece ai migranti. Minniti produce effetti pratici, ambivalenti, ma ha anche prospettive. http://www.huffingtonpost.it/2017/09/17/genti-del-mediterraneo-la-terza-edizione-del-cortile-di-francesco-si-chiude-con-minniti-e-il-cardinale-ravasi_a_23212465/?utm_hp_ref=it-homepage
Trovo legittimo se non doveroso valutare l’operato politico del governo italiano, e riservare alla sofferenza emotiva e all’imperativo etico altre sfere personali.
Ennio Abate
Il “rifiuto etico […] poca cosa” non schiaffa i migranti nei lager, Minniti sì. Poi col tempo si vedranno le “prospettive” (neocolonialite) come si sono viste dopo la liquidazione “umanitaria” del tiranno Gheddafi.
Ennio Abate
SEGNALAZIONE
Il machiavellismo di Minniti
16 settembre 2017 pubblicato da Rino Genovese
http://www.ilponterivista.com/blog/2017/09/16/il-machiavellismo-di-minniti/
Nel manuale di machiavellismo pratico, che il ministro Minniti di sicuro avrà sempre sul tavolo, a un certo punto si legge: “Se non puoi fargli la guerra, vedi almeno di comprarli”. Ed è così che l’Italia, come risulta ormai da una serie di testimonianze, avrebbe consegnato ben cinque milioni di dollari, tramite intermediari o direttamente non si sa, alla banda armata di Ahmed Al-Dabbashi detto “lo Zio”, il maggiore trafficante di esseri umani della zona di Sabratha in Libia. L’ex potenza coloniale, che in Tripolitania incendiava e impiccava, ora compra. Del resto, a quanto scrive “Le Monde” datato 15 settembre, il governo italiano aveva già trattato con “lo Zio” al fine di garantirsi la sicurezza degli impianti dell’Eni a Mellitah, a ovest di Sabratha. Un’impeccabile strategia: prima si scoraggiano, con regolamenti bizantini, le organizzazioni umanitarie dall’intervenire nel Mediterraneo in favore di profughi e migranti alla deriva, poi s’interviene “alla sorgente” dando del denaro ai trafficanti perché si riciclino come alleati nella lotta all’immigrazione clandestina.
Il problema è che tutto questo piace. Piace soprattutto al Pd che così finanzia, con soli cinque milioni dei contribuenti italiani, la propria campagna centrista delle prossime elezioni. Piace a una maggioranza di nostri concittadini che, ancorché in larga misura cattolici e perciò tenuti all’accoglienza, non ne possono più degli immigrati. Non sono molti quelli che si chiedono: ma scusate, dove finiscono gli aspiranti migranti se non in quegli stessi luoghi di detenzione e tortura, in una Libia controllata dalle bande armate, da cui, dopo mesi o anni di traversie, cercano di fuggire? Solo una piccola parte di loro riuscirà, chissà quando, ad avere il visto dell’ambasciata per fare ritorno al paese di origine (in cui certo troppo bene non dovevano passarsela per aver preso la decisione di andarsene).
Si dice – lo ha detto lo stesso Minniti – che non si possono accogliere tutti i migranti o aspiranti tali, perché bisogna anche pensare a integrarli. Ma allora che cosa si sarebbe potuto iniziare a fare con quei cinque milioni nel senso dell’integrazione? Quanti edifici scolastici si sarebbero potuti mettere in sicurezza, nello stato comatoso di un territorio come quello italiano esposto di continuo al rischio sismico e idrogeologico, all’interno di un piano – non solo italiano ma europeo – di lavori socialmente utili con maestranze composte prevalentemente da immigrati?
Al tasso di crescita demografica attuale, l’Africa alla fine di questo secolo costituirà il 40% della popolazione mondiale – al momento soltanto il 12-13%. Siamo destinati a una storia di grandi migrazioni: in parte essa è l’eredità di un predatorio colonialismo occidentale – una vicenda mai veramente conclusa –, in parte è l’effetto di un movimento inarrestabile, perfino emancipatorio, verso condizioni di maggiore benessere. La risposta politica non sta nel ridurre i flussi, che poi rispuntano per altre vie o semplicemente riprendono quando “lo Zio” avrà esaurito la sua provvista di denaro: piuttosto consiste nell’organizzarli per quanto possibile. Si aprano quindi, nei paesi africani maggiormente interessati dal fenomeno, delle “agenzie di collocamento” presso le ambasciate occidentali; si dia una speranza di futuro a quelle popolazioni martoriate con voli periodici verso l’Europa; si preparino programmi per lavori socialmente utili in cui inserire la manodopera immigrata. È la parola “integrazione” che dev’essere fatta vivere riempiendola di contenuti. E questa voce, sul manuale di machiavellismo pratico che Minniti ha a portata di mano, non c’è.
Una volta etica e politica erano la stessa cosa, da Platone al comunismo, una si innestava nell’altra e ambedue si rinforzavano. Ma nel mondo di oggi, globale di democrazie elitarie, l’etica, pur diffusa nelle arti e un po’ meno nelle scienze, ha traduzione politica in gruppi, in piccoli partiti, in movimenti ampi e “neutrali” come Amnesty, nei singoli. Trovo sbagliato e scorretto scrivere pezzi come quello di Genovese, che accusano in termini di moralità tutti quelli che non bruciano di indignazione come fa lui. Effetto politico, zero. Chi non prova solidarietà, chi non sostiene le associazioni pubbliche e private che fanno tanto e bene nell’assistenza e nell’inserimento dei migranti? Ma si può immaginare, o far iniziare una politica diversa, in questo quadro in cui le migrazioni sono connesse e utilizzate in interessi geostrategici, economici a vari livelli, e in alleanze politiche internazionali? No, non si può immaginare. Era meglio il modo all’assalto” di prima? Si deve invece sorvegliare i provvedimenti *realpoliki* messi in atto, e pensare di poterli al massimo correggere, in una politica di minoranze. Per questo penso che gli attacchi morali siano spari ad alzo zero entro le proprie file. Lascito storico di un senso purista di sinistra, che rinasce, da prima ancora che fosse “sinistra”.
Credo di ricordare che il passaggio dall’etica alla politica – dalla teoria alla prassi – fosse proprio il problema dei libri della Repubblica di Platone e delle Leggi. Un’armonia tra etica e politica è un fine (etico, appunto) non una base sicura, per questo discutiamo e siamo o non siamo d’accordo.
DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO
Cristiana Fischer
I rifiuti etici e il realismo politico sono da sempre nemici. Chiedo, e seriamente dato il carattere elitario della nostra democrazia, perchè non vedere che realismo e etica sono, invece che in opposizioni, in due reparti separati. La solidarietà la sente anche chi riconosce il realismo politico: azioni per creare un governo in Libia, indebolendo i gruppi criminali che si occupano anche delle migrazioni (ieri in questo senso il discorso di Gentiloni all’Onu). Le accuse di Genovese e Pezzella sono alla moralità di chi per esempio non fa le sue stesse denunce. Ma non avranno ripercussioni politiche. Invece si discute come se Genovese e Pezzella fossero un’alternativa a Gentiloni, o come se potessero farla nascere nei tempi brevi necessari.
Giuseppe Panella
le accuse alla moralità non creano alternativa politica ma restano, in certa misura, fini a se stesso… pur essendo giuste in teoria risultano inutilizzabili e inutilizzate nella pratica
Ennio Abate
” come se potessero farla nascere nei tempi brevi necessari” (Fischer)
“pur essendo giuste in teoria risultano inutilizzabili e inutilizzate nella pratica” (Panella)
Non ho parlato di tempi brevi. E del resto il realismo politico di Minniti e Gentiloni si appella anch’esso ai tempi lunghi per i risultati “migliori” (“creare un governo in Libia” al servizio delle mire neocoloniali italiane in concorrenza coi francesi; indebolire – sic! – i gruppi criminali pagandoli), mentre nei tempi brevi ottiene solo il risultato di placare le paure (montate ad arte) per l'”invasione” dei migranti consegnando alle bande libiche una buona parte di quelli che ancora tentano la via della fuga.
Stabilire poi una inimicizia totale tra etica e politica è davvero preoccupante (per me). Verrebbe a essere confermata che l’etica va coltivata nella propria “anima bella” e la politica è *esclusivamente* realpolitik e si riduce alla ragion di Stato. Ma manco Machiavelli arrivava a tanto, se criticava i profeti disarmati, ma non credo i valori che li animavano. A smentire questa visione ci sono poi i movimenti e le rivoluzioni, dove etica e politica s’intrecciano e s’alimentano a vicenda. La Rivoluzione francese o russa sono state fatte *soltanto* con il realismo politico? Non mi pare. Io guardo a “Stato e rivoluzione” (che nasce anche da un’etica della rivoluzione) non al “Leviatano” di Hobbes (che si fonda su un’etica della controrivoluzione).
Non uso il termine inimicizia perché non metto etica e realismo nella opposizione classica amico nemico, ho scritto e ripetuto: “nel mondo di oggi, globale di democrazie elitarie” e il “carattere elitario della nostra democrazia”. L’impotenza di possibilità rivoluzionarie *oggi* non è paragonabile alla realtà e possibilità di rivolte popolari come è accaduto nella rivoluzione francese e poi sovietica. Quindi il realismo *non* è quello hobbesiano, dello stato sovrano e nazionale, mai c’è stato un potere globale, della finanza e del controllo democratico, come oggi.
Che etica e politica restino collegate in gruppi, partiti piccoli e grandi associazioni lo ho appunto scritto. Ma oggi etica e realpolitik stanno su due binari che non si incrociano. Prenderne atto farebbe sì che non si scaglino accuse morali per coprire anche la avvilente e generale impotenza politica.
Considerando la passività della politica estera degli ultimi anni, sono attenta alle posizioni di questo governo.
« Non uso il termine inimicizia perché non metto etica e realismo nella opposizione classica amico nemico» (Fischer). Però nel precedente commento su FB hai scritto « I rifiuti etici e il realismo politico sono da sempre nemici». E subito dopo: « perché non vedere che realismo e etica sono, invece che in opposizioni, in due reparti separati».
Ora, che tu parli di inimicizia o di (semplice) separazione, l’intenzione sottintesa resta, secondo me, quella di negare che « nel mondo di oggi, globale di democrazie elitarie» una qualche rivoluzione possa mai verificarsi ( o essere più progettata). In cosa, se non nell’ordine di grandezza e non nella sostanza, si distingue questa tua tesi da Hobbes? Al posto del Leviatano nazionale dell’epoca moderna ci sarebbe un Leviatano planetario postmoderno,« un potere globale, della finanza e del controllo». Che, però, – ecco la mistificazione – ti ostini a chiamare «democratico».
A mio parere ci sono due tipi di «impotenza politica»: quella di chi, agendo da una posizione di debolezza rispetto ai nemici predominanti, tenta di collegare etica e politica – cosa irrinunciabile, perché nulla nel rapporto dominati/dominanti si cambia senza una spinta anche etica, soggettiva; e quella di chi rinuncia totalmente all’etica in nome della realpolitik vincente, assecondandola.
La prima non dispera, anche se – è vero – può anche diventare soltanto consolatoria. La seconda è disperata in partenza, ha rinunciato ai suoi autonomi obiettivi, ha la coda di paglia, per cui vorrebbe che «non si scaglino accuse morali» contro i cinici e disumani real-politicanti; e si illude di ottenere qualche briciola da «questo governo».
p.s. anche lo sbarco in Sicilia lo hanno fatto alleandosi e consentendo di fare affari ai mafiosi, sarebbe forse meglio che non ci fosse stato?
…a volte possono sembrare passi avanti scelte che troncano semplicemente il problema anziché affrontarlo e dopo soltanto ci si accorge dei passi indietro. Credo che solo la politica etica sia lungimirante e risolutiva, non in tempi brevi. I movimenti migratori sconvolgono vecchi equilibri? Non potremo comunque evitare la sfida per un nuovo (0 nuovi) equilibrio…e speriamo che ce la caviamo umanamente
Certo occorre evitare gli equivoci, in una materia così incandescente, avrei dovuto scrivere che i rifiuti etici e i realismi politici sono da sempre in opposizione in quanto sfere separate della società umana (“Credo di ricordare che il passaggio dall’etica alla politica – dalla teoria alla prassi – fosse proprio il *problema*…” di Platone, scrive Partesana, ma non solo, per questo lo metto in corsivo).
Sfera conflittuale della politica, e sfera ideale del pensiero che nasce dalle relazioni primarie, amorose, e poi comunitarie, di giustizia materna – a ognuno secondo i suoi bisogni. Quel livello comunitario, in cui l’etica e la politica tendono a corrispondere, si è radicato nel cristianesimo alle origini, e via via in mille e tot anni in cui l’”ideologia” (in senso costruttivo) cristiana ha conflitto con il potere politico, variando sul tema del non sappia la destra quel che fa la sinistra (mani, non parti politiche). Si è poi riprodotto in quelle nuove interezze che erano la classe borghese con l’illuminismo e la classe proletaria con il comunismo, in cui l’etica di una in realtà parte umana, ma maggioritaria, progressista e universalista nelle pretese, ha proposto/imposto la propria ideologia, individualista, mercatista, eroica, come un’ideologia dell’umano per tutti.
Oggi è diverso sul serio: la parte che potrebbe proporre se stessa come la sfera da raggiungere per partecipare è il c.d. uno per cento, probabilmente meno, infatti non funziona più l’ideologia neoliberista. La politica degli stati capitalisti, più debole del potere economico sovrastatale, è comprata e lo favorisce, è al servizio. La dimensione conflittuale è assunta dagli stati diversi, forse già capitalismi conflittuali con quello tradizionale occidentale.
Che l’economia, transnazionale ed extrastatale, sia riducibile al Leviatano credo sia una semplificazione, non c’è un tutto di cui i cittadini sono parte. E non sono io che mi “ostino” a chiamare democratico quel potere ma è esso che propone la propria autolegittimazione in quei termini, con una falsificazione delle effettive relazioni che è colossale.
In questa situazione i portatori di etica, la cultura cristiana, illuminista, comunista, reagiscono, ma con poca potenza, se è vero come è vero che Bergoglio e i francescani di Assisi sono disponibili all’ascolto di Minniti. Credo anch’io, insieme a costoro, che il “passaggio” (Partesana) dall’etica alla politica oggi vada scrutato e verificato sul terreno di quest’ultima, e non nelle prediche incendiarie degli eticisti puristi. Che appunto, lo ribadisco, sparano ad alzo zero *entro le proprie file*, e credo anche che l’accusa (moralistica!) di coda di paglia non possa che provenire da chi fa del purismo una prospettiva concreta.
Quindi sì, registro una impotenza politica reale, e non affido al volontarismo etico l’evocazione di antiche possibilità rivoluzionarie. Perchè la storia ha già invalidato quel tipo di accoppiamento: l’etica degli ideali di una parte che si autodelega a rappresentare gli interessi di tutti. (Le critiche al secolarismo e al modernismo hanno fatto chiarezza su questo.)
Si stanno pensando altre modalità per svuotare dall’interno una costruzione farlocca, in cui troppo viene cancellato perchè solo alcuni agiscano (cosa ci sarebbe di più ampio infatti, universale addirittura, del neoliberismo, in cui esistono i singoli, ogni singolo, in nome della libertà -di iniziativa- e dell’uguaglianza – formale?), si pensa la moltitudine, l’impersonale, la relazione, la differenza. Si vede bene che manca il soggetto rivoluzionario e si cerca affannosamente chi e cosa possa sostituire quella funzione. Non sono scherzi, queste riflessioni. Intanto si sta dove si è, possibilmente senza scomuniche da pulpiti autoassegnati. Perchè, lo ripeto, solidarietà e apprezzamento (etici!) per le associazioni pubbliche e private che si occupano dell’inserimento dei migranti li provano (quasi) tutti. Ma insieme si cerca di comprendere a fondo la situazione con i suoi legami con altre forze, le nostre debolezze, gli scopi e la casualità in quello che sta accadendo. “Credo che solo la politica etica sia lungimirante e risolutiva, non in tempi brevi” scrive Annamaria. Credo anch’io che siamo in una fase in cui occorre pensare in tempi lunghi, e in più, nei tempi brevi, le chiedo, forse che le prediche e le accuse servono a qualcosa?
@ Fischer
Dopo una prima parte di riflessione storica generale, problematica e di ampio respiro, che apprezzo in pieno, quando arrivi al nodo del che pensare/che fare per contrastare l’«impotenza politica reale» , eludi e travisi il contrasto *reale e politico* esistente tra quelli che presenti come «eticisti puri» e quelli che ho chiamato «realpoliticanti» (alla Minniti per essere chiaro).
E scrutiamolo e verifichiamolo questo «“passaggio” (Partesana) dall’etica alla politica […] sul terreno di quest’ultima» invece di evocarlo soltanto!
Ne risulterebbe, secondo me, che esistono – come ho scritto – almeno due tipi di «impotenze politiche»: quella vera di chi vorrebbe ridurre il danno agli umani e alle classi subordinate dello scontro tra le élites mondiali per avere l’egemonia (assoluta, relativa) degli attuali processi di globalizzazione (il flusso dei migranti è solo una delle arterie sanguinanti perché spezzate dai signori della guerra, in primis statunitensi); e quella *apparente* o comunque * da vassalli* dei politici capitalisti alla Minniti, che non so se sia e quanto « più debole del potere economico sovrastatale» o più «comprata».
Questa seconda ( e apparente) andrebbe distinta nettamente dalla prima, che raccoglie chi o subisce da vittima questo stato di cose o vorrebbe contrastarlo ma non ha forza sufficiente da opporre ( commento Panella) ai Minniti e ai Gentiloni che gestiscono questo *sfruttamento* neocoloniale in posizione di potere.
Tu, essendoti schierata *realpolitik-amente* con Minniti, echeggi nel dibattito di Poliscritture la sua posizione e polemizzi, come fa lui e fanno i suoi ( dal PD alla Lega) squalificando chi gli si oppone – sì, sul piano etico in mancanza di meglio – travisando e sfottendo ovviamente con garbo signorile.
Però di «eticisti puristi» qui non ce ne sono. Le critiche (non le “prediche”) di Pezzella, Genovese e mie non « sparano ad alzo zero *entro le proprie file*» ma contro Minniti, che non sta in queste file, anche se ci sei tu a riecheggiarne le posizioni. Il fatto che manchi «il soggetto rivoluzionario» non è un alibi per passare dalla parte di Minniti. La storia non invalida mai in assoluto «quel tipo di accoppiamento» [suppongo tra etica e politica], sei tu che lo vuoi sepolto per sempre. La solidarietà e l’apprezzamento (etici!) «per le associazioni pubbliche e private che si occupano dell’inserimento dei migranti» li proveranno «(quasi) tutti», ma ad impedire che diventino atto e organizzazione politica stanno le truppe e i generali «realpolticanti». E lo scontro tra loro e “noi” è politico. Certo si reagisce « con poca potenza, se è vero come è vero che Bergoglio e i francescani di Assisi sono disponibili all’ascolto di Minniti». Il che prova che c’è poco da fidarsi anche degli alti apparati della Chiesa. Ma lo sappiamo: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!
…”siamo in una fase in cui occorre pensare in tempi lunghi”, allora siamo d’accordo Cristiana occorre immaginare, “vedere” come vorremmo il mondo e l’umanità domani in base alle nostre scelte di oggi…scelte concrete: cosa pensare, dire, agire e con chi…senza sentirsi puristi, se mai coerenti con un progetto…l’altro poi, chi la pensa diversamente da noi, sta intorno a noi ed anche dentro di noi, ma proprio per questo è importante fare una scelta di campo…ll dissenso con modalità personali sta nelle cose
E “scrutiamolo e verifichiamolo” questo passaggio dall’etica alla politica sul terreno della politica!
Il punto che sostiene l’intera argomentazione nell’ultimo commento di Ennio mi pare essere questo: “Minniti e Gentiloni gestiscono questo *sfruttamento* neocoloniale in posizione di potere”.
Tre parole da esaminare: -sfruttamento, -neocoloniale, -posizione di potere.
Parto da “neocoloniale”. Credo il riferimento sia al ruolo dell’Eni, che ha forti posizioni in Libia (due terzi delle concessioni petrolifere, nel 2011), posizioni che Francia e Gran Bretagna furono intenzionate a ridurre con la guerra del 2011. Lo stesso omicidio Regeni è da molti stato collegato al giacimento di gas nelle acque egiziane, che gli stessi due paesi non volevano diventasse riserva del solo Eni. Gli affari con l’Egitto durante l’assenza di un ambasciatore italiano sono tuttavia continuati, con forniture di armi e rifinanziamento di missioni militari http://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/08/18/news/tutti-gli-affari-dell-italia-con-l-egitto-di-al-sisi-che-dopo-l-omicidio-regeni-sono-anche-aumentati-1.308232
Non si può neanche ignorare che la guerra in Libia è stata voluta dalla Francia contro il progetto di Gheddafi di creare una nuova moneta africana che avrebbe soppiantato il Franco africano, legato all’euro: “Come ci racconta oggi Milano e Finanza, ‘il valore del Cfa è fissato all’euro e il Tesoro francese ne garantisce la convertibilità. Almeno il 65% delle riserve nazionali di questi 14 paesi sono depositate presso il dicastero del Tesoro transalpino che, in tal modo, si fa garante del cambio monetario. In sostanza, la Francia ha a sua disposizione le riserve nazionali delle sue ex colonie’. È evidente, quindi, come l’iniziativa gheddafiana mettesse in pericolo l’architrave del business francese in Africa.” http://www.nigrizia.it/notizia/le-bombe-di-sarkozy-sulla-moneta-africana
Italia neocoloniale, tra altri lupi neocoloniali, in una UE superneocoloniale! Si può farne a meno? Diventando come l’Albania di Enver Hoxha forse. Oppure… c’è una strada, ne scriverò alla fine.
Considero poi due episodi: negli ultimi giorni la ripresa di arrivi di barconi – secondo alcuni a causa di un precedente incontro di Haftar con Minniti e di uno prossimo di Haftar con Pinotti in Italia. Migranti usati come arma di pressione politica.
L’altro episodio lo ho sentito raccontare in tv da Andrea Purgatori: quando fu scoperto il cadavere di Regeni era al Cairo un rappresentante del governo italiano, non ricordo chi, davanti a cui Al Sisi in tono spezzante e minaccioso ricordò che avrebbero potuto inondare con un milione di profughi il nostro paese.
La seconda parola è “sfruttamento”. Il primo sfruttamento dei migranti lo fanno i passeur criminali, quelli del deserto e quelli del mare, poi lo fanno i politici libici, poi lo fa l’Egitto come la Turchia, poi la UE che rende i paesi del sud fascia di confine e contenimento dei problemi. L’Italia sfrutta i migranti politicamente, a destra come a sinistra, economicamente riservando loro lavori e condizioni di vita orribili, socialmente scaricando su di loro un montante razzismo che li incolpa proiettando i nostri peggiori istinti, vizi e sentimenti.
Ma c’è ben altro, cioè le persone che lavorano e/o si dedicano all’integrazione e all’accoglienza. Vediamo allora come si oppongono a queste, i realpolitiki come sarei anche io. La “posizione di potere” (terza parola) è quella dei vassalli alla Minniti forse persino comprati dai poteri economici. Ma si sta fra altri poteri e si deve operare in quel quadro che è anche duro. Nei confronti dei migranti si è deciso di controllare i flussi. E’ vero che il governo ha fatto sì che quelli che avrebbero potuto partire sono invece stati rinchiusi nei lager. Secondo una fonte a luglio e agosto sono arrivati 15.000 migranti rispetto ai 45.000 del 2016, 30.000 persone in più rinchiuse nei lager. E’ una consapevolezza atroce, che capisco provochi gli articoli di Genovese e di Pezzella. Voglio sperare che l’intervento di organismi internazionali in Libia, finalmente, consenta l’arrivo legale di alcuni da noi, il rimpatrio per altri, l’aiuto ai paesi di provenienza, il controllo dei centri libici. Queste sono, in parte, azioni già compiute e in parte futuri impegni, ma bisogna osservare che nessuno, neanche Bergoglio, parla di accoglimento generalizzato e su questo io concordo. Per ragioni di tenuta sociale interna, per ragioni di concorrenza al ribasso sul lavoro, per difficoltà reali nella convivenza con grandi numeri di persone che hanno una cultura diversa. Quello che emerge chiaro è che le migrazioni sono rette da posizioni di potere altre che da noi, dai migranti stessi, ma anche da interessi politici diversi. Ne dipendono forse quelli che insistono sui vantaggi per noi che i migranti rappresentano, anzi sulla necessità di averli: per esempio perchè siamo una popolazione invecchiata, tacendo il fatto che invece manca da decenni una politica che sostenga le nascite e le donne, con welfare, diritti del lavoro, case per tutti. Questo si spiega economicamente, i migranti costano meno che allevare figli, e vanno bene a un mondo del lavoro in gran parte sempre meno qualificato.
La mia prospettiva politica è perciò quella interna, che porti a un controllo democratico sul governo per diminuire il suo vassallaggio a poteri esterni, e a contemporaneamente implementare la convivenza interna nel senso dell’accoglienza e della sicurezza. Sto sul terreno della politika, l’etica è quella di affrontare la situazione nei termini migliori possibili, tenendo conto dei vincoli della necessità, rappresentata da altri interessi.
(A proposito della chiesa cattolica, usare l’espressione “c’è poco da fidarsi anche degli alti apparati della Chiesa” significa che ci si può fidare solo di chi la pensa negli stessi termini, ma si torna al primato della morale.)
@ Annamaria. Questa tua frase “chi la pensa diversamente da noi, sta intorno a noi ed anche dentro di noi, ma proprio per questo è importante fare una scelta di campo” io la capisco così: chi sta intorno e anche dentro va guidato da una precedente scelta di campo.
Problema morale di prim’ordine: è l’intelletto, io direi la conoscenza, che guida la volontà, o è la volontà che guida la conoscenza?
@ Fischer
No, no e no alla tua realpolitik!
Non vengo a pattinare con te
sul Cocito di scetticismo, cinismo e ragion di Stato.
Non mi metto a correre con l’Eni dietro « altri lupi neocoloniali
in una UE superneocoloniale»
per paura di diventare « come l’Albania di Enver Hoxha»
o che Al Sisi mi inondi con un milione di profughi».
Disprezzo chi dà soldi alle bande libiche
per bloccare nei lager i migranti
prima che tentino la traversata del Mediterraneo.
Non mi adeguo agli altri (Usa, Gran Bretagna, ecc.)
che li usano «come arma di pressione politica».
Non mi chiedo: «si può farne a meno?».
Non ragiono con la testa dei padroni del mondo
perché « si sta fra altri poteri
e si deve operare in quel quadro che è anche duro».
Non penso che «30.000 persone in più rinchiuse nei lager»
dopotutto sono noccioline
perché Hitler ne metteva di più e Stalin poi…
Non me ne fotte – scusi signora eh! – che « nessuno,
neanche Bergoglio, parla di accoglimento generalizzato»,
né della nostra « tenuta sociale interna»,
della «concorrenza al ribasso sul lavoro»,
delle «difficoltà reali nella convivenza con grandi numeri di persone
che hanno una cultura diversa».
Non vedo nessuno oggi in Italia
in grado di operare un « controllo democratico sul governo
per diminuire il suo vassallaggio a poteri esterni,
e a contemporaneamente implementare la convivenza interna
nel senso dell’accoglienza e della sicurezza».
E ciò malgrado, voglio costruire
nella merda in cui ci hanno messo
una * poli(e)tica*.
Non so come, ma ci ho sempre provato e ci proverò ancora.
“… io solo
combatterò, procomberò sol io”
tra gli angeli, naturalmente, non tra i comuni mortali.
mortali siamo tutte tutti
comuni (sti) chi se la sente
gli angioletti del ceto medio
piuttosto benestanti
alla realpolitik convertiti
dall’arcangelo Minniti
li vedo tutti sbraitanti:
ah, dannati migranti!
…non si può disgiungere
conoscenza e volontà:
mentre conosci e agisci
la realtà
il terzo incorporato è
la moralità.
Il terzo incomodo, pensi?
La sua assenza è comunque
una presenza
e ben lo sanno
indigenti e migranti
indifesi come Regeni
sacrificati al gioco dei potenti
Tenere insieme ciò che si sa, le decisioni attive e gli orientamenti morali, è l’impegno di ognuno, direi. E tuttavia le differenze di posizione si sprecano, e che cosa le determina?
Andando al caso specifico: la conoscenza delle circostanze generali apparteneva al governo anche prima di Minniti, sembra quindi che l’attuale ministro abbia fatto prevalere la sua volontà di agire in una determinata direzione.
O è stata una più completa ricognizione degli elementi – cioè una riconfigurazione conoscitiva – a convincerlo ad agire in quel modo?
In questo quadro la morale interviene per fissare un bene che ha valore assoluto, riconosciuto come tale. Nel caso tuo e di Ennio sarà la libertà dei migranti di volere una vita migliore.
La volontà di Minniti sarebbe allora quella di non riconoscere ai migranti questo diritto-libertà assoluto, ecco le accuse, morali, che gli si rivolgono di essere nazista-stalinista e quant’altro. “Il peccato non risiede formalmente e primieramente nel pensiero, nella parola o nell’opera; ma nel solo atto della volontà. E nessun atto può essere cattivo, anche solo materialmente, se non può essere comandato da un atto formalmente cattivo della volontà. Giacché niente è imputabile come peccato che non proviene da una volontà deliberata.” (Duns Scoto)
Quando la vita migliore per i migranti si trovi messa a confronto sullo stesso piano con una vita peggiore per gli ospitanti, ecco che il valore *assoluto* di quel bene scompare. E le posizioni divergono, anzi si oppongono, se il bene *assoluto* diventa un bene tra altri beni. E’ vero che “non si può disgiungere/conoscenza e volontà”, quando il terzo “incorporato” è un’assenza che è comunque una presenza, cioè è Dio, ed è così per san Tommaso d’Aquino.
“La volontà di Minniti sarebbe allora quella di non riconoscere ai migranti questo diritto-libertà assoluto, ecco le accuse, morali, che gli si rivolgono di essere nazista-stalinista e quant’altro” ( Fischer)
Non sono accuse *morali*. E’ rifiuto di una *politica* neocolonialista, antiumanitaria, strategicamente subordinata, i cui danni (per i migranti e noi) già si vedono – nell’aumento della loro sofferenza, nell’incanaglimento degli italiani – e di più si vedranno col tempo. Inutile scomodare Duns Scoto e Tommaso d’Aquino per queste porcherie.
Quindi sono tutti canaglie antiumane, stop, finito, è tutto chiaro, altri non pensano, non ragionano, sono appunto “antiumani”! E mi dici di non scomodare san Tommaso!
SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Franco Senia
http://francosenia.blogspot.it/2017/09/contro-fuoco.html?spref=fb)
*A proposito di *realpolitik*. [E. A.]
Contro-realismo
– di Robert Kurz –
Stralcio:
La semantica del controllo ideologico è dominata da coloro che detengono il potere fondamentale di definire che cosa sia la “realtà” e, di conseguenza, la “Realpolitik” (la politica realista). Il cartello semantico oggi dominante ha elevato a principio di realtà le esigenze dell’amministrazione capitalista della crisi ed ha ridefinito, in maniera corrispondente, il concetto di riforma. Il vecchio “pathos” del riformismo, sociale ed emancipatore, così come si era costituito nel discorso dello sviluppo storico della contrattazione collettiva, dello “Stato sociale” e del servizio pubblico, viene ora, proprio al contrario, strumentalizzato ai fini della contro-riforma. Le campagne di privatizzazione e di restrizioni sociali vengono subordinate allo slogan: “noi siamo la modernità”. Tanto più è privato ed a buon mercato, tanto più è meglio.
Tutti si preoccupano di fare le “riforme” contro “l’eterno passato”. Viene proposto il compromesso per quel che riguarda la “conformazione della società” Per esempio: si riduce la spesa del 5 o del 10%? Dev’essere chiuso l’ospedale o l’asilo? Devono essere eliminate le cure per i malati di cancro o per i disabili? Si aumenta dell’1% un qualsiasi beneficio ma si triplicano le spese ida un’altra parte? “Miglioramenti per le persone”, è il modo in cui viene chiamato ora il minor grado di deterioramento al quale, con un gesto riformatore, si può scendere. La lotta politica riguarda solo quello che serve per sapere chi è che ha maggior abilità nel vendere i nuovi tagli che sono sempre più duri. La sinistra politica è minacciata di “essere ridotta a diventare insignificante” se non fa delle “riforme convincenti”. La “volontà dell’elettorato” – in questo modo si intravvede la semantica del controllo – rigurgita di “realismo” e di “maturità dei cittadini”, proprio nel momento in cui è avida di bassi salari, di distruzione del sistema di sicurezza sociale e di privatizzazioni.
Questa regolamentazione dominante del discorso è ormai esaurita in quanto annuncio di un progresso imminente, noiosamente ripetuto da molti anni. Se le cose continueranno così, la parola “riformista”, prima rispettabile, rischia di convertirsi in una volgare insulto, con cui l’uomo comune definirà un cattivo vicino o un cane cattivo. Il lavaggio del cervello non sempre funziona. Il potere dominante della definizione della realtà può essere spezzato per mezzo di un forte contro-realismo. In questo senso, un’ampia campagna su vasta scala contro i progetto di salari bassi, assai più che una semplice politica sociale nei limiti dell’aritmetica politica, sarebbe una “Kulturkampf” (lotta culturale), un’offensiva di civiltà. Una contro “Realipolitik”, che ponga implacabilmente in discussione tutte le ramificazioni, i meandri e le complicità dell’amministrazione repressiva della sicurezza sociale e del lavoro, avrebbe probabilmente successo a livello di massa.
…Cristiana, tu dici che la libertà dei migranti di volere una vita migliore non è riconosciuta come diritto assoluto da parte del ministro Minniti perchè danneggerebbe la qualità della vita degli ospitanti… ma qui mi sembra si giochi con il linguaggio in una o più falsificazioni di base – mi viene in mente la favola dell’agnello e del lupo il quale deve cercare un alibi per la sua condotta crudele- in quanto i migranti fuggono da guerre e fame pertanto non scelgono di partire per una vita migliore, ma semplicemente per la vita, per la stessa sopravvivenza…
Non solo e non tutti, Annamaria. http://www.tempi.it/i-migranti-separati-dalle-opinioni#.Wci3FREUmAo, da leggere fino in fondo.
Su Avvenire, Sezioni, Attualità, Migranti, ci sono articoli continui sulla situazione. Accanto alla denuncia delle terribili storie nel deserto e nei lager, una analisi della situazione politica interna alla Libia, e agli interessati che i migranti li *usano*.
Anche essere disposti a un’accoglienza generalizzata li manterrebbe nelle mani dei trafficanti, a meno di non realizzare quello che chiedono i missionari italiani “l’apertura di corridoi umanitari; un embargo sulla vendita di armi italiane e una seria politica economica verso questi Paesi, non ai governi, ma alle realtà di base per permettere ai popoli d’Africa di rimettersi in piedi” https://www.avvenire.it/attualita/pagine/i-missionari-sulla-libia-accordo-scellerato. Però per fare questo occorrono azioni politiche qui. E anche se Ennio dice che *non vede nessuno in grado di operare* quel controllo democratico sul governo che io auspico, ancora questa strada mi sembra la più concreta da volere. Perché le lotte sulle cime sono quelle verbali sulle cime ideali, quelle sul fondo quotidiano sono quelle della politica qui e ora.
…le decisioni che oggi si prendono sui migranti non avvengono “sul fondo quotidiano”, ma dalle cime degli interessi dei potenti…I missionari additano delle strade da seguire e non sono i soli, ma si preferisce stroncare il problema…Nessuno nega che la situazione da affrontare sia complessa, ma il modo di operare di oggi è immorale, cioè se ne infischia di provocare morti, torture…Non è, come tu sembri sostenere, un “sano” compromesso che ha saputo scegliere per il male minore e non mi sembra neppure “intelligente”, nel senso di “furbo”, cioè in grado di fare l’interesse di una delle parti…Ormai marciamo insieme, siamo sulla stessa barca
Stiamo litigando in modo aspro con toni ultimativi per intransigenza e radicalità mentre nessun migrante in più uscirà dai lager e arriverà da noi grazie a te e Ennio né io ne rinchiuderò un altro. Quindi si litiga per l’identità, cumulando e proponendo ciascuno testi a rincalzo, che però condividiamo.
Quindi l’identità ha un grande rilievo, ci spinge continuamente a prendere posizione (“mille volte meglio passare per ‘puristi’ e ‘intransigenti’ che diventare complici – attivi o passivi – di questo macello sociale, politico e culturale”, Ennio). Le diverse traiettorie che le identità prospettano si possono tuttavia incrociare e possono mostrare analogie, e i comportamenti quotidiani probabilmente non sono cosi diversi, con gli stranieri numerosi intorno a noi.
La lontananza dagli effetti concreti delle diverse posizioni identitarie è quello che fa impazzire un confronto solo di dichiarazioni.
Forse tra qualche mese votando le differenze si coaguleranno, io spero in effetti che la democrazia riesca a dare conto di nuove posizioni, e insieme a tenerle insieme. Ma sono consapevole della crisi profonda del sistema democratico, la democrazia senza popolo di Galli.
Vedo anche che le identità per te e Ennio si riferiscono a principi extrapolitici, li chiamate etici -che devono informare di sé la politica- io li chiamo morali, scelte personali sul ruolo da attribuire ai principi.
Per me valori assoluti nella storia non si danno, ma solo possibilità di praticarli. Li considero valori regolativi, e che la politica li debba realizzare. Ma anche come valori regolativi la nostra e altre storie li hanno ignorati.
Oggi la situazione politica mondiale è più complicata che mai, e insieme rigida. Anche considerando che il voto in Germania ha dato peso a partiti altri dalla coalizione precedente, non credo che le linee di fondo cambieranno di molto, e strumenti altri dalla politica democratica non abbiamo.
@ Fischer
Sembra che stiamo litigando per niente o per difendere la propria “identità”. Non è così. Certo, né io e Annamaria faremo uscire dai lager libici un sol migrante né tu ne richiuderai un altro. Ma, per quel pochissimo che conta discutere su Poliscritture, non è la stessa cosa che in questo spazio si applauda alle scelte di Minniti e si echeggino le posizioni della Lega o del M5S oppure le si condanni.
Non diciamo, vogliamo, siamo disponibili a fare le stesse cose. Se tu avessi il potere oggi, faresti come Minniti. Se l’avessi io, contrasterei la politica dei respingimenti e, come ho scritto, lavorerei per un’alleanza tra migranti e italiani impoveriti.
Non è vero neppure che condividiamo i «testi di rincalzo» che ciascuno propone. I testi che tu hai proposto dicono A e i miei B. Respingere i migranti o “aiutarli a casa loro” mettendoli ( per il momento?) nei lager non è cercare la soluzione che vada alla radice del problema e contrasti le guerre neocolonialiste e lo sconvolgimento delle economie africane.
Questa seconda prospettiva è impossibile, utopica, delirante? Si vedrà. Per ora è solo contrastata e soffocata dal prevalere della cosiddetta realpolitik e dalla propaganda sempre più isterica dei “respingenti”.
Per me su questa questione siamo all’aut aut. Poi chi vuol sguazzare nel pluralismo, faccia. Ma non con me.
DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO
SEGNALAZIONE
(dalla bacheca di Claudio Vercelli)
* Mal di pancia in Germania “e non in uno Stato meno importante dell’Unione”. In arrivo in Italia. Domanda fondamentale: “E chiediamoci, semmai, quanto le nostre società stiano cambiando, lasciando comunque quote rilevanti di popolazione alle proprie spalle”. Aggiungo: fingendo che la minaccia venga dai migranti “invasori”. [E. A.]
Stralcio:
Il ciclo populista (lo so, la parola è inadeguata per definire una pluralità di fenomeni) pareva essersi temporaneamente arrestato con la vittoria in Francia di Macron. Non è stato così ed era comunque facile da prevedere già da prima dei risultati della tornata elettoriale di ieri. Con l’aggravante che la vittoria di un partito come AfD avviene in Germania e non in uno Stato meno importante dell’Unione. Non segna il “ritorno dei fascisti” ad una qualche forma di governo ma la persistenza di una variabile politica dai tratti radicali ed estremisti, che offre ad un numero crescente di cittadini, che si sentono abbandonati a sé, una ragione per continuare a sperare che qualcuno o qualcosa intervengano per alleviarne la condizione di minorità. Reale o presunta, ovvero percepita, che sia. Anche questa non è una novità, in tutta franchezza. Se qualcosa ci è “insegnato” dalla storia più recente è che alla crisi del ruolo redistribuitivo degli Stati, alla predicazione – oramai stanchissima e incongrua – di una “naturalità” delle crescenti diseguaglianze, al racconto quasi fiabesco delle trasformazion sociali come di una sorta di “arcobaleno” al quale ci si dovrebbe adattare senza assumere atteggiamenti autoprotettivi (quindi conflittuali), chi si sente messo ai margini è molto più proclive ad identificarsi (e a sentirsi in qualche modo rappresentato) da liste, partiti e formazioni radicali. Poiché avverte come “radicale” ed “estrema” la sua condizione, non solo materiale. Risparmiamoci la retorica degli “anziani”, degli “ignoranti”, dei “marginali da sempre” che avrebbero alzato la testa regalando ad AfD un risultato invidiabile. E chiediamoci, semmai, quanto le nostre società stiano cambiando, lasciando comunque quote rilevanti di popolazione alle proprie spalle.
Commenti
Luigi Paraboschi
” chi si sente messo ai margini è molto più proclive ad identificarsi (e a sentirsi in qualche modo rappresentato) da liste, partiti e formazioni radicali”
Luigi Paraboschi
a me sembra che la frase che ho stralciato dall’articolo e riportata sopra, sia la chiave corretta per interpretare i fatti che succedono. So ,Ennio, che non sono d’accordo con certe tue posizioni intransigenti, e infatti non sono mai intervenuto nell’esteso di battito di questi mesi sul tema, però mi sembra che l’articolo che hai riportato sia onesto nell’analizzare quanto sta succedendo. Quando il lavoro scarseggia, o si rarefa, quando i tassi d interesse sui depositi bancari sono sotto lo zero ( in Germania succede ), quando la globalizzazione ha prodotti i casini che sono sotto gli occhi di tutti, quando la presenza di tanti stranieri comincia ad infastidire i residenti e a far domandare loro quale sarà la fine del poco welfare conquistato negli anni di benessere nazionale, hai voglia a sventolare bandiere di amore fraterno e solidarietà, hai voglia a parlare di integrazione, ti dimentichi ( non tu, ovvio ) della natura umana e delle reazioni connesse ad una certa situazione economica. E stiamo parlando della Germania, con un Pil che marcia, con una disoccupazione ridottissima, con salati medi abbastanza alti, ecc. ecc.. Figuriamoci quando dovremo votare qui, in Italia, vedrai ci saranno tristi sorprese, e poi mi fermo perchè a te non devo insegnare niente, lo so
Ennio Abate
La mia posizione non è astrattamente intransigente e perciò posso segnalare con attenzione sia l’articolo di Lorenzo Monfregola che di Claudio Vercelli. Io sto dalla parte dei migranti e allo stesso tempo dalla parte dell’ex proletariato e ceto medio impoverito contro UE, governi nazionali e opposizioni populiste (Lega, M5S) che giocano elettoralisticamente le loro carte sulle spalle dei primi e dei secondi, alimentando la “guerra tra poveri”. Ho sempre detto che non sono né per i “buonisti” né per i “cattivisti” ma per una *alleanza tutta da costruire* tra migranti e popolazione torchiata dalle politiche di Monti, Renzi, Gentiloni e altri che verranno. So che la mia posizione è scandalosa di questi tempi per i cetomedisti benestanti e respinta dal “popolo incazzato”, di cui parla questa bella inchiesta di Lorenzo Monfregola. So anche che quei pochi come me ed altri, che non cedono al riflesso condizionato del ” ritorno del fascismo” sostenendo e votando ancora PD per paura di Lega e M5S o arrivando a spalleggiare Minniti nella sporca operazione di contenimento dei migranti in una Libia allo sfascio, sono dei “profeti disarmati” o – peggio del Gramsci pre-fascismo che almeno aveva un punto di riferimento nella rivoluzione di Lenin – tra due fuochi: l’ottusità politica del PD, che gestisce questa palude pur di comandare; e lo sbraitare demagogico di quelli che regaleranno sicuramente altre “tristi sorprese” a questo Paese. Ma è mille volte meglio passare per “puristi” e “intransigenti” che diventare complici – attivi o passivi – di questo macello sociale, politico e culturale.
1. Se io fossi al governo agirei per arrivare a un governo legittimo e consolidato in Libia, e contemporaneamente per liberare la condizione degli immigrati, in parte favorendo il loro ritorno a casa (ora sono impediti anche di questo, perché si può sfruttarli per ottenere soldi dai parenti) e in parte accogliendoli in Ue in accordo con gli altri stati europei.
Se fossi al governo tu, lasceresti che Ong e navi italiane li salvino nel mediterraneo per sbarcarli sulle nostre coste, la vecchia soluzione?
O forse saremmo ambedue in accordo nel costituire canali legali di ingresso, come chiedono i missionari della CIMI. Ma anche in questo caso io non accoglierei tutti, tu forse sì. Però saprai che non c’è un solo paese al mondo in cui io o chiunque altro potrebbe trasferirsi a piacimento. Il tempo in cui si migrava liberamente era centomila anni fa, e non eravamo 7,5 miliardi di esseri.
Voglio fermamente credere che il governo italiano attuale stia precisamente lavorando nel senso in cui lavorerei io. Spiegami perché questo non è vero: perché sono disumani? perché sono servi di colonialisti e colonialisti in subappalto? Quindi per principio?
2. I testi che io ho proposto sono testimonianze dai luoghi africani, molti sono di giornali cattolici, spesso accusano duramente il governo italiano. Ma non sposano il *miserabilismo* a prescindere.
I testi che hai proposto tu (ma perché rispondi anche a nome di Annamaria, a cui invece mi ero rivolta?) sono prevalentemente di vibrante accusa e spari al alzo zero, naturalmente è solo una mia valutazione.
3. Ma nel pluralismo, caro Ennio, non si sguazza, si convive civilmente. A meno che tu non abbia deciso che siamo in una guerra civile, tacita ma permanente. Come accennavo stamane, chissà perché nessuno raccoglie l’idea di discutere della democrazia in crisi, dato che la crisi dei sistemi politici dell’occidente è una questione vera di cui sarebbe opportuno occuparsi.
p.s. Non so poi se mi metti tra i cetomedisti benestanti, visto che insisti con l’argomento, non dirò l’importo della mia pensione, ma di sicuro a Milano ci sopravvivrei meno di due settimane ogni mese.
Se fino ad ora non ho preso parola è perché mi sono interrogata a lungo se valesse la pena sottoporsi (e sottoporre il lettore) a inutili sollecitazioni.
Inutili in quanto avrebbero portato, come si evince dall’andamento di questo pseudo confronto, ad un nulla di fatto: ognuno mantiene le sue posizioni, o, come dice bene Cristiana, le sue identità.
Sottolineando quindi che il concetto di identità non appartiene alla categoria ‘bruscolini’, per cui uno vale l’altro, bensì ha una radicalizzazione di partenza necessaria per arrivare poi a interagire – che non sempre significa integrarsi – con altre identità. Identità, inoltre, che non solo fanno capo a storie individuali diverse ma che, spesse volte, si *riferiscono a principi extra politici, li chiamate etici – che devono informare di sé la politica – io li chiamo morali, scelte personali sui ruoli da attribuire ai principi* (Cristiana).
Ho alla fine scelto di intervenire non mossa da spirito di convincimento, ma per portare alcune precisazioni che mi è sembrato corretto fare a fronte di alcune posizioni che mi sono parse contraddittorie.
1) Etica e politica.
Dovrebbero essere interconnesse in quanto informerebbero di sé l’agire dell’uomo cercando di trascendere (sul piano del pensiero e sul piano del comportamento) i condizionamenti di quell’esistente che varia in continuazione. Sul principio ‘universale’ dell’etica sappiamo (o, in ogni caso, non sto qui ad approfondire), mentre per la politica, intendendola come ‘ars’ – e pertanto sovraordinata rispetto al contingente – si intendeva sottrarla alla variabile soggettività interpretativa.
Poi l’etica si è trasformata in ‘morale’ che, piegandosi ad un relativismo spietato, è diventata ‘moralismo’ valido a seconda delle stagioni, e così pure la ‘politica’, che, trasformandosi in ‘politichese’, ha utilizzato la Polis per l’esercizio del suo potere.
In questa lotta per il potere (democratico, ça va sans dire) c’è stata comunque la ricerca di una validazione che viene sia dal ‘basso’ (soggetti da convincere, da cooptare per la bontà delle proprie idee) e, maggiormente, dall’alto, spesso attraverso una acritica riesumazione storica (i cosiddetti ‘padri fondatori’), la quale avrebbe stabilito gli aventi diritto ad appropriarsi dell’etichetta di “etica”, con il risultato paradossale di trasformare il tutto in ‘fazione’.
Nel confronto tra i vari interventi (contesto ‘migranti’), sono apparse dunque evidenti queste due problematicità: da un lato, l’invito ad astenersi a *scomuniche da pulpiti non assegnati* (Cristiana) e, dall’altro, a non affidare *al volontarismo etico l’evocazione di antiche possibilità rivoluzionarie. Perchè la storia ha già invalidato quel tipo di accoppiamento: l’etica degli ideali di una parte che si autodelega a rappresentare gli interessi di tutti* (Cristiana).
Per cui, quando Ennio scrive: *Non me ne fotte – scusi signora eh – che “nessuno,/ neanche Bergoglio, parla di accoglimento generalizzato”,/ né della nostra “tenuta sociale interna”,/ […] E ciò malgrado, voglio costruire/ nella merda in cui ci hanno messo/ una “poli(e)tica”*, vediamo accadere proprio questo: l’esclusione aprioristica di alcuni, ovvero di coloro di cui ci si fotte.
Ma allora non si può parlare di etica (o “poli(e)tica” che dir si voglia) bensì di una morale. Partigiana. Perché no? Basta riconoscerlo senza fare riferimento all’etica.
Anzi, direi meglio, una modalità ‘moralistica’ che va a smuovere emozioni e sentimenti (atavici) più che analisi che non siano, appunto, di parte. Eppure Ennio si difende: *Non sono accuse “morali”. E’ il rifiuto di una “politica” neocolonialista, antiumanitaria, strategicamente subordinata, i cui danni (per i migranti e noi) già si vedono – nell’aumento della loro sofferenza, nell’incanaglimento degli italiani – e di più si vedranno col tempo. Inutile scomodare Duns Scoto e Tommaso d’Aquino per queste porcherie* (Ennio, 24.09 h. 13.17).
Però così vengono messi nello stesso cesto, alla rinfusa:
a) neocolonialismo: solo perché si tutelerebbe l’Eni (forse, chissà?). Ma la ricchezza economica – tema comunque meritevole di un lungo discorso a parte – di cui possono beneficiare anche i migranti, qui o là che stiano, deriva solo dalla bontà d’animo, dalla divisione del mantello di S. Martino? O da una economia funzionante?
*Noi occidentali dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili. Ora, l’enorme debito che abbiamo accumulato, non vogliamo pagarlo.* scrive Felice Moramarco. Ma ‘noi’ chi? Tutti? E in che modo? E, soprattutto, in che modo lo dovremmo pagare questo debito? “Ricada su noi tutti l’ira divina?”
Ma intanto questo termine ‘neocolonialismo’ evoca passati inquietanti, sensi di colpa a go-go, così che poi non si va a fondo nell’indagine sul presente in quanto continuamente attraversata da infiltrazioni emotivo/ideologiche che non permettono una riflessione.
E non aiutano le ambigue dichiarazioni: *respingere i migranti o “aiutarli a casa loro” mettendoli ( per il momento?) nei lager non è cercare la soluzione che vada alla radice del problema e contrasti le guerre neocolonialiste e lo sconvolgimento delle economie africane* (Ennio). Ovviamente so che non è in un blog che si troveranno delle soluzioni però si trasmettono degli orientamenti!
b) l’antiumanità. Ma quella fa parte del sistema capitalistico, non è una scoperta: il suo (del capitale) progetto è un altro e cioè la riproduzione di se stesso, pur con tutte le trasformazioni possibili, costi quello che costi. Vorrei che fosse passata la stagione del desiderio del ‘capitalismo dal volto umano’!
c) la subordinazione ai poteri forti – ma allora il problema non sono i migranti! -. Subordinazione che non stiamo scoprendo ora, solo che viene tirata fuori quando torna utile a un certo fine, così come è sempre avvenuto con gli scandali che scoppiano ‘a tempo’.
d) la sofferenza dei migranti e l’incanaglimento degli italiani, per cui ambedue questi ‘soggetti’ sarebbero giustificati ad allearsi contro chi li riduce a questa tremenda condizione. Ma allearsi come, tenendo conto di una pesante differenza identitaria che, fra l’altro, vediamo presente anche fra di noi?
Ci abbiamo sbattuto la testa con il concetto di ‘unità di classe’, ma è come se fossimo refrattari a qualsiasi disillusione! E poi quale sarebbe l’obiettivo di questa alleanza? E, oltretutto, il cosiddetto ‘incanaglimento’ degli italiani credo sia legato anche a qualcos’altro di natura più complessa – vista la storia che ci è alle spalle – ed ha a che fare con l’inganno, con l’essere stufi del solito refrain del ‘siamo tutti sulla stessa barca’, un invito bacato alla solidarietà comune.
Per cui, in questo potpourri, si corre il rischio di fare una grande (e pericolosa) confusione.
Scrive L. Aguzzi: *Qualcuno avanza folli teorie (ad esempio Toni Negri) ritenendo che questo presente e futuro caos possa sconfiggere il capitalismo e l’imperialismo. Pensa che il nuovo “nomadismo” possa allearsi con il proletariato e il sub-proletariato e fare la rivoluzione. Teoria folle, che però, se si realizzasse in qualche modo, in base alla nota eteronomia dei fini, non porterebbe a costruire un paradiso in terra, ma a un nuovo equilibrio capitalistico e imperialistico probabilmente peggiore dell’attuale*.
In linea di massima, concordo. Anche se qualcuno potrebbe obiettare che peggio di così non potrebbe andare. A mio parere, questo non è un buon principio guida. E la storia (primavere arabe incluse) ce l’ha insegnato ampiamente.
2) Ideologia, Realpolitik e realtà.
Premetto un commento di Ennio (23.09.2017 fatto sul post di Eugenio Grandinetti) a fronte di una mia considerazione:
* è altrettanto un bel guaio – scrive Ennio – abbandonare « un gioco che *non si sa giocare* perché non si conoscono bene le sue regole»; e soltanto per evitare le illusioni ( tra l’altro per Leopardi fondamentali) o di passare per «mosca cocchiera», mentre è sempre l’ora di apprendere bene e più presto possibile quelle regole e tentare di cambiarle.*
Che sia importante capire le regole (premessa essenziale per cambiarle – cosa su cui concorda anche Ennio) per me significa tentare di ipotizzare quali sono le dinamiche che intercorrono tra i paesi dominanti che in qualche modo le impongono, proprio in virtù della citazione che ricorre spesso in questo blog: “diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!”.
Quindi non si tratta di Realpolitik ma di confrontarsi con il reale. E ritirarsi dal gioco che non si sa giocare significa anche riconoscere i propri limiti:
a) evitare di ‘giocare a fare i capitalisti senza esserlo’, perché poi si dovranno applicare le loro regole (anche di sfruttamento, ecc. ecc.).
Penso al commento di R. Genovese rispetto all’integrazione nei confronti dei migranti: “Se invece di mandare nei loro paesi quei cinque milioni di dollari, quanti edifici scolastici si sarebbero potuti mettere in sicurezza, nello stato comatoso di un territorio come quello italiano esposto di continuo al rischio sismico e idrogeologico, all’interno di un piano – non solo italiano ma europeo – di lavori socialmente utili con maestranze composte prevalentemente da immigrati?*
Ma questa lapalissiana (?) soluzione com’è che non balza agli occhi dei governanti?
Forse non è così lapalissiana se, quando poi si deve mettere in sicurezza un territorio (o parte di esso), si incontrano ostacoli che provengono da opposte fazioni, minacce (vedi in merito all’abusivismo), oppure scendere a compromessi. Perché fare le cose semplici o comunque presentarle come tali?
E infatti Ennio scrive (23.9 h. 17.30): *Non vedo nessuno oggi in Italia/in grado di operare un « controllo democratico sul governo/per diminuire il suo vassallaggio a poteri esterni*.
E allora? Siamo nel registro del realismo, del coltivare illusioni (e illudere altri!) o di Realpolitik?
Questo atteggiamento non significa forse fare le mosche cocchiere? O fare i discorsi di calcio al bar in merito a come ‘dovrebbero’ essere giocate le partite?
b) sapere di non avere (per il momento) un potere determinante (o relativamente tale e quindi tutto da pensare) potrebbe indurre a quella cautela necessaria ad evitare le illusioni a sé e agli altri che ci credono (vedi le promesse che sono state fatte ai migranti!), o mandare persone allo sbaraglio (vedi Regeni).
Vorrei commentare questi due stralci da “Controrealismo”, di Robert Kurtz, sempre riportato da Poliscritture.
a) * Il vecchio “pathos” del riformismo, sociale ed emancipatore, così come si era costituito nel discorso dello sviluppo storico della contrattazione collettiva, dello “Stato sociale” e del servizio pubblico, viene ora, proprio al contrario, strumentalizzato ai fini della contro-riforma*.
b) *Se le cose continueranno così, la parola “riformista”, prima rispettabile, rischia di convertirsi in una volgare insulto, con cui l’uomo comune definirà un cattivo vicino o un cane cattivo. Il lavaggio del cervello non sempre funziona. Il potere dominante della definizione della realtà può essere spezzato per mezzo di un forte contro-realismo.*
Ora, la mia memoria – pur prossima a quel decadimento che il passaggio del tempo comporta – non può però dimenticare – e senza alcun fine *controriformista* – che non per tutti esisteva il “pathos” del riformismo visto come modello di emancipazione. Ragion per cui quel termine (unitamente a quello di Compromesso Storico) non era già allora – da parte dei ‘comunisti’ – una parola *rispettabile* come il rispettabile R. Kurtz vuole fare passare, bensi era vista come un pericolo. Il pericolo – come poi accadde, complici i sindacati e una certa sinistra, appunto riformista – che le spinte (rivoluzionarie?) per ottenere una società diversa si ammosciassero in virtù di un benessere acquisito (e, naturalmente, chi non lo vuole, il benessere? Forse che per i migranti non è così? Loro lo vogliono, anzi, lo pretendono!). Eppure, allora, era d’obbligo accettare il senso di quella Realpolitik! Ma chi la definiva o la determinava ?
Ragion per cui, quanto al *potere dominante della definizione della realtà* (Kurtz), non si tratta soltanto di spezzarlo *per mezzo di un forte contro-realismo* (Kurtz) ma, innanzitutto, cercando di capire chi è che detiene il potere della parola. Che non sempre sta dove uno pensa che stia il nemico declarato!
Allora, realismo, significa anche fare queste verifiche che vengono rese difficili dalla intromissione delle ideologie e dall’oscuramento sistematico della memoria storica.
R.S.
“…Allora, realismo, significa anche fare queste verifiche che vengono rese difficili dalla intromissione delle ideologie e dall’oscuramento sistematico della memoria storica” sono d’accordo, Rita, ma secondo me quando si intraprende un viaggio per la conoscenza, su basi realistiche, ma nuovo, occorre sì essere dotati di strumenti di osservazione e di indagine e di un patrimonio di conoscenze, ma occorre anche liberarsi da qualcosa che può ostacolare la serenità dell’approccio alla realtà, cioè di una predisposizione dello spirito che innalza frontiere, fili spinati vuoi per paura, per difesa, per autodifesa…sentimenti che possono essere salutari nella giusta misura, ma se invalicabili, come i muri, creano ostacoli sul cammino della conoscenza e della giusta prassi…Un cammino a lungo lungo termine, non senza ritorni, ripensamenti, sconfitte, ma per me è importante avere una direzione…
@ Annamaria
Il grande psicoanalista W. R. Bion affermava – a seguito dei suoi innovativi studi sul funzionamento primitivo della mente – che il terapeuta, nel suo lavoro, deve accostarsi al paziente “senza memoria e senza desiderio”, nel senso che ogni incontro rappresenta una esperienza nuova mai datasi prima.
Questo non significa abbandonare/rifiutare né la memoria di quanto accaduto e né il desiderio di quanto si desidererebbe accadesse: bensì metterli temporaneamente tra parentesi in attesa che la ‘realtà che si crea nel qui ed ora parli’ ed apra le porte di quella parentesi ed emergano quei nessi che daranno un senso nuovo alla emergenza che si sta configurando in quel momento.
Ciò vale anche per le esperienze di vita, che sono sempre nuove (“non ci si bagna mai due volte nell’acqua dello stesso fiume”) e dove è importante la capacità di farsi sorprendere dalla realtà che ci si presenta in quel momento.
Ma, nello stesso tempo, non possiamo né trascurare il patrimonio legato alla memoria e le risorse accumulate dall’esperienza (come oggi si tende a fare – e si viene stimolati a fare), e né aggrapparci acriticamente ai desideri costruendo un mondo parallelo ‘avulso’, per certi aspetti, dalla realtà contingente (o, per dire meglio, anche dalle stimolazioni legate al cambiamento, che si possono presentare) .
Adottare una posizione ‘realistica’ – nel senso complesso di cui sopra – non è altro che questo. Il che, ripeto, non significa abbandonare desideri di mondi migliori o evitare di assumere posizioni sognanti ma, a fronte di una tua citazione sulla favola del lupo e dell’agnello, essere in grado di intuire chi è davvero il lupo senza finire nelle sue fauci come fece l’incauta (e superba) Cappuccetto Rosso la quale, pensando di sapere tutto, faceva la disinvolta senza rendersi conto del pericolo!
Coniugare emozione (con tutti i suoi correlati: *ma occorre anche liberarsi da qualcosa che può ostacolare la serenità dell’approccio alla realtà, cioè di una predisposizione dello spirito che innalza frontiere, fili spinati vuoi per paura, per difesa, per autodifesa*) e ragione non è facile, non lo è mai stato, al punto che si è privilegiata una istanza a discapito di un’altra.
Solo che in questo o/o, si procede zoppi!
R.S.
Le parole sono pietre.
1.
Rubo tale aforisma dal libro di Carlo Levi e vi aggiungo – di mio – una curiosità linguistica. Una identica parola – “ urdlyjvyj “ – in lingua russa vuol dire “ molto bello “ e in lingua ucraina , invece , l’esatto contrario e precisamente “ molto brutto “ ( vd. Grande Enciclopedia De Agostino sub voce Ucraino ). Si può immaginare quali eventi storici siano all’origine di tale divaricazione. Attenti all’uso delle parole.
2.
I movimenti di uomini singoli, di gruppi di uomini o di interi popoli da una regione all’altra del globo terrestre fanno parte di ogni epoca della nostra storia .
Ma si tratta di fenomeni con caratteristiche ab origine diverse cui corrispondono nomi diversi.
Se trascuriamo – ovviamente – i viaggi di diporto, restano da considerare come significativi dal punto di vista socio-politico-economico le emigrazioni, le migrazioni e le invasioni.
Conosciamo questi fenomeni e abbiamo costruito le parole che li descrivono e servono ad individuarli.
L’invasore è un popolo che occupa il territorio occupato da altro popolo, ne vince le resistenze e ad esso si sostituisce nel dominio dello spazio su cui l’altro popolo abitava governandolo.
I Visigoti – tanto per fare un esempio concreto – invasero l’Italia ed occuparono persino Roma
( anno 410 d.c ).Delle invasioni sono proprie la violenza e la sopraffazione.
Possiamo dare identica descrizione rispetto al “ viaggio “ dei nostri emigranti negli USA, in Australia, nel Canada ? Sono vissuto abbastanza a lungo per vivere di persona alcune avventure di tale tipo. La risposta alla mia domanda è, ovviamente, negativa. I nostri emigranti, come quelli di altri paesi, non hanno occupato alcun territorio, se non si vuol fare l’amara ironia di dire che hanno occupato le loro stanze di abitazione per lo più miserabili. Non hanno sottomesso o tentato di sottomettere alcuno e in un certo senso sono stati “ aggrediti “ ( non necessariamente in senso negativo ) dall’altrui cultura, cui si sono sottomessi.
Ma si vede subito come l’uso non corretto dei due termini sia pericoloso; è uno scagliare la pietra
( per ritornare all’immaginosa frase di Carlo Levi )- Posto che sembra anche moralmente giustificato rispondere alla violenza alla violenza altrui, attribuire all’emigrazione i caratteri dell’invasione significa giustificare una violenza ingiustificabile-
Concludendo: se si esce da queste notazioni introduttive ( che sembrano un gioco linguistico ) e si entra nel campo delle “ cose “ ci si accorge che usare il termine invasione di fronte ad una “ cosa “ che è una emigrazione si finisce per legittimare la minaccia contro il migrante. Sei un invasore e dunque non ti accolgo e ti lascio morire. Il meccanismo è vecchio di secoli, collaudato, semplice ed efficace. Ha tutte le qualità per essere un’arma di governo politico.
Stiamo vivendo circostanze di tale tipo..
2.
E’ plausibile – ma sono necessarie delle precisazioni – l’opinione che i fenomeni storici considerati abbiano identica “ ragione “ che possiamo chiamare “ penuria “ ( termine caro agli economisti ).
Vi sono alcune eccezioni. Sappiamo molto poco delle culture nomadi : se coloro che ne sono portatori si muovano per necessità ( “ penuria “ appunto ) ovvero da per qualcosa di più originario e profondo che da essa prescinda. Di un popolo primitivo – quello dei Pigmei – ci resta lo struggente verso di una loro canzone raccolta dall’etnologo C.W von Sydow : “ Noi siamo l’accampamento che cammina “ che non accenna affatto ad una calamità naturale che li ha costretti ad un cammino continuo ma piuttosto ad una componente essenziale del loro modo di vivere. Può darsi che nel loro cammino incontrino resistenze ,ma a stare alla loro poetica riflessione non è così. Si può parlare di “ cultura del nomadismo “ ?
Lascio da parte questa indagine – che forse è marginale – per che affrontare altre tematiche ineludibili.
Intanto segnalo che anche il termine “ penuria “ si presta ad alcune interpretazioni giustificatrici di una sorta di “ invasione pacifica “ e senza spostamento di persone come avviene nei movimenti irredentisti che hanno successo. L’annessione dei Sudeti cecoslovacchi alla Germania nazista
( Accordo di Monaco del 1938 ) è un esempio. Quale è stata la “ penuria “ che l’ha giustificata?
La mancanza – o presunta tale – della “ casa natale perduta “ ( heimat ,appunto ). E Sudetendeutsche Heimatfront si chiamò il partito – capeggiato da un nazista vincitore delle elezioni capeggiato a supportarne la legittimità.
Basta questa “ penuria “ a rendere eticamente sopportabile tale duro fenomeno ? Ai posteri
l’ardua sentenza.
Ma l’aspetto meno tranquillizzante dell’intera questione è un altro.
Siamo portati a pensare – almeno all’origine – che sia moralmente cogente l’idea che ogni popolo
viva in condizioni accettabili e non debba perire per fame, per sete o per altre calamità naturali come di fatto accade. E’ conseguente che la sua migrazione per terre meno inospitali sia ampiamente giustificata. Ma – ecco il punto – quale è il nostro atteggiamento quando tale migrazione incrocia l’esistenza di un altro popolo ? Tale evenienza è – nel mondo attuale – la norma perché non si danno spazi “ disponibili “ e tali spazi sono, per di più, occupati da organizzazioni stabili che hanno – da parte loro – un fondamento ragionevole che si proietta su una collettività proteggendone la coesione e convivenza. Questo quadro – in cui aspetti di salvaguardia individuale si connettono in modo assai complesso con interessi collettivi – ci porta all’amara costatazione – fatta a mio giudizio correttamente da Partesana – che non esistono invasioni non violente e ciò non solo per l’azione dell’invasore ma anche per l’azione degli invasi.
Si riproduce, con molte complicazioni in più, lo schema della legittima difesa individuale che non condanna la reazione dell’aggredito. Se chiamiamo con il suo nome – guerra – il complesso delle azioni e reazioni violente che seguono “ necessariamente “ – concludiamo che è giusta e moralmente accettabile la reazione proporzionata e cioè una guerra meramente difensiva che si fermi “ sul confine “ dell’aggressore. Se e come ciò sia possibile è una sfida enorme.
Sì, certo, si può concepire anche una non violenza estrema che lega le mani all’individua aggredito e comporti la resa incondizionata all’invasore . Non è detto che non si arrivi “ necessariamente “ a tale conclusione in una prospettiva che sembra apocalittica e che – invece – appartiene alla storia dell’uomo. Non siamo stati sempre come siamo oggi e non v’è ragione di pensare che saremo domani come siamo stati oggi. Occorre una sapienza delle origini che ci prepari “ onorevolmente “ ad un futuro che occorre immaginare diverso dal presente. Spogliato da ogni implicazione religiosa il motto “ estote parati “ – che mi piace affiancare allo scespiriano “ maturare è tutto “ ( Re Lear ) – va letto come l’impegno, che come uomini abbiamo, di essere pronti a tutto conservando la nostra dignità ( che significa mia, tua, sua, nostra vostra, loro ) .
3.
Queste osservazioni non riguardano – allo stato – il fenomeno delle emigrazioni, ancorchè di massa. Ma tale fenomeno ci deve aiutare però a capire alcune derive inarrestabili e a governarle in modo umanamente accettabile. Non è vero – come ho già detto e ribadisco – che le emigrazioni sono invasioni . Dunque, ogni respingimento degli emigranti o anche solo il chiudere gli occhi di fronte alla loro origine, causa, condizione è incivile e anche profondamente stupido. Il fenomeno proseguirà perché vi sono cause di esso che non accennano a diminuire e sembrano, anzi, destinate ad intensificarsi. Vi sono popolazioni in espansione demografica mai registrata prima; non vi sono spazi “ disponibili “ all’accoglienza; vi sono risorse distribuite in modo assolutamente ingiustificato; vi sono equilibri interni agli Stati che non sono, in linea di principio ,arbitrari.
Il fenomeno è dunque strutturale al presente momento.
Tale fenomeno, per le ragioni cui ho accennato, si presenta con caratteri di tale drammaticità da poter essere definito una emergenza umanitaria e – quasi a sottolinearne tale aspetto – esso, per i popoli che si affacciano sul “ mare delle molte terre e delle molte culture “, si manifesta nel mare e assume gli aspetti di un salvataggio continuo o un continuo lasciar morire tra le onde.
Al momento non è l’accoglienza ad essere “ fonte di pericoli “ ma – piuttosto la mancanza di essa.
Non solo come “ pericolo per la coscienza “ ma anche come pericolo per quella parte di essa di cui la politica non può essere privata. Sotto questo aspetto la gestione dell’emigrazione è uno dei modi – in prospettiva – per salvare quel minimo di dignità umana necessario a vivere onorevolmente e per disinnescare nel presente drammatiche derive.
Non vi sono ricette miracolose e bisogna nutrire qualche cautele nei confronti di chi – senza avere la “ responsabilità politica “ della gestione dell’emergenza – ne suggerisce qualcuna.
Se – come sembra dover essere -contemplando la ragione delle migrazioni – l’esito finale è quello dell’offerta di condizioni di vita umanamente accettabili, non è accoglienza quella che si limita a salvare una vita per gettarla in una vita eguale o peggiore di quella lasciata altrove.
Altra “ trappola lessicale “ sfruttata da una cattiva politica è l’equiparazione tra emigrante e delinquente, assassino, terrorista. Non è così e una pacata riflessione basterebbe a smentirla, ma è ragionevole non nascondersi il pericolo che determinate condizioni dell’accoglienza determinino un disagio sociale che può sfociare in un’opposizione sociale.
4.
Accoglienza e integrazione sono temi connessi. Ma ancora una volta il linguaggio ha i suoi tranelli.
Non è naturale e neppure necessario che l’accoglienza sfoci nell’integrazione, termine che – se non sbaglio – allude ad una perdita totale della propria identità e nell’acquisto di altra. A questo esito si dovrebbe arrivare attraverso una cosciente volontà. . Prima della quale e senza della quale resta la dignità della propria originaria identità. In un contesto che sembra orientato all’esaltazione – spesso solo retorica – delle piccole patrie sembra preferibile parlare di convivenza tollerante, esito che – se non sbaglio – è già stato presente nella storia del mondo.
La “ fratellanza “ tra popoli si può anche dimostrare aiutandoli davvero e con il massimo disinteresse possibile “ in casa propria “. Sì, l’espressione è razzista ( Partesana ) ,ma basta sostituirla con “ aiutarli nel proprio luogo “ per trasformarla in un invito a salvare anche quel
“ luogo “ dove – nomadi al pari dei Pigmei – abbiamo posto ,in modo più o meno definitivo, le nostre tende.
Giorgio Mannacio, 2 ottobre 2017.
SEGNALAZIONE
*”Proprio perché sfornito di diritti, l’immigrato viene avvertito come antropologicamente disuguale. E questa percezione razzista, a sua volta, vale a legittimarne la discriminazione nei diritti. Quanto maggiore è l’emarginazione prodotta dalla discriminazione giuridica, tanto maggiori sono la sollecitazione di leggi razziste e il consenso nei loro confronti, non già benché razziste ma proprio perché razziste. Fomentare a livello sociale la rivolta contro i migranti è del resto una sperimentata strategia, che accomuna sia le politiche populiste che quelle liberiste, le une e le altre dirette a ribaltare la direzione del conflitto sociale: orientandolo non già verso i più forti ma verso i più deboli, non più quale lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma quale conflitto di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso.” (Ferrajoli).
Riporto per la sua importanza l’intero articolo. [E. A.]
Ius soli, immigrazione e civiltà giuridica
di Luigi Ferrajoli
http://gliasinirivista.org/2017/10/ius_soli_immigrazione_ferrajoli/
L’opposizione di gran parte delle forze politiche allo ius soli, cioè alla concessione della cittadinanza a chi è nato in Italia, la campagna di denigrazione contro le navi dei volontari colpevoli del salvataggio nel solo 2016 di oltre 47.000 persone, il consenso alle misure adottate dal ministro Minniti per far fronte alle paure e agli umori xenofobi degli elettori stanno rivelando, in questi mesi, l’esistenza di un’Italia incattivita e disumana.
Diciamo subito che la questione dei presupposti della cittadinanza – quelli consistenti nella nascita nel territorio dello Stato, come avviene in tutti i paesi civili, anziché nel cosiddetto vincolo di sangue con genitori cittadini – non ha nulla a che vedere con l’immigrazione. Gli ottocentomila ragazzi e bambini ai quali la cittadinanza verrebbe concessa non sono immigrati, bensì nati in Italia, dove sono cresciuti e si sono formati; sicché l’opposizione a questa elementare misura di civiltà si spiega solo con l’intolleranza per la loro identità etnica, in breve con il razzismo. E’ inoltre un’opposizione irresponsabile, dato che rischia di capovolgere il senso di appartenenza di queste persone al nostro paese in un assurdo disconoscimento, e perciò in rancore anti-italiano. E’ la stessa logica spietata e irresponsabile adottata da Trump contro i “dreamer”, quasi un milione di giovani immigrati che Obama aveva tentato di integrare e che ora vengono assurdamente cacciati nella clandestinità e nell’illegalità.
Tutt’altra questione è quella delle nostre politiche in tema di immigrazione. Su questa questione l’Occidente rischia il crollo della credibilità di tutti i suoi conclamati valori. Sta infatti vivendo una vistosa contraddizione tra le pratiche di esclusione dei migranti e i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali. Di solito l’idea delle frontiere chiuse viene difesa come l’espressione, ovvia e scontata nel senso comune, di un legittimo diritto dei paesi di immigrazione e come un corollario della loro sovranità, concepita come qualcosa di analogo alla proprietà: “questa è casa nostra”, è l’idea corrente, “e non vogliamo, a tutela della nostra proprietà e della nostra identità, che vi entri nessun estraneo”.
Giova allora ricordare che questo senso comune xenofobo – responsabile delle attuali politiche, dirette a interpretarlo – contraddice non solo tutti i principi della nostra tradizione liberale, dall’uguaglianza ai diritti umani e alla dignità della persona, ma anche il più antico diritto teorizzato come naturale, oggi dimenticato e rimosso dalla nostra coscienza ma proclamato alle origini della civiltà giuridica occidentale: lo ius migrandi, appunto, ossia il diritto di emigrare. Questo diritto fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis del 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto universale e, insieme, come il fondamento del nascente diritto internazionale. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una grandiosa concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale, cioè al diritto di tutti gli esseri umani di comunicare tra loro. Sul piano pratico era finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del nuovo mondo: anche con la guerra, ove all’esercizio di quegli edificanti diritti fosse stata opposta illegittima resistenza. E la medesima funzione fu svolta dal diritto di emigrare nei quattro secoli successivi, allorché servì a legittimare la colonizzazione del pianeta da parte delle potenze europee e le loro politiche di rapina e di sfruttamento. John Locke giunse addirittura a configurarlo come una fonte essenziale di legittimazione del capitalismo, quale garanzia della sopravvivenza, cioè della possibilità di trovare un lavoro e perciò quanto necessario alla sussistenza: giacché sarà sempre possibile, scriveva, purché lo si voglia, emigrare e andare a coltivare nuove terre “in qualche parte interna e deserta dell’America… senza pregiudicare nessuno, perché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti”.
Io credo che non dovremmo mai dimenticare queste non nobili origini dell’universalismo dei diritti fondamentali. Questo diritto di migrare fu fin dall’inizio un diritto asimmetrico: benché formalmente universale, era di fatto ad uso esclusivo degli occidentali, non essendo certo esercitabile dalle popolazioni dei “nuovi” mondi a danno delle quali, al contrario, servì a legittimare conquiste, colonizzazioni e schiavizzazioni. Esso è peraltro rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino ad essere consacrato nell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e in quasi tutte le costituzioni, inclusa quella italiana che lo prevede nel suo articolo 35. Ebbene, la memoria di quelle sue origini cinicamente strumentali dovrebbe quanto meno generare una cattiva coscienza in ordine all’illegittimità morale e politica, ben prima che giuridica, delle nostre leggi e delle nostre politiche contro gli immigrati. Quell’asimmetria, che di fatto faceva del diritto universale di emigrare un diritto dei soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è oggi rovesciata. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine, di tratte di schiavi e massacri, non sono più gli occidentali ad emigrare nei paesi poveri del mondo e a conquistarli e a depredarli, ma sono al contrario le masse di affamati di quei medesimi paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto un rovesciamento del diritto. Oggi che l’esercizio del diritto di emigrare è diventato possibile per tutti ed è per di più la sola alternativa di vita per milioni di esseri umani, non solo se ne è dimenticato l’origine storica e il fondamento giuridico nella tradizione occidentale, ma lo si reprime con la stessa feroce durezza con cui lo si brandì alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista e colonizzazione.
Purtroppo le politiche e le leggi italiane contro l’immigrazione, e più ancora quelle degli altri paesi europei, ignorano totalmente questa loro contraddizione non soltanto con la concezione originaria del diritto di emigrare, ma anche con tutti i valori sui quali si fondano le nostre democrazie, dal diritto alla vita alla dignità della persona, dal principio di uguaglianza al valore del lavoro. Queste politiche e queste leggi si basano su una discriminazione per ragioni di identità: sull’esclusione dei migranti come persone ontologicamente illegali, fuori legge per ragioni antropologiche, non-persone a causa, precisamente, delle loro differenze per nascita. E valgono perciò a confortare e a fomentare, per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune, gli umori xenofobi e il razzismo endemico presenti nell’elettorato dei nostri paesi. C’è infatti un nesso biunivoco tra integrazione e uguaglianza giuridica e, inversamente, tra disuguaglianza nei diritti e percezione di chi non ha diritti come disuguale e inferiore. È un circolo vizioso. Proprio perché sfornito di diritti, l’immigrato viene avvertito come antropologicamente disuguale. E questa percezione razzista, a sua volta, vale a legittimarne la discriminazione nei diritti. Quanto maggiore è l’emarginazione prodotta dalla discriminazione giuridica, tanto maggiori sono la sollecitazione di leggi razziste e il consenso nei loro confronti, non già benché razziste ma proprio perché razziste. Fomentare a livello sociale la rivolta contro i migranti è del resto una sperimentata strategia, che accomuna sia le politiche populiste che quelle liberiste, le une e le altre dirette a ribaltare la direzione del conflitto sociale: orientandolo non già verso i più forti ma verso i più deboli, non più quale lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma quale conflitto di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso.
Questo razzismo istituzionale si è sviluppato, in Italia come in altri paesi europei, con leggi e prassi dirette a mettere di fatto fuori legge l’immigrazione, condannarla alla clandestinità e perciò privare i clandestini di ogni diritto ed esporli ad ogni forma di oppressione e di sfruttamento. I loro tragici effetti sono le migliaia di persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le nostre coste, vittime della disumanità dei nostri governi, immemori della lunga e dolorosa tradizione di emigrazione del nostro paese: negli ultimi 15 anni sono morte, nel tentativo di penetrare nella fortezza Europa, più di 30.000 persone, di cui 4.733 nel 2016 e 4.273 nel 2015. Il punto più basso di questa legislazione è stato raggiunto con la legge n. 94 del 15 luglio 2009, che ha tramutato in reato l’esercizio del diritto di emigrare, creando la figura della “persona illegale” e provocando un gravissimo mutamento di paradigma del diritto penale. Con questa legge – la più indegna della storia della Repubblica – per la prima volta dopo le leggi razziali del 1938 è stato penalizzato non un fatto ma uno status, quello appunto di immigrato clandestino, in violazione di tutti i principi basilari dello stato di diritto: dei principi di legalità, di uguaglianza e dignità della persona, in forza dei quali si può essere puniti solo per ciò che si è fatto e non per ciò che si è, per fatti illeciti e non per la propria identità.
Questa legislazione non bastava a soddisfare la xenofobia del nostro paese. Essa è stata ulteriormente inasprita dall’attuale governo. Dapprima con il decreto-legge Minniti n. 13 del 17 febbraio 2017, che ha cancellato l’audizione dell’interessato, il contraddittorio e perfino l’appello contro il decreto del Tribunale che rigetta il ricorso dei richiedenti asilo: la vita di queste persone è evidentemente meno importante, per il nostro governo, di un credito di 100 euro, che si giova invece di tutti i gradi del giudizio. Poi, quest’estate, con il cosiddetto “codice di condotta” per le operazioni di salvataggio in mare dei migranti, concepito anch’esso dal ministro Minniti a seguito della vergognosa campagna contro le organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi. E’ chiaro che le 13 regole di questo codice, la cui sottoscrizione è stata imposta ai salvatori di vite umane, non possono porre alcun limite all’obbligo di legge, previsto dagli articoli 489 e 490 del Codice della navigazione, di prestare soccorso in mare a qualunque persona in difficoltà. E’ altrettanto evidente che nessuna conseguenza giuridica può seguire dalla sottoscrizione o dal rifiuto di sottoscrivere quelle 13 regole. Di fatto, tuttavia, l’ottemperanza di taluna di queste regole – come il divieto di entrare nelle acque libiche, o quello di comunicare con le imbarcazioni in difficoltà, o quello di trasferire i migranti salvati su altre navi onde potersi dedicare ad altri salvataggi, o l’accettazione della presenza a bordo di militari in armi – limita pesantemente le capacità operative delle navi dei volontari e sarà perciò responsabile di maggiori naufragi e stragi per omissioni di soccorso.
Soprattutto, poi, le azioni di salvataggio delle navi dei volontari sono state impedite – al punto che molte di esse hanno dovuto rinunciarvi – da una seconda misura adottata il 28 luglio dal nostro governo: la missione di navi militari italiane in Libia per bloccare le imbarcazioni dei migranti, autorizzata il 2 agosto a grande maggioranza dal Parlamento. Naturalmente nessun atto di violenza da parte della nostra missione sarà giuridicamente lecito. Tuttavia, il linguaggio burocratico della deliberazione del governo – “fornire supporto alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani mediante un dispositivo aeronavale e integrato da capacità ISR (Intelligence, Suveillance, Reconnaissance)” – non lascia dubbi sul senso della missione: aiutare le navi libiche a compiere gli atti di costrizione e violenza non consentiti alle nostre navi e a riportare a terra i migranti, onde siano precipitati nell’inferno degli spaventosi lager libici e siano comunque sottratti ai nostri occhi le violazioni dei diritti umani, le torture e gli assassinii che contro di essi si commetteranno.
Il principale scopo delle due misure è stato così raggiunto: soddisfare, in una gara mai definitivamente vincente tra maggioranza e opposizione, il razzismo e le paure dell’elettorato. Sembra sia solo questo, ormai, il terreno sul quale il nostro ceto politico, di governo e di opposizione, abissalmente lontano dalla società su tutte le altre questioni politiche e sociali, riesce a rappresentare unanimemente gli umori della maggioranza degli elettori. Gli argomenti sono diversi, ma convergenti. Il ministro Minniti ha dichiarato, a sostegno delle sue misure, che esse sono state dettate dal timore di un pericolo per la “tenuta democratica” del nostro paese. In questo modo ha confessato il vero senso della sua politica. Queste misure non si limitano a riflettere il razzismo diffuso nella società, ma sono esse stesse norme e pratiche razziste, che quel razzismo valgono ad assecondare e ad alimentare. Non valgono a contrastare il razzismo, ma a legittimarlo. Non servono a fronteggiarlo, ma a coprirlo, iniettando nel senso comune ulteriore veleno razzista.
Le destre sovraniste apertamente schierate contro l’immigrazione temono invece quelle che chiamano le “invasioni” dei migranti perché contaminerebbero l’identità culturale del nostro paese e, più in generale, della nostra Europa. In realtà essi identificano l’identità italiana e quella europea con la loro identità reazionaria: con la loro falsa cristianità, con le loro subculture del suprematismo bianco, con la loro intolleranza per i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo che ha costruito lo stereotipo dell’immigrato delinquente o pericoloso a causa della sua identità etnica. Laddove, esattamente al contrario, sono le politiche italiane e più ancora europee di chiusura e di esclusione che stanno deformando e deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa disegnata da tutte le nostre carte costituzionali e dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea. A causa di queste politiche, l’Europa non sarà più – non è più – l’Europa civile dei diritti e dell’uguaglianza, bensì l’Europa dei muri, dei fili spinati, delle disuguaglianze per nascita e dei conflitti razziali; non più l’Europa della solidarietà e dello stato sociale inclusivo che fino a pochi anni era un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un’Europa divisa e depressa, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, ai populismi xenofobi e alle passioni tristi dei rancori, delle paure e delle reciproche diffidenze.
L’Unione Europea, ricordiamolo, era nata per porre fine ai razzismi, alle discriminazioni e ai genocidi: non per dividere e per escludere, ma per unificare ed includere sulla base dei comuni valori dell’uguaglianza, della solidarietà, della dignità della persona e dei diritti fondamentali di tutti. Oggi sta contraddicendo quel ruolo. Con le sue politiche di austerità, sta mettendo gli Stati membri gli uni contro gli altri, e all’interno degli Stati i ricchi contro i poveri, i poveri contro gli immigrati, i penultimi contro gli ultimi. Sta moltiplicando, con le leggi contro l’immigrazione, le disuguaglianze di status, per nascita, tra cittadini optimo iure, semi‑cittadini più o meno stabilmente regolarizzati e clandestini ridotti allo status di persone illegali. Soprattutto, sta consentendo una strage quotidiana di persone che fuggono dalla miseria, dalle guerre, dal terrore e dalle loro città ridotte a cumuli di macerie e che in migliaia ogni anno affogano in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa e in centinaia di migliaia si affollano ai nostri confini, contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame, dispersi e malmenati dalle nostre polizie.
Ovviamente la prospettiva di un superamento delle frontiere e di un’effettiva universalizzazione dei diritti fondamentali può oggi apparire un’utopia. Dobbiamo tuttavia riconoscere che la storia della civiltà è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate; e che forse sono proprio le attuali politiche contro gli immigrati che coltivano un’utopia giuridica: l’idea che la pressione degli esclusi alle nostre frontiere possa essere fronteggiata con le leggi e che le frontiere chiuse possano convivere con un futuro di pace e di sicurezza. La vera opposizione, invece, non è tra realismo e utopismo, ma tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi. Intendo dire che l’ipotesi più irrealistica è oggi che la realtà possa rimanere pacificamente come è, che le disuguaglianze e la povertà possano continuare a crescere illimitatamente e le nostre democrazie possano a lungo continuare a basare i loro spensierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo. Tutto questo è inverosimile. Benché irrealistico nei tempi brevi, il progetto dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, già normativamente iscritto nelle tante carte sovranazionali dei diritti, rappresenta, nei tempi lunghi, la sola alternativa realistica al futuro non solo di immigrazioni di massa inarrestabili, ma anche di guerre, di fondamentalismi, di razzismi, di conflitti interetnici e di attentati terroristici che proverrebbe dal suo fallimento.
Una contraddizione: il diritto “universale” all’emigrazione ha un’origine egoistica e interessata, ma quelli che lo hanno inventato lo assumono per il suo lato di universale astratto! Non è un’altra faccia colonizzatrice?
Una menzogna: le “nostre democrazie” non se la spassano con “spensierati tenori di vita”, c’è miseria degrado e oppressione da parte dei nostri spensierati governanti. Tanto è vero che i più furbescamente umanitari vogliono usare immigrati per mettere le toppe ai troppi buchi che hanno provocato e provocano nel tessuto sociale (vedi l’esempio luminoso di Boeri).
Un bel discorso quello di Ferraioli, inappuntabile, fino a qualche anno fa. Il caos in cui siamo – guerre e ferocia nell’economia – non si regola invocando principi dall’origine spuria ma con una diversa politica.
APPUNTI POLITICI: ACCOGLIENZA, UMANO/DISUMANO ED ALTRO
@ cristiana fischer 26 settembre 2017 alle 17:10
1.
«Se io fossi al governo»… Forse è meglio lasciar perdere un giochino che non ci porta da nessuna parte. La possibile soluzione del problema delle migrazioni si intreccia e confonde con quella del destino del pianeta; e, quindi, con l’andamento non del tutto prevedibile che avranno tutti gli altri conflitti apertisi con la odierna globalizzazione capitalistica. Al massimo possiamo orientarci per capire se gli eventi e i comportamenti delle élites e delle masse vanno o sembrano andare in direzione positiva o negativa; e schierarci, a seconda della parte in cui ci veniamo a trovare o scegliamo e dei valori regolativi (Progresso o Conservazione, Socialismo o barbarie, Riforme o Rivoluzione) a cui ci ispiriamo; oppure tenerci, se la fortuna ce lo permette, neutrali.
2.
Nell’immediato sarei pragmatico e tenderei a metterei empaticamente (che non significa identificarsi) nei panni dei migranti che scappano e vogliono aiuto. A lui vanno bene le Ong e le navi italiane che li salvano dalla morte e dagli sfruttatori e gli permettono di continuare il doloroso e arduo «cammino della speranza» proprio di tutti i migranti. E magari anche i «canali legali di ingresso, come chiedono i missionari della CIMI», se qualcuno si decidesse ad attuarli. Non certo i lager in Libia.
3.
Il problema di “accoglierli tutti” non si pone nella realtà. È uno spauracchio agitato dai “respingenti” incalliti; e andrebbe discusso come tale, non cedendo alla paura e al ricatto propagandistico. Chi ragiona sa che l’accoglienza è, comunque, una soluzione d’emergenza, non *la soluzione*. Il problema vero è costruire politicamente una strategia per una *civiltà in movimento*.
Chi ragiona sa anche che la quota di quelli che possono essere accolti dipende oggettivamente dalle risorse di un paese. Ma i paesi che accolgono o dovrebbero (in teoria) accogliere hanno mai chiarito in termini oggettivi quanti migranti potrebbero far entrare nel loro tessuto sociale? No, perché sono governati da élites preoccupate soprattutto degli umori elettorali dei loro cittadini e dai calcoli sui loro rapporti economici e politici (di forza o di debolezza) con altri paesi concorrenti. È dunque stupido e impensabile che la popolazione bisognosa dell’Africa emigri in Europa (o in Italia), quando il problema è intervenire per non distruggere ulteriormente il tessuto sociale ed economico dell’Africa, come si sta facendo. Ma in regime capitalistico esiste uno squilibrio tra periferie e città – come scrive con intelligenza Giuseppe Masala sul suo profilo FB [1] – che è strutturale; ed è, secondo molti studiosi, irrisolvibile in tale regime. (Vedi la nostra questione meridionale irrisolta, che si ripresenta sotto altre forme un po’ dappertutto).
4.
Non ha senso affrontare il problema politico delle migrazioni facendone un problema personale e affidandosi al grado di generosità o di egoismo personale: « io non accoglierei tutti, tu forse sì». Generosità o egoismo dipendono da mille fattori anche contingenti e non si può progettare politicamente su sentimenti. Né ha senso dire: « Voglio fermamente credere che il governo italiano attuale stia precisamente lavorando nel senso in cui lavorerei io». Siamo chiamati dalla situazione a fare ragionamenti rigorosi da un punto di vista che dobbiamo scegliere: o “umanistico- universalistico” (alla Ferrajoli o alla Revelli) o da realpolitik statuale. Non ci sono richiesti atti di fede, anche se qualcosa del genere s’insinua in ogni scelta anche ragionata. Non c’è poi continuità piena tra pensieri e comportamenti dell’io e quelli di un partito o di uno Stato. Sono due dimensioni diverse ( lezione di Beccaria sullo sfondo). C’è da uscire dall’io-io…
5.
Su umano/disumano riferito a Minniti.
Per Minniti ho parlato di «sadismo politico modernizzato». Perché questa connotazione psicologica fa parte integrante della qualità che viene richiesta( e forgiata in anni di carriera) per esercitare certi ruoli di potere (a livello di servizi segreti nazionali e internazionali o d’altro tipo).
Ho spesso citato quello che disse Fortini sul generale Schwarkopf ai tempi della Guerra del Golfo [2]. Vale in piccolo anche per Minniti. Non c’entrano i sentimenti personali che tu o io abbiamo nei confronti di costoro o di altri uomini di potere. Che la soluzione da lui prospettata rientri nella razionalità non esito ad ammetterlo, ma è la razionalità dei potenti e, se proprio vuoi, della civiltà che si possono permettere di costruire gli Stati, quasi sempre derisoria rispetto ai bisogni sociali. Non quella che deve essere applicata da chi ha bisogno di uscire dalla sottomissione o di ridurre la sottomissione.
6.
« sono servi di colonialisti e colonialisti in subappalto? Quindi per principio?»
Ma chi lo dice? Uno non nasce con la vocazione del colonialismo, ma i rapporti colonialisti, costruitisi nella storia dall’Ottocento ad oggi, esistono. Possiamo cancellarli dalla nostra mente, ma non nella realtà dove i loro effetti – come vediamo – continuano a farsi pesantemente sentire.
7.
Sì, controllando i testi che hai proposto, alcuni sono di giornali cattolici e su posizioni umanitarie e accoglienti: http://www.nigrizia.it/notizia/migranti-cooperazione-e-dissuasione/notizie. Ma, contemporaneamente ne ai citati anche altri che tendono al “minnitismo”:
«Minniti produce effetti pratici, ambivalenti, ma ha anche prospettive. http://www.huffingtonpost.it/2017/09/17/genti-del-mediterraneo-la-terza-edizione-del-cortile-di-francesco-si-chiude-con-minniti-e-il-cardinale-ravasi_a_23212465/?utm_hp_ref=it-homepage
Trovo legittimo se non doveroso valutare l’operato politico del governo italiano, e riservare alla sofferenza emotiva e all’imperativo etico altre sfere personali»
8.
«Nel pluralismo, caro Ennio, non si sguazza, si convive civilmente. A meno che tu non abbia deciso che siamo in una guerra civile, tacita ma permanente».
Per me il pluralismo non è affatto un convivere civilmente, ma un configgere ambiguo civile/incivile; è la maschera ideologica che copre le differenze sociali e i conflitti che ne derivano ( che non decido io e che *non sono* «una guerra civile», altro spauracchio (alla Buffagni) che viene agitato per impedire che i conflitti vengano gestiti e magari risolti *il più democraticamente possibile*.
9.
Aggiunta veloce sul testo di Luigi Ferrajoli.
L’autore è un giurista e parla come tale.
Mi chiederei:
1. Esiste o non « una vistosa contraddizione tra le pratiche di esclusione dei migranti e i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali»?
2. « Questo senso comune xenofobo – responsabile delle attuali politiche, dirette a interpretarlo – contraddice non solo tutti i principi della nostra tradizione liberale, dall’uguaglianza ai diritti umani e alla dignità della persona, ma anche il più antico diritto teorizzato come naturale, oggi dimenticato e rimosso dalla nostra coscienza ma proclamato alle origini della civiltà giuridica occidentale: lo ius migrandi, appunto, ossia il diritto di emigrare» o no?
3. Il diritto ad emigrare, fa notare Ferrajoli, « si inseriva in una grandiosa concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale, cioè al diritto di tutti gli esseri umani di comunicare tra loro. Sul piano pratico era finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del nuovo mondo: anche con la guerra, ove all’esercizio di quegli edificanti diritti fosse stata opposta illegittima resistenza. E la medesima funzione fu svolta dal diritto di emigrare nei quattro secoli successivi, allorché servì a legittimare la colonizzazione del pianeta da parte delle potenze europee e le loro politiche di rapina e di sfruttamento». Che abbia un’origine egoistica o che sul piano pratico abbia legittimato la colonizzazione non vuol dire che quel suo «lato di universale astratto» non possa essere rivendicato e praticato da forze sociali che hanno bisogno di uscire da rapporti oppressivi. (È in fondo lo stesso discorso che si potrebbe fare sul comunismo: siccome il concetto o la parola è stata usata per opprimere, dovrebbe essere cancellato il problema che designa?).
4. Beh, gli «spensierati tenori di vita» esistono «nelle nostre democrazie». Non mi pare che Ferrajoli sia così scemo da negare miseria, degrado e povertà di rilevanti fasce sociali in Italia o in Europa.
5. Parlare di «bel discorso» è un modo di neutralizzare la critica politica condotta *sul piano giuridico* da Ferrajoli. Forse «il caos in cui siamo – guerre e ferocia nell’economia» viene regolato dalla politica di Minniti che da quel piano fuoriesce?
Rileggere con più attenzione questo brano: « Questa legislazione non bastava a soddisfare la xenofobia del nostro paese. Essa è stata ulteriormente inasprita dall’attuale governo. Dapprima con il decreto-legge Minniti n. 13 del 17 febbraio 2017, che ha cancellato l’audizione dell’interessato, il contraddittorio e perfino l’appello contro il decreto del Tribunale che rigetta il ricorso dei richiedenti asilo: la vita di queste persone è evidentemente meno importante, per il nostro governo, di un credito di 100 euro, che si giova invece di tutti i gradi del giudizio. Poi, quest’estate, con il cosiddetto “codice di condotta” per le operazioni di salvataggio in mare dei migranti, concepito anch’esso dal ministro Minniti a seguito della vergognosa campagna contro le organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi. E’ chiaro che le 13 regole di questo codice, la cui sottoscrizione è stata imposta ai salvatori di vite umane, non possono porre alcun limite all’obbligo di legge, previsto dagli articoli 489 e 490 del Codice della navigazione, di prestare soccorso in mare a qualunque persona in difficoltà».
Note
[1] Masala:
a. il capitale tende a concentrarsi in poche mani e in territori circoscritti per massimizzare la sua capacità di essere messo a profitto. Le briciole di risorse che i detentori (materiali e geografici) lasciano alle cosiddette zone “improduttive” vengono date a loro stesso vantaggio. Si crea un circuito, gli improduttivi (trattati alla stregua di semi colonie) acquisteranno con le risorse trasferite gli stessi prodotti e servizi “fabbricati” nelle regioni produttive consentendo al ciclo di rigenerarsi e di ripartire.
b. Il Capitale non solo tende a concentrarsi in poche mani grazie ad un processo di accumulazione credo abbastanza conosciuto. Il Capitale tende a concentrarsi anche in specifici spazi territoriali e geografici. Questo è abbastanza banale se ci pensate. Per mettere il capitale “a resa” cioè per trarre da esso il massimo profitto è necessario “infrastruturizzare” il territorio nel quale il capitale è investito. Per infrastrutture non vanno intese solo quelle materiali (telecomunicazioni, strade, porti, ferrovie) ma anche quelle immateriali (almeno in parte) cioè i luoghi dove la manodopera viene addestrata dandogli gli opportuni skill professionali al fine di poter essere utilizzate nel processo produttivo. E’ chiaro che l’opera di “infrastrutturizzazione” costa risorse alla fiscalità generale e viene quasi intuitivo concentrare questa operazione in determinati territori “a vocazione” piuttosto che su tutto il territorio nazionale in maniera omogenea. Quest’ultima scelta sarebbe una operazione che costerebbe l’impiego di risorse molto più alte.
Ecco che così “magicamente” assistiamo alla nascita di regioni “ricche” e regioni “povere”, le seconde generalmente a vocazione turistica e agricola.
Un altra caratteristica che è giusto sottolineare è l’esistenza di trasferimenti interni dalle regioni industriali alle regioni agricole e turistiche. Chiaramente, inutile sottolineare che le regioni povere con le risorse ottenute acquisteranno i prodotti dell’apparato produttivo situato nelle regioni industriali. Così il sistema si rigenera in un ciclo che sembrerebbe virtuoso.
[2]
Presso i cinesi, sorridere all’ avversario può manifestare un’ostilità grandissima. Il cerimoniale del duello, fino a meno di cent’anni fa, era una forma culturale di espressione di un conflitto tra individui. L’ironia può essere, come si dice, sanguinosa come una stilettata. La violenza non è negli strumenti impiegati per usarla. E certo le buone maniere sono preferibili, quasi sempre, alle cattive. Quasi sempre: dare della canaglia, ad esempio, è, in date circostanze, una forma di conflittualità «esemplare» ed «educativa» come non lo sarebbero invece un ironico risolino o un rispettoso dissenso. La storia umana è anche storia di intolleranza e tolleranza, di conflitti e di loro risoluzioni, di contese e di accordi da cui nascono altre contese e altri accordi. Come nella musica o almeno in gran parte di essa. Sono sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire fuori della conflittualità verso la «pace» del nulla, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto; penso al buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure opposte, di chi porta e estreme conseguenze lo scontro, offrendosi vittima all’avversario: dagli assediati (Numanzia o Masada) che scelgono il suicidio contro la resa, fino ai singoli che rifiutano la vita se offerta in cambio della ritrattazione o del pentimento («questa mia è una verità di cui non si può dare testimonianza se non morto», dice, avviato al rogo, un eretico fiorentino del Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa significhi salvarsi l’anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete che gli propone di inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è «il» conflitto, come non ogni guerra è «la» guerra e non ogni pace è «la» pace. Va respinto come un volgare imbroglione tanto chi (e non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezione di conflitti tra «mentalità» o «culture» o «religioni» o «civiltà» (e presto si arriva a parlare dì lotta del «bene contro il «male» e simili rozze e purtroppo sempre efficaci menzogne).
Costoro, nella migliore delle ipotesi, dilatano a livello mondiale l’esistenza e la rilevanza certo realissima dei conflitti inconsci degli individui fingono di non vedere che ogni cozzo di interessi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi negli individui e nei gruppi umani ma che nelle società moderne tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle grandi potenze assegnano un’importanza sempre minore ai motivi e agli interessi non forrnulabili in forma razionale.
Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare, dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei ericeti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura.
Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di truccare le proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicurazioni) infantili («Il nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire a distruggerlo infilzando spilli in una sua effigie per poi tornare a mangiare il tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli nel Giorno del Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo apparentemente più realistici («vogliamo il petrolio») ma altrettanto menzogneri o parziali – tutto questo ci dimostra che «la pace» è una parola vuota e consolatoria se non si definisce bene a quale conflitto, a quale lotta o guerra si opponga. Si opponga, appunto. Negare un conflitto equivale a istituirne un altro.
«La vita dell’uomo sulla terra è un servizio militare», «lo sono venuto a portare la spada»: Chi ha detto queste frasi è la
medesima bocca che ha detto: «Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la conflittualità (tra «bene» e «male», tra «giusto» e «ingiusto») e la sua sofferenza sono costitutive, come la sua gioia, dell’ essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e riproduzione, ossia di «lavoro». La seconda ci avverte che il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti,La terza vuol dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi o delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasforrnandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni società è «pacifica» all’interno della cerchia del proprio «fuoco di bivacco», ma non può non avere sentinelle poste a difesa della fraternità e della solidarietà sempre minacciate da «dentro» come da «fuori» […]
(F. Fortini, Parola chiave: conflitto, in Disobbedienze II, pagg. 167-169, manifesto libri, Roma 1996)
Niente, Ennio, non se ne esce. Io posso soffrire quanto te (non sono una bruta) per le condizioni nei lager libici, e lo vedo il cinismo di Minniti, come quello di Elisabetta I e dello sbarco in Sicilia, e degli USA proprio oggi in Siria http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2017/10/4/CAOS-SIRIA-Pur-di-cancellarla-gli-Usa-si-alleano-con-curdi-e-Isis/785206/.
So anche che i diritti elaborati dalla nostra cultura vogliono collegarsi ai diritti naturali, che noi abbiamo un punto di vista “universale”, come no. Universale del disordine, universale della guerra, universale del terrore. Di fronte a cui elaboriamo un atteggiamento di accusa universale, di rifiuto, di speranza di cambiamento, di attesa di rivolta, universali anch’essi. Il Bene e il Male contrapposti.
A questa logica mi rifiuto di partecipare perché non cambia di un pelo l’andamento del mondo.
SEGNALAZIONE
*All’attenzione degli “europeisti critici” (più o meno). [E.A.]
Cambio di stagione
di Claudio Vercelli
http://moked.it/blog/2017/10/08/cambio-di-stagione/
L’Europa come Unione non esiste più. Non almeno quella pensata e profilata dagli accordi succedutisi dagli anni Ottanta in poi. Sta venendo a mancare ciò che doveva esserne l’elemento basico, i medesimi Stati sovrani. Ovvero, quanto si sta progressivamente dissolvendo è la sovranità con le sue molteplici attribuzioni, a partire dal costituire la capacità di esercitare un potere vincolante all’interno di uno spazio geografico, territoriale e umano determinato. Ad essa non si sostituisce un governo continentale, plausibilmente basato sulla consenso, la partecipazione e la responsabilità degli uni nei confronti degli altri, bensì una serie scoordinata e contraddittoria di spinte e controspinte, occasionate da un permanente stato di emergenza, da una persistente fibrillazione senza soluzione. I vertici europei, le riunioni fiume, i simposi e le consultazioni, le conferenze e le infinite mediazioni che ad esse si accompagnano, sembrano sempre più spesso assomigliare a dei vani esercizi di stile, fini a se stessi così come ad alimentare il falso convincimento, condiviso da una burocrazia autocratica, di essere al centro del processo decisionale. Se il perdurare della “crisi economica”, espressione fuorviante con la quale definiamo e comprendiamo rilevanti aspetti del mutamento degli attuali rapporti geopolitici e sociali, nonché dei soggetti chi vi prendono parte, ha già attivamente concorso al cambiamento di scenario e allo sgretolamento della solidarietà tra partner, l’arrivo, per ondate in successione, di un rilevante numero di migranti, segna un ulteriore passo verso la dissoluzione di quell’ordine che pensavamo invece come destinato ad una lunga e prospera esistenza. Il progetto federalista riposava, nella sua praticabilità, anche e soprattutto su un sistema di relazioni internazionali dove il mutamento continentale si sarebbe dovuto incontrare con la stabilità degli altri attori istituzionali, a partire dal Mediterraneo. Di ciò, a conti fatti, poco o nulla è ad oggi rimasto. La frantumazione degli assetti preesistenti sta rivelando, del pari ad un vaso di Pandora che si scompone, non la liberazione di risorse e di opportunità ma l’affannosa fuga di esseri umani, alla ricerca di un qualche riparo. La crisi siro-irachena, con la diaspora della popolazione, ne è il suggello, a fronte di altre aree di crisi, più o meno già esplicitate, destinate comunque ad entrare ancora in scena. Se già ciò non è accaduto, come nel caso dell’Africa subsahariana. Le migrazioni sono da sempre una costante della storia umana. Per più aspetti ne costituiscono la quintessenza. La mobilità è fondamentale quanto la stanzialità nel definire equilibri e, al medesimo tempo, nel determinarne le loro variazioni. Il grado di repentinità segna tuttavia i destini di intere società. Ciò a cui stiamo assistendo non è la fine dell’Europa come insieme di Stati ma la scomparsa del fragile tentativo di dare ad essa qualcosa di più di un occasionale coordinamento. Il quale, peraltro, non riuscirebbe comunque a funzionare se anche già sussistesse. Le scene, pressoché quotidiane, di folle di migranti che pigiano in grande numero alle frontiere, soprattutto quelle mediterranee e balcaniche, fino a spingersi verso il nord del Continente, attraversando più paesi, in un vero e proprio esodo, sono il prodotto della trasformazione dello spazio, della distribuzione delle popolazioni e del modo in cui i poteri si esercitano su di esso. Le reazioni disordinate e disorganizzate delle autorità, esprimono allora non solo la mancanza di una strategia comune bensì la tentazione di ricorrere alla via della coercizione come unica strada concretamente percorribile. In questo modo di agire, al di là della deprecabilità stessa del fatto in sé, c’è il suggello dell’impotenza politica e del più completo stallo progettuale. L’Europa unita doveva essere l’esatto opposto. Se è vero che ciò a cui stiamo assistendo non può essere affrontato e risolto con il ricorso alle vie abituali allora l’assenza di una concertazione che non si affidi solo all’«emergenza», si fa politicamente ancora più delittuosa. Senz’altro foriera di ulteriori disastri. A ciò si affianca l’oramai stanchissimo rituale dell’interpretazioni dei fatti attraverso il ricorso ad un apparato di idee e pensieri che andrebbero per davvero rottamati una volta per sempre. I due poli intorno ai quali ancora continua a ruotare in maniera maniacale la “discussione” pubblica, come se ci fosse poi molto di cui discutere e tanto spazio (e tempo) in cui agire, rimandano a categorie sospese tra la radicalità del rifiuto integrale e l’esaltazione dell’accoglienza totale. Ma ciò che processi migratori di così ampio respiro mettono a dura prova è proprio il rinviare alla lettura della loro novità (tale nella misura in cui sono sempre diversi tra di loro, pur ripetendosi nell’inesorabilità dei gesti e dei comportamenti che si accompagnano tra i migranti) come semplice prodotto di una volontà che possa accordarsi oppure rifiutarsi nel momento in cui essi si manifestano. Certe cose non si scelgono, non offrono spazio di opzione: semplicemente, richiedono di essere regolate con il concorso di tutti gli Stati che sono chiamati in causa. Altrimenti l’effetto «mucchio selvaggio» è pressoché garantito. Cosa si può opporre a gigantesche coorti di persone che letteralmente stanno transitando da un continente all’altro? Certi fatti collettivi sono il risultato non di un calcolo e, men che meno, di un disegno preordinato, bensì della dialettica tra spinte e controspinte che nasce, alimentandolo, dal mutamento storico. L’occasionalità si incontra e si allea allora con la ricerca collettiva di soluzioni che, inevitabilmente, concorrono ad incrementare il disordine sistemico. Non è la fine del mondo ma è senz’altro la fine di questo mondo, come già abbiamo avuto occasione di osservare. Per meglio dire, del modo in cui l’abbiamo pensato fino ad oggi. Non siamo pronti a fare fronte alle sollecitazioni del mutamento, rintanandoci nella falsa sicurezza che, in fondo, non ci interpellerà direttamente. Più che una riedizione del 1989 sembra che si sia avviato qualcosa di simile al 1789, un processo di lungo periodo, non solo di natura politica ma anche e soprattutto sociale, culturale e, infine, demografica. Tempo una generazione e tutto sarà completamente diverso da come ancora ce lo immaginiamo. E di immaginazione sembriamo averne veramente poca.
(8 ottobre 2017)
* Sono in ritardo nel replicare a vari commenti. Comincio a rispondere a questo.
@ Rita Simonitto
1 ottobre 2017 alle 5:41
Per punti:
1.
Non capisco perché quello finora svoltosi viene da te definito «pseudo confronto». A me è parso vero, anche se «ognuno mantiene le sue posizioni» e anche se in un blog non si troveranno delle soluzioni. Si discute – su questo penso concorderai – non per cambiare la testa dell’altro/a, ma per valutare il peso e la forza delle critiche o delle osservazioni altrui, che spesso permettono di capire aspetti del tema in questione che uno trascura o non vede ( o non vuol vedere). E approssimarsi – si spera sempre – a qualche soluzione.
2.
Nel punto in cui parli di «Etica e politica» non capisco a chi realmente hai indirizzato i tuoi strali e a quali eventi storici precisi alludi. Quando l’etica si sarebbe trasformata «in ‘morale’» e poi « è diventata ‘moralismo’ valido a seconda delle stagioni»? A quale « lotta per il potere (democratico, ça va sans dire)» ti riferisci? Chi ha condotto « una acritica riesumazione storica (i cosiddetti ‘padri fondatori’), la quale avrebbe stabilito gli aventi diritto ad appropriarsi dell’etichetta di “etica”, con il risultato paradossale di trasformare il tutto in ‘fazione’»? Chi ha fatto «*scomuniche da pulpiti non assegnati*»? O ha demandato «al volontarismo etico l’evocazione di antiche possibilità rivoluzionarie»? E chi ancora «si autodelega a rappresentare gli interessi di tutti», arrivando all’ «esclusione aprioristica di alcuni, ovvero di coloro di cui ci si fotte»? E chi sarebbero costoro? Chi avrebbe « una modalità ‘moralistica’ che va a smuovere emozioni e sentimenti (atavici)»? E non saprebbe fare che «analisi che non siano, appunto, di parte»; e ovviamente mettendo «nello stesso cesto, alla rinfusa»? E chi oserebbe parlare di «neocolonialismo», non capendo che, invece, in Libia si sta solo per tutelare la “nostra” Eni? E chi non valuterebbe «la ricchezza economica – tema comunque meritevole di un lungo discorso a parte», di cui (quando?) potranno «beneficiare anche i migranti, qui o là che stiano»? E chi sarebbe così ingenuo o sciocco da far derivare la ricchezza economica «dalla bontà d’animo, dalla divisione del mantello di S. Martino» e non «da una economia funzionante»? Eccetera.
Ho fatto un lungo elenco di punti che mi paiono sintomi di un malumore deluso e rinunciatario che solo Annamaria [Locatelli] ha ben conto nel suo commento.
E lo dico lealmente, un po’ mi sono sentito messo in causa, ma in un modo indiretto che mi spiace. Posso supporre, infatti, tutte queste martellanti obiezioni erano rivolte a me per alcune cose che ho sostenuto, ma allora perché mantenersi su un piano così astratto e non citare quel che ho detto? Anche perché, così facendo, si capirebbe quanto le mie affermazioni coincidano o si distinguano dal “mucchio” dei “desideranti” alla Bifo o dei “buonisti” alla Revelli, dei “folli” alla Negri o di quelli che ”giocano a fare i capitalisti senza esserlo” come il povero Genovese.
3.
Sul neocolonialismo. Scrivi: « questo termine ‘neocolonialismo’ evoca passati inquietanti, sensi di colpa a go-go, così che poi non si va a fondo nell’indagine sul presente in quanto continuamente attraversata da infiltrazioni emotivo/ideologiche che non permettono una riflessione».
Ma il colonialismo non è mica un fatto emotivo/ideologico! C’è stato o no? Le guerre umanitarie ci sono o no? Il passato storico si salta, si tace o va rielaborato anche alla luce dei problemi d’oggi? Non aiuta a spiegare proprio niente del presente? E perché, infine, le mie affermazioni:«respingere i migranti o “aiutarli a casa loro” mettendoli ( per il momento?) nei lager non è cercare la soluzione che vada alla radice del problema e contrasti le guerre neocolonialiste e lo sconvolgimento delle economie africane (Ennio)» sarebbero «ambigue»?
4.
Umano/antiumano. Anche in questo caso non capisco perché, siccome l’antiumanità «fa parte del sistema capitalistico» e «non è una scoperta», debba diventare quasi un tabù usare le parole (e i concetti) ‘umano’ e ‘antiumano’. Né perché, chi insista a farlo debba finire automaticamente nella schiera dei nostalgici che vissero « la stagione del desiderio del ‘capitalismo dal volto umano’» e ne vorrebbero magari l’impossibile ritorno.
5.
Sul concetto di identità. È punto di dissenso forte e di lunga data tra noi due ( e con Buffagni, Ricotta e Fischer, tanto per fare nomi di interlocutori precisi). Posso concedere che dietro il concetto ci siano rapporti reali difficili da affrontare e da cambiare ( e che quindi esso «non appartiene alla categoria ‘bruscolini’»). Ma su tutto il resto sono in netto disaccordo. Se non è vero che «uno vale l’altro», cioè che un individuo possa surrogare un altro (principio che il sistema capitalistico ha però adottato e applicato riducendo gli operai a forza lavoro sottomessa e intercambiabile), non è neppure vero ciò che di solito resta implicito, sfumato o non detto apertamente e cioè che *uno vale più di un altro* ed è giusto che lo sottometta o ne guidi il destino senza renderne conto a nessuno.
Né condivido che nell’incontro con l’altro (migrante, proveniente da altre culture) ci debba essere da parte di chi è nato e vissuto – qui, “da noi” o in questa nazione – « una radicalizzazione di partenza necessaria per arrivare poi a interagire – che non sempre significa integrarsi – con altre identità».
Che, se non interpreto male, significherebbe che gli italiani – mettiamo come esempio – debbano di questi tempi sottoporsi quasi ad una preventiva cura ricostituente della propria “identità” « necessaria per arrivare poi a interagire» con gli altri, che avrebbero sempre « altre identità» ( ovviamente più prepotenti o minacciose, tanto che si parla genericamente di migranti “invasori”); e debbano poi tenere ben presente che questa interazione « non sempre significa integrarsi»; cioè –dico io, per aggirare molti equivoci discorsi sulla integrazione che il convento passa – puntare a gestire i conflitti prevedibili in modi più umani (non alla Minniti per intenderci) e più vicini alla prospettiva comunista (delineata dal qui criticatissimo ormai Fortini).
L’identità nel tuo discorso a me pare sempre presentata come qualcosa di roccioso, impenetrabile, e ormaa non più trasformabile (se non in un futuro nebbioso). Non consiste in «storie individuali diverse ma che, spesse volte, si *riferiscono a principi extra politici [o] morali» diverse, ma diffidano fin troppo di ogni possibile ipotesi di alleanza. La differenza resta sempre «una pesante differenza identitaria che, fra l’altro, vediamo presente anche fra di noi». E viene oggi accentuata. In modo, secondo me, forsennato dalla propaganda di destra (Libero, Il giornale), ma anche da una lettura liquidatoria della storia di sinistra, da cui per lo più quanti qui intervengono provengono.
Ma come, sembri dire, non è bastato? Non «ci abbiamo sbattuto la testa con il concetto di ‘unità di classe’», che poi è risultata impossibile? Volete insistere ancora? «Ma è come se fossimo refrattari a qualsiasi disillusione»! E non volete considerare che « il cosiddetto ‘incanaglimento’ degli italiani […] sia legato anche a qualcos’altro di natura più complessa – vista la storia che ci è alle spalle – ed ha a che fare con l’inganno, con l’essere stufi del solito refrain del ‘siamo tutti sulla stessa barca’, un invito bacato alla solidarietà comune».
Ma certo che voglio/vogliamo considerarlo, ma gli inviti bacati alla solidarietà comune non possono essere abolizione della solidarietà e sostituiti da inviti ad accodarsi alle scelte alla Minniti.
Ci dev’essere un’altra strada e va cercata.
@Rita e Ennio
…cercherò di spiegare cosa significa per me : siamo tutti sulla stessa barca. E chiaro che non abbiamo vissuto tutti l’esperienza dei barconi che attraversano stracolmi il mediterraneo in balia delle onde, tuttavia in molte realtà italiane in qualche modo si vive, e insieme, migranti e autoctoni, nelle onde di una convivenza quotidiana e non molto tranquille. Sono, per esempio, i quartieri delle periferie cittadine, dove, soprattutto nelle case popolari, convivono alla grande. Vivo in uno di questi e non posso che constatare che si tratta di “luoghi liquidi”, dove nella realtà di tutti i giorni si travasano identità di popoli e di individui…Non si tratta di turisti stranieri con tanto di macchine fotografiche, ma persone che da anni o da più recente data, lasciati i loro paesi d’origine, vivono ora qui, entrano ogni giorno nei negozi, salgono sui mezzi pubblici, fianco a fianco -“noi” e “loro”-, frequentando le stesse scuole e istituzioni…che fare? Costruirsi percorsi acrobatici: un negozio sì e uno no…un caseggiato sì e uno no…L’alchimia è già in corso ed è più evidente in alcune situazioni. Non posso nascondere che a volte è anche esplosiva e genera contrasti che potrebbero degenerare…Ma è in corso anche una sorta di esperimento dove l’umanità si incontra nelle sue variegate sfumature identitarie, di culture, di popoli…A piccoli passi
@ Ennio
Partirò dal punto 5. – sull’identità – il che mi permetterà di rispondere anche al punto 1., là dove tu scrivi: * Non capisco perché quello finora svoltosi viene da te definito «pseudo confronto».*
Innanzitutto, non mi permetterei mai di definire l’identità come qualche cosa di *roccioso, impenetrabile, e ormai non più trasformabile* come tu mi attribuisci, equivocando forse sulla espressione *radicalizzazione di partenza*, che ho utilizzato per dare una ‘storicità’ all’avvio di un processo che si presuppone si sviluppi nel tempo e che sia il più possibile ampio e inclusivo.
Con la precisazione necessaria che, per includere, ci dovrà pur essere un contenitore di partenza (la radice) di natura affettiva, normativa e culturale sufficientemente flessibile per operare dette inclusioni, sia a livello individuale che collettivo (nazione). E che questa ‘flessibilità’ non significa ‘cambiar bandiera’ ad ogni mutevolezza di vento, bensì un lavoro di lutto più o meno intenso rispetto a quanto si è perduto, in modo da elaborare, se possibile, le depressioni, da un lato (= la nostalgia del passato), e le idealizzazioni, dall’altro (= il nuovo riscatterà tutto quanto).
Quindi, alla tua ‘ironica’ osservazione *gli italiani – mettiamo come esempio – debbano di questi tempi sottoporsi quasi ad una preventiva cura ricostituente della propria “identità” « necessaria per arrivare poi a interagire» con gli altri, che avrebbero sempre « altre identità» ( ovviamente più prepotenti o minacciose, tanto che si parla genericamente di migranti “invasori”)*, taglierei, in questo contesto, l’aggiunta dell’ *ovviamente più prepotenti o minacciose* – che, pur non detto da me, riprenderò più avanti a proposito di “invasione” – e, rifletterei proprio sul panorama emotivo/culturale che forniamo come credenziale di paese accogliente. Non è una procedura dissimile – anche se fatta qui su larga scala – da quella che viene seguita per le adozioni, per cui i nuovi genitori devono, per l’appunto, dare garanzie a chi entra a far parte della nuova famiglia!
Ma si sa, nella ‘cultura’ oggi dominante, prevale l’atteggiamento del rifiuto a sottoporsi alle regole. Perché non far prevalere lo slogan di “yes y can”, o ancora la “imagination au pouvoir” del mitico ’68? Á tous la libertè!
Il dramma è che non si crea in un giorno, mentre si può distruggere in un attimo!
Pertanto, è in questo senso, di punti di partenza diversi e di approdi diversi, che parlavo di pseudo confronto – il che non significa che sia inutile – perché i temi su cui si discute non sono dirimenti per trovare quella *strada* che pure tu auspichi. E’ come se in una rappresentazione scenica si inserisse un’altra storia, che può essere sì interessante ma che può distogliere dal tema originario.
Quanto alla espressione utilizzata *più prepotenti o minacciose, tanto che si parla genericamente di migranti “invasori”*, essa ha una base di verità, che ci piaccia o no.
Senza fare generalizzazioni, ma se si parte dall’assunto (come mi sembra venga sempre sottolineato) caratterizzato dal ‘bisogno’ e dalla ‘sofferenza’, a questo non possiamo non legare (non necessariamente, è ovvio) stati d’animo prepotenti o minacciosi, come accade sia nelle esperienze infantili e sia nelle situazioni di sopravvivenza (e non di convivenza), con tutta la carica ‘invasiva’ che ciò comporta.
E mentre la gestione di piccole entità è più facile e proficua, non lo è con i grandi numeri.
Ma passiamo al punto 2.
Nel punto in cui parli di *”Etica e politica» non capisco a chi realmente hai indirizzato i tuoi strali e a quali eventi storici precisi alludi*….
Salvo concludere: * Posso supporre, infatti, tutte queste martellanti obiezioni erano rivolte a me per alcune cose che ho sostenuto, ma allora perché mantenersi su un piano così astratto e non citare quel che ho detto?*
A parte che alcune citazioni da te riprese sono stralci di commenti di Cristiana – utilizzati da me come ‘pezze d’appoggio’ a sostegno e illustrazione di certe dinamiche -, io mi sono limitata a criticare (o, meglio, a dire la mia) in merito alle posizioni cariche di sensi di colpa espresse da Moramarco (*Noi occidentali dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili*), o quelle di ‘mosca cocchiera’ di Genovese (*“Se invece di mandare nei loro paesi quei cinque milioni di dollari, quanti edifici scolastici si sarebbero potuti mettere in sicurezza*).
Però poi, se tu dici *Anche perché, così facendo, si capirebbe quanto le mie affermazioni coincidano o si distinguano dal “mucchio” dei “desideranti” alla Bifo o dei “buonisti” alla Revelli, dei “folli” alla Negri*, io credo stia a te definire le differenze o le coincidenze (ammesso che ciò possa essere utile al dibattito, nel senso che non si richiede un autodafé).
Sulle ‘datazioni’ che tu chiedi (*Quando l’etica si sarebbe trasformata «in ‘morale’» e poi « è diventata ‘moralismo’ valido a seconda delle stagioni*) penso di non poterti accontentare, in quanto si tratta di un processo improntato da vari passaggi storici, ma che, ad un certo punto, fu legittimato da un sistema, quello capitalistico, il quale -presupponendo la “libertà” nello scambio salario/forza lavoro – presuppose (e si arrogò) anche l’eticità della sua riproduzione in quanto tale.
Nello sviluppo del capitalismo – nelle varie forme via via assunte, ivi compresa quella del “riformismo” (*pathos* dello Stato Sociale, R. Kurtz), prima patria di un certo ‘socialismo’, poi approdato alle spiagge (o, a dir meglio, alle derive) della cosiddetta sinistra (ex)rivoluzionaria in questo modo collusa con il potere – ebbero modo di estrinsecarsi le varie ‘morali’, o visioni moralistiche, che non poterono (e non potranno) inficiare minimamente il sistema.
Fuori i nomi, dici tu. Potrei risponderti, si parva licet, come Pasolini quando disse “Io so”.
Ma basta che tu scorra con occhio ‘critico’ (e senza quella preoccupazione *di una lettura liquidatoria della storia di sinistra*) l’anima del PCI, l’evoluzione del movimento operaio (guidato da chi?) fino al Compromesso Storico, e tutti i passaggi che hanno segnalato la sudditanza del Partito alla politica statunitense, e vedrai che i nomi verranno fuori da sé.
Punto 3.
Sul neocolonialismo.
Io mi sono espressa così: “Il termine ‘neocolonialismo’ evoca….”, e non ho assolutamente affermato che *il colonialismo è un fatto emotivo ideologico”: faccio una differenza tra i fatti e l’uso emotivo/ideologico operato su di essi attraverso il linguaggio (*il termine ‘neocolonialismo’*) ai fini di indurre determinate reazioni. Idem dicasi per tutti i fatti storicamente avvenuti.
Tu scrivi: *Il passato storico si salta, si tace o va rielaborato anche alla luce dei problemi d’oggi?*. Lo sai bene, e l’ho esplicitato più e più volte su questo blog, come per me sia importante la memoria storica. La differenza sta, credo, nel metodo.
Io non ho alcun interesse a rielaborare il passato *alla luce dei problemi di oggi*. Come ho risposto anche ad Annamaria Locatelli, io parto dal presente e dalle sue contraddizioni per le quali devo cercare di sforzarmi di trovare inquadramenti teorici che non siano la mera fotocopia del passato. Ricordare il passato, come scriveva Freud nel suo saggio “Ricordare, ripetere, rielaborare”, serve per poterlo rielaborare e non per replicarlo (né, tantomeno, pensare di ‘scoprire oggi’ quello che è ‘veramente’ accaduto nel tempo che fu. Rimaniamo, comunque nel campo delle ipotesi).
Concludo con una osservazione.
Sostenere che alcune miei commenti sono *sintomi di un malumore deluso e rinunciatario* è una deduzione molto semplicistica a fronte della quale, poi, le vie di uscita sarebbero, ancora una volta, quelle di investire nell’impegno e nella lotta.
Non è così.
E’ invece la sofferta, rabbiosa, impotenza di fronte ai modelli imperanti di semplificazione (ormai si parla per ‘luoghi comuni’, per sigle, con una grave perdita linguistica) di contro alla complessità sia del linguaggio (grammatica e sintassi) che del senso. E da questa perdita culturale a quella politica e alla comprensione delle sue dinamiche, il passo è breve.
R.S.
@ Simonitto
Cara Rita,
al di là dei singoli punti di dissenso o delle interpretazioni sbagliate o equivoche in cui sarei incorso, « la sofferta, rabbiosa, impotenza di fronte ai modelli imperanti di semplificazione» dove ti/ci porta? Qual è il senso che indica il tuo discorso? In cosa differisce e/o si contrappone al mio?
Per indurti a un chiarimento ( scrivendo – se vuoi – un tuo articolo autonomo e non di semplice replica alle cose da me dette) ti chiederei di tener presente anche queste mie domande:
1.
Quale sarebbe e dove sarebbe oggi il « contenitore di partenza (la radice) di natura affettiva, normativa e culturale sufficientemente flessibile per operare dette inclusioni, sia a livello individuale che collettivo (nazione)»?
2.
Perché io/noi di Poliscritture non farei/non faremmo « un lavoro di lutto più o meno intenso rispetto a quanto si è perduto? Chi lo fa, invece e bene; e senza «cambiar bandiera» (che significa per me senza appoggiarsi sul pensiero di Destra)?
3.
Dopo aver riflettuto « sul panorama emotivo/culturale che forniamo come credenziale di paese accogliente», cosa proponiamo? Quale cultura dovremmo oggi contrapporre a quella oggi dominante, allo «yes you can», alla «imagination au pouvoir del mitico ‘68»? [1]
4.
Quali sono o potrebbero essere per te i «punti di partenza diversi» o gli «approdi diversi»?
5.
Perché temi come l’immigrazione non sarebbero «dirimenti»? E quale sarebbe, invece, il «tema originario» da cui distrarrebbero?
6.
Avendo la posizione che parla di migranti “invasori” «una base di verità, che ci piaccia o no», che scelte ne fai o faresti derivare? ( E perché la posizione che parte « dall’assunto […] caratterizzato dal ‘bisogno’ e dalla ‘sofferenza’» non ha «una base di verità»?)
7.
Nelle « esperienze infantili» (( ma i migranti sono bambini?) e «nelle situazioni di sopravvivenza (e non di convivenza), con tutta la carica ‘invasiva’ che ciò comporta» i veri *buoni* (terapeuti, assistenti sociali, volontari, politici?) che dovrebbero fare? Ispirarsi al modello Papa Francesco, al modello di Minniti, di Salvini, di Macron o del nuovo vincitore delle elezioni austriache? Oppure cercare « quella *strada*» né buonista né cattivista che io auspico?
[1]
A proposito di ’68 e di “ripetizioni” propongo questo stralcio di Alain Badiou:
«Si comprenderanno queste critiche [quelle che fa nell’intervento] se ci si ricorda che personalmente, nel maggio ’68 e nei suoi sviluppi, ho conosciuto e partecipato con entusiasmo a delle cose del medesimo genere, e che le ho potute seguire per un tempo sufficiente a misurarne le debolezze. Ho allora l’impressione che i movimenti recenti si esauriscano nel ripetere, presentandoli come novità, degli episodi ben noti di ciò che possiamo chiamare la «destra» del movimento del maggio ’68, che questa destra sia uscita dalla sinistra classica o da questa ultra-sinistra anarchica che a suo modo parlava già di «forme di vita», e i cui militanti erano chiamati «anarco-desideranti». Nel ’68 si sono sviluppati, in realtà, quattro movimenti distinti.
1. Una rivolta della gioventù studentesca
2. Una rivolta dei giovani operai delle grandi fabbriche.
3. Uno sciopero generale sindacale che tentò di controllare le due rivolte precedenti.
4. L’apparizione, spesso sotto il nome di «maoismo», e con numerose organizzazioni rivali, di un tentativo di politica nuova il cui principio era tirare la diagonale unificatrice tra le due prime rivolte dotandole di una forza ideologica e combattente che sembrava potergli garantire un reale avvenire politico. Di fatto, ciò è durato una decina d’anni almeno. Il fatto che ciò non si sia stabilizzato su scala storica – cosa che riconosco volentieri – non deve avere per conseguenza che si ripeta ciò che ha avuto luogo in quel momento, senza neanche sapere che lo si ripete. Ricordiamo semplicemente che alle elezioni del giugno 1968, si mise in campo una maggioranza talmente reazionaria da poter dire che si era ritrovata la maggioranza del «bleu horizon» della fine della guerra ’14-’18. Il risultato finale delle elezioni del maggio/giugno 2017, con la schiacciante vittoria di Macron, un servitore del grande capitale globalizzato, deve farci riflettere su ciò che c’è di ripetitivo in tutto questo.
(https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/10728-alain-badiou-tredici-tesi-e-qualche-commento-sulla-politica-mondiale.html)
@ Ennio Abate
Caro Ennio,
ti ringrazio per *l’opportunità di chiarimento* che mi proponi attraverso la formulazione di un testo più meditato che non figuri come il solito botta-risposta.
Purtroppo non potrò dare seguito alla tua richiesta perché, attualmente, mi richiederebbe tempo ed energie che non ho a disposizione se non per piccoli ‘morceaux’, parti che comunque metto lì senza alcuna pretesa di addivenire a quelle soluzioni, o a quelle scelte che tu auspichi (*che scelte ne fai o faresti derivare?* – tu chiedi, o anche – *Ispirarsi al modello Papa Francesco, al modello di Minniti, di Salvini, di Macron o del nuovo vincitore delle elezioni austriache?* Oppure cercare « quella *strada*» né buonista né cattivista che io auspico?*).
Non siamo al tavolo di una trattativa di partito in cui deve essere definita una linea – altrimenti farei ogni sacrificio per rispondere all’appello – ma ci troviamo in una situazione non solo confusa, ma a dir poco paradossale, dove – se ancora sono utilizzabili i ‘contenitori’ Destra e Sinistra – vediamo che certe posizioni di sinistra sono reazionarie (nel senso del mantenimento dello status quo) anche con modalità ‘antidemocratiche’ (vedi accordi Obama-Iran che non passano attraverso l’approvazione del Congresso, per dirne una. Oppure il recente attacco di Renzi a Visco a proposito di Bankitalia: è come gridare “al lupo” perché lui – Renzi – è il lupo e vuole distogliere l’attenzione da se stesso).
*Qual è il senso che indica il tuo discorso* mi chiedi.
Te lo illustro attraverso il pezzo che hai riportato di A. Badiou.
L’autore inizia dicendo *L’apparizione, spesso sotto il nome di «maoismo», e con numerose organizzazioni rivali, di un tentativo di politica nuova il cui principio era tirare la diagonale unificatrice tra le due prime rivolte dotandole di una forza ideologica e combattente che sembrava potergli garantire un reale avvenire politico*.
Sottolinea, anche se tra le righe, la presenza (sia pur necessaria al momento) di una forza ideologica, ma poi se la scorda là. Infatti, successivamente, quando si interroga scrivendo: *Il fatto che ciò non si sia stabilizzato su scala storica – cosa che riconosco volentieri – non deve avere per conseguenza che si ripeta ciò che ha avuto luogo in quel momento, senza neanche sapere che lo si ripete*, non va oltre il mero enunciato. Mi chiedo: è solo questione di ‘spazi’ (ridotti) concessi da un sito? Non credo. Perché poi la ripetizione A. Badiou la trova.
Infatti trova analogie tra le elezioni del 1968 (sottolineando la presenza di una maggioranza reazionaria – ma non si chiede perché e da dove questa veniva e da chi era costituita) e la recente (2017) elezione di Macron, che definisce laconicamente *un servitore del grande capitale globalizzato*, espressione generica abusata (quella del grande capitale globalizzato) che non è proprio così, perché esistono ancora gli interessi nazionali e Macron ne ha dato ampia dimostrazione!.
Ed è di fronte a questa semplificazione, a questa ‘notte’ per cui tutte le vacche sono bigie, alla insipienza di questi ‘intellò’, meditata o no che sia, che si fa forte la mia “sofferta, rabbiosa impotenza”.
Che mi permette soltanto di dire, raccontare, quello che vedo, quelle poche cose che so senza alcun intento di criticare nessuno (*Perché io/noi di Poliscritture non farei/non faremmo…?*) né di sminuire nessuno (*ma i migranti sono bambini?*).
Spero dunque, che tu non ti senta accusato di essere Obamiano, Renziano o Vischiano che sia o che, di converso, io sia Trumpiana, destrorsa e così via!
Volevo solo illustrare dei processi in cui l’ipocrisia è palese, a saperla scovare dietro l’ideologia e il pensiero politicamente corretto!
R.S.